LE CONCILIAZIONI

PRESSO LE DIREZIONI PROVINCIALI DEL LAVORO

 

 

 

Le profonde modifiche intervenute nella legislazione dell'ultimo periodo hanno fatto si' che presso le Direzioni provinciali del Lavoro, con diversi fini e diverse conseguenze giuridiche, siano stati previsti vari tipi di conciliazione delle controversie individuali di lavoro: basti pensare non soltanto al tentativo obbligatorio di conciliazione nel settore privato quale risulta dalla formulazione degli articoli 409 e s.s. c.p.c. susseguenti al D. L.vo n. 80/1998, ma anche al tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie dei dipendenti pubblici, introdotto proprio dall'ultima norma citata a partire dal 1° luglio 1998, alla conciliazione monocratica prevista dall'art. 11 del D. L.vo n. 124/2004, alla conciliazione  avanti alla commissione di certificazione dei rapporti di lavoro, qualora il rapporto "validato" sia stato oggetto di contestazione (art. 80, comma 4, D. L.vo n. 276/2003), al componimento delle controversie per i lavoratori già esposti all'amianto, secondo la dizione adoperata dal D.M. 27 ottobre 2004.

L'esposizione che segue, lungi dall'essere esaustiva di tutta la problematica, cercherà di individuare le questioni principali che si presentano quotidianamente e  le soluzioni operative maggiormente praticabili per chi si trova ad affrontarle.

 

 

La conciliazione avanti alla Commissione Provinciale di Conciliazione

 

Quando, nel 1998, il Legislatore delegato intervenne con il D. L.vo n. 80/1998 su alcuni articoli del codice di procedura civile devolvendo la competenza delle controversie del settore pubblico al giudice ordinario, pensò di attenuare il prevedibile "ingolfamento" dei Tribunali, introducendo il tentativo di conciliazione obbligatorio sia nel settore privato, prima facoltativa, che in quello pubblico (pur se con procedure diverse). Si cercò di favorire la soluzione extra - giudiziale delle vertenze ipotizzando anche forme arbitrali alternative al giudizio di primo grado (artt. 412  - ter e 412 - quater c.p.c.) o arbitro unico nel pubblico impiego, secondo una procedura individuata, in quest'ultima ipotesi  da un accordo collettivo che vede coinvolte le Direzioni Regionali del Lavoro, ma tutto si è rivelato pressoché vano, atteso che la "litigiosità" giudiziale non è diminuita e, sovente, l'attesa dei 60 giorni per  i privati e dei 90 giorni per il pubblico è intesa come mero adempimento burocratico, finalizzato al successivo ricorso.

Va, peraltro, ricordato, in via generale, come la Cassazione (Cass., 21 gennaio 2004, n. 967) abbia ricordato, al fine di considerare esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione nel settore privato che il ricorso, oltre che all'organo amministrativo, debba essere comunicato anche al datore di lavoro: infatti, la semplice presentazione della richiesta di conciliazione (basata sul presupposto che la Commissione convochi le parti entro 10 giorni dalla richiesta) non produce gli effetti interrottivi e sospensivi dell'art. 410. c.p.c. .

I motivi che in questi anni hanno prodotto un progressivo rallentamento delle procedure amministrative di conciliazione sono diversi e vanno dall'eccessivo numero delle controversie depositate che non consente alla commissioni (o sottocommissioni) provinciali di conciliazione ed ai funzionari che le presiedono di programmare i lavori secondo logiche "cadenzate", dalla scarsità di tempo a disposizione per lo studio e l'esame delle pratiche (sovente, il personale delle Direzioni del Lavoro svolge anche altri compiti, non ultimi quelli burocratici legati alla spedizione della corrispondenza), dall'assenza di gettoni di presenza (anche a titolo di rimborso spese) per i componenti esterni  impegnati tutti i giorni per più ore nell'attività dell'organo collegiale, dall'interesse, talora non "dissimulato", dei legali di adire, comunque, il giudice ordinario e di trovare, in quella sede prima del giudizio di merito, una soluzione conciliativa. A ciò si aggiunga che se la commissione (o la sottocommissione) non è al completo, la stessa non può operare, con prevedibili problemi connessi alle aspettative dei cittadini utenti.

La riflessione, partendo dalla constatazione che il verbale di accordo è inoppugnabile ai sensi dell'art. 2113, comma 4, senza avere la pretesa (per brevità di spazio) di trattare l'argomento in maniera onnicomprensiva, cercherà di focalizzare (e risolvere) taluni problemi che si presentano ogni giorno, riferiti  ai criteri di determinazione della competenza territoriale per i rapporti subordinati e per quelli di collaborazione coordinata e continuativa ed agli altri caratterizzati da forte autonomia, alla cognizione delle controversie del socio lavoratore  nelle cooperative di produzione e lavoro,  alla natura ed all'espletamento del tentativo obbligatorio nonché alla decorrenza temporale, alle domande riconvenzionali, ai procedimenti monitori, alle clausole liberatorie, alle rinunce e transazioni ex comma 4 dell'art. 2113 c.c., alla sottoscrizione di accordi già raggiunti dalle parti al di fuori dell'attività della commissione, al deposito del verbale presso la cancelleria del Tribunale ed al verbale di mancata conciliazione.

 

1.      Competenza territoriale. Essa è individuata per il giudice competente (ma il ragionamento è analogo per la commissione) in base all'art. 413 c.p.c., secondo il quale la stessa si ravvisa con il luogo ove è sorto il lavoro, ovvero si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto. La presenza di tre fori alternativi, senza l'individuazione di alcuna prevalenza, fa sì che, almeno per quel che concerne il tentativo di conciliazione, la commissione (e la Direzione provinciale del Lavoro che deve predisporre le note di convocazione) non debbano constatare altro che la sussistenza di uno dei tre fori individuati, atteso che secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione (Cass., 17 giugno 2000, n. 2870, in Lav. e prev. oggi, 200, 1895) spetta all'attore la scelta: tale concetto è stato confermato, di recente, dalla stessa Corte (Cass., 18 gennaio 2005, n. 850, in DPL, 2005, 1468). Per completezza di informazione va ricordato anche cosa si intende per sede dell'azienda che è il luogo ove si svolge l'attività principale il quale, in caso di società per azioni, va identificato con la sede sociale (Cass., S.U., 25 novembre 1983, n. 7070, in Foro Ital., 1985, I, 103)  o per "dipendenza" che è una struttura economica organizzativa ubicata in luogo diverso dall'azienda, avente una propria individualità tecnica pur se modesta, anche senza autonomia decisionale e funzionale (Cass., 12 febbraio 1993, n. 1771, in DPL, 1993,1978, Cass., 22 ottobre 1994, n. 8686, in DPL, 1995, 528).

C'è, poi, il problema rappresentato dai casi di trasferimento di azienda: se il rapporto è continuato in capo al cessionario, subentrato nella stessa posizione del cedente, il foro può ben essere individuato in quello dell'originario rapporto di lavoro (Cass., 23 luglio 1994, n. 6842, in Mass. Giur. Lav., 1994, 628), così come in caso di fusione fra società, ove si verifica soltanto una modificazione soggettiva nella titolarità dei beni aziendali (Cass., 14 dicembre 2002, in DPL, 2003, 928).

Gli stessi principi (Cass, S.U., 10 agosto 2001, n. 11043, in DPL, 2002, 716) vanno individuati in tutte quelle ipotesi nelle quali il rapporto di lavoro non si è costituito: ci si riferisce alle istanze presentate da lavoratori avviati obbligatoriamente, finalizzate alla costituzione di rapporti di lavoro o al risarcimento del danno susseguente alla mancata assunzione. Il foro competente è quello della sede dell'Ufficio che ha emesso l'atto di avviamento che rappresenta il titolo costitutivo dell'obbligo.

Un discorso di natura diversa va fatto, invece, per le controversie ex art. 409, n. 3, c.p.c. che riguardano i rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale, di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e non a carattere subordinato tra cui, è bene ricordarlo rientrano anche i contratti a progetto che di queste ultime, secondo la circolare n. 1/2004 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, sono "una modalità organizzativa". Nella vasta gamma dei rapporti appena evidenziati rientrano, a certe condizioni, anche i contratti di natura artistica protrattisi per un tempo abbastanza lungo (Cass., 17 marzo 1992, n. 3272, in Riv. It. Dir. Lav., 1992, II, 404), l'associazione in partecipazione, nel solo caso in cui l'apporto dell'associato si sia risolto in una attività personale e continuativa di collaborazione in favore dell'associante, senza conferimento di capitali e partecipazione alla gestione ed alle perdite (Cass., 21 maggio 1991, n. 5693, in DPL, 1991, 2147), l'incarico di procacciatore di affari (Cass., 4 febbraio 1992, n. 1172, in DPL, 1992, 995), i diritti patrimoniali riferibili all'impresa familiare ex art. 230 - bis c.c., stante la caratteristica della parasubordinazione nell'attività svolta dai membri (Cass., 22 ottobre 1994, n. 8685, in DPL, 1996, 1047). In tutti questi casi ed, in altri riconducibili a prestazioni non subordinate il Legislatore ha individuato un unico foro che è quello del domicilio (art. 413, comma 4, c.p.c.): è evidente che lo stesso deve essere quello posseduto dal lavoratore allorquando si è svolta l'attività e non quello relativo al domicilio scelto dopo la cessazione della stessa (Cass., 11 maggio 1994, n. 4581, in DPL, 1994, 2697).

Il discorso sulla competenza  territoriale induce anche a dire due parole sulla c.d. "autodichia" parlamentare e sulla giurisdizione relativa al personale dipendente dalle ambasciate e dagli altri organismi presenti sul nostro territorio, dotati di extra - territorialità: si tratta di un problema che interessa, da vicino, le commissioni di conciliazione che operano in quelle Province, "in primis" Roma, ove sono presenti oltre alla Camera ed al Senato della Repubblica, numerose rappresentanze diplomatiche (presso lo Stato Italiano, la Santa Sede e la FAO). Sul primo argomento le Sezioni Unite della Cassazione (Cass., S.U., 10 giugno 2004, n. 11019), rifacendosi ad un indirizzo già espresso fin dalla metà degli anni '80 (Cass., 23 aprile 1986, n. 2861; Cass., 27 maggio 1999, n. 3170), hanno confermato il c.d. principio della "giurisprudenza domestica" del Parlamento in ordine allo stato ed alla carriera economica dei propri dipendenti, con l'esclusione della giurisdizione sia ordinaria che amministrativa.

Il problema, invece, dei dipendenti delle Istituzioni che godono dell'extra - territorialità è stato affrontato, più volte: particolarmente significativa appare la sentenza a Sezioni Unite della Cassazione (Cass., S.U., 12 novembre 2003, n. 17087, ma anche Cass., S.U., 27 novembre 2002, n. 16830) con la quale è stato affermato che un lavoratore dipendente non può rivolgersi al giudice italiano qualora le funzioni svolte siano di natura fiduciaria o inserite nell'organizzazione pubblicistica dell'Ente. Da ciò ne discende la competenza del giudice italiano per quei dipendenti "non inseriti" (es. cuochi autisti, ecc.) che propongano una domanda di contenuto patrimoniale riferita al rapporto di lavoro e senza che la eventuale pronuncia vada ad incidere sulla autonoma organizzazione dello Stato convenuto e senza che ciò comporti "apprezzamenti, indagini o statuizioni che possano incidere sugli atti o sui comportamenti dello Stato estero (o di un Ente attraverso il quale detto Stato operi per perseguire anche in via indiretta le sue finalità istituzionali".

 

2.      Controversie del socio lavoratore di cooperativa di produzione e lavoro. L'art. 5, comma 2, della legge n. 142/2001, quale risulta modificato dall'art. 9 della legge n. 30/2003, afferma che le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica sono di competenza del giudice ordinario. Sull'argomento c'è stata una prima interpretazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali attraverso la circolare n. 10/2003 cui è seguita, da parte di qualche commentatore, una interpretazione letterale della norma (e che,forse, era anche, del Legislatore delegato) secondo la quale erano sottratte alla competenza del giudice del lavoro (e, di conseguenza, per l'argomento che ci interessa della commissione provinciale di conciliazione) le controversie tra socio lavoratore e cooperativa. Tale orientamento, però, non è stato fatto proprio dalla magistratura di merito (Trib. Lecce, 14 agosto 2003; Trib. Parma, 1° marzo 2004; Trib. Milano, 17 giugno 2004) la quale ha dato una lettura restrittiva alla disposizione ritenendo che la competenza del giudice ordinario fossa ristretta soltanto alle controversie di natura "mutualistico - associativa". Su questa linea si è inserita anche la Corte di Cassazione (Cass., 18 gennaio 2005, in DPL, 2005, 1468) la quale ha affermato che tale interpretazione è in sintonia con il D. L.vo n. 6/2003 che ha riformato le società cooperative e che il nuovo testo dell'art. 5 della legge n. 142/2001 è una norma eccezionale che va interpretata nel senso che non può essere estesa alle controversie riguardanti i diritti sostanziali e previdenziali dei soci - lavoratori.

Alla luce di quanto sopra si ritiene che le commissioni di conciliazione possano legittimamente effettuare il tentativo, qualora l'oggetto della doglianza avanzata dal socio lavoratore sia di natura economico - previdenziale.

 

3.      Natura, espletamento del tentativo di conciliazione e decorrenza temporale. Il tentativo   obbligatorio di conciliazione avanti alla commissione (o sottocommissione) avviene in sede amministrativa e non segue, in linea di massima, un iter prefissato, potendo l'organo collegiale individuare forme di trattazione e di incontro anche diverse (non tutte le vertenze sono uguali e non tutte le controversie presentano le stesse caratteristiche). Ciò che non va mai dimenticato è che l'organo amministrativo deve cercare di favorire l'accordo tra le parti, attraverso un atto transattivo ove le stesse si fanno reciproche concessioni. Il decorso temporale dei 60 giorni è condizione di procedibilità in giudizio, nel senso che gli interessati, trascorso tale termine che decorre dalla presentazione dell'istanza, possono adire l'autorità giudiziaria, ma ciò non significa che la trattativa per il raggiungimento di una conciliazione non possa andare oltre il limite sopra indicato.

Qui, purtroppo, si pone un altro problema determinato, in gran parte dalla mole di lavoro, dalla scarsità di organico e dalla carenza di risorse strumentali: sovente, le convocazioni avvengono ben oltre i due mesi (nonostante che la disposizione affermi che le parti vanno convocate per una riunione da tenersi entro i 10 giorni successivi alla richiesta) e questo crea, da un lato, un senso di inutilità ed una concezione del tentativo come un inutile orpello burocratico messo lì soltanto per rallentare i tempi del ricorso giudiziale e, dall'altro (cosa, ad avviso di chi scrive, non particolarmente corretta) induce a convocare, in via privilegiata,  coloro che debbono ratificare un accordo già raggiunto. La soluzione, almeno parziale, del problema passa, principalmente, in un rafforzamento degli organici in termini quantitativi e qualitativi, nella possibilità di creare più sotto commissioni oltre quelle (massimo 4) normativamente previste dall'art. 410 c.p.c.. Tutto questo va inquadrato nell'attuale depauperamento umano di buona parte degli Uffici territoriali del Welfare ove i funzionari sono, talora, costretti ad indossare più "casacche" (conciliatore ex 410 c.p.c., conciliatore monocratico, presidente di collegio per il pubblico impiego, rappresentanza in giudizio, ecc.).

 

4. Domande riconvenzionali. Sovente, accade che dopo la presentazione di un ricorso l'altra parte accampi una istanza riconvenzionale. A tal proposito la giurisprudenza di merito, riferendosi al processo in corso ha chiarito (Trib. Milano, 10 febbraio 2001, in Lav. Giur., 2001, 10, 997) che il disposto dell'art. 410 c.p.c. non può trovare applicazione alla stessa, in quanto la formulazione letterale ed una lettura coerente del nuovo articolo 111 della Costituzione lo escludono, in quanto si determinerebbe una sorta di sospensione per intero del giudizio: ovviamente la presentazione di una vera e propria domanda riconvenzionale deve essere preceduta da un tentativo di conciliazione, del tutto autonomo rispetto all'altra rivendicazione.

Il problema, per quel che concerne il tentativo di conciliazione, può, tuttavia, atteggiarsi in modo diverso, in quanto, in via informale, nel corso della discussione può accadere che emergano richieste riconvenzionali le quali, se accolte, dopo la discussione possono non pregiudicare il raggiungimento dell'accordo. In questo caso, a parere di chi scrive, la commissione di conciliazione, ai fini dell'economicità dell'attività svolta, può spingere per una definizione globale.

 

5.      Procedimenti monitori. Si è presentato, talora, presso le Direzioni del Lavoro il problema di un eventuale tentativo di conciliazione relativo ad ipotesi di ricorso per decreto ingiuntivo. Ciò  è stato escluso dalla giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 12 luglio 1999, in D&L, 1999, 862;  Trib. Milano, 6 maggio 2000, in D&L, 2000,805; Trib. Parma, 5 agosto 1999, in Lav. Giur., 2000, 456).

 

6.      Clausole liberatorie. Sull'argomento si ritiene opportuno ricordare come la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15371 del 14 ottobre 2003, abbia, in un certo senso, bocciato, in quanto non opponibili, quelle dichiarazioni liberatorie "onnicomprensive" a carattere volutamente generico con le quali, talora, si sono chiusi i verbali di  conciliazione del tipo "rinuncia a qualsiasi ulteriore rivendicazione connessa al pregresso rapporto di lavoro". Ciò che va, in ogni caso, salvaguardata è la piena conoscenza da parte del lavoratore di quanto a lui dovuto e, soprattutto, del "perché": quindi, la formula di rinuncia deve indicare, dettagliatamente, tutte le voci per le quali il lavoratore si intende soddisfatto, secondo un indirizzo che deve, necessariamente, tenere presente la distinzione tra "quietanza liberatoria" e "quietanza a saldo".

 

7.      Rinunce e transazioni ex comma 4 dell'art. 2113 c.c. . Il primo comma di tale articolo, che afferma la non validità delle rinunzie e delle transazioni aventi ad oggetto diritti inderogabili, peraltro soggette, a pena di decadenza, all'impugnativa entro i successivi sei mesi, non ha valore assoluto in quanto vengono sottratte alla disciplina delle invalidità quelle sottoscritte ai sensi degli articoli 185, 410 e 411 c.p.c. (cui, ora,vanno aggiunte quelle ex art. 11 del D. L.vo n. 124/2004). La sottrazione alla regola generale trova il proprio fondamento nel fatto che per le modalità (assistenza sindacale) o per la sede (quella giudiziale o quella amministrativa presso la Direzione provinciale del Lavoro), il lavoratore si possa ritenere adeguatamente tutelato. Appare, comunque, il caso di sottolineare come, anche a fronte della inoppugnabilità della transazione raggiunta, lo stesso possa ricorrere, giudizialmente, per eventuali vizi che abbiano inficiato l'atto come quello, generale, relativo al consenso (Cass., 3 dicembre 1991, n. 12929, in Rep. FI, 1991, voce Lavoro, n. 1815) che, curiosamente, si vede citato anche tra i possibili casi di impugnazione del rapporto di lavoro certificato ex D. L.vo n. 276/2003, all'indeterminatezza dell'oggetto (Pret. Firenze, 16 ottobre 1986), all'errore di fatto (Pret. Firenze, 19 febbraio 1987).

Un caso del tutto particolare che va affrontato in questa sede e che, forse, si presentava maggiormente presso le Direzioni provinciali del Lavoro allorquando la "competenza" sulla conciliazione delle controversie collettive era piena (oggi, non lo è più per effetto del D. L.vo n. 469/1997 che ha trasferito alle Regioni (ed alle Province) la procedura conciliativa per l'esame congiunto della CIGS e della mobilità ex art. 4 della legge n. 223/1991), riguarda le c.d. "transazioni collettive", con le quali accordi collettivi pongono fine ad una controversia sindacale che ha riguardato la totalità (o gran parte) dei lavoratori. Qui, siamo al di fuori delle previsioni dell'art. 2113 c.c. e anche dell'art. 411 c.p.c. il quale ultimo presuppone che il negozio dispositivo sia compiuto dal singolo lavoratore, assistito dalla propria organizzazione sindacale. Secondo un orientamento prevalente a livello di Cassazione, le organizzazioni sindacali non sono titolari di un potere di rinunzia  a carattere generale, in assenza di uno specifico mandato ricevuto dai singoli lavoratori, con la conseguenza che l'eventuale accordo non obbliga questi ultimi a sottoscrivere le transazioni ivi previste.

Tale discorso si è reso necessario in quanto, di frequente, nei nostri uffici si sottoscrivono conciliazioni "seriali", frutto di accordi collettivi già stipulati in azienda (nell'ultimo periodo, ad esempio, ce ne sono stati moltissimi del settore creditizio, figli degli "accorpamenti" realizzatisi): ebbene, perché quei negozi dispositivi abbiano una loro validità, occorre che le singole transazioni avvengano nei modi e nelle forme previste dall'art. 410 c.p.c. .

 

8.      Sottoscrizione di accordi già intervenuti. Nell'attività quotidiana delle commissioni di conciliazione, può accadere che le parti intendano ratificare, per i fini connessi alla inoppugnabilità, un accordo già raggiunto. Sul punto, la Cassazione ha ritenuto che l'organo collegiale non possa esimersi dal procedere alla ratifica delle volontà delle parti, esercitando, in questo caso, una funzione pressoché notarile. Chi scrive, non ritiene che questa debba essere l'attività principale, atteso che, "in primis", il Legislatore ha voluto istituire obbligatoriamente un organismo finalizzato, almeno nelle intenzioni, a non ingolfare il ricorso all'autorità giudiziaria. Però ciò accade ed allora, soprattutto in quelle situazioni in cui appare evidente lo "status" di inferiorità della parte più debole, l'organo collegiale deve entrare nel merito e rendere cosciente il lavoratore dei contenuti dell'atto. E' appena il caso di sottolineare come la funzione "notarile" debba fermarsi allorchè dal verbale risultino questioni e fatti contrari a norme imperative di legge o quando il   contenuto dello stesso sia palesemente "leonino".

 

9.      Deposito dei verbali di conciliazione in cancelleria. L'art. 411 c.p.c. afferma che il verbale di conciliazione è depositato presso la cancelleria del Tribunale a cura delle parti o della Direzione provinciale del Lavoro. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertatane la regolarità formale, lo dichiara esecutivo con decreto.

Da quanto appena detto emergono alcune considerazioni: la prima è che, a prescindere dal deposito, la conciliazione stipulata ex art. 410 c.p.c. non è assoggettabile ad impugnazione ex art. 2113 c.c., la seconda è che non c'è alcun termine prefissato dalla norma per il deposito, la terza è che gli adempimenti giudiziali previsti dall'art. 411 c.p.c. riguardano soltanto le formalità esterne, comunque estranee al contenuto negoziale della stessa (Cass., 3 luglio 1987, n. 5832, in Mass. Giur. Lav., 1987, 417), la quarta è che il fine del deposito e del successivo decreto è soltanto quello di ottenere un provvedimento esecutivo nel caso in cui l'accordo economico non sia stato onorato. Da quest'ultima riflessione si deduce che, qualora alla conciliazione sia seguito il pagamento di quanto concordato, non ha assolutamente significato procedere al deposito dell'accordo.

 

10. Verbale di mancata conciliazione. La redazione del c.d. "verbale di mancato accordo" deve, indicare le ragioni per le quali non si è addivenuti alla conciliazione. Non necessariamente la posizione delle parti deve essere riportata "in modo estensivo", essendo sufficiente un mero riassunto delle posizioni espresse. Talora, però, anche perché il comma 4 dell'art. 412 c.p.c. afferma che il giudice tiene conto delle risultanze del verbale in sede di decisione sulle spese di giudizio, può accadere che una parte ritenga opportuno esplicitare con maggior dovizia di particolari il proprio comportamento: è ovvio che la commissione non può esimersi dalla verbalizzazione. Vale la pena di ricordare come il riferimento alle spese di giudizio sia presente anche in altri tipi di conciliazione come quella relativa ai dipendenti pubblici o alla contestazione del contratto certificato (art. 80, comma 3, D. L.vo n. 276/2003.

 

 

La conciliazione delle controversie del settore pubblico

 

Allorquando il Legislatore del 1998. con il Decreto Legislativo n. 80 (ora, in gran parte, assorbito nel D. L.vo n. 165/2001), operò, nel quadro della privatizzazione del pubblico impiego, la devoluzione di una serie di controversie (ne sono, ad esempio, esclusi gli appartenenti alla carriera diplomatica, a quella prefettizia ed i professori universitari) dal giudice amministrativo a quello ordinario a partire dal 1° luglio 1998, ipotizzò in perfetto "pendant" con il settore privato il tentativo obbligatorio di conciliazione propedeutico al giudizio, compiutamente disciplinato dagli articoli 65 e 66. La procedura fu "riadattata" alla particolare peculiarità del settore in quanto non si ritenne opportuno, per una serie di motivi, adottare "tout court" la procedura amministrativa delineata dagli articoli 410 e seguenti c.p.c. . Appare opportuno chiarire, da subito, come le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 7856 dell'11 giugno 2001, relativamente al discrimine temporale, abbiano affermato che per la devoluzione della controversia al giudice ordinario occorra far riferimento alla data di emanazione del provvedimento e non all'arco temporale in cui si sono dispiegati gli effetti.

L'esperienza di questi anni porta necessariamente ad una considerazioni di fondo che non può essere sottaciuta: la maggior parte dei tentativi obbligatori di conciliazione si concludono inevitabilmente con un numero di mancati accordi (soprattutto, se l'amministrazione resistente è statale) ben superiore , in termini percentuali, a quelli registrati nel settore privato.

 A ciò concorrono diverse ragioni.

La prima è rappresentata dal fatto che la Pubblica Amministrazione presenta, nello sviluppo dei  vari rapporti di lavoro, situazioni "stratificate", frutto di comportamenti susseguenti ad interpretazioni legislative e contrattuali "contorte", a questioni "seriali" che coinvolgono un gran numero di dipendenti ubicati, sovente, su tutto il territorio nazionale, per cui la scelta del datore di lavoro pubblico, finalizzata ad evitare anche problemi da parte degli organi di controllo, è quella di non arrivare ad una soluzione conciliativa, ma di giungere ad una decisione giudiziale, rispetto alla quale l'unica cosa successiva possibile è l'ottemperanza alla decisione.

La seconda considerazione riguarda le motivazioni stesse che sono alla base del comportamento di chi è tenuto ad accettare la conciliazione: nel settore privato, ove l'interesse è più diretto (il datore di lavoro, soprattutto se titolare di una piccola realtà aziendale, "paga" di tasca propria e, pur pensando di aver ragione, mette "in conto" il tempo perso oltre all'eventuale costo degli avvocati per il giudizio ed al "pensiero" del protrarsi della "non definizione" della questione) c'è una maggiore tendenza a trovare una soluzione economica, cosa che, invece, non si rileva nel settore pubblico ove il raccordo con il problema da risolvere non è così diretto ed ove, comunque, in caso di soluzione transattiva positiva ci sarà, sempre, chi potrebbe, sulla base di un controllo formale e sostanziale, ravvisare responsabilità di varia natura nei confronti di chi ha avallato l'accordo.

Ma, detto questo, ed in considerazione di quelle che sono le questioni operative che si trovano ad affrontare gli addetti ai collegi di conciliazione del pubblico impiego, si ritiene opportuno affrontare alcuni problemi relativi alla competenza per materia, alla procedura, al radicamento territoriale, alla composizione del collegio di conciliazione, alla richiesta, agli adempimenti della Direzione provinciale del Lavoro, alla nomina degli arbitri e del rappresentante dell'Amministrazione munito del potere di conciliare, al verbale di accordo, a quello di parziale conciliazione, agli effetti conseguenti ed alla proposta di bonaria conciliazione, in caso di mancato accordo.

 

1.      Competenza per materia. "Nulla quaestio" sulle questioni riguardanti lo svolgimento del rapporto di lavoro, in quanto qui è pacifica la competenza del giudice ordinario.

Il problema si pone, tuttavia, per alcune situazioni - limite al confine, ad esempio, tra la gestione delle graduatorie e le procedure concorsuali. Sull'argomento le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 1989 del 3 febbraio 2004, hanno affermato che in materia di gestione delle graduatorie permanenti dei dipendenti pubblici, la giurisdizione è devoluta al giudice ordinario (e, di conseguenza, c'è la competenza del collegio di conciliazione). Tale decisione non si pone in contrasto con quella espressa, sempre dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 15403 del 15 ottobre 2003, con la quale è stata affermata la competenza del giudice amministrativo sulle controversie concernenti i c.d. "concorsi interni" che vanno considerati alla stregua delle procedure selettive. Le Sezioni Unite, devolvendo alla cognizione del giudice ordinario la c.d. "gestione delle graduatorie", affermano che essa è cosa ben diversa dalla formazione delle medesime. Da ciò si desumono due principi: se la controversia riguarda le modalità di gestione delle graduatorie si è in una fase successiva alla procedura concorsuale e, quindi, la cognizione dell'eventuale diritto soggettivo leso spetta al giudice ordinario, se, invece, la vertenza si riferisce alla formazione della graduatoria (quindi si controverte sui lavori della commissione esaminatrice e sulle valutazioni operate dalla stessa), la giurisdizione è quella del giudice amministrativo, in quanto debbono essere valutati non diritti soggettivi, ma interessi legittimi.

 

2.      Problemi relativi alla procedura. L'articolo 66 del D. L.vo n. 165/2001 fa salva, così come avviene nella previsione dell'art. 410 c.p.c., la facoltà (non obbligo) per il lavoratore di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dalla contrattazione collettiva. Ovviamente, in tal caso, il lavoratore e la controparte sono tenuti a seguire l'apposito iter.

In alternativa, (ma la strada è percorribile anche dalla Pubblica Amministrazione ed anche, qui, se è consentito rilevarlo, si registra un perfetto "pendant"con il comma 1 dell'art. 410 c.p.c. che parla di "chi") si deve promuovere un tentativo di conciliazione con l'invio di un'istanza alla Direzione provinciale del Lavoro. La disposizione non pone limiti (eventuali eccezioni di natura prescritti o di incompetenza dovrebbero essere sollevate dalla controparte) se non quello generale che fissa al 1° luglio 1998 lo "spartiacque" delle competenze tra TAR e giudice ordinario.

 

3.      Radicamento territoriale. L'art. 66 supera la dizione dell'art. 413 c.p.c. relativa alla controversie del settore privato con la individuazione di tre fori alternativi (quello "genetico" di inizio del rapporto di lavoro, quello dell'azienda o di una sua dipendenza) e sposa, soltanto, quello relativo alla circoscrizione in cui si trova l'ufficio di adibizione. Questa regola generale vale, ad avviso di chi scrive, anche in tutte quelle ipotesi nelle quali il lavoratore, pur in forza presso un determinato ufficio, è stato "distaccato" ad altra Amministrazione.

 

4.      Composizione del  collegio di conciliazione. La disposizione mutua parzialmente un'altra disposizione contenuta nel nostro ordinamento giuslavoristico, quella dell'art. 7 della legge n. 300/1970 in materia di provvedimenti disciplinari. Mentre lì, oltre ai rappresentanti di ciascuna parte il terzo membro con funzioni di presidente è scelto di comune accordo o, in carenza, designato dal Dirigente della Direzione provinciale del Lavoro (che può far cadere la scelta su chiunque, anche estraneo alla Pubblica Amministrazione, trattandosi di un "munus" di natura pattizia, ove le parti rimettono a tre soggetti esterni la soluzione negoziale di una loro controversia disciplinare), qui la formulazione normativa chiama in carica direttamente il Direttore o un suo delegato. La differenza appare evidente, in quanto mentre lì l'incarico di terzo membro può essere affidato, come si diceva, anche a soggetti esterni alla DPL, dotati di professionalità ed esperienza, qui la figura del presidente si focalizza sul Dirigente o su un proprio funzionario fornito di apposita delega conferita nell'atto di nomina. Tale delega non necessita di alcuna autentica, alla luce di quanto già previsto fin dal 1968 dall'art. 18 della legge n. 15.

Da quanto appena detto emergono altre questioni.

La prima è rappresentata dal fatto che il Direttore ha un potere di delega ampio (basato, indubbiamente, sulla individuazione delle capacità professionali individuabili nell'organico dell'Ufficio), che lo stesso, in presenza di determinate condizioni può essere revocato (anche se ai fini dell'economicità dell'azione amministrativa ciò non appare consigliabile soprattutto se l'iter conciliativo è gia iniziato).

La seconda considerazione riguarda la nomina dei rappresentanti delle parti in seno al collegio: con l'atto costitutivo il collegio è completo e, quindi, nel rispetto dei termini fissati può operare, avendo ben presente che i membri designati sono quelli individuati nell'atto di costituzione. Nulla toglie che, nel corso della discussione, gli stessi possano essere sostituiti, ma per far ciò occorrono appositi decreti di sostituzione, senza che con ciò possa essere interrotto il termine di 90 giorni per la procedibilità in giudizio.

La terza riflessione riguarda la mancata nomina del rappresentante: ovviamente, in tal caso, il collegio non può essere costituito né, trattandosi di un fatto volontario (la mancata nomina potrebbe essere, in certi casi, una forma di "difesa") può essere imposto alla parte resistente alcunché. Ovviamente, l'Ufficio dovrà dare comunicazione di ciò alla controparte.

La quarta considerazione concerne la individuazione del rappresentante nel collegio: la disposizione non pone limiti in quanto lo stesso può essere chiunque, purchè sia stato investito della nomina di chi rappresenta (per l'Amministrazione può essere anche un soggetto esterno alla medesima). Ciò che va ribadito, soprattutto perché talora non sembra essere percepito da qualche lavoratore è che la parte non può essere presente direttamente nel collegio. In ogni caso, al rappresentante dell'Amministrazione in seno al collegio non può essere conferito il potere di conciliare la vertenza, in quanto la natura delle funzioni è tale da escludere che le stesse possano essere esercitate congiuntamente. Parimenti, non può essere sindacabile da parte della Direzione provinciale del Lavoro la circostanza che il rappresentante della stessa sia la stessa persona che ha posto in essere l'atto di gestione sul quale si controverte (Direzione Generale Rapporti di Lavoro, Div. IV, prot. 24208 del 26 aprile 1999).

 

5.      Richiesta. Il comma 2 dell'art. 66 ne fissa le modalità. L'istanza va presentata direttamente alla DPL o spedita attraverso lettera raccomandata A/R. Copia della richiesta va inviata all'Amministrazione di appartenenza. La richiesta deve contenere alcuni elementi essenziali, quali la individuazione del datore di lavoro, il luogo ove debbono essere inviate le comunicazioni, l'esposizione sommaria delle rivendicazioni, la nomina del proprio rappresentante o la delega per la nomina ad un'organizzazione sindacale.

Anche in questo caso si rendono necessarie alcune considerazioni.

La prima riguarda l'individuazione del datore di lavoro: è evidente che lo stesso è colui che ha instaurato un rapporto organico con il ricorrente. Può, tuttavia, verificarsi il caso che la controversia sia indirizzata anche nei confronti di un datore di lavoro che ha utilizzato la prestazione: quest'ultimo può, ad avviso di chi scrive essere chiamato, ma il collegio di conciliazione ed il potere di conciliare restano in carica soltanto all'effettivo datore.

La seconda questione riguarda la possibilità che più dipendenti facciano insieme ricorso per le medesime rivendicazioni, designando un unico comune rappresentante in seno al collegio (c.d. "controversie plurime" che vanno distinte dalle c.d. "controversie collettive" le quali concernono un interesse indifferenziato relativo a tutti i lavoratori). La cosa è possibile e, di conseguenza, l'Ufficio può procedere all'incardinamento della pratica.

La terza riflessione riguarda la nomina del rappresentante o la delega per la nomina ad un'organizzazione sindacale. E' evidente che tale passaggio rappresenta un momento essenziale e decisivo della procedura, in quanto fintanto che l'arbitro di parte non è nominato il Dirigente della DPL non può procedere alla costituzione del collegio, anche se, nel frattempo, l'Amministrazione ha nominato il proprio rappresentante. E' ovvio che a fronte di tale carenza l'Ufficio debba sollecitare la parte attrice come è ovvia, ad avviso di chi scrive,  la constatazione che non essendosi costituito il collegio per un comportamento ascrivibile al lavoratore (che non ha presentato l'istanza con l'indicazione di un requisito essenziale come la nomina del rappresentante) non possa decorrere il termine dei 90 giorni per la procedibilità in giudizio.

 

6.      Adempimenti della Direzione provinciale del Lavoro. Ricevuta la richiesta di costituzione del collegio, la disposizione non pone alcun obbligo esplicito all'Ufficio territoriale del Welfare che, deve attendere soltanto che l'Amministrazione chiamata in causa (a cui il ricorrente è tenuto ad inviare copia della sua istanza) comunichi le proprie determinazioni. Ma, detto questo, appare opportuno l'invio di una nota a quest'ultima con cui si comunica che il lavoratore ha iniziato la procedura conciliativa.

 

7.      Nomina degli arbitri. Con la designazione dei rappresentanti in seno al collegio, il Dirigente della Direzione provinciale del Lavoro è tenuto a costituire l'organo conciliativo. Ciò va fatto anche se, ad esempio, la designazione dell'Amministrazione è avvenuta oltre il termine dei 30 giorni o se le c.d. "memorie difensive" non sono state prodotte o lo sono state parzialmente (la non produzione può ben rientrare, in questa fase, in un'ottica di strategia procedurale).

 

8.      Verbale di accordo. Durante l'esame della controversia le parti possono produrre documenti ed osservazioni ulteriori rispetto a quelli iniziali. C'è, sostanzialmente, pur nel rispetto di procedure più formali se paragonate a quelle del settore pubblico, una certa libertà di conduzione ove, ad avviso di chi scrive, il presidente del collegio può far risaltare la propria professionalità. Conseguentemente, sono possibili rinvii, oltremodo necessari se il soggetto con potere di conciliare ha necessità di sentire la propria Amministrazione. E' ovvio che i rinvii non sospendono il mero decorso temporale di 90 giorni, trascorsi i quali il ricorrente può adire l'autorità giudiziaria anche se non si è addivenuti ancora alla conclusione positiva o negativa del tentativo di conciliazione. Parimenti, il superamento di tale termine non "stoppa" necessariamente l'iter conciliativo, ben potendo le parti giungere ad una soluzione oltre questo limite. Il raggiungimento dell'accordo, anche parziale, (magari, su proposta conciliativa del collegio) comporta la redazione di un verbale e la sottoscrizione sia delle parti che dei componenti del collegio. Il verbale è "ex lege" titolo esecutivo ed è inoppugnabile.

Anche qui si pongono alcune questioni interessanti.

La prima concerne l'eventuale proposta conciliativa formulata dal collegio a cui le parti hanno dato la propria adesione. La disposizione, giustamente, parla di "non responsabilità amministrativa" per chi rappresentando il datore di lavoro pubblico, ha sottoscritto il verbale di accordo. Sarebbe stato opportuno che tale "irresponsabilità" fosse esplicitata, chiaramente, anche per chi., arbitro dell'amministrazione in seno al collegio o presidente di quest'ultimo, è anch'esso un dipendente pubblico.

La seconda considerazione riguarda, invece, l'esecutività del verbale: qui c'è una differenza con quello di accordo del settore privato ove per ottenerla occorre procedere al deposito nella cancelleria del Tribunale ex art. 411 c.p.c., per la successiva emissione del decreto giudiziale, dopo i relativi riscontri formali.

 

9.      Verbale di mancato accordo. La norma afferma che il collegio di conciliazione, in caso di mancato accordo, deve formulare una proposta per la bonaria conciliazione e che nel successivo giudizio deve essere acquisita tutta la documentazione relativa al tentativo, utile per la decisione della controversia e per la valutazione del comportamento delle parti ai fini del regolamento delle spese.

Sul punto, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, rispondendo in data 19 maggio 1999 ad un quesito della Direzione provinciale del Lavoro di Treviso, ha osservato che alfine dell'adozione della proposta è sufficiente l'assenso della maggioranza dei componenti del collegio e che la proposta va fatta anche nell'ipotesi in cui l'Amministrazione manifesti la propria assoluta indisponibilità. E' ovvio che il Presidente del collegio ha l'onere di valutare la fondatezza delle posizioni delle parti e, in casi di particolare infondatezza, può limitarsi a prospettare una mancata giustificazione della domanda.

Per quel che concerne, invece, la valutazione del comportamento tenuto dalla parti durante la conciliazione in sede di "riparto" delle spese di giudizio, si è di fronte ad un criterio presente anche in altre tipologie di tentativi obbligatori.

 

 

La conciliazione monocratica

 

Una delle novità più rilevanti contenute nel Decreto Legislativo 23 aprile 2004, n. 124, è rappresentata dall'art. 11, attraverso il quale l'Esecutivo ha dato attuazione al principio contenuto nella legge delega n. 30/2003 e precisamente all'art. 8, comma 2, lettera b) ove si parla  " raccordo efficace fra la funzione di ispezione del lavoro e quella della conciliazione delle controversie individuali ": in questo modo, si è cercato, per la prima volta, di realizzare un "connubio" tra le due attività principali dell'organo periferico del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

La previsione legislativa, che ha ipotizzato una nuova forma di conciliazione presso le Direzioni provinciali del Lavoro, trae origine da una serie di motivazioni che hanno una diversa origine e che, nel corso degli anni, hanno contribuito ad appesantire il carico degli Uffici territoriali del Welfare: gran parte delle richieste di intervento  presentate alle Direzioni provinciali del Lavoro sono evase in maniera non sollecita.

A ciò contribuiscono diversi fattori: alto numero delle denunce (sovente, anche di minimo contenuto ma che vanno, in ogni caso, evase), necessità di privilegiare, nell'ottica della prevenzione e della lotta al lavoro irregolare, le visite d'iniziativa in settori ad alto rischio di evasione e pericolosità (es. edilizia, agricoltura, pubblici esercizi, facchinaggio, autotrasporti, ecc.), paurose carenze di organico di personale addetto alla vigilanza, soprattutto nelle aree del Settentrione, cui hanno contribuito sia il progressivo invecchiamento e la conseguente uscita dai ruoli per pensionamento, che i "blocchi" nelle assunzioni ripetutisi negli ultimi anni con le varie leggi Finanziarie, che, infine, una politica di "trasferimenti" verso il Mezzogiorno disposti, in via principale, in ossequio alla legge n. 104/1992.

Sovente, le richieste dei lavoratori che, nella maggior parte dei casi, hanno risolto il rapporto, presentano delle oggettive difficoltà di evasione per carenza di prove testimoniali e documentali, soprattutto in quei casi, abbastanza frequenti in edilizia, ove l'intervento ispettivo si verifica allorquando il cantiere è finito e si è in estrema difficoltà a trovare elementi a sostegno. Altre volte, la brevità del rapporto e la possibilità di forme lavorative non riconducibili facilmente all'area della subordinazione aggiungono altri problemi di complessa soluzione.

Sulla conciliazione monocratica si sono indirizzate forti critiche, soprattutto da parte della CGIL, in quanto si è, in più sedi, sottolineato che con questo strumento il lavoratore viene essere limitato nel riconoscimento dei versamenti contributivi maturati e che il sindacato, parte essenziale nelle controversie avanti alla commissione di conciliazione, viene, sostanzialmente, ad essere esautorato, non essendo presente accanto al funzionario nella trattazione della controversia. Si tratta di questioni delicate che coinvolgono direttamente la sensibilità e la professionalità degli operatori della Direzione provinciale del Lavoro: tuttavia, va detto, al di là degli spunti polemici che hanno accompagnato la norma, che il tentativo di conciliazione monocratico  avviene su base volontaria (nel senso che il lavoratore, opportunamente avvertito, può decidere di non avvalersene), che lo stesso può essere assistito dalla propria organizzazione sindacale la quale può ben rappresentare le posizioni dell'assistito, che il potere contrattuale nei confronti del datore di lavoro è maggiore rispetto a quello esercitabile avanti alla commissione di conciliazione in quanto può far "pesare" sia il "metus" relativo ad una visita ispettiva susseguente ad un mancato accordo (la quale potrebbe verificare aspetti dell'attività lavorativa anche di altri dipendenti) che il costo delle sanzioni amministrative risparmiate (e non soltanto quelle di stretta competenza della Direzione provinciale del Lavoro). Una eventuale conciliazione può far piacere anche al datore di lavoro (che evita un accesso ispettivo e sana eventuali carenze amministrative), alla Direzione provinciale del Lavoro che archivia una richiesta d'intervento ed agli Istituti previdenziali che incassano, con certezza, alcuni contributi. Non va dimenticato, infatti, che, sovente, molte conciliazioni economiche, magari anche avvenute in sede sindacale (art. 411 c.p.c.), o in sede giudiziale (art. 185 c.p.c.), non vengono inviate dalle parti o dai conciliatori all'INPS e che, considerando il sistema del contenzioso oggi presente nel nostro Paese e la difficoltà di accertamento, non sempre c'è l'accredito automatico dei contributi non versati rivendicati dal lavoratore ed accertati attraverso la visita ispettiva.

L'analisi che segue, cercherà di focalizzare le questioni operative più importanti concernenti la richiesta di intervento, la convocazione delle parti e l'accordo transattivo, il mancato accordo ed il tentativo di conciliazione proposto in costanza di visita ispettiva. Si tratta di temi abbastanza complessi e "nuovi" sui quali non esistono, ancora, riferimenti giurisprudenziali e sono abbastanza scarni quelli amministrativi, concretizzandosi, sostanzialmente, nelle circolari del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 24 del 24 giugno 2004 e dell'INPS n. 132 del 20 settembre 2004.

 

1. Richiesta di intervento. Il comma 1 non generalizza la conciliazione monocratica a tutte le richieste di intervento ma, in un certo senso, la limita all'ipotesi in cui "emergano elementi per una soluzione conciliativa della controversia" e, comunque, lascia la scelta finale al Dirigente della Direzione provinciale del Lavoro che "può" avviare il tentativo sulle questioni che sono state segnalate.

Da ciò discendono alcune considerazioni di carattere fondamentale e che, in un certo senso, sono destinate a cambiare alcuni "modus operandi" degli organi di vigilanza.

La prima è rappresentata dal fatto che gli addetti al turno non si debbono limitare a registrare soltanto le eventuali richieste dei lavoratori, anche assistiti dalle organizzazioni sindacali, riferite ai mancati versamenti contributivi non prescritti ed al mancato adempimento da parte del datore di lavoro degli adempimenti connessi all'assunzione ed allo svolgimento del rapporto di lavoro (es. mancata consegna della busta paga), ma anche, qualora sussistenti, a recepire le richieste relative a trattamenti economici non corrisposti (es. differenze paga, lavoro straordinario non retribuito, ferie non godute, trattamento di fine rapporto, ecc).  

L'intervento conciliativo può prospettarsi anche in ipotesi nelle quali il lavoratore stesso non sia un lavoratore subordinato, ma sia stato, invece, titolare di un rapporto di lavoro autonomo (es. contratto a progetto, o collaborazione coordinata e continuativa nei casi residuali individuati dall'art. 61 del  D.L.vo n. 276/2003) per i quali, oltre al compenso pattuito e non del tutto corrisposto, è stabilita una forma di versamento contributivo alla gestione separata  prevista dall'art. 2, comma 26, della legge n. 335/1995. La semplice richiesta di intervento non vincola in alcun modo l'organo ispettivo in quanto non si è ancora arrivati ad alcun accertamento circa la veridicità di quanto affermato dal richiedente: in ciò, ad avviso di chi scrive, risiede la singolarità del nuovo intervento prospettato dal Legislatore delegato. Ed è proprio sulla base di tale considerazione che si giustifica il tentativo di conciliazione.

Le seconda riflessione concerne il ruolo discrezionale affidato al Dirigente periferico. La disposizione non parla di obbligatorietà del tentativo: da ciò ne discende che, qualora, ad esempio, per i "precedenti" del datore di lavoro interessato (o perché l'eventuale intervento conciliativo potrebbe porre "a rischio" altri accertamenti, o perché vi è il ragionevole dubbio che si possano "scovare" dipendenti extracomunitari clandestini, o perché dalla denuncia sembrano trasparire aspetti di rilevanza penale) si ritenga inutile o, quantomeno, non proficuo il tentativo di conciliazione, si potrà disporre, da subito, la "messa a visita" della richiesta, avendo cura, ad avviso di chi scrive, di passare sollecitamente la pratica relativa alle rivendicazioni economiche alla segreteria della commissione provinciale di conciliazione per il tentativo obbligatorio previsto dall'art. 410 c.p.c. . Altra ipotesi in cui potrebbe essere non opportuno il tentativo di conciliazione è quella in cui la richiesta di intervento del lavoratore riguardi anche contributi previdenziali vicini alla prescrizione e per i quali esiste il fondato sospetto che l'imprenditore faccia sparire, a seguito della convocazione, elementi di prova. Ovviamente, il potere discrezionale del Dirigente è ampio e, ad avviso di chi scrive, può superare anche un eventuale assenso alla procedura conciliativa emersa dalla dichiarazione del lavoratore all'atto della denuncia (i nuovi moduli prevedono espressamente la possibilità di avvalersene). E' qui che la Direzione provinciale del Lavoro è chiamata ad esercitare un ruolo professionale che, se da un lato deve tenere presenti le nuove opportunità offerte dal Legislatore delegato, dall'altro non può venir meno al proprio ruolo di garante del rispetto delle norme vigenti in materia di lavoro.

La terza considerazione riguarda il contenuto economico della richiesta. Non dimenticando che l'oggetto principale della stessa riguarda il mancato rispetto della normativa previdenziale ed assistenziale, esso deve essere riferibile a quest'ultima, con la conseguenza che un'eventuale domanda finalizzata alla impugnazione del solo provvedimento di licenziamento non è oggetto del tentativo di conciliazione monocratica (non c'è un mancato versamento contributivo riferibile direttamente a tale ipotesi) e, di conseguenza, la pratica va passata alla commissione provinciale di conciliazione.

La quarta considerazione riguarda il caso in cui la richiesta di intervento provenga da un lavoratore il cui rapporto con il datore sia stato oggetto di certificazione, secondo la procedura prefigurata dagli articoli 75 e seguenti del D. L.vo n. 276/2003. Vale la pena di ricordare che al fine di ridurre il contenzioso, tutte le tipologie contrattuali riferite sia a forme di lavoro autonomo che subordinato,  possono essere certificate, previa richiesta avanzata di comune accordo da entrambi i contraenti e che gli effetti dell'accertamento (art. 79) permangono anche verso i terzi, fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili ai sensi del successivo art. 80. Ora, tra questi ricorsi, senza entrare nel merito specifico della certificazione che ci porterebbe lontano dall'argomento che si sta trattando, c'è quello della difformità tra il programma negoziale certificato e quello effettivamente realizzato (si pensi, ad esempio, ad un contratto a progetto certificato che, però, si è svolto, secondo il lavoratore, con tutti i "crismi" del rapporto subordinato, con il conseguente "surplus" contributivo). Orbene, in casi di rapporti certificati come questo non è possibile l'intervento del conciliatore monocratico, atteso che il comma 4 dell'art. 80 afferma che chi intende presentare ricorso giurisdizionale contro la certificazione (e la richiesta del lavoratore appare finalizzata a ciò, atteso che essa ha "piena forza di legge" - art. 5, lettera e - della legge n. 30/2003) deve previamente rivolgersi obbligatoriamente alla commissione di certificazione per espletare un tentativo di conciliazione ai sensi dell'art. 410 c.p.c.  Per completezza di informazione va ricordato che la norma prevede tale organo presso gli Enti bilaterali, le Direzioni provinciali del Lavoro, le Province e le Università. E' appena il caso di precisare che, trattandosi di una richiesta di intervento su un rapporto di lavoro certificato, il Dirigente della Direzione provinciale del Lavoro è tenuto a passarla alla Commissione di certificazione di cui, peraltro, egli stesso è il Presidente.  

La quinta riflessione riguarda la competenza territoriale: essa è, senz'altro, quella relativa al luogo in cui si è svolto il rapporto di lavoro e ove è esercitabile l'intervento degli organi di vigilanza finalizzato al recupero contributivo. Ciò significa che rispetto al criterio in uso per i tentativi obbligatori di conciliazione avanti alle commissioni provinciali del lavoro che sono quelli individuati dall'art. 413 c.p.c. c'è qualche differenza. Infatti, appare difficilmente applicabile il criterio del domicilio dell'agente, del rappresentante di commercio, ovvero del titolare degli altri rapporti di collaborazione previsti al n. 3 dell'art. 409 c.p.c. se questo è ubicato in una provincia diversa da quella in cui si è, materialmente, svolto il rapporto.

Il sesto chiarimento concerne le c.d. "richieste di intervento plurime": esse coinvolgono più lavoratori ma, qualora si decida di ammetterle al tentativo di conciliazione, vanno trattate separatamente, cosa che potrebbe portare anche a soluzioni differenziate (accordo per taluni e per altri no), con la conseguenza che laddove la conciliazione non è stata raggiunta si dovrà procedere con l'accertamento ispettivo. E' ovvio che potrebbe presentarsi anche un'altra ipotesi come quella, ad esempio, che taluni lavoratori non intendano aderire alla procedura di conciliazione: in questo caso il Dirigente dovrà, esercitando la propria discrezionalità, operare la scelta più giusta che potrebbe essere quella dell'accesso ispettivo, magari nel più breve tempo possibile.

Il comma 1 afferma, inoltre, che il tentativo di conciliazione, che si potrebbe definire "preventivo", avviene davanti ad un funzionario della Direzione provinciale del Lavoro, anche con qualifica ispettiva.

Prima di entrare nel merito della scelta operata dal Legislatore delegato circa la monocraticità del tentativo, va sottolineato che sia nel momento in cui l'ispettore di turno riceve la richiesta di intervento che nel momento successivo in cui tenta la mediazione, lo stesso non opera come ufficiale di polizia giudiziaria, essendo tale attribuzione riferibile soltanto al momento in cui accede presso un'impresa od opera nelle funzioni tipiche della vigilanza. Par di capire dal dettato normativo che nel momento in cui cerca di mediare la controversia di natura economica tra le parti, prospettando la soluzione migliore per agevolarne la soluzione (non si dimentichi che sono le parti che, facendosi reciproche concessioni, raggiungono un accordo), lo stesso assume una posizione del tutto identica a quella del funzionario amministrativo che, in via normale, è destinato a conciliare le vertenze individuali di lavoro nell'ambito della specifica Unità Operativa denominata Conflitti di Lavoro ed Ammortizzatori Sociali. 

Come si è detto, il Legislatore delegato ha affermato che la conciliazione può essere affidata ad un funzionario dell'Ufficio, anche con qualifica ispettiva: al di là di ciò che potranno affermare i chiarimenti amministrativi (e, si aggiunge, al di là delle "sterili" polemiche interne, mai sopite, tra le due "anime" periferiche, ora unificate, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali), si può sostenere che spetta al Dirigente l'individuazione del personale destinato a svolgere tale nuovo compito, avendo l'avvertenza di ricordare che gli ispettori servono anche e, soprattutto, per l'attività esterna e che i conciliatori debbono essere in possesso di particolari duttilità professionali finalizzate a far sì che le parti, facendosi reciproche concessioni, giungano ad un accordo complessivo. Ciò significa, ad avviso di chi scrive, che le soluzioni potranno essere diverse da Ufficio ad Ufficio, in quanto non potrà non tenersi conto delle situazioni locali e, in ogni caso, dovranno improntate alla logica del miglior servizio nei confronti dell'utenza.

La scelta operata dall'Esecutivo nella direzione del conciliatore amministrativo monocratico rappresenta, indubbiamente, una rottura verso il sistema instauratosi con la legge n. 533/1973 la quale, riformando il codice di procedura civile, stabilì che il tentativo di conciliazione (allora facoltativo, divenuto, poi, obbligatorio con il D. L.vo n. 80/1998) nelle controversie individuali di lavoro dovesse avvenire davanti ad una commissione provinciale di conciliazione (che, peraltro, poteva operare anche per sotto commissioni) composta da quattro rappresentanti dei datori di lavoro e quattro dei datori di lavoro oltrechè dal Dirigente della Direzione del Lavoro (o suo delegato) in funzione di presidente. A dir la verità, in precedenza, grazie all'art. 12, lettera d) della legge n. 628/1961, il ruolo monocratico della conciliazione presso gli allora esistenti Uffici provinciali del Lavoro era stato previsto dal Legislatore e la Corte di Cassazione, sotto l'imperio di tale disposizione, riconobbe la inoppugnabilità delle transazioni per effetto di quella funzione di garanzia che era da attribuire al funzionario pubblico.

La attuale monocraticità trova, peraltro, un sostegno di legittimità in una sentenza della Corte di Cassazione abbastanza recente (Cass., n. 17785 del 12 dicembre 2002) laddove si è affermato che "l'intervento dell'Ufficio provinciale del Lavoro è di per sé idoneo a sottrarre il lavoratore a quella condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro che rende sospette le prevaricazioni da parte di quest'ultimo attraverso le transazioni e le rinunce inderogabili intervenute nel corso del rapporto di lavoro in ordine a diritti previsti da norme inderogabili, sia allorché detto organismo partecipi attivamente alla composizione delle contrastanti posizioni delle parti, sia quando in un proprio atto si limiti a riconoscere, in una transazione già delineata dalle parti in trattative dirette, l'espressione di una volontà non coartata del lavoratore. Consegue che, in tale ultimo caso, la transazione si sottrae alla impugnativa prevista ex art. 2113, comma 3, c.c. ". Per completezza di informazione va, peraltro, sottolineato come lo stesso giudice di legittimità avesse sostenuto, in passato (Cass., n. 3202 del 2 aprile 1987 e Cass., S.U., n. 3425 del 10 maggio 1988), un orientamento del tutto diverso.

 

2. Convocazione delle parti e accordo transattivo. Esaminata la richiesta d'intervento (che può, peraltro, riferirsi anche ad una data antecedente il 27 maggio 2004, giorno di entrata in vigore del D. L.vo n. 124/2004, secondo l'interpretazione fornita dalla circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n.24/2004) e valutata la possibilità di giungere ad una soluzione conciliativa, la Direzione provinciale del Lavoro convoca, con lettera raccomandata, le parti per un giorno ed un'ora prefissati avvertendo che le stesse possono farsi assistere da rappresentanti di organizzazioni sindacali o da professionisti. Anche in questo caso per i soggetti interessati valgono i principi della rappresentanza, nel senso che, senza intervenire, possono essere sostituiti da altri soggetti muniti della specifica delega a transigere e conciliare, autenticata nei modi previsti dalla normativa vigente (e, quindi, anche davanti ad un funzionario della Direzione provinciale del Lavoro).

La norma non pone alcun termine specifico per giungere ad un accordo transattivo (ove le parti, è bene ricordarlo, si fanno, secondo la dizione adoperata dall'art. 1965 c.c., reciproche concessioni): ciò significa che il conciliatore monocratico della Direzione provinciale del Lavoro non deve, necessariamente, giungere ad una soluzione positiva o negativa della vertenza di lavoro entro un tempo predeterminato, ma ha la possibilità di far maturare la transazione per il tempo che ritiene necessario, anche perché (e ciò è estremamente interessante ai fini della contestazione delle violazioni contributive) i termini previsti dall'art. 14 della legge n. 689/1981 sono sospesi dal momento in cui è inviata la nota di convocazione fino a quando si conclude il procedimento conciliativo.

La sottoscrizione del verbale di accordo è accompagnata dalla inoppugnabilità, come previsto per le conciliazioni intervenute ai sensi dell'art. 185 (in sede giudiziale), 410 (avanti alla commissione provinciale di conciliazione) e 411 (in sede sindacale) del codice di procedura civile: ciò lo si ricava dal fatto che il comma 3 dell'art. 11 dichiara espressamente che non trovano applicazione i commi 1, 2 e 3 dell'art. 2113 c.c. i quali affermano che le rinunzie e transazioni derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratto collettivo non sono valide (comma 1), che l'impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, nei sei mesi successivi dalla data di cessazione del rapporto o da quella della rinunzia o transazione se intervenuta successivamente (comma 2) e che le rinunzie e transazioni possono essere impugnate con qualsiasi atto, anche stragiudiziale, del lavoratore, idoneo a renderne nota la volontà (comma 3).  

Il comma 4 afferma che l'estinzione del procedimento ispettivo (instauratosi, è bene ricordarlo, con la richiesta di intervento) si verifica, dopo la sottoscrizione dell'accordo, con il versamento dei contributi previdenziali ed assicurativi, determinati secondo le norme in vigore, riferiti alle somme concordate correlate al periodo lavorativo riconosciuto e con il pagamento delle somme dovute. La Direzione provinciale del Lavoro è tenuta a trasmettere tutta la documentazione riferita all'accordo, agli Enti previdenziali interessati sui quali incombe l'onere della verifica degli avvenuti versamenti.

La disposizione, così come è scritta, merita qualche riflessione ed approfondimento soprattutto se messa in correlazione con quanto affermato circa l'inoppugnabilità della transazione.

La prima riguarda l'esperienza di questi mesi sui tentativi di conciliazione relativi a denunce antecedenti il 27 maggio 2004, data di entrata in vigore del D. L.vo n. 124/2004: essa non è stata molto positiva, atteso che, sovente, le Direzioni del Lavoro hanno estrapolato quelle relative a  situazioni vecchie ove, per una serie di motivi, le situazioni si erano "consolidate"(es. il lavoratore, talora extra - comunitario, non è reperibile in quanto il domicilio è cambiato, il cantiere lavorativo non esiste più, ecc.). Di conseguenza, l'Ufficio ha dovuto effettuare il normale accesso ispettivo, riscontrando, sovente, difficoltà in ordine all'acquisizione degli elementi probatori.

La seconda concerne il modo in cui dovrà essere redatto il verbale: ad avviso di chi scrive, qualora nello stesso si faccia riferimento a più voci contrattuali (es. differenze paga, lavoro straordinario, trattamento di fine rapporto, ecc.), le stesse non potranno essere comprese in un'unica somma transattiva, atteso che sulle varie somme va pagata una contribuzione diversa. Si pensi, ad esempio,  al lavoro straordinario ove, in base alla normativa vigente, va pagato un contributo supplementare a percentuale variabile al superamento della quarantesima ora. 

La terza riflessione riguarda il periodo concordato tra le parti, per quel che concerne gli effetti sulla contribuzione: sono i soggetti che stipulano l'accordo che riconoscono a quale periodo lavorativo va riferita la stessa, la quale, non necessariamente, è correlata ad un rapporto di lavoro subordinato, potendo le parti aver stabilito che il contratto ha avuto, per un certo periodo, uno svolgimento con caratteristiche di autonomia. Qui, tuttavia, occorre sottolineare come il ruolo della Direzione del Lavoro sia un po' diverso da quello ricoperto nella conciliazione che avviene ex art. 410 c.p.c.: in quest'ultimo caso le parti regolano tra di loro, rinunciando anche a taluni diritti, rapporti di natura economica e, tranne il caso del c.d. "patto leonino", la commissione ha poco da dire. Nella conciliazione monocratica, invece, ove c'è un interesse anche dello Stato e degli Enti previdenziali, il funzionario dell'Ufficio deve, esercitare il proprio peso, facendo in modo che non si arrivi ad un accordo "ictu oculi" poco plausibile (non si dimentichi, ad esempio, che in caso di transazione su un rapporto denunciato come "in nero" non trovano applicazione tutele sanzioni amministrative, ivi compresa quella emanata dall'Agenzia delle Entrate ex lege n. 73/2003, in quanto quest'ultima è conseguente ad un accertamento ispettivo che, nel caso di specie, essendo raggiunto tra le parti un accordo, non c'è). Sul punto, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali non ha, al momento, fornito linee di indirizzo.

Il quarto approfondimento concerne la quantificazione della contribuzione: così come è scritta, la disposizione non richiede che dall'atto debbano risultare gli importi dei contributi e dei premi: ovviamente, l'estinzione del procedimento ispettivo è conseguente al pagamento degli stessi. Gli organi previdenziali sono soltanto destinatari dell'atto ed hanno il solo compito di verificare che il versamento sia stato effettuato, sulla base di quanto gli stessi hanno quantificato in relazione alle somme concordate. A questo punto, si pone il problema di quando debba essere effettuato il versamento: la disposizione non ne parla ma l'INPS, con la circolare n. 132/2004 ha ritenuto che "il momento dell'insorgenza dell'obbligo contributivo coincida con il termine indicato per il pagamento delle somme dovute al lavoratore". Conseguentemente, ricorda l'Istituto, il versamento di quanto dovuto deve avvenire entro il sedicesimo giorno del mese successivo.

 Diverso è il discorso se il pagamento della somma concordata avviene, come spesso succede, a scadenze temporali prefissate nell'accordo: i contributi debbono essere versati in corrispondenza degli importi rateizzati oppure, il datore di lavoro può essere ammesso al pagamento dilazionato dei contributi attraverso le forme usuali? Sul primo di questi aspetti la circolare INPS n. 132/2004 parla di "coincidenza" con il termine fissato per le erogazioni economiche. Si ha, poi, motivo di ritenere che in caso di pagamento contributivo "rateizzato" sia sufficiente l'ammissione allo stesso approvata dall'Istituto (con il saldo della prima rata), fermo restando che nel caso di mancato pagamento di una rata sarà quest'ultimo ad iniziare il procedimento "coattivo".

Al problema del "quantum" contributivo va correlato quello della deroga, o meno, alla previsione contenuta al comma 1 dell'art. 1 del D.L. n. 338/1989, convertito, con modificazioni, nella legge n. 389/1989: ad avviso di chi scrive, non c'è deroga, in quanto il comma 4 afferma che i contributi debbono essere determinati secondo le norme in vigore e, pertanto, "la retribuzione da assumere come base di calcolo non può essere inferiore all'importo stabilito da leggi, regolamenti, e contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale".

Un'altra questione che può esser risolta soltanto con un chiarimento normativo non essendo sufficiente quello amministrativo, è legata al c.d. "pagamento dilazionato" degli importi economici, nel caso in cui il datore di lavoro smetta di onorare i propri debiti alle scadenze prefissate. Abbiamo visto come il comma 3 parli, giustamente, di inoppugnabilità della transazione ma, purtroppo, nell'articolato che si commenta non c'è alcuna disposizione specifica che ripeta per il deposito e la successiva esecutività (particolarmente importante nel caso sopraindicato) la disposizione del comma 2 dell'art. 411 c.p.c. ove si fa riferimento al deposito presso la cancelleria del Tribunale per le conciliazioni avvenute avanti alla commissione provinciale o in sede sindacale (successivo comma 3), con l'accertamento della regolarità formale del verbale di conciliazione. E' questo un punto debole, in quanto non c'è quella automaticità appena descritta: in sostanza, il lavoratore, a fronte del riconoscimento certo di un debito, è tenuto a rivolgersi ad un legale per la successiva richiesta giudiziale di emissione di un decreto ingiuntivo. 

Una quinta riflessione riguarda l'estinzione del procedimento ispettivo: par di capire (e questo sembra lo spirito della norma che, non dimentichiamolo, appare finalizzata a far concludere le richieste di intervento, laddove possibile, in tempi brevi, per concentrare l'attenzione delle ispezioni sulle c.d. "visite d'iniziativa") che con la firma dell'atto transattivo non sia più possibile perseguire altre eventuali  carenze nel comportamento datoriale riferibili a quel rapporto anche se presenti nella richiesta di intervento: ci si riferisce, ad esempio, alla mancata comunicazione di assunzione ai servizi per l'impiego, alla mancata consegna della busta - paga, alla mancata consegna della lettera di assunzione, ecc.. La sottoscrizione dell'accordo (con il conseguente, ovvio, pagamento sia dei contributi previdenziali ed assicurativi che delle somme patrimoniali concordate) comporta la non procedibilità per altre sanzioni amministrative connesse al rapporto in questione: ciò può essere opposto nei confronti di tutti gli eventuali futuri accertamenti ispettivi.

 

3. Mancato accordo.  L'assenza di una o di entrambe le parti il giorno fissato per la convocazione (ma un impegno precedente, con richiesta esplicita di rinvio, autorizza la fissazione di una nuova data, a meno che l'altra parte non dichiari espressamente di non volere un'altra convocazione), fa sì che la Direzione provinciale del Lavoro intenda esperito il tentativo e, conseguentemente, programmi l'accesso ispettivo alla base della richiesta nel più breve tempo possibile, atteso che il datore di lavoro è ora a conoscenza della c.d. "denuncia" avanzata dal lavoratore. Ad analogo risultato si giunge nell'ipotesi in cui il tentativo di conciliazione non sia riuscito e si addivenga ad un verbale di mancato accordo.

Qui si  pone, ad avviso di chi scrive, un problema d'ordine procedurale. Il mancato accordo raggiunto davanti al conciliatore monocratico fa sì che la procedura di conciliazione si intenda espletata (art. 412 -bis, comma 1, c.p.c.) per le sole rivendicazioni economiche contenute nella richiesta di intervento ed il lavoratore possa procedere in giudizio, oppure no? A stretto tenore letterale il tentativo di conciliazione cui fa riferimento la disposizione introdotta dal D. L.vo n. 80/1998 è quello davanti alla commissione o in sede sindacale ma, ad avviso di chi scrive, regole di buon senso e di economicità dovrebbero fare in modo che tutti i mancati accordi, susseguenti ad una procedura legalmente prevista, abbiano lo stesso trattamento. Tuttavia, la cosa non è automatica né è superabile attraverso una circolare interpretativa e, quindi, si impone la necessità di un adeguamento normativo senza il quale  si corre il rischio di posticipare il ricorso giudiziale del lavoratore che, magari, sarebbe costretto a ripetere "il mancato accordo" davanti allo stesso funzionario che, però, in questo caso non sarebbe "monocratico" ma presidente di una sotto commissione di conciliazione (cosa plausibile in quegli Uffici, soprattutto del Nord, ove vi è carenza di personale addetto alla trattazione delle controversie di lavoro).

 

4.Tentativo di conciliazione in costanza di visita ispettiva. L'ultimo comma dell'art. 11 traccia un ipotesi conciliativa, per così dire, "contestuale" alla visita ispettiva: essa si realizza allorquando nel corso dell'attività di vigilanza l'ispettore ritenga (e qui è evidente il potere discrezionale) che esistano tutti i presupposti per una soluzione conciliativa (es. differenze economiche in essere correlate a mancati versamenti contributivi): in questo caso occorre, innanzitutto, acquisire il consenso di entrambe le parti e, poi, informare la Direzione provinciale del Lavoro per l'attivazione della procedura, la quale si svolge con le stesse modalità previste per la "preventiva". La convocazione delle parti interrompe, fino alla conclusione del tentativo, i termini per le contestazioni e le notificazioni previsti dall'art. 14 della legge n. 689/1981.

Anche qui la disposizione necessita di alcuni chiarimenti.

Il primo riguarda la discrezionalità dell'ispettore: appare evidente che dall'accertamento in corso non debbano emergere profili sanzionatori di rilevanza penale (cosa che preclude la possibilità di una conciliazione) ed, inoltre, dalle circostanze emerse dovrebbe già risultare un comportamento delle parti teso a risolvere il problema con un accordo.

Il secondo concerne l'inciso "acquisito il consenso delle parti interessate": ciò significa, innanzitutto, che il consenso del datore di lavoro presuppone che lo stesso sia stato portato a conoscenza del nominativo del lavoratore cui la possibile "fattispecie conciliativa" si riferisce. Non è possibile, infatti, ottenere una disponibilità alla conciliazione senza conoscere chi è la controparte.

Il terzo si riferisce alla modalità di acquisizione del consenso: a parere di chi scrive, esso va acquisito per iscritto attraverso una breve formula con la quale si concorda sulla disponibilità ad un tentativo di conciliazione ex art. 11.

Il quarto chiarimento riguarda il contenuto della relazione dell'ispettore alla sua Direzione provinciale del Lavoro: al di là di qualsiasi esercitazione logorroica, si ritiene che la stessa debba essere il più possibile precisa e puntuale atta a focalizzare le situazioni e gli elementi in base alle quali si ritiene fattibile l'accordo conciliativo.

La quinta delucidazione riguarda il comportamento della Direzione provinciale del Lavoro in ordine alla richiesta di intervento: dalla norma non traspare alcun potere discrezionale (ed è giusto che sia così, atteso che l'ispettore ha ritenuto possibile il tentativo di conciliazione e le parti hanno dato il loro consenso), cosa che, invece, si evince chiaramente nella c.d. "conciliazione monocratica preventiva".

La sesta riflessione concerne il soggetto cui demandare il tentativo di conciliazione. La soluzione ideale sarebbe quella di affidarlo al soggetto che in azienda ha già contattato le parti, ma ciò, tenuto conto della realtà variegata degli Uffici periferici del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, non sempre è possibile (si pensi, ad esempio, a quelle articolazioni che presentano in organico poco personale di vigilanza): conseguentemente, ad avviso di chi scrive, è opportuno che ogni Direzione decida in base a quelle che sono le sue potenzialità.

La settima questione riguarda l'ipotesi in cui le parti (o una sola di esse) non si presentino o non addivengano ad un accordo: in questo caso, l'accertamento ispettivo, per il quale sono stati sospesi i termini previsti dall'art. 14 della legge n. 689/1981, riprende ed è portato a conclusione dal medesimo ispettore che l'aveva iniziato

 

 

La conciliazione obbligatoria per i rapporti di lavoro certificati

 

Il D. L.vo n. 276/2003, al Titolo VIII, ha disciplinato le procedure di certificazione di tutti i contratti di lavoro, del c.d. "appalto genuino" e del regolamento interno delle società cooperative (quest'ultimo avanti ad un'apposita commissione costituita presso la Provincia). Senza entrare nel merito della procedura che ci porterebbe lontano dalla nostra riflessione, va, in questa sede, sottolineato che il contratto certificato da uno degli organi a ciò deputati (commissione di certificazione presso la Direzione provinciale del Lavoro, commissione di certificazione presso la Provincia, commissione di certificazione presso le Università, commissione di certificazione presso gli Enti Bilaterali) ha forza di legge fino a quando un giudice con sentenza di merito non affermi il contrario ed è opponibile anche ai terzi che ne abbiano interesse.

E' evidente come il contratto certificato (nel nostro caso interessa quello validato avanti alla commissione istituita presso la DPL di cui fanno parte, come membri di diritto, oltre al Dirigente, anche due funzionari  dell'Ufficio ed un rappresentante ciascuno dell'INPS e dell'INAIL) possa essere opposto anche agli ispettori del lavoro ed al personale di vigilanza degli Istituti i quali rilevino, ad esempio, che il rapporto di lavoro si è svolto in maniera del tutto, o in parte, diversa da come era stato certificato (es., le caratteristiche sono quelle tipiche della subordinazione, mentre il contratto era stato certificato come " a progetto"). In via normale, l'ispettore rilascia il relativo verbale con la quantificazione del periodo accertato e delle relative sanzioni, qui non lo può fare, in quanto il rapporto certificato è tale nella sua qualificazione fino alla pronuncia del giudice di merito. Sull'argomento l'INPS, con la circolare n. 71 del 1° giugno 2005, ha fornito alcuni indirizzi operativi al proprio personale ispettivo, estensibili, in quanto riferibili a norme comportamentali di linearità amministrativa, anche al personale delle Direzioni del Lavoro. Il funzionario di vigilanza, qualora accerti che dalla discordanza accertata derivino addebiti contributivi, è tenuto a procedere, fermi restando altri aspetti della verifica, alla notifica di un distinto verbale ispettivo contenente unicamente gli elementi a sostegno delle ragioni e la quantificazione, ai soli fini cautelari, delle somme ritenute dovute.

La procedura di conciliazione avanti all'organo che ha certificato il rapporto è, succintamente, descritta al comma 4 dell'art. 80 del D. L.vo n. 276/2003: vi si afferma che è obbligatoria e che il tentativo è espletato ai sensi dell'art. 410 c.p.c..

Sono molte le considerazioni che vanno, necessariamente, effettuate.

Innanzitutto, il ricorso (possibile pure erronea qualificazione o per vizio del consenso) può pervenire anche dal lavoratore che è una delle parti che ha sottoscritto il contratto certificato: anzi, la previsione contenuta nella norma appena citata, riserva una sola strada per l'impugnativa giudiziale. Se egli vuole adire il giudice deve, necessariamente, passare per il tentativo obbligatorio avanti alla commissione che ha qualificato il rapporto, non potendo, ad esempio, passare attraverso altre forme obbligatorie conciliative (avanti alla commissione provinciale o in sede sindacale, o in sede di conciliazione monocratica). C'è, poi, la identificazione di altri soggetti che potrebbero aver interesse ad impugnare l'atto certificato oltre al personale di vigilanza dell'INPS, dell'INAIL e della Direzione provinciale del Lavoro: si tratta del datore di lavoro (anche se, in linea di massima, poco plausibile), dell'Amministrazione Finanziaria (per i riflessi fiscali) o di un altro istituto previdenziale, relativamente alla specificità dei versamenti contributivi (es. ENPALS).

Un'altra questione riguarda la procedura di conciliazione: qui non è intervenuto alcun chiarimento amministrativo, in carenza del quale si ritengono applicabili, per quanto possibili, le esperienze già formalizzate nelle altre attività conciliative svolte dall'Ufficio, tenuto conto del richiamo operato dal comma 4, all'art. 410 c.p.c.. Conseguentemente, ricevuta l'istanza, la segreteria della commissione provvede a convocare entro 10 giorni, con lettera raccomandata, le parti contraenti ed il soggetto (ispettore di un istituto previdenziale, ispettore della DPL, funzionario dell'Agenzia delle Entrate, ecc.) che, a seguito dell'accertamento ispettivo, ha chiesto l'intervento. In analogia con ciò che succede nella procedura avanti alla commissione provinciale di conciliazione, si ha motivo di ritenere che il termine appena evidenziato sia di natura ordinatoria.

Appare evidente come la procedura avanti alla commissione di certificazione della Direzione provinciale del Lavoro, sia abbastanza "atipica": infatti, nell'organo certificatore che deve favorire una conciliazione tra l'ispettore che ha rilevato la discrepanza e le parti interessate, siede il rappresentante (che è anche un superiore gerarchico) dell'organo che attraverso il funzionario di vigilanza ritiene di aver accertato una difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione.

Nel corso della discussione la commissione è tenuta ad acquisire ogni utile informazione e chiarimento circa l'effettivo svolgimento del rapporto: ovviamente, in questa sede, si ritiene che, oltre a sentire le parti, possano essere visti e valutati gli elementi raccolti, ad esempio, dal funzionario di vigilanza o dall'ispettore durante l'accesso. L'esame può presentare difficoltà, soprattutto se correlate ad un comportamento "non collaborativo" dei soggetti contraenti o, qualora ci si trovi di fronte ad un c.d. "appalto genuino" che tale non sembra all'organo di controllo, ad ostacoli derivanti dalla complessità della fattispecie.

Un altro problema da risolvere riguarda l'esistenza o meno di un termine, trascorso il quale chi ha chiesto la conciliazione obbligatoria può andare in giudizio. L'art. 410 -bis c.p.c. afferma che il tentativo di conciliazione delle controversie individuali deve essere espletato entro 60 giorni, trascorsi i quali lo stesso si intende, comunque, espletato ai fini di un eventuale ricorso giudiziale. E' applicabile tale disposizione anche al tentativo obbligatorio di conciliazione avanti alla commissione di certificazione sulla base della semplice frase riportata al comma 4 che recita "tentativo di conciliazione ai sensi dell'art. 410 c.p.c."? Ad avviso di chi scrive, una risposta positiva è possibile sulla base del concetto che è "in toto" applicabile, anche per gli effetti sul giudizio di merito che non può rimanere indeterminato, la procedura che direttamente ed indirettamente si applica con il ricorso all'articolo del codice di procedura civile appena citato.

Se si arriva ad una soluzione positiva della controversia con il riconoscimento in tutto od in parte delle posizioni assunte dall'organo di vigilanza, si arriva ad un accordo che diviene inoppugnabile e che stabilisce, avanti alla commissione i termini nuovi del rapporto oggetto di contestazione. L'accordo che può prevedere, ad esempio, un termine diverso di inizio del nuovo rapporto rispetto a quello certificato, deve essere sottoscritto, oltre che dai componenti effettivi della commissione, dalle parti e da chi ha promosso la controversia: tale accordo è, in un certo senso, almeno "trilaterale". Ovviamente, se viene riconosciuto per tale periodo un addebito contributivo, esso dovrà essere onorato alle scadenze indicate dagli Istituti previdenziali: nel silenzio, fatta salva una ipotesi di "rateizzazione", si ritiene che ciò debba avvenire, in analogia con la conciliazione monocratica, entro il sedici del mese successivo.

Un altro problema da risolvere è rappresentato dalla circostanza che, a seguito al riconoscimento di un rapporto di lavoro diverso da quello qualificato, al lavoratore siano riconosciute competenze economiche a titolo di differenze retributive. La domanda è questa: può la commissione di certificazione, qualora le parti siano d'accordo, inserire una clausola con la quale vengono riconosciute alcune spettanze? La sede non è proprio questa anche se la dizione dell'art. 82 del D. L.vo n. 276/2003 offre un appiglio (ma soltanto per gli Enti Bilaterali) quando afferma che le "sedi di certificazione di cui all'art. 76, comma 1, lettera a) sono competenti, altresì, a certificare le rinunzie e transazioni di cui all'art. 2113 c.c. a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti stesse. Indubbiamente, motivi di economicità spingerebbero per una soluzione positiva pure per la commissione di certificazione costituita presso la DPL anche perché si assisterebbe al paradosso di un lavoratore cui il datore di lavoro ha riconosciuto un determinato periodo come subordinato il quale sarebbe costretto ad adire un'altra commissione (quella di conciliazione) per ottenere quanto già riconosciuto (ovviamente, sarebbe il datore di lavoro a "spingere" verso tale ultimo organo collegiale per ottenere una transazione con il crisma dell'inoppugnabilità).

La mancata conciliazione, cui il Legislatore delegato ricollega la possibilità che il giudice di merito valuti il comportamento tenuto dalle parti, ai fini delle spese di giudizio, fa sì che per veder riconosciuto quanto accertato durante l'accesso ispettivo, il funzionario di vigilanza o l'ispettore debba trasmettere tutta la documentazione, rispettivamente, all'Avvocatura di Sede (circ. INPS n. 71/2005) o all'Ufficio Legale e del Contenzioso della Direzione provinciale del Lavoro: infatti,  dopo le modifiche introdotte con l'ultimo articolo del D. L.vo n. 251/2004 per tutte le questioni giudiziali concernenti i rapporti certificati (quindi, anche per un eventuale ricorso amministrativo al Tribunale Regionale) la Direzione provinciale del Lavoro si costituisce direttamente attraverso il  Dirigente o propri funzionari, "by - passando" l'Avvocatura dello Stato.

 

 

Conciliazioni sul rilascio dei certificati per i lavoratori esposti all'amianto

 

Un ultimo caso di conciliazioni presso le Direzioni provinciali del Lavoro è scaturito, di recente, dal D.M. 17 dicembre 2004, n. 295, attuativo dell'art. 47 del D.L. n. 369/2003, convertito, con modificazioni nella legge n. 326/2003. Si tratta dei benefici previdenziali per i lavoratori che hanno operato a contatto con l'amianto e che, alla data del 2 ottobre 2003, sono stati esposti  per periodi lavorativi non soggetti all'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

Tralasciando ogni discorso relativo alla domanda (che va indirizzata all'INAIL) ed alla procedura di riconoscimento, va sottolineato come la Direzione provinciale del Lavoro sia "tirata in ballo" due volte: la prima (art. 3, comma 4) quando si afferma che "le controversie relative al rilascio ed al contenuto dei curricula - che devono essere consegnati dai datori di lavoro - sono di competenza delle Direzioni provinciali del Lavoro", la seconda (art. 3, comma 5) quando si dichiara che "nel caso di aziende cessate o fallite, qualora il datore di lavoro risulti irreperibile, il curriculum lavorativo di cui al comma 3 è rilasciato dalla Direzione provinciale del lavoro, previe apposite indagini".

La norma non dice altro, né sulla materia sono, finora, giunti chiarimenti amministrativi: per quel che interessa la nostra riflessione si può affermare che la competenza alla trattazione della controversia non può che essere, nel silenzio degli organi amministrativi sovra ordinati, quella della commissione provinciale di conciliazione cui vanno indirizzate tutte le controversie tra lavoratore e datore di lavoro (e tale è quella relativa al curriculum ed al rilascio). Indubbiamente, se questa è la soluzione, essa riguarda anche l'ipotesi prevista al comma 5, qualora la soluzione adottata a seguito di indagini non sia ritenuta congrua dal lavoratore, con l'ovvia chiamata "in conciliazione" di chi ha effettuato l'accertamento.

 

 

Agosto 2005