Sentenza n. 21499 del
23/09  -  12/11/2004


(Sezioni Unite Civili - Presidente V. Carbone - Relatore A. Criscuolo)



SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


Con citazione notificata il 13 dicembre 1989 il fallimento della società De Paola & Scotti di De Paola Luigi s. n. c. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Roma la società LUMA s. n. c., dichiarando che, quando De Paola e Scotti s. n. c. era ancora in bonis, aveva concluso con la convenuta un contratto di appalto relativo all'esecuzione di opere di ristrutturazione, concernenti un immobile destinato a pensione situato in Roma. Aggîunse che i lavori erano stati portati a compimento entro il termine stabilito, ma che l'appaltatrice non aveva ottenuto il pagamento del corrispettivo. Pertanto, chiese la condanna della. convenuta al pagamento della somma complessiva di lire 144.700.000=, con interessi e rivalutazione, per la dedotta causale.

LUMA s. n. c. contestò la fondatezza della pretesa azionata, sostenendo che i lavori eseguiti erano incompleti ed affetti da vizi. Chiese quindi, in via riconvenzionale, la risoluzione del contratto per inadempimento della società appaltatrice, con condanna della medesima al risarcimento dei danni. In ogni caso formulò istanza di compensazione tra la propria posizione creditoria e quella rivendicata dall'attore.

All'esito dell'istruzione il Tribunale di Roma, con sentenza del 29 luglio 1997, dichiarò l'improcedibilità del giudizio nei modi ordinari, perché destinato ad essere trattato col rito speciale di cui all'art. 52 L. F.

Tale pronunzia, a seguito di gravame del fallimento (il quale aveva sostenuto che i primi giudici avrebbero dovuto decidere sulla domanda principale e rimettere al tribunale fallimentare la cognizione in ordine alla riconvenzionale), fu confermata dalla Corte di appello di Roma con sentenza depositata il 6 marzo 2001. La Corte territoriale considerò che le due domande (principale e riconvenzionale), strettamente connesse, non potevano essere sottoposte all'esame di giudici diversi e che l'inderogabile competenza del giudice fallimentare sulla pretesa di condanna del fallimento, proposta dalla società convenuta, comportava necessariamente l'applicazione del rito speciale all'intera controversia, mentre l'art. 40 c. p. c., invocato dall'appellante, riguardava cause autonome che, per ragioni di connessione, potevano essere decise in un solo processo, laddove nella specie la causa era soltanto una.

Avverso la suddetta sentenza - che non risulta notificata - il fallimento De Paola & Scotti di De Paola Luigi s. n. c., in persona del curatore, ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, illustrato con due memorie.

LUMA s.a.s. di Giovanni Marras (già Luma s.n.c. di Marras G. ed A.), in persona dell'amministratore unico, ha resistito con controricorso e, in via incidentale e "gradata", ha spiegato ricorso incidentale avverso la decisione della Corte territoriale, "nella parte in cui i giudici di merito hanno omesso di statuire in ordine alla richiesta risarcitoria formulata dalla resistente Luma in danno del fallimento ricorrente in merito ai denunziati vizi e difetti dell'opera per violazione e falsa applicazione delle norme di legge relative alla valutazione della prova acquisita ai processo" (controricorso, pag. 4).

La prima sezione civile di questa Corte, cui la causa era stata assegnata, con ordinanza n. 10294 del 2003 ha osservato che sulla questione posta dal fallimento ricorrente (secondo cui la regola del simultaneus processus, e quindi della translatio delle due cause inscindibilmente connesse dinanzi al giudice munito di competenza inderogabile in ordine ad una di esse, non troverebbe applicazione qualora vi sia conflitto tra due competenze del pari inderogabili, dovendo le due cause in tali ipotesi essere necessariamente separate) si era registrato per lungo tempo un orientamento costante di questa Corte. Infatti, si era affermato che "qualora nel giudizio promosso dal curatore fallimentare per il recupero di un credito contrattuale del fallito il convenuto, invocando contrapposte ragioni derivanti dal medesimo contratto, proponga domanda riconvenzionale diretta all'accertamento di un proprio credito nei confronti del fallimento, ai fini del concorso fallimentare entrambe le pretese, inscindibilmente devolute alla cognizione di un unico giudice (art. 36 c. p. c.), vanno trasferite, su iniziativa spettante tanto all'una che all'altra parte, nella sede concorsuale del procedimento di accertamento e verificazione dello stato passivo, tenuto conto che solo in tale sede, secondo i principi fissati dall'art. 52 L. F., è ammissibile la costituzione di un titolo creditorio nei confronti della massa.

Se poi l'indicato procedimento si concluda evidenziando un saldo attivo in favore del fallimento, e quindi con il rigetto della domanda di ammissione al passivo contenuta in quella riconvenzionale, resta onere del curatore di agire in sede ordinaria per conseguire l'accertamento del relativo credito e la condanna della controparte al pagamento".

La menzionata ordinanza ha proseguito rilevando che dal suddetto consolidato orientamento si era consapevolmente discostata una pronunzia della stessa prima sezione civile di questa Corte (Cass., 10 gennaio 2003, n. 148), con l'affermazione del seguente principio di diritto: "Ove il debitore convenuto in un giudizio ordinario promosso dal curatore del fallimento creditore proponga domanda riconvenzionale per la quale opera il rito speciale dell'accertamento del passivo, l'intero processo non deve essere trasferito in sede fallimentare, ma il giudice adito dal curatore in via ordinaria deve trattenere e decidere la domanda principale, previa separazione dei giudizi, salva la sospensione per pregiudizialità".

Così individuati i termini del contrasto, e dopo avere illustrato le ragioni giuridiche prospettate a sostegno delle diverse tesi, l'ordinanza ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione della causa alle sezioni unite.

La causa, quindi, è stata assegnata alle sezioni unite civili di questa Corte ed è stata chiamata all'odierna udienza di discussione.


MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso principale e il ricorso incidentale, proposti contro la medesima sentenza, devono essere riuniti ai sensi dell'art. 335 c. p. c.

2. La resistente, nel controricorso, ha addotto l'inammissibilità del ricorso principale, perché con esso sarebbero state riproposte "le medesime argomentazioni formulate nel giudizio di primo grado e di appello, già esaminate e rigettate dai giudici di merito perché ritenute inammissibili .... e comunque fatte oggetto di numerose precedenti pronunzie da parte della ecc.ma Corte anche ed addirittura a sezioni unite" (controricorso, pag. 4).

L'assunto non ha fondamento, perché la trattazione nei gradi di merito delle medesime questioni e l'esistenza di precedenti in senso contrario alle tesi propugnate dal ricorrente non incidono sull'ammissibilità del ricorso per cassazione, i cui motivi sono diretti ad individuare (asseriti) errori di diritto o vizi logici della decisione impugnata, il che postula per l'appunto la verifica del percorso argomentativo seguito dalla decisione medesima.

Con l'unico mezzo di cassazione il fallimento ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 52 L. F., nonché dell'art. 36 c. p. c., e motivazione insufficiente, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 e 5, c. p. c.

La sentenza impugnata avrebbe dichiarato improcedibili sia la domanda riconvenzionale proposta da LUMA s.n.c. sia la domanda principale proposta dal medesimo fallimento, così adeguandosi alla tradizionale giurisprudenza di questa Corte, costante nell'affermare che, qualora contro la pretesa di un fallimento, che agisca per il recupero di un credito del fallito, sia formulata dal convenuto domanda riconvenzionale diretta all'accertamento nei confronti del fallimento di una contrapposta ragione creditoria derivante dal medesimo contratto, entrambe le pretese, ai fini del concorso fallimentare inscindibilmente devolute alla cognizione di un unico giudice, devono essere trasferite nella sede concorsuale di accertamento e verifica dello stato passivo, che è l'unica sede nella quale il legislatore ha consentito la costituzione di un credito nei confronti della massa.

Questo orientamento, tuttavia, meriterebbe una revisione.

Esso sarebbe fondato su due pilastri: da un lato, il principio dettato dall'art. 36 c. p. c., alla stregua del quale, quando il convenuto, nel resistere ad una domanda contro di lui avanzata, invocando opposte ragioni di credito derivanti dal medesimo rapporto obbligatorio proponga domanda riconvenzionale (in senso proprio), diretta non soltanto a paralizzare la domanda dell'attore ma anche ad ottenere una pronuncia di accertamento della sua opposta pretesa, entrambe le domande devono essere devolute alla cognizione di un unico giudice, sicché, quando la competenza a conoscere della riconvenzionale sia inderogabilmente devoluta ad un giudice diverso da quello adito dall'attore, entrambe le domande vanno portate dinanzi al giudice competente per la riconvenzionale stessa; dall'altro la regola secondo cui la pretesa, concretizzata nella domanda di pagamento di una certa somma nei confronti del fallimento, deve essere fatta valere soltanto nelle forme e nella sede previste per l'accertamento del passivo, perché il titolo creditorio giudiziale nei confronti del fallimento si può formare soltanto in quella sede.

In linea di principio, le azioni esercitate dalla curatela per realizzare i diritti di credito del fallito (non derivanti dal fallimento ma già presenti nel patrimonio del fallito stesso al momento dell'accertamento dello stato di crisi) non sarebbero sottratte alle ordinarie regole di competenza e dovrebbero svolgersi dinanzi al loro giudice naturale, cioè dinanzi al giudice la cui competenza è fissata dalle ordinarie regole del codice di procedura. E la fondatezza della regola concernente la necessaria concentrazione presso un unico organo giudiziario (il tribunale fallimentare) di tutte le azioni dirette a far valere diritti verso il fallimento ed a partecipare al concorso, con disciplina affidata ad un rito inderogabile e peculiare, non potrebbe essere messa in discussione, in quanto il sistema della legge fallimentare non consentirebbe opzioni diverse.

Pertanto la domanda riconvenzionale, proposta dal convenuto in un giudizio introdotto dal fallimento per far valere un credito del fallito, e mirante ad ottenere un titolo giudiziale verso il fallimento stesso, sarebbe certamente improcedibile.

Questa conclusione, però, non dovrebbe necessariamente comportare l'attrazione in sede fallimentare della pretesa fatta valere in via principale dalla curatela, come invece ritenuto dalla tradizionale giurisprudenza di questa Corte. Quell'attrazione, infatti, realizzerebbe un evidente "strappo" al sistema complessivo della legge fallimentare ed alle regole che lo governano e, al contempo, costituirebbe una deviazione dal principio di precostituzione del giudice.

Inoltre, la richiamata giurisprudenza disegnerebbe un percorso procedimentale, ai fini della prosecuzione del giudizio, in aperto contrasto con altri principi cardine della legge fallimentare.

Infatti, secondo l'insegnamento di queste sezioni unite (sentenza n. 3878 del 1979), la dichiarazione d'improcedibilità di entrambe le azioni - principale e riconvenzionale - dovrebbe comportare il trasferimento dell'una e dell'altra in sede fallimentare, nelle forme e nei modi dettati per l'accertamento del passivo. Si tratterebbe, in definitiva, di una sorta di "riassunzione" delle due cause inscindibilmente connesse dinanzi al giudice funzionalmente competente.

Secondo la citata sentenza del 1979 il trasferimento del processo potrebbe avvenire su iniziativa di entrambe le parti, e tale iniziativa potrebbe essere assunta anche dal curatore con ricorso al giudice delegato nella sede di cui all'art. 101 c.p.c. Ma detta operazione si porrebbe in contrasto sia con la regola secondo cui la curatela non è legittimata - salvo casi eccezionali (art. 102 L. F.) - a chiedere la modificazione dello stato passivo, sia con la regola generale secondo cui la curatela non avrebbe il potere di chiedere d'ufficio, o comunque di propria iniziativa, l'accoglimento o il rigetto di una domanda di ammissione al passivo.

Il ricorrente prosegue osservando che utili indicazioni per pervenire ad una soluzione più appagante del problema potrebbero trarsi dai principi affermati da questa Corte per i casi nei quali una domanda riconvenzionale sia proposta con opposizione a decreto ingiuntivo (casi in cui è stata affermata la necessità di separazione dei giudizi, considerando, da un lato, la competenza funzionale e inderogabile del giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo e, dall'altro, l'esigenza imprescindibile che il credito dedotto in riconvenzionale 40 dall'opponente sia vagliato in sede fallimentare).

Peraltro anche in altre fattispecie questa Corte avrebbe ritenuto che la competenza per connessione non opera in presenza di due diverse competenze per materia.

Pertanto la regola di cui all'art. 36 c. p. c. non si applicherebbe nei casi in cui vi sia conflitto tra due competenze del pari inderogabili. Inoltre, l'applicazione di tale regola in tutti i casi in cui sia proposta una domanda riconvenzionale finirebbe per attribuire al giudice fallimentare una competenza che non gli appartiene. Il rito fallimentare dovrebbe applicarsi in quanto la domanda azionata con quel rito sia proposta nei confronti di un fallimento ed al fine di ottenere la partecipazione al concorso. E, se è vero che il rito fallimentare è esclusivo, tale esclusività dovrebbe essere intesa sia come cognizione esclusiva in ordine a tutte le domande correlate all'accertamento del passivo, sia come impossibilità di adottare quel rito per conoscere di domande non funzionali a tale accertamento e alla costituzione di un titolo nei confronti della massa.

Elementi decisivi per una revisione dell'orientamento fissato con la sentenza n. 3878 del 1979 sarebbero desumibili dalla più recente giurisprudenza di questa Corte in ordine ai limiti di proponibilità delle domande riconvenzionali da parte della curatela, cioè da quella giurisprudenza formatasi in tema di riconvenzionale c.d. acquisitiva.

Richiamata tale giurisprudenza (Cass., 21 maggio 1979, n. 2910; 15 aprile 1995, n. 4300; 1 agosto 1996, n. 6936; 14 gennaio 1998, n. 255; 22 gennaio 1998, n. 559; 2 aprile 1999, n. 3151), il ricorrente afferma che da essa andrebbero tratti i seguenti principi: a) il procedimento di accertamento del credito, ai fini della sua ammissione al passivo fallimentare, è caratterizzato da una peculiare specialità del rito, essendo soggetto alle specifiche forme e cadenze di cui agli artt. 92 e ss. L. F.; b) tale rito è connotato da uno scopo tipico, costituito dalla verifica e dall'accertamento del passivo fallimentare; c) esso ha carattere esclusivo, nel senso che la partecipazione al concorso può essere accertata soltanto con quel procedimento; d) esclusività e specialità del rito sono poste in funzione dello scopo tipico assegnato al procedimento, nel duplice senso che lo scopo tipico può essere conseguito soltanto con quel rito e che esso è dettato soltanto in relazione allo scopo tipico di ottenere una pronuncia che accerti il diritto al concorso; e) il giudice fallimentare (giudice delegato o tribunale in sede di opposizione al passivo o d'insinuazione tardiva) non ha il potere di emettere pronunzie di condanna nei confronti di un terzo, perché queste sono estranee all'accertamento del passivo o del diritto al concorso.

Sulla base di tali principi non sarebbe possibile sottrarre alla sede naturale (il giudizio ordinario) le domande proposte dal fallimento per ottenere la condanna del terzo (debitore o coobbligato), sia perché esse non potrebbero essere trattate e decise con il rito speciale ed esclusivo dell'accertamento del passivo, sia perché il giudice fallimentare sarebbe carente del potere di decidere su tali domande.

Pertanto, mentre la domanda riconvenzionale diretta a fax valere un credito nei confronti della massa, e proposta nella sede ordinaria, andrebbe dichiarata inammissibile o improcedibile, la domanda proposta dal fallimento nei confronti del terzo, previa separazione delle due domande, dovrebbe essere trattata e decisa dal suo giudice naturale, adito dal fallimento.

La sentenza impugnata non si sarebbe attenuta ai suddetti principi e, quindi, andrebbe cassata.

4. Il mezzo di cassazione ora riassunto pone la questione sulla quale, a seguito della citata sentenza n. 148 del 2043, è insorto il contrasto che ha indotto la prima sezione civile di questa Corte a rimettere la questione medesima all'esame delle sezioni unite.

Come l'ordinanza di rimessione rileva, sul punto l'orientamento di questa Corte è rimasto a lungo fermo, consolidandosi sul principio che qualora, nel giudizio promosso dal curatore per il recupero di un credito contrattuale del fallito, il convenuto, invocando contrapposte ragioni derivanti dal medesimo contratto, proponga domanda riconvenzionale diretta all'accertamento di un proprio credito nei confronti del fallimento, ai fini del concorso fallimentare entrambe le pretese - inscindibilmente devolute alla cognizione di un unico giudice (art. 36 c. p. c.) - vanno trasferite, su iniziativa spettante all'una o all'altra parte, nella sede concorsuale del procedimento di accertamento e verificazione dello stato passivo, tenuto conto del fatto che soltanto in tale sede - secondo i principi fissati dall'art. 52 della legge fallimentare (d'ora in avanti L. F.) - è ammissibile la formazione di un titolo creditorio nei confronti della massa. Peraltro, se l'indicato procedimento si concluda ponendo in evidenza un saldo attivo nei confronti del fallito - e, quindi, col rigetto della domanda di ammissione al passivo contenuta in quella riconvenzionale - resta onere del curatore agire nella sede della cognizione ordinaria per conseguire l'accertamento del relativo credito e la condanna della controparte al pagamento (cfr., ex multis, Cass., 15 febbraio 1967, n. 374; 26 aprile 1977, n. 1568; 16 febbraio 1978, n. 723; 3 luglio 1979, n. 3730; Cass., sez. un., 6 luglio 1979 n. 3878; Cass., 17 febbraio 1982, n. 998; 21 febbraio 1983, n. 1302; 21 maggio 1984, n. 3113; 12 settembre 1984, n. 4791; 11 dicembre 1987, n. 9174; 13 giugno 1991, n. 6713; 9 ottobre 1992, n. 11021; 9 aprile 1997, n. 3068; 13 dicembre 1999, n. 13944; 16 giugno 2000, n. 8231; 26 luglio 2000, n. 9801; 14 dicembre 2000, n. 15779; 19 aprile 2002, n. 5725).

Tale indirizzo, che trova il suo principale punto di riferimento nella citata pronunzia delle S. U. n. 3878 del 1979, riflette l'esigenza - come nota l'ordinanza di rimessione - di contemperare i principi generali del processo civile con le regole del fallimento, al fine di conseguire (nel segno della concentrazione delle domande) una soluzione unitaria delle controversie, così realizzando il simultaneus processus.

Esso è affidato alle seguenti linee argomentative (v. sentenza da ultimo richiamata):

a) nell'ipotesi di unico rapporto contrattuale, in relazione al quale si deve pronunciare su una domanda principale e su una domanda riconvenzionale derivante dal titolo dedotto in giudizio dall'attore (art. 36 c. p. c.) allo scopo di ottenere una pronunzia opponibile in sede concorsuale, si tratta di stabilire se la domanda principale e la domanda riconvenzionale possano essere esaminate nella sede dell'ordinario giudizio di cognizione promosso dall'attore, oppure se entrambe (o, eventualmente, una di esse) debbano essere esaminate nella sede concorsuale;

b) in tali ipotesi non si può, in primo luogo, dubitare che, siccome la decisione della controversia dipende dall'esame di un unico rapporto contrattuale e dalla valutazione di pretese reciproche e tra loro intimamente connesse tutte derivanti da quel rapporto, l'intera causa debba essere in modo unitario attribuita alla cognizione di un unico giudice nell'ambito di un medesimo processo, come del resto l'art. 36 del c. p. c. dispone;

c) la sede processuale non può essere quella della cognizione ordinaria, perché la domanda della curatela viene ad essere inserita, in seguito alla proposizione della domanda riconvenzionale, in un contesto che sfugge a quella sede. Infatti, la pronunzia emessa dal giudice della cognizione ordinaria si tradurrebbe in una decisione suscettibile di costituire cosa giudicata nei confronti della curatela rendendo così possibile, in tema di accertamento del passivo fallimentare, la creazione di un titolo utilizzabile dal creditore in sede concorsuale ad opera di un giudice diverso da quello della verifica. In tal modo si realizzerebbe l'ipotesi, del tutto contraria ai principi del diritto concorsuale, di un titolo di partecipazione al concorso formatosi in contraddittorio col curatore ma nell'assenza degli altri creditore concorrenti, al di fuori del processo fallimentare, con conseguente elusione del precetto dettato dall'art. 52 L. F., alla stregua del quale chiunque voglia costituirsi un titolo siffatto durante il fallimento deve sottoporsi alla verifica del credito nelle forme prescritte dagli artt. 93 e ss. della detta legge;

d) va affermato, dunque, che quando al curatore, agente per il recupero del credito di un fallito, venga opposta una domanda riconvenzionale (diretta ad ottenere il pagamento di somma che si assume dovuta dal fallito) finalizzata alla partecipazione al concorso, tale domanda è materia di competenza del giudice investito della verifica del passivo fallimentare e deve essere esaminata - nel contesto unitario delle contrapposte pretese - da tale giudice, nella cui cognizione ricade l'intera materia controversa;

e) il credito preteso dal curatore in dipendenza del medesimo contratto (cui si ricollega anche la domanda riconvenzionale) non è materia di una causa autonoma perché, a differenza di quanto accade nel caso dell'eccezione di compensazione, non trae titolo da un distinto rapporto ed appartiene ad un tema unitario, sicché l'accertamento di quel credito altro non é che uno dei momenti della complessa indagine necessaria per l'esame della domanda di ammissione al passivo;

î) se tale indagine si conclude con l'accertamento di un saldo attivo a favore dell'attore in riconvenzionale, il giudice delegato dovrebbe emettere un provvedimento di ammissione del relativo credito al passivo, se invece l'indagine medesima pone in evidenza un saldo attivo a favore del fallito lo stesso giudice dovrebbe rigettare la domanda di ammissione, con l'eventualità dell'opposizione del creditore allo stato passivo oppure, in mancanza di opposizione, con l'onere del curatore di adire la sede ordinaria per ottenere l'accertamento del residuo credito del fallito e la conseguente condanna della controparte al pagamento;

g) qualora l'attore in riconvenzionale si astenga dal trasferire tale domanda nella sede concorsuale mediante istanza di ammissione al passivo del relativo credito, si deve escludere che la situazione processuale possa rischiare l'immobilità quanto al credito azionato dalla curatela. Vero è, infatti, che davanti al giudice delegato la posizione di parte attiva spetta per principio al creditore istante e che manca una norma espressa la quale preveda atti d'impulso processuale, in quella sede, da parte del curatore. Ma l'opportuno coordinamento del sistema speciale del processo concorsuale con quello generale del codice di rito consente di ritenere che anche il curatore possa riattivare il processo, essendo pacifico che la translatio iudicii presso il giudice dichiarato competente possa avvenire per iniziativa di entrambe le parti, sicché il detto curatore ben può assumere tale iniziativa con ricorso al giudice delegato (anche) nella sede di cui all'ari. 101 L. F., chiedendo che il detto giudice, esaminate le contrapposte pretese, rigetti quella dell'altra parte, disponga l'inizio della fase istruttoria e, all'esito di essa, rimetta la causa al Tribunale che deciderà su entrambe le pretese con ampiezza di poteri di cognizione e di decisione. In tal modo l'intera controversia viene ad essere devoluta alla cognizione del tribunale investito della procedura concorsuale, nel rispetto dei principi inderogabili della legge fallimentare ed in armonia con quelli posti dall'art. 36 c. p. c. in tema di domande riconvenzionali.

5. Dal costante indirizzo ora riassunto si è consapevolmente 19 discostata la sentenza 10 gennaio 2003, n. 148.

Il percorso argomentativo di tale pronunzia si articola sulle seguenti proposizioni:

a) La regola del simultaneus processus, posta dall'art. 36 c. p. c., si configura come disciplina del processo allorché sia in gioco, riguardo alla domanda riconvenzionale, una diversa competenza, che resta "modificata" con l'applicazione della regola suddetta, sottraendo la cognizione della domanda riconvenzionale al giudice che avrebbe dovuto conoscerne per ragioni di competenza per territorio derogabile;

b) alla norma dettata dall'art. 36 c. p. c. è estranea, nel senso che non vi riceve disciplina, l'ipotesi nella quale la domanda riconvenzionale sia soggetta ad un rito diverso rispetto a quello (per esempio, ordinario) in base al quale fu proposta la domanda principale;

c) nella fattispecie non trova applicazione il disposto dell'art. 40 c. p. c. (nel testo, attualmente in vigore, novellato dalla legge n. 353 del 1990), che a sua volta è nonna regolatrice della competenza (anche in relazione all'interferenza di un rito speciale con il rito ordinario) per i casi di connessione ed ha stabilito che:

1) prevale il rito ordinario su quello speciale (fatta eccezione per le cause rientranti tra quelle indicate negli artt. 409 e 442 c. p. c.);

2) la diversità di rito non ostacola il simultaneus processus nei casi di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c. p. c. (la norma, peraltro, sarebbe destinata ad operare in presenza di competenze derogabili e, qualora ad essa si volesse fare riferimento, se ne dovrebbe desumere l'esistenza di un impedimento all'attrazione di entrambe le cause nel rito speciale); d) neppure può essere utilmente invocato il disposto dell'art. 24 L. F. perché, nel caso esaminato dalla sentenza de u a, "non è in gioco una questione di competenza tra fori diversi (tutto risolvendosi in termini di eventuale vis attractiva all'interno del medesimo Tribunale di Roma)"; e) se è vero che, con riguardo alla domanda proposta contro la curatela, si pone non già una questione di competenza bensì di interferenza con il rito speciale dell'accertamento del passivo, cui la legge fallimentare sottopone la domanda riconvenzionale, il citato art. 35 c. p. c. non è destinato a trovare diretta e necessaria applicazione, sicché la dichiarazione d'improcedibilità della domanda (principale) della curatela richiederebbe un fondamento normativo diverso, che non è dato rinvenire; f) inoltre, il trasferimento dell'intera causa (alla sede fallimentare) non può avvenire attraverso il mezzo tecnico della riassunzione (art. 50 c. p. c.), che risulterebbe improprio rispetto al tenore della pronuncia del giudice adito (di improcedibilità-improponibilità delle domande) ed estraneo al sistema della procedura fallimentare;

g) pertanto il trasferimento si dovrebbe attuare mediante nuova proposizione della domanda davanti al giudice delegato e ciò potrebbe avvenire ad opera del presunto creditore ma non ad opera del curatore, non essendo utilizzabile il mezzo tecnico della translatio iudicii e non essendo conforme al sistema della legge fallimentare l'assegnazione al detto curatore di un ruolo attivo nel procedimento di verifica dei crediti di cui agli artt. 93 e ss. di quella legge;

h) in definitiva, il principio da applicare nella fattispecie è quello della separazione delle cause, restando quella principale instaurata dinanzi al giudice per essa competente, adito dal curatore, e ciò sulla base della considerazione che il principio del simultaneus processus non può derogare al rito fallimentare, né può (al di fuori dell'ipotesi dell'art. 36 c. p. c.) sottrarre la domanda principale al giudice per essa naturalmente competente, per devolverla al giudice fallimentare con travisamento della struttura logica del sistema concorsuale.

5.1. Dopo la sentenza n. 148 del 2003 (ora riassunta), anche la sentenza 23 aprile 2003, n. 6475 si è discostata dall'orientamento maggioritario sopra indicato.

Essa ha affermato, in primo luogo, che le questioni concernenti il giudice innanzi al quale deve essere introdotta una pretesa creditoria nei confronti di un debitore sottoposto a fallimento sono questioni attinenti al rito, ancorché formulate in modo improprio esclusivamente in termini di competenza. Ha quindi aggiunto che, stante il carattere prevalente di tali questioni di rito, qualora venga formulata una domanda diretta a far valere nelle forme del giudizio ordinario una pretesa soggetta a procedura concorsuale (anche tramite proposizione di una riconvenzionale), il giudice adito deve dichiarare l'inammissibilità o improponibilità della domanda stessa, in quanto proposta secondo un rito diverso da quello stabilito come necessario dalla legge che disciplina la procedura in questione e, pertanto, inidonea a consentire l'emanazione di una decisione di merito. Infatti, la proposizione dell'azione in una sede diversa da quella prevista come necessaria ed obbligatoria dalla legge sul concorso, e con un rito differente, non consente di raggiungere il risultato perseguito da chi ha proposto la domanda. L'inammissibilità di questa va pronunciata prima e indipendentemente dal rilievo dell'eventuale incompetenza, trattandosi di una exceptio litis ingressum impediens concettualmente distinta da un'eccezione d'incompetenza e preliminare rispetto a quest'ultima, con la conseguenza (tra l'altro) che la relativa questione non soggiace alla preclusione prevista dall'art. 38 c. p. c. (testo vigente) e può essere eccepita o rilevata d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio.

6. Il collegio non sottovaluta lo spessore dell'esigenza di concentrazione delle domande, in guisa da consentire una soluzione unitaria della controversia, di cui l'orientamento maggioritario fino ad oggi seguito è espressione. Ritiene, tuttavia, che tale orientamento debba essere riesaminato e modificato, sulla base delle considerazioni che seguono.

6.1. La questione - senza dubbio complessa e, come notato in dottrina, forse insuscettibile di una soluzione del tutto appagante - si traduce nell'individuare quali strade il processo debba seguire allorché, in una causa promossa dal curatore fallimentare nelle forme del processo ordinario di cognizione per ottenere il pagamento di un credito del fallito, sia proposta dal convenuto in bonis una domanda riconvenzionale diretta ad ottenere il pagamento di un credito verso il fallito, da far valere in sede concorsuale e derivante dallo stesso rapporto contrattuale già dedotto in causa dall'attore. La situazione, peraltro, non subisce modifiche sostanziali quando, in un processo promosso da soggetto in bonis per ottenere il pagamento di un proprio credito, il convenuto si costituisca e proponga domanda riconvenzionale per il pagamento di un credito nascente dal medesimo rapporto contrattuale e, a seguito del suo fallimento, il curatore si costituisca per coltivare la riconvenzionale stessa.

Orbene, é principio pacifico che non si può agire in ordinario giudizio di cognizione contro la curatela per il recupero di crediti vantati verso il fallito, in quanto - ai sensi dell'art. 52, comma secondo, della legge fallimentare - "ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal capo V, salvo diverse disposizioni della legge", vale a dire attraverso l'esclusivo procedimento stabilito dagli artt. 93 e ss. della stessa legge fallimentare. La ratio di tale carattere esclusivo si basa sul rilievo che la dichiarazione di fallimento apre il concorso di tutti i creditori sul patrimonio del fallito, sicché un creditore per poter partecipare al concorso deve sottoporre il suo credito a verifica attraverso l'ammissione al passivo, la quale consente anche il contraddittorio (almeno potenziale) degli altri creditori concorrenti sulla pretesa azionata.

Da tale normativa discende che la domanda diretta a far valere un credito nei confronti del fallimento, soggetta al rito dell'accertamento del passivo, é inammissibile se proposta nelle forme della cognizione ordinaria (o improcedibile se formulata prima della dichiarazione di fallimento e riassunta nei confronti del curatore). E la regola vale anche nel caso in cui la medesima domanda sia avanzata in via riconvenzionale, dalla parte convenuta nel giudizio instaurato da un soggetto quando era ancora in bonis (poi proseguito dal curatore dopo la dichiarazione del fallimento), oppure promosso ab initio dal curatore, per la realizzazione di un credito vantato dal fallito. Infatti, non si ravvisano ragioni per ritenere che tali ipotesi possano essere definite in modi differenti.

Il principio de quo non è posto in discussione dagli orientamenti sopra riassunti. Anzi la sentenza delle S. U. n. 3878 del 1979 muove proprio dalla premessa del carattere esclusivo del rito fallimentare per inferirne che, quando le contrapposte pretese delle parti traggono origine da un unico rapporto contrattuale, l'intero giudizio deve essere trasferito nella sede fallimentare e non in quella della cognizione ordinaria, non essendo conforme al diritto "l'ipotesi, del tutto contraria ai principi del diritto concorsuale, di un titolo di partecipazione al concorso formatosi in contraddittorio col curatore, ma nell'assenza degli altri creditori concorrenti, al di fuori del processo fallimentare", con conseguente elusione della norma dettata dall'art. 52 della legge fallimentare.

6.2. Fermo il punto che precede, si tratta ora di stabilire se il carattere esclusivo del procedimento ex artt. 93 e ss. L. F. per l'accertamento dei crediti verso il fallito comporti, nelle fattispecie sopra indicate, anche la necessaria translatio in quella sede della domanda proposta dal curatore per recuperare un credito del fallito (derivante dallo stesso rapporto contrattuale), tenendo presente che la relativa azione, essendo già compresa nel patrimonio del fallito, non rientra tra quelle derivanti dal fallimento e perciò non é soggetta all'ambito applicativo dell'art. 24 L. F. ma segue gli ordinari criteri di competenza (tra le più recenti: Cass., 15 aprile 2003, n. 5950; 21 marzo 2003, n. 4210; 5 luglio 2000, n. 8990; 15 febbraio 1999, n. 1240; 4 giugno 1998, n. 5477; 15 settembre 1997, n. 9156).

La risposta a tale quesito postula, in primo luogo, che si definisca la natura del procedimento di verifica e la possibilità di rendere operante, nei rapporti tra le due contrapposte domande, una questione di competenza, in particolare con riguardo alla fase sommaria dell'accertamento del passivo cui è soggetta la domanda di pagamento formulata nei confronti della curatela.

In effetti è presente nella giurisprudenza di questa Corte un orientamento che - nel quadro di un indirizzo volto ad estendere la portata applicativa dell'art. 24 L. F. - tende a considerare che l'esclusività del procedimento di verifica dei crediti involge un problema di competenza (cfr., tra le altre, Cass., 21 novembre 1998, n. 11787; 1° agosto 1997, n. 7136).

Esiste tuttavia anche un diverso orientamento alla stregua del quale l'art. 52, comma 2°, L. F., in relazione agli artt. 93 e ss. della stessa legge, non pone una questione relativa alla competenza (influenzata dalla vis attractiva del tribunale fallimentare) bensì una questione di specialità del rito, che comporta la dichiarazione d'inammissibilità/improponibilità o (secondo i casi) d'improcedibilità della pretesa creditoria azionata nei confronti di un debitore sottoposto a fallimento (o a liquidazione coatta amministrativa), dichiarazione che va emessa prima e indipendentemente dal rilievo di una eventuale incompetenza (Cass, 23 dicembre 2003, n. 19718; 23 aprile 2003, n. 6475; 10 gennaio 2003, n. 148, in motivazione; 9 settembre 2002, n. 13057; 13 giugno 2000, n. 8018; l'agosto 1997, n. 7154; 9 marzo 1996, n. 1893).

A questo secondo orientamento il collegio ritiene di dover aderire (non senza rilevare che la stessa sentenza delle S. U., n. 3878 del 1979, sembra condividere il principio che il sopravvenuto fallimento di una delle parti "creava un principio di rito più che di competenza e, più esattamente, determinava l'improcedibilità delle domande per la necessità della loro concentrazione presso il giudice investito della procedura concorsuale": sentenza, pag. 9).

Esso è conforme al dettato normativo e al sistema della legge fallimentare, diretto ad individuare - più che l'organo competente all'accertamento dei crediti - il procedimento stesso a tal fine destinato, per concentrare davanti all'organo identificato attraverso il procedimento le azioni rivolte a far valere diritti sul patrimonio del fallito e così assicurare, mediante un rito implicante la partecipazione e il contraddittorio di tutti i creditori, il rispetto dei principio della concorsualità.

Invero, il carattere peculiare della normativa fallimentare in materia di accertamento del passivo consiste proprio nel porre le regole di un particolare procedimento, quale strumento di cognizione attribuito ad un giudice la cui individuazione è disancorata dai criteri ordinari in materia di competenza. In effetti, un profilo di competenza è anche ravvisabile nella materia 21 de qua, se con esso si vuol fare riferimento all'individuazione del giudice delegato a trattare il procedimento di verifica del passivo. Ma l'attrazione in tale procedimento della domanda volta ad azionare un credito nei confronti della curatela dipende non da quella individuazione, bensì dalla necessità che - nella fase preliminare a carattere sommario - il credito de quo segua il meccanismo procedimentale di cui agli artt. 93 e ss. della L. F., cioè un rito del tutto peculiare e non derogabile.

Del resto, si deve rilevare che in molti casi un problema di competenza (intesa in senso proprio, cioè come misura del potere giurisdizionale attribuito a ciascun ufficio giudiziario nei confronti degli altri appartenenti allo stesso ordine, secondo i criteri stabiliti dalla legge) neppure si pone. Ciò avviene quando il tribunale in sede ordinaria sia anche quello del luogo in cui è stato dichiarato il fallimento, essendo irrilevante ai fini della competenza tra fori diversi la divisione del tribunale in sezioni, a meno che la legge non disponga la competenza funzionale di una sezione specializzata. In tali casi il rapporto tra giudizio ordinario di accertamento di un credito e procedimento di verifica concorsuale non può certo essere regolato sulla base di una questione di competenza che non è configurabile, bensì resta soltanto affidato alla questione di rito, comportante l'inammissibilità/l'improcedibilità della domanda proposta contro la curatela. Il relativo accertamento, però, per sua natura (collegata al carattere esclusivo e inderogabile del procedimento di verifica in sede fallimentare) va compiuto in via pregiudiziale, sicché, anche quando una questione di competenza in senso proprio si ponga (nel senso che il tribunale che ha dichiarato il fallimento sia diverso da quello davanti al quale la domanda del curatore é stata proposta secondo le regole di competenza ordinarie) , il suddetto accertamento acquista carattere assorbente, con la conseguenza che anche in tali ipotesi la domanda proposta nei confronti della curatela va dichiarata improcedibile.

6.3. Le considerazioni ora svolte consentono di ritenere raggiunto un primo approdo ermeneutico: il carattere esclusivo del rito speciale fallimentare implica l'inammissibilità/l'improcedibilità della sola domanda proposta nei confronti della curatela (soggetta a quel rito), ma non attrae in esso la domanda proposta dal curatore nelle forme della cognizione ordinaria in forza dell'art. 36 del codice di procedura civile.

Quest'ultima è norma sulla competenza, alla quale - come ben rileva la sentenza di questa Corte n. 148 del 2003 - è estranea l'ipotesi che la domanda riconvenzionale sia soggetta ad un rito diverso (ed esclusivo) rispetto a quello in base al quale é stata proposta la domanda principale. Ed alla stessa conclusione si dovrebbe giungere (almeno per quanto riguarda il rapporto tra giudizio di cognizione ordinaria e procedimento di verifica dei crediti davanti al giudice delegato) qualora si volesse richiamare l'art. 40 c. p. c. (nel testo novellato dall'art. 5 della legge 26 novembre 1990, n. 353), sia perché anche quest'ultima è norma diretta a regolare la competenza per connessione, sia perché - come si evince dal terzo comma di essa - nel concorso tra rito ordinario e rito speciale dovrebbe prevalere il rito ordinario (fatta eccezione per le cause rientranti tra quelle indicate negli artt. 409 e 442 c. p. c.), principio non applicabile quando per una delle cause connesse sia imposto un rito speciale esclusivo e peculiare come quello disciplinato dagli artt. 93 e ss. L. F. (salvo quanto si dirà più avanti nell'eventualità che siano instaurati giudizi di opposizione allo stato passivo o di ammissione tardiva ex art. 101 l. F. ).

Infine, neppure l'art. 24 L. F. assume rilievo per attrarre la domanda, proposta dal curatore con le forme della cognizione ordinaria, nel procedimento di cui agli artt. 93 e ss. L. F., perché il citato art. 24 definisce la competenza del tribunale che ha dichiarato il fallimento ed individua, quindi, il giudice delegato avanti al quale bisogna introdurre la domanda di ammissione al passivo col rito speciale del procedimento di verifica, ma non disciplina gli effetti e le implicazioni di tale procedimento.

Per concludere sul punto, resta confermato che il rapporto tra il giudizio ordinario e quello fallimentare (segnatamente, per quest'ultimo, con riguardo alla ineliminabile fase preliminare devoluta al giudice delegato) non è regolato dalle norme sulla 30 competenza, sicché queste non sono idonee a dare fondamento all'attrazione nel rito speciale (anche) della domanda proposta dalla curatela.

7. Si tratta quindi di accertare se tale attrazione possa trovare altro fondamento normativo. Ma al quesito così prospettato si deve dare risposta negativa.

Secondo l'orientamento qui non condiviso entrambe le domande (quella oggetto della domanda del curatore e quella proposta contro il fallimento), traendo titolo dallo stesso rapporto, dovrebbero essere esaminate in modo unitario, in quanto l'accertamento del primo credito "non è altro che uno dei momenti della complessa indagine necessaria per la domanda della controparte, di ammissione al passivo". Già questa proposizione, per la verità, non è persuasiva, perché il radicamento di entrambe le pretese su un unico rapporto può giustificare tra le due situazioni giuridiche una connessione ma non una inscindibilità tale da renderne necessario l'esame in unico contesto processuale.

D'altro canto è vero che l'ordinamento favorisce il principio del simultaneus processus, sia per economia dei giudizi sia per prevenire possibili contrasti di giudicati (v. in tal senso Corte cost., ord. 26 giugno 1991, n. 308, in motivazione), sicché l'esigenza espressa da quel principio va perseguita quando il sistema processuale lo consenta. E tuttavia, come la sentenza di questa Corte n. 148 del 2003 rileva, non si tratta di un principio di carattere assoluto, perché, come del resto la dottrina da tempo ha posto in luce, esso trova un limite sia nella presenza di diverse competenze esclusive sia nell'esistenza per alcuno degli oggetti connessi di un rito speciale non applicabile all'altro. L'orientamento suddetto, inoltre, non persuade neppure nella parte in cui indica gli strumenti attraverso i quali si dovrebbe realizzare la translatio dell'intera causa in sede fallimentare.

Si deve ribadire che, come sopra si è notato, il giudice, chiamato a pronunciare su domanda di pagamento proposta in sede ordinaria contro il curatore di un fallimento, non emette una declaratoria di incompetenza ma statuisce l'inammissibilità o l'improcedibilità della domanda. In questo quadro più volte si è affermato in giurisprudenza che la pronuncia d'improcedibilità in sede ordinaria, ancorché contenga una formale declaratoria d'incompetenza in favore del tribunale fallimentare, non integra nella sostanza una statuizione sulla competenza, sicché non è impugnabile con gli strumenti di cui agli artt. 42 e ss. c. p. c. (Cass., 13 giugno 2000, n. 8018; 1 ° agosto 1997, n. 7154; 25 marzo 1997, n. 2619; s. u., 3 ottobre 1996, n. 8635 [in tema di liquidazione coatta amministrativa]).

In fattispecie come quella in esame la declaratoria d'inammissibilità o improcedibilità dovrebbe comprendere anche la domanda proposta dal curatore per ottenere il pagamento di un credito del fallito. Ma, poiché tale pronuncia non attiene alla competenza bensì al rito, non è ipotizzabile una riassunzione della causa ai sensi dell'art. 50 del codice di procedura. In realtà entrambe le domande dovrebbero essere proposte ex novo in sede fallimentare e precisamente davanti al giudice delegato.

Orbene, il soggetto in bonis, che abbia azionato un suo preteso credito nei confronti della curatela del fallimento, può riproporre la domanda in sede fallimentare attraverso la domanda di ammissione al passivo (art. 93 L. F.), che produce gli effetti della domanda giudiziale (art. 94 L. F.). Mala tesi secondo cui anche il curatore potrebbe "riattivare" il processo, assumendo detta iniziativa con ricorso al giudice delegato (eventualmente) nella sede di cui all'art. 101 L. F. (che disciplina le dichiarazioni tardive di credito), non trova alcuna convincente base normativa.

Essa non é sostenibile ipotizzando un coordinamento tra il sistema speciale del processo concorsuale e quello generale del codice di rito. Proprio la specialità del sistema fallimentare pone un ostacolo insuperabile a quell'iniziativa, perché non attribuisce al curatore alcuna legittimazione in tal senso (fatta eccezione per la speciale fattispecie di cui all'art. 102 L. F., che qui non rileva) e devolve al giudice delegato la verifica del passivo ma non il potere di accertare crediti dell'imprenditore fallito (ed infatti la stessa sentenza n. 3878 del 1979 prospettava la possibilità che in sede fallimentare sorgesse l'onere per il curatore di adire di nuovo la sede ordinaria).

Peraltro, nella prospettiva dell'orientamento fin qui maggioritario il potere del curatore di riattivare il processo in sede fallimentare era giustificato col rilievo che "la translatio iudicii presso il giudice dichiarato competente può avvenire su iniziativa di entrambe le parti". Tale affermazione, però, rimanda ancora una volta alla riassunzione della causa davanti al giudice dichiarato competente, ai sensi dell'art. 50 c. p. c., norma non applicabile con riferimento alla questione in esame, appunto perché la pronuncia emessa in sede ordinaria non è d'incompetenza ma di inammissibilità//improcedibilità e il rapporto tra le due domande non si configura in termini di competenza bensì di specialità del rito.

Ne deriva che, se il soggetto in bonis si rivolge alla sede fallimentare proponendo domanda di ammissione al passivo, il curatore potrebbe opporre a tale domanda le ragioni di credito del fallito derivanti dal medesimo titolo al fine di ottenere il rigetto della domanda medesima e chiedere poi, qualora il creditore escluso dia corso al giudizio di opposizione ai sensi dell'art. 98 L. F., una pronunzia in quella sede sull'intero rapporto.

Ma se, dopo la dichiarazione d'improcedibilità nel giudizio di cognizione ordinaria, il soggetto che si assume creditore del fallito non adotta iniziative in sede fallimentare, il curatore del fallimento non dispone di alcun mezzo processuale per trasferire in detta sede la sua domanda, se non a patto d'introdurre una palese ed ingiustificata forzatura nel sistema della legge fallimentare. Basta questo rilievo per considerare non appagante l'orientamento qui criticato, non essendo praticabile una tesi che subordina la possibilità di agire in giudizio per la realizzazione di un diritto all'iniziativa dell'altra parte. E si deve anche aggiungere che, come osservato in dottrina, anche qualora un mezzo processuale esistesse, resterebbe sempre da spiegare in base a quale norma il curatore dovrebbe essere forzato a far valere soltanto in sede di verifica il credito del fallito.

8. Dalle argomentazioni fin qui esposte consegue che la domanda proposta dal curatore del fallimento in giudizio di cognizione ordinaria davanti al giudice competente, per ottenere il pagamento di un credito del fallito, non subisce l'attrazione alla sede fallimentare, ancorché il destinatario di quella domanda spieghi nello stesso processo una sua pretesa (nascente dallo stesso rapporto contrattuale) avente ad oggetto un credito verso il fallito da far valere in sede concorsuale. In questa fattispecie (e nelle altre ad essa assimilabili), mentre la domanda proposta nei confronti del fallimento postula necessariamente l'accertamento da compiere ai sensi degli artt. 93 e ss. L. F., sicché va dichiarata inammissibile o improcedibile in sede ordinaria, la domanda del curatore resta davanti al giudice ritualmente adito secondo le ordinarie regole di competenza (salvo quanto si dirà in prosieguo in ordine all'insorgenza di condizioni idonee a consentire, secondo lo sviluppo delle controversie, la gestione unitaria delle due domande).

Occorre ora farsi carico delle obiezioni che a tale soluzione sono state prospettate.

Dell'esigenza del simultaneus processus già si è detto e sul punto si tornerà di qui a poco.

Quanto al diritto del soggetto in bonis di opporre in compensazione (ai sensi dell'art. 56 L. F.) il proprio credito azionato mediante la riconvenzionale con il debito verso il fallimento, si deve osservare che, come la giurisprudenza ha posto in luce, l'eccezione di compensazione può essere validamente proposta nel giudizio di cognizione ordinaria promosso dalla curatela, non essendo soggetta alla procedura di accertamento del passivo in sede concorsuale (Cass., 3 settembre 1996, n. 8053; 6 marzo 1995, n. 2574; 13 maggio 1991, n. 5333; 21 febbraio 1983, n. 1302). Il presunto creditore del fallimento, dunque, non vede pregiudicato o eluso il proprio diritto, perché può paralizzare la domanda della curatela in via di eccezione, salva restando la necessità di adire la sede fallimentare per l'eventuale eccedenza del credito.

E' vero che questa soluzione può determinare un frazionamento del giudizio sulla sussistenza del credito, ma si tratta di una eventualità che non sembra eliminabile nel quadro del sistema sopra indicato; e, peraltro, anche l'orientamento espresso nella sentenza di questa Corte n. 3878 del 1979 postula che il curatore, ottenuto nel procedimento di verifica il rigetto della domanda di ammissione al passivo proposta dal creditore in bonis cui abbia utilmente opposto il (maggior) credito del fallito, in mancanza di opposizione allo stato passivo possa trovarsi nella necessità di adire (nuovamente) la sede ordinaria per l'accertamento del residuo credito del fallito e la conseguente condanna della controparte al pagamento.

Non convince, poi, la tesi (svolta nell'ordinanza di rimessione) secondo cui in realtà il curatore, nel riattivare il processo in sede fallimentare, opererebbe soltanto al fine di rimuovere l'ostacolo all'esercizio della propria pretesa nella sede ordinaria, attraverso una pronuncia pregiudiziale al suo accertamento, senza che il giudice delegato ecceda dal suo ruolo, in quanto egli dovrebbe valutare la domanda del curatore esclusivamente nei limiti giustificati dal giudizio di ammissione o di rigetto della domanda proposta dal creditore in bonis.

Richiamate le considerazioni sopra svolte, si deve qui ribadire che il vigente sistema processuale non prevede la possibilità per il curatore di trasferire la propria domanda in sede fallimentare, né, in caso d'inerzia del terzo, quella di far valere (attraverso una non consentita forma di sostituzione processuale, contraria al dettato dell'art. 81 c. p. c.) la domanda azionata in via riconvenzionale dal creditore.

9. Resta da chiarire se, e in quali limiti, l'esigenza del simultaneus processus possa essere recuperata dopo la separazione delle cause imposta dal rito speciale cui è soggetta la domanda di pagamento azionata contro la curatela. Senza pretese di completezza (perché le variabili della realtà processuale non possono formare oggetto di previsioni tassative) vanno formulate le seguenti considerazioni.

La questione, ovviamente, non si pone qualora, dopo la dichiarazione d'inammissibilità/improcedibilità della domanda di pagamento nei confronti della curatela emessa nel giudizio di cognizione ordinaria, il creditore in bonis non proponga domanda di ammissione al passivo nel fallimento. In tal caso resta soltanto la domanda del curatore diretta ad ottenere il pagamento del credito vantato dal fallito, domanda che dovrà formare oggetto di esame davanti al giudice competente nella relativa causa trattata con le forme della cognizione ordinaria.

Se invece il detto creditore proponga (o abbia già proposto in via cautelativa) domanda di ammissione al passivo, si può realizzare la contemporanea presenza di due controversie, la prima trattata in sede di cognizione ordinaria e la seconda soggetta al rito speciale proprio della fase sommaria di accertamento del passivo. Tali controversie, però, non sono suscettibili di trattazione congiunta, 39 appunto per il già segnalato carattere esclusivo del rito speciale.

Peraltro la curatela potrà opporre il credito vantato dal fallito nel procedimento di verifica, ai fini della compensazione e quindi del rigetto della domanda di ammissione, sicché la causa in sede ordinaria dovrebbe proseguire soltanto per l'eventuale eccedenza.

Si deve escludere, comunque, che - fin quando dura la fase sommaria del procedimento di verifica - il rapporto tra i due procedimenti possa essere regolato dall'istituto della sospensione necessaria di cui all'art. 295 c. p. c., perché, come questa Corte ha più volte affermato, i provvedimenti che, in sede di verificazione dei crediti, sono adottati dal giudice delegato, anche quando non abbiano formato oggetto di opposizione, non acquistano efficacia di cosa giudicata sostanziale, ma spiegano soltanto effetti preclusivi nell'ambito della procedura fallimentare (Cass., 3 settembre 2003, n. 12823; 22 gennaio 1997, n. 664; 20 maggio 1994, n. 4984; 20 settembre 1993, n. 9622). Pertanto, il rischio di un conflitto tra giudicati - che costituisce la ragione fondante della sospensione necessaria - nella specie non è configurabile.

Se, invece, il creditore in bonis propone opposizione allo stato passivo oppure dichiarazione tardiva di credito si instaurano giudizi che, pur presentando talune caratteristiche particolari (in ordine alla proposizione delle domande, alla costituzione in giudizio, ai termini d'impugnazione), per il resto non si discostano in modo significativo dal modello della cognizione ordinaria (cfr. Cass., 14 dicembre 2000, n. 15779).

Ne deriva che, se il processo ordinario e quello di opposizione allo stato passivo o d'insinuazione tardiva pendono davanti allo stesso ufficio giudiziario, l'esame congiunto delle due cause sarà possibile ai sensi dell'art. 274 c. p. c., qualora sussistano le condizioni idonee a rendere applicabile tale norma.

Se invece le due cause pendono davanti a giudici diversi, caduto l'ostacolo derivante dall'esclusività del rito speciale fallimentare è possibile applicare i criteri generali in tema di connessione, se non si sono verificate preclusioni e sempre che il giudice davanti al quale il curatore ha proposto la sua domanda in sede ordinaria non sia investito della controversia per ragioni di competenza inderogabile, perché la translatio dovrebbe comunque aver luogo nella sede fallimentare. Infatti, il giudizio di opposizione o d'insinuazione tardiva costituiscono pur sempre momenti del processo di accertamento dei crediti demandato alla sede concorsuale.

Qualora questo risultato non si riveli possibile, andrà verificata la sussistenza dei requisiti per l'applicazione dell'art. 295 c. p. c., perché non si dubita che il giudizio di opposizione e d'insinuazione tardiva diano luogo ad un provvedimento terminale avente attitudine al giudicato sostanziale, mentre tra i detti giudizi e la causa promossa in sede ordinaria dal curatore un rapporto di pregiudizialità giuridica è ravvisabile, ove si consideri 40 che il credito e il controcredito, pur dando luogo a situazioni giuridiche distinte, sono però radicati su un unico rapporto, sicché l'accertamento dell'uno potrebbe implicare la negazione dell'altro.

Va precisato, comunque, che la sospensione dovrebbe riguardare la causa promossa in sede ordinaria, non potendosi sottrarre alla sede fallimentare l'accertamento del credito da far valere nel concorso dei creditori.

10. Conclusivamente, si devono affermare i seguenti principi di diritto:

"Qualora, nel giudizio promosso dal curatore per il recupero di un credito contrattuale del fallito, il convenuto proponga domanda riconvenzionale diretta all'accertamento di un proprio credito nei confronti del fallimento, derivante dal medesimo rapporto, la suddetta domanda per la quale opera il rito speciale ed esclusivo dell'accertamento del passivo ai sensi degli artt. 93 e ss. della legge fallimentare, deve essere dichiarata inammissibile o improcedibile nel giudizio di cognizione ordinaria, e va eventualmente proposta con domanda di ammissione al passivo su iniziativa del presunto creditore, mentre la domanda proposta dalla curatela resta davanti al giudice per essa competente, che pronunzierà al riguardo nelle forme della cognizione ordinaria.

Se, dopo l'esaurimento della fase sommaria della verifica, sia proposto dal creditore giudizio di opposizione allo stato passivo o per dichiarazione tardiva di credito ed anche la causa promossa dal curatore penda davanti allo stesso ufficio giudiziario, è possibile una trattazione unitaria delle due cause nel quadro dell'art. 274 c. p. c., ove ne ricorrano gli estremi; possibilità che sussiste anche quando le due cause siano pendenti davanti ad uffici giudiziari diversi, potendo trovare applicazione i criteri generali in tema di connessione, se non si siano verificate preclusioni e sempre che il giudice davanti al quale il curatore ha proposto la sua domanda non sia investito della controversia per ragioni di competenza inderogabile, in quanto la translatio dovrebbe comunque aver luogo nella sede fallimentare.

Qualora non si possa giungere a questo risultato, va verificata la sussistenza dei requisiti per l'applicazione dell'art. 295 c. p. c., fermo restando che la sospensione deve riguardare la causa promossa in sede ordinaria".

Il contrasto di giurisprudenza sopra posto in evidenza resta composto, dunque, nei termini ora indicati.

La sentenza impugnata - che, confermando la pronunzia del Tribunale, ha ritenuto applicabile il rito speciale ad entrambe le cause ritenendo quindi improcedibile anche la domanda della curatela - si rivela non conforme ai suddetti principi. Pertanto, in accoglimento del ricorso, essa deve essere cassata in parte qua e la causa va rinviata alla Corte di appello di Roma (in diversa composizione) che procederà a nuovo esame uniformandosi ai principi qui enunciati e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

11. Infine, passando all'esame del ricorso incidentale, si deve osservare che con esso la società LUMA chiede che questa Corte "voglia cassare parzialmente la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale fallimentare di Roma perché statuisca in ordine alla condanna del fallimento ricorrente al ristoro dei danni cagionati alla appaltante LUMA a causa dei vizi e difetti dell'opera commissionata e riscontrati nella fase di accertamento tecnico, ovvero statuisca la definitiva compensazione tra le posizioni creditorie rivendicate dal fallimento e la odierna concludente con ogni consequenziale pronunzia in ordine alle spese"(v. controricorso, pag. 7).

Tale ricorso incidentale è per una parte inammissibile in questa sede, per l'altra infondato.

E' inammissibile per la parte relativa all'eccepita compensazione, trattandosi di questione sulla quale la sentenza impugnata non ha pronunciato, evidentemente ritenendola assorbita dalla declaratoria d'improcedibilità adottata per entrambe le domande.

Pertanto la detta questione non può qui trovare ingresso, e resta affidata al giudice del rinvio (se in quella sede riproposta).

Il ricorso incidentale per il resto è infondato, perché esso postula il " trasferimento della domanda proposta contro il fallimento al Tribunale fallimentare, come se si trattasse di una questione di competenza e non di specialità del rito, per di più eludendo la necessaria fase di verifica davanti al giudice delegato. Ciò è in contrasto con le considerazioni svolte nell'esame del ricorso principale e con i principi di diritto sopra enunciati.


PER QUESTI MOTIVI

La Corte suprema di cassazione, pronunciando a sezioni unite, riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale, rigetta l'incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.