LA PRIVATIZZAZIONE DELL’INSOLVENZA:

INQUADRAMENTO GIURIDICO DELLE OPERAZIONI DI RISTRUTTURAZIONI

 

di Pierluigi Oliva

Il codice di comportamento tra banche per affrontare i processi di ristrutturazione atti a superare le crisi di impresa fissa all’art.1, tra i principi generali , l’impegno a favorire una contrattualizzazione unitaria degli accordi interbancari e di adesione al piano.

Nel corso di questo intervento cercherò di evidenziare quale sia stata la scelta di fondo, operata nel codice di comportamento, che ha inteso, sia pur implicitamente, prender posizione in ordine alla natura giuridica degli accordi di ristrutturazione.
Il dato empirico dal quale occorre muovere è fissato nel fatto che l’accordo di ristrutturazione si pone come un accordo quadro tra più soggetti, di tipo normativo, cui seguiranno una serie più o meno ampia di contratti attuativi.

L’elemento caratterizzante il contratto quadro è dato dall’intervento di una pluralità di soggetti che si riconoscono in un piano industriale e di ristrutturazione che ha generalmente l’obiettivo di prevenire o rimuovere lo stato di insolvenza nel quale versano un certo numero di società di un gruppo in crisi, di riorganizzare il gruppo stesso, o al limite, di prefigurare uno scenario liquidatorio, ritenuto più soddisfacente di quello conseguibile con il ricorso alle consuete procedure concorsuali.

Parte della dottrina (Bonelli o Domenichini) ritiene che gli accordi in parola non possano essere tipicizzati in quanto l’alto numero delle variabili economiche e finanziarie costituirebbe un ostacolo insuperabile.
Ritengo questo un approccio non del tutto soddisfacente perché, se è vero che numerose sono le variabili presenti nei piani di ristrutturazione, è altresì vero che gli accordi di ristrutturazione, diversi quanto alle modalità attuative possono essere ricondotti ad unità, valorizzando gli elementi presenti in ogni tipo di accordo di ristrutturazione.
A mio modo di vedere manca soprattutto una valutazione globale di questi accordi in termini giuridici unitari tali da costituire un valido supporto ermeneutico per la valutazione delle singole clausole, e per porre nella giusta prospettiva gli atti che danno esecuzione al piano.

Nella ricostruzione in termini giuridici degli accordi di ristrutturazione intendo prendere le mosse dall’art. 825 del Codice di Commercio che disciplinava l’accordo amichevole, raggiunto tra una parte dei creditori ed il debitore durante la moratoria prefallimentare.

L’art. 825 c.c. prevedeva che l’accordo potesse validamente stipularsi con la sola maggioranza dei creditori che rappresentasse almeno il 75% del passivo, alla sola condizione che i creditori partecipi dell’accordo assumessero "insieme con il debitore le conseguenze di ogni lite coi dissenzienti e, ove necessario, l’intero pagamento dei loro crediti".

Era questa una procedura del tutto stragiudiziale, operante al di fuori di ogni omologazione, che si caratterizzava per la previsione di un "quorum" di adesioni dei creditori certamente significativa e per la completa tutela dei creditori dissenzienti cui veniva assicurato il totale soddisfacimento delle ragioni di credito.
E’ da considerare che il concordato amichevole, a differenza di quanto previsto dalle varie forme della cessio bonorum, non aveva un contenuto predeterminato e dunque, con salvezza dei diritti dei dissenzienti, poteva ricomprendere ogni tipo di pattuizione volta a comporre il conflitto tra debitore e creditori partecipi dell’accordo.

Secondo E. Frascaroli Sante (voce Concordato Stragiudiziale in Digesto Commerciale, III To., 1988 pag. 283 e ss) allorché si debba prendere posizione circa la natura giuridica dei concordati stragiudiziali "attraverso i quali si realizza: il pagamento in percentuale a tutti i creditori, o di una percentuale in misura diversa per gruppi di creditori, ovvero adempienti per mezzo di remissioni, di dilazioni, di cessione di beni o di crediti" si rinvengono due tesi opposte ma coincidenti almeno sotto il profilo della loro astrattezza.
La tesi atomistica vuole che il concordato stragiudiziale si attui attraverso una serie di negozi autonomi ognuno caratterizzato dalla sua specifica causa "non coincidente con l’intento di evitare il fallimento, in quanto quest’ultimo costituirebbe solo un motivo del contratto".
La tesi unitaria per contro vede in ogni concordato stragiudiziale in buona sostanza un contratto plurilaterale caratterizzato dalla coincidenza dei vari interessi tendenti ad uno scopo comune.

In linea di principio non può escludersi che un imprenditore superi la situazione di crisi se non di vera e propria insolvenza mediante la conclusione di una serie di contratti autonomi da stipulare con ogni creditore, ciò tuttavia risulta infrequente ed improbabile in quanto ogni accordo sarebbe sottoposto all’alea di un possibile fallimento per opera di un creditore dissenziente.

La via del contratto unitario dunque è la via più semplice ed efficace.

Il dato di esperienza porta ad escludere che per casi a tutti noti: VARASI, TRIPOVICH, FERRUZZI, CAMELI (cfr. per una panoramica della casistica Franco Bonelli "Nuove esperienze nella soluzione stragiudiziale della crisi delle imprese" in Giur. Comm. 1997, I, 488 e ss) si sarebbero potuti raggiungere gli stessi obiettivi fissati nel piano mediante una serie infinita di contratti tra la debitrice ed i singoli creditori.

Debbo quindi dissentire da quanti (cfr. Domenichini "Convenzioni bancarie ed effetti sullo stato d’insolvenza" in Il Fallimento 1996 pag. 840 e ss) facendo leva sul fatto che nel nostro ordinamento mancherebbero procedure di riorganizzazione dell’impresa in crisi, che, a loro dire, dovrebbe comunque svolgersi sotto il controllo dell’autorità giudiziaria, ricostruiscono il fenomeno degli accordi stragiudiziali di ristrutturazione come "fasci" di negozi bilaterali tra debitore e ciascun creditore. E’ arbitrario assumere che per accordi della specie ad aversi un contratto plurilaterale occorrerebbe l’adesione di tutti i creditori o l’accordo di una maggioranza qualificata ed il vaglio dell’autorità giudiziaria per imporre l’accordo ai dissenzienti. Questo schema, con gli opportuni adattamenti, può ovviamente costituire la base di una procedura di riorganizzazione legificata. Tuttavia, pur in mancanza di procedure giudiziali di riorganizzazione è possibile, così come già prevedeva l’art. 825 del Codice di Commercio, un accordo di riorganizzazione purché congiuntamente voluto da un "quorum" significativo di creditori che, al limite, siano disponibili a consentire un pagamento preferenziale dei creditori dissenzienti, destinando a tal fine parte della "nuova finanza".

Gli accordi di ristrutturazione dunque devono, a mio avviso, essere qualificati, nella maggior parte dei casi, quali contratti plurilaterali.

I contratti plurilaterali vengono configurati da parte della dottrina, come quei contratti caratterizzati non solo dalla pluralità dei contraenti ma soprattutto dal fatto che gli stessi tendono, attraverso un programma comune, a perseguire uno scopo comune.

Ci pare riduttivo ricondurre, come fa parte della dottrina, i contratti plurilaterali nell’ambito dei soli contratti associativi.
In realtà i contratti plurilaterali, caratterizzati da uno scopo comune ai contraenti, possono perseguire (art. 1322 c.c.) qualsiasi scopo meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Il mio assunto è che gli accordi di ristrutturazione siano dei contratti di programma volti a perseguire la realizzazione del piano attraverso il contributo di tutti gli aderenti che si traduce poi in una serie di contratti attuativi tra società e singoli creditori.

Configurare gli accordi di ristrutturazione quali contratti plurilaterali non solo consente di richiamare le disposizioni codicistiche (art. 1420, 1446, 1449 e 1466 c.c.) dettate per questo tipo di contratti ma offre una prospettiva che consente di ricostruire il fenomeno in modo più adeguato alla realtà, che è una realtà di cooperazione fra più soggetti in cui gli interessi egoistici dei singoli sono mediati dall’interesse comune e ciò pur non dando luogo, salvo casi particolari, si pensi all’ingresso delle banche nel capitale della società debitrice o della NEW CO che ne prosegua l’attività, alla creazione di un ente collettivo.

Le singole prestazioni, funzionali all’attuazione del piano: concessioni di nuove garanzie, concessioni di crediti, remissione di debiti, le più diverse forme di coobbligazione, in un certo senso pur non perdendo i loro caratteri tipici assumono una diversa coloritura proprio perché inseriti nell’ambito del piano e valutabili solo nel contesto.

Secondo Frascaroli Sante (op. cit.) "anche nel concordato stragiudiziale tutte le parti vogliono la stessa cosa, ma ciascuna in quanto la vogliono anche le altre ...... nel concordato stragiudiziale si approda ad uno schema del tipo "facio vel do dum facies vel des’’, che rappresenta uno schema di condizionalità reciproca delle volontà confluenti.

E’ dunque opportuno che in sede di formalizzazione, proprio per sottolineare la unitarietà e la condivisione del progetto di ristrutturazione, si eviti di disciplinare i rapporti tra banche in una convenzione ad hoc per poi disciplinare gli accordi tra le banche e l’impresa in crisi in altro strumento contrattuale, cosi’ quasi configurando un contratto bilaterale e sinallagmatico che vede da una parte l’imprenditore e dall’altra una parte complessa costituita dalle banche aderenti.

Configurare gli accordi che qui ci occupano quali contratti plurilaterali consente poi di individuare con chiarezza la normativa che regola l’invalidità della partecipazione del singolo contraente.
E’ a tutti noto l’importanza che quanti operano nel settore attribuiscono alla fissazione del "quorum" già elemento costitutivo del concordato amichevole previsto dall’art. 825 cod. com. Per raggiungere gli obiettivi del piano è necessario, prima di tutto da un punto di vista economico, al fine di ripartire i rischi, i costi ed i sacrifici, che allo stesso aderiscano un numero significativo di soggetti portatori di crediti.

Sotto questo profilo il codice di comportamento contiene, molto opportunamente, delle previsioni volte a facilitare il raggiungimento dei quorum. Così ad esempio è previsto che un creditore bancario minore possa cedere il proprio credito o possa farlo gestire da altra banca o soggetto più interessato al raggiungimento degli obbiettivi del piano e che dunque può investire di più in termini di tempo e risorse.

Il raggiungimento del "quorum" ha una duplice valenza. Generalmente viene percepito, soprattutto nella prospettiva del contratto aperto, quale avveramento di una condizione sospensiva dell'efficacia delle adesioni via via formalizzate dai creditori partecipi del piano. Nella prospettiva da cui muoviamo e cioè quella del contratto plurilaterale a scopo comune il raggiungimento del "quorum" ha una valenza più significativa in quanto il "quorum" è elemento strutturale dell’accordo stesso. Non mi risulta che esista giurisprudenza sul "quid iuris" nel caso in cui venga successivamente annullata o dichiarata nulla o inefficace l’adesione di un creditore e che conseguenze possa avere sull’accordo di ristrutturazione il venir meno del "quorum". Pare improbabile che sulla base di una valutazione a priori, non del tutto meditata nelle sue conseguenze, possa esser travolto l’accordo quadro quando ad esempio gran parte delle banche si siano esposte con l’erogazione di nuova finanza.

E’ dunque estremamente proficuo, per tali deprecate ipotesi, l’approccio del contratto plurilaterale che consente, nel caso del venir meno di uno dei partecipanti all’accordo valutare in concreto ed in quel momento se la partecipazione, venuta meno, debba considerarsi essenziale (cfr. art. 1420 c.c.). Non sono infrequenti i casi in cui partecipi dell’accordo di ristrutturazione siano anche i fornitori dell’impresa in crisi.

In casi del genere quali sarebbero le conseguenze del sopraggiunto fallimento del fornitore aderente al piano di ristrutturazione?

Ipotizziamo che il fornitore abbia effettuato delle remissioni di parte del proprio credito pregresso, abbia consentito ad una moratoria ed ad un riscadenzamento del residuo credito assicurando, su determinate basi, la prosecuzione delle forniture.

Il fallimento di questo fornitore (la situazione non sarebbe diversa in caso di liquidazione coatta amministrativa di una delle banche aderenti al piano di risanamento) comporterebbe la necessità di valutare gli atti posti in essere per assoggettarli eventualmente alle varie ipotesi di revocatoria fallimentare e, in caso di revoca degli atti posti in essere in esecuzione del piano, esaminare quali sarebbero le conseguenze per l’accordo di ristrutturazione.
Quanto alle conseguenze del fallimento del creditore aderente al piano di risanamento occorrerà valutare non solo i singoli atti posti già in essere in esecuzione del piano di risanamento ma lo stesso contratto stipulato con gli altri creditori ed il comune debitore.

Sarebbe ad esempio del tutto infondato valutare la singola remissione parziale del debito, operata dall’imprenditore poi fallito, in esecuzione del piano senza tener conto che tale remissione non costituisce certamente un atto a titolo gratuito né può essere isolato dalle remissioni poste in essere dagli altri creditori. L’imprenditore qui preso in considerazione rinuncia infatti ad una parte del proprio credito, in parallelo alle rinunce operanti dagli altri creditori aderenti al piano, tutte le rinunce tendono ad uno stesso scopo: conseguire i risultati del piano e dunque, nella maggior parte dei casi, conseguire un recupero più soddisfacente rispetto a quello ipotizzabile con il ricorso alle procedure concorsuali liquidatorie.

A mio modo di vedere dunque il curatore fallimentare dovrebbe in primo luogo valutare l’adesione al piano configurando tale adesione quale atto a titolo oneroso, revocabile ex art. 67 II comma L.F. nell’anno ove sia provata la conoscenza dello stato di insolvenza.

Nel caso in cui l’adesione al piano risultasse sottratta alla revocatoria in quanto avvenuta al di fuori del periodo sospetto ben potrebbero risultare assoggettati a revocatoria i singoli atti posti in essere nel periodo sospetto in attuazione ed esecuzione del piano stesso. Tuttavia la valutazione di questi atti ad esempio al fine di accertare la gratuità o l’onerosità non potrebbe prescindere da un raccordo degli stessi al piano nel suo insieme. Più chiaramente: la rinuncia agli interessi, approvata congiuntamente da tutti i creditori aderenti al piano e finalizzata al buon successo dello stesso, non potrebbe essere considerata come atto a titolo gratuito risultando le varie rinunce tra loro coordinate al perseguimento dello scopo comune e dunque in rapporto di reciproco sinallagma.

La remissione infatti, nel contesto di un piano di risanamento, non può essere ricostruita strutturalmente quale atto unilaterale ricettizio (configurazione tipizzata dall’art. 1236 c.c. ma derogabile quanto al profilo strutturale cfr. Cass 14.3.95 n. 2921 in Il Corriere Giuridico 3/96) avente una funzione gratuita in quanto tale rinunzia è condizionata alle analoghe rinunce ad opera dei creditori aderenti al piano di ristrutturazione, è finalizzata a favorire il piano di risanamento e dunque, in ultima analisi, ad accrescere le prospettive di recupero dei crediti non rinunciati.

Correttamente dunque una curatela non potrebbe, adottando una visione atomistica in relazione ai singoli atti posti in essere in attuazione di un piano di ristrutturazione, qualificare come atto a titolo gratuito e dunque ex art. 64 L.F. invocare l’inefficacia di diritto per le rinunzie (parziali) operate dal credito partecipe del piano, poi fallito senza tener conto del piano nel suo complesso e dunque dei vantaggi economici conseguiti anche mediante le rinunce parziali.
In altri termini occorrerebbe valutare complessivamente vantaggi e svantaggi conseguibili dal piano.

Ove per ipotesi venisse revocata l’adesione al piano, ricorrendone i presupposti di cui all’art. 67, II comma e quand’anche il venir meno dell’adesione al piano di questo creditore venisse ad intaccare il "quorum" non per questo verrebbe automaticamente a cadere l’accordo di ristrutturazione.

Non tanto e non solo perché i restanti soggetti partecipi dell’accordo potrebbero procedere ad una rinegoziazione dell’accordo stesso sulla base di un "quorum" ridotto ma soprattutto perché in base all’art.1420 e 1446 c.c. occorrerebbe valutare come già detto in concreto e con riferimento temporale al momento in cui fosse venuta meno l’adesione al piano del creditore fallito, se la partecipazione di questi debba considerarsi essenziale. Sarebbe comunque opportuno che gli accordi di ristrutturazione (che normalmente vengono stilati senza una particolare consapevolezza giuridica circa la struttura del contratto che si pone, tant’è che spesso si individuano le parti come parti complesse (da una parte i debitori e dall’altra i creditori) quasi che si ponesse in essere un contratto a prestazioni corrispettive e non un contratto a scopo comune) prevedessero specificamente le ipotesi del venir meno dell'adesione di una delle parti demandando ad un terzo o più verosimilmente all’ADVISOR che ha predisposto il piano o ad un’entità organizzativa preposta al controllo dell’attuazione del piano (Comitato ristretto) una rapida e vincolante valutazione circa l’essenzialità della partecipazione venuta a mancare.

Il cenno fatto alle conseguenze dell’ipotetico fallimento di un creditore aderente ad un piano di risanamento è propedeutico per esaminare la prospettiva, ben più interessante, del fallimento dell’imprenditore in ristrutturazione quando il piano non abbia raggiunto gli obiettivi prefissi e sia dunque "fallito".
Occorre dire con chiarezza che quanti vedono con sfavore la privatizzazione dell’insolvenza e più in generale i concordati stragiudiziali ostentano quasi con compiacimento i gravi pericoli cui si espongono i protagonisti dei piani di risanamento in caso di insuccesso. Dietro tali atteggiamenti vi sono motivazioni profonde, non sempre trasparenti e, in alcuni casi, decisamente corporative.

E’ dunque necessario sgombrare il campo da una serie di gravi fraintendimenti e pregiudizi.

I piani di ristrutturazione rispondono, nel deserto legislativo in cui operiamo, ad una esigenza insopprimibile.
Il venir meno degli aiuti di Stato, l’inadeguatezza delle procedure concorsuali (salvi casi del tutto episodici da porre in relazione alla sensibilità di singoli magistrati), l’esigenza di salvare l’azienda più che l’imprenditore, non hanno oggi in Italia alternativa agli accordi di cui ci occupiamo.

E’ dunque del tutto riduttivo percepire tali tipo di accordi nella sola prospettiva egoistica del recupero dei crediti.

La Banca d’Italia nel dettare le istruzioni di Vigilanza (Cap. XVIII - Sez. V) distingue le partecipazioni acquisite per recupero crediti dalle partecipazioni in imprese in temporanea difficoltà finanziaria.
Le partecipazioni acquisite per recupero crediti possono riguardare anche solo una banca e danno luogo ad una mera datio in solutum.
Per contro, per le partecipazioni in imprese in temporanea difficoltà, è dettata una procedura che ha strettissima aderenza con la realtà empirica di ogni piano di risanamento.

Il primo luogo per la Banca d’Italia è strutturale ed indefettibile l’intervento di una pluralità di banche e "che queste rappresentino una quota elevata della esposizione nei confronti dell’impresa in difficoltà". Qualsiasi accordo tra un singolo imprenditore ed un singolo creditore è al di fuori del tema che qui ci occupa. La procedura normativizzata dalla Banca d’Italia prevede poi tra l’altro: la redazione di un piano di risanamento, finalizzato a conseguire l’equilibrio economico e finanziario nei cinque anni.
Il piano deve essere predisposto da più Banche. Deve essere individuata una banca capofila "con responsabilità di verificare la corretta esecuzione del piano ed il sostanziale conseguimento degli obiettivi intermedi e fissati dal piano".

A me pare evidente come le istruzioni della Banca d’Italia presuppongono come acquisita una valutazione del piano di risanamento nella prospettiva del contratto plurilaterale a scopo comune e non già nella logica atomistica del "fascio" di negozi bilaterali tra debitore e ciascun creditore.

Appare dunque singolare, in caso di fallimento del piano di ristrutturazione o di salvataggio, inforcare gli occhiali miopi del censore e prendere in considerazione non già il piano e le eventuali cause di fallimento del piano stesso ma solo, in una visione atomistica i singoli atti esecutivi del piano per revocare i pagamenti fatti e le garanzie acquisite, per indagare profili di illiceità penale e le varie fattispecie di bancarotta senza tener nella benché minima considerazione i sacrifici affrontati da un numero cospicuo di creditori, mediante rinunce, conversioni di crediti in capitale di rischio (il che vuol dire sostanziale postergazione rispetto a tutti gli altri creditori) erogazione di nuova finanza il più delle volte utilizzata anche per pagare i creditori dissenzienti.

Quanto ai profili penali: se il piano era un vero piano di salvataggio nessuna conseguenza dovrebbe essere ipotizzata a carico dei creditori venendo meno l’elemento soggettivo del reato. Al più una indagine attenta sul perché il piano non abbia raggiunto i suoi scopi potrà in alcuni casi mettere in evidenza responsabilità riconducibili al debitore, al suo management, talvolta all’advisor per avere celato almeno in parte la reale situazione.

Quanto ai creditori assenzienti i loro comportamenti potranno essere valutati solo in relazione a ciò che conoscevano circa la reale situazione del debitore tenendo presente che, fino a prova contraria, gli stessi operavano nel motivato convincimento di rimuovere o prevenire lo stato di insolvenza.
Il giudice civile o penale non potrà prescindere, avvalendosi dei consulenti, dal valutare in concreto le cause di fallimento del piano e se queste fossero ed in quale misura prevedibili.

Al di là delle condotte materiali e dei singoli atti posti in essere in esecuzione del piano, ogni valutazione su elementi psicologici e soggettivi non potrà prescindere dalle valutazioni del piano e di come lo stesso piano venisse percepito.

Venendo al terreno per noi più consueto delle revocatorie fallimentari ritengo che anche il questo caso il Tribunale fallimentare quando dovesse prendere in considerazione la conoscenza dello stato di insolvenza del creditore, sia esso stato o meno partecipe del piano di risanamento, non potrebbe prescindere da una valutazione tecnica del piano e delle cause che ne hanno compromesso la riuscita.
Prendiamo in considerazione la posizione spesse volte stigmatizzata del creditore che sia rimasto estraneo al piano di risanamento e che abbia conseguito in forza della nuova finanza un pagamento a stralcio.

Per questo creditore dobbiamo presumere la scarsa rilevanza rispetto all’indebitamento globale in quanto lo stesso varo del piano è stato reso possibile dal raggiungimento di un "quorum" di creditori ritenuto adeguato.

Il pagamento conseguito non ha a mio avviso alcun profilo di illiceità e di preferenzialità. Il legislatore del codice di commercio (art. 825) come si ricorderà poneva tra le condizioni indefettibili del concordato amichevole che i creditori "assenzienti assumano col debitore le conseguenze di ogni lite coi dissenzienti, e, ove occorra, l’intero pagamento dei loro crediti".

Il pagamento dei creditori dissenzienti dunque è del tutto legittimo così come è legittimo per i creditori "assenzienti" fissare un "quorum" di adesioni così alto da rendere del tutto marginali questi esborsi.

Occorre riguadagnare la prospettiva in forza della quale la "par condicio" è regola statuale di composizioni dei conflitti tra più creditori di fronte ad una situazione di insolvenza del comune creditore ove tra i creditori non scaturisca un diverso regolamento del conflitto stesso.

Diversamente opinando diverrebbero illegittime le postergazioni dei crediti che talvolta si rendono necessarie per l’omologazione dei concordati preventivi ove intervenga poi una risoluzione o un annullamento del concordato.

Sotto il profilo strettamente revocatorio poi pare bene difficilmente ipotizzabile una conoscenza dello stato di insolvenza in capo al piccolo creditore estraneo al piano di risanamento che tuttavia questo piano veda attuato ad opera di creditori istituzionali certamente avveduti e comunque più informati.
Non sono particolarmente interessato alla sorte del pagamento conseguito dal creditore dissenziente ho, come Voi tutti esperienza di comportamenti irresponsabili tenuti da creditori istituzionali che "sfruttano" in certe situazioni la loro marginalità e tuttavia, salva l’eventualità di sanzioni "diffuse" tra appartenente ad uno stesso sistema, non ravviso profili di illiceità statuale. In tali comportamenti proprio perché l’esistenza del piano di risanamento ed il suo varo con il concorso di un "quorum" qualificato di creditori rimuove lo stato di insolvenza e la illiceità di pagamenti che in altra situazione risulterebbero preferenziali.

Per contro non mi pare coerente l’orientamento di quanti, facendo leva sul piano, tendono a proteggere i creditori assenzienti e dimenticano l’esistenza del piano di risanamento quando valutano i comportamenti dei creditori dissenzienti.

Ho preso le mosse dal creditore dissenziente per individuare una metodologia di approccio per valutare gli atti posti in essere dai creditori assenzienti e coprotagonisti del piano di risanamento.

Ancora una volta è centrale il piano di risanamento e gli atteggiamenti psicologici dei creditori nei confronti del piano.

Lo stato di insolvenza là dove vi sia il concorde interesse di un numero significativo di creditori motivato dalle prospettive più varie (risanamento, liquidazione in bonis) può essere rimosso.
Secondo un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il "pactum de non petendo" vale ad eliminare l’insolvenza ancorché non sottoscritto da tutti i creditori purché il piano di risanamento preveda, attraverso lo strumento della "nuova finanza" ed il proseguimento della attività imprenditoriale, risorse sufficienti a tacitare i creditori dissenzienti.

Ritengo dunque che il giudice fallimentare debba con molte umiltà farsi carico di valutare la conoscenza dello stato di insolvenza in relazione al piano nel suo insieme, ai singoli atti attuativi, ai motivi del mancato raggiungimento degli obiettivi prefissi; ed al momento in cui il singolo creditore, abbia avuto consapevolezza del profilarsi di un insuccesso del piano.

E’ invece da contrastare quella corrente di pensiero che, dimostrando totale disistima dell’autonomia privata e privilegiando l’intervento autoritativo, emette un aprioristico giudizio negativo su gli accordi di ristrutturazione quasi che proseguendo questa strada ci si voglia sottrarre al vaglio giudiziale. Ben vengano anche nel nostro ordinamento procedure efficaci di riorganizzazione aziendale ma deve essere chiaro che in mancanza di queste ciò che si è andato concretizzando non può costituire esercizio di attività pericolosa (2050 c.c.) né appare razionale un aprioristico atteggiamento di sfiducia circa l’autonomia privata.
E’ dunque opportuno che si diffonda il convincimento della liceità, degli accordi stragiudiziali di risanamento essendo già acquisita la loro rilevante utilità ed opportunità sociale.

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