Diritto Fallimentare

 

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IL DISCRIMEN TRA LA COMPETENZA DEL GIUDICE DEL LAVORO E QUELLA DEL GIUDICE FALLIMENTARE

Si riporta una recente sentenza del Tribunale di Vicenza in quanto in essa l’Organo giudicante esplicita, con chiarezza ed ampi richiami di legittimità, la ripartizione della competenza, con specifico riguardo alle controversie di lavoro, tra il Giudice del lavoro e quello fallimentare, nei cui confronti vige la vis actractiva di cui all’art. 24 L.F. Nei casi in cui il datore di lavoro sia sottoposto a procedura concorsuale, per le domande di accertamento e costitutive promosse dal lavoratore, quali ad esempio quelle volte alla dichiarazione di illegittimità o inefficacia del licenziamento ed alla relativa reintegrazione, non viene meno la competenza del Giudice del lavoro, mentre per le domande di pagamento di somme di danaro si verifica la vis attractiva del foro fallimentare (Cass. 19248/2007; Cass. 3129/2003; Cass. 7075/2002; Cass. 13580/1999; Cass. 8708/1999; Cass. 5567/1998; Cass. 4146/1997). Nel caso di liquidazione coatta amministrativa ovvero di amministrazione straordinaria, la temporanea carenza di giurisdizione del Giudice del lavoro e la conseguente improcedibilità della domanda per tutta la durata della fase di accertamento dello stato passivo dinnanzi ai competenti organi della procedura, ferma restando l'assoggettabilità del provvedimento attinente allo stato passivo ad opposizione o impugnazione davanti al Giudice fallimentare. Anche le domande di mero accertamento e costitutive, se destinate ad incidere sulla procedura concorsuale, rientrano nella competenza del giudice fallimentare. Il discrimen tra la competenza del Giudice del lavoro e quella del Giudice fallimentare può essere quindi così sintetizzato (cfr. Cass. 16443/18): nelle domande di competenza del giudice del lavoro rileva un interesse del lavoratore alla tutela della propria posizione all'interno dell'impresa, sia in funzione di una possibile ripresa dell'attività, sia per la coesistenza di diritti non patrimoniali e previdenziali, estranei alla realizzazione della par condicio (cfr. Cass. 19308/16; Cass. 2975/17; Cass. 24363/17); in quelle spettanti al giudice fallimentare, invece, rileva solo la strumentalità dell'accertamento di diritti patrimoniali alla partecipazione al concorso sul patrimonio del fallito.

Vai alla sentenza Tribunale di Vicenza n. 436 del 10/01/2019

Vai alla sentenza Cassazione Civile Sezione Lavoro n. 16443 del 21/06/2018


LA CASSAZIONE INDICA LE CARATTERISTICHE DELLO STATO DI INSOLVENZA AI FINI DELL'ART. 5 L.F.

Lo stato di insolvenza richiesto ai fini della pronunzia dichiarativa del fallimento dell'imprenditore non è escluso dalla circostanza che l'attivo superi il passivo e che non esistano conclamati inadempimenti esteriormente apprezzabili. In particolare, il significato oggettivo dell'insolvenza, che è quello rilevante agli effetti dell'art. 5 L.F., deriva da una valutazione circa le condizioni economiche necessarie - secondo un criterio di normalità - all'esercizio di attività economiche, si identifica con uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all'impresa e si esprime, secondo una tipicità desumibile dai dati dell'esperienza economica, nell'incapacità di produrre beni con margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze di impresa (prima fra tutte l'estinzione dei debiti), nonché nell'impossibilità di ricorrere al credito a condizioni normali, senza rovinose decurtazioni del patrimonio.

Vai all’ordinanza Cass. Civ., Sez. 6°, 07/12/2017 n. 29520


ALLE SEZIONI UNITE LA QUESTIONE SULLA PROPONIBILITA' DI UN'AZIONE REVOCATORIA NEI CONFRONTI DI UNA PROCEDURA FALLIMENTARE

Con provvedimento del 25/01/2018, la 1° Sezione Civile della Corte di Cassazione ha rimesso al Primo Presidente la valutazione se rimettere alle Sezioni Unite la questione, riconosciuta di "particolare importanza" ex art. 374 c.p.c., sulla proponibilità di un'azione revocatoria nei confronti di una Procedura Fallimentare

Vai a Corte di Cassazione, 1° Sezione Civile, 25/01/2018


LA PROCEDURA DI SOVRAINDEBITAMENTO

Con decreto del 13/12/2016, il Tribunale di Rovigo indica le linee guida  principali per la procedura di sovraindebitamento. Tale procedura viene riconosciuta applicabile anche a colui che abbia prestato garanzia a favore di terzi per consentire l’inizio di un’attività imprenditoriale a lui non riconducibile e che, per l’assenza di indici del futuro insuccesso di tale attività, consentono di escludere profili di negligenza nell’assunzione dell’obbligazione. Il chiaro dettato legislativo di cui all’art. 8 della L. n. 3/2012 non consente di derogare al limite di un anno per la moratoria nel pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca. Benché la legge n. 3/2012 non ponga alcun limite temporale alla durata del piano del consumatore, può validamente applicarsi il limite temporale quinquennale individuato dalla giurisprudenza con riferimento alla durata del piano di concordato preventivo, soluzione da interpretarsi con particolare rigore in considerazione della natura sostanzialmente coattiva del piano del consumatore, ove i creditori non possono votare ed esprime il proprio consenso o dissenso sulla proposta del debitore. Pur essendo il vaglio del giudice, in ordine alla convenienza del piano rispetto alla soluzione liquidatoria, rimesso alla fase di opposizione del creditore, appare opportuno che l’attestazione tenga presente la probabile riduzione dell’importo del valore di stima che solitamente si verifica nell’ambito delle procedure di espropriazione forzata individuale.

Vai al decreto 13/12/2016 Tribunale di Rovigo
Vai alla sentenza Cass. Civ., Sez. I, 01/02/2016 n. 1869
Vai al decreto 28/01/2016 Tribunale di Massa
Vai al decreto 16/05/2015 Tribunale di Milano
Vai all’avviso ai Creditori, Trib. Treviso, 20/05/15

 


NEL CONTRATTO DI LEASING, IN CASO DI FALLIMENTO DELL'UTILIZZATORE, IL CONCEDENTE NON PUO' ESSERE AMMESSO AL PASSIVO ANCHE PER I CANONI RESIDUI

La Cassazione, con Ordinanza 16/04/2015, ha ribadito il principio (già in Cass. n. 4862/10 e n. 15701/11) secondo cui il concedente, in caso di fallimento dell'utilizzatore e di opzione del curatore per lo scioglimento del vincolo contrattuale, non può richiedere subito, mediante l'insinuazione al passivo ed ex art.93 L.fall., anche il pagamento dei canoni residui che l'utilizzatore avrebbe dovuto corrispondere nell'ipotesi di normale svolgimento del rapporto di locazione finanziaria, in quanto con la cessazione dell'utilizzazione del bene viene meno l'esigibilità di tale credito, ma ha esclusivamente diritto alla restituzione immediata del bene ed un diritto di credito eventuale, da esercitarsi mediante successiva insinuazione al passivo, nei limiti in cui, venduto o altrimenti allocato a valori mercato il bene oggetto del contratto di leasing, dovesse verificarsi una differenza tra il credito vantato alla data del fallimento e la minor somma ricavata dalla allocazione del bene cui è tenuto il concedente stesso, secondo la nuova regolazione degli interessi fra le parti direttamente fissata dalla legge

Vai all'Ordinanza 16 aprile 2015 Cassazione Civile - G.R. Dott. Andrea Scaldaferri  


IL CURATORE FALLIMENTARE PUÒ AGIRE, SIA IN SEDE CIVILE CHE PENALE, ANCHE IN CASO DI SEMPLICE BANCAROTTA PREFERENZIALE

Con la sentenza n. 1641/2017, le Sezioni Unite hanno riconosciuto la legittimazione attiva del curatore fallimentare ad esperire, in danno dell’amministratore della società fallita, l’azione di responsabilità ex art. 146 L.F., in relazione agli artt. 2393 e 2394 cod. civ., a causa dei pagamenti preferenziali effettuati dallo stesso in violazione del principio della par condicio creditorum. Trattasi di una sentenza molto innovativa atteso che la Giurisprudenza sia di legittimità che di merito era orientata in senso diverso, sulla base della circostanza che il pagamento preferenziale compiuto dall’amministratore della società fallita in favore di un creditore della stessa, seppur in un contesto di dissesto, non arreca alcun danno al patrimonio sociale (che vede diminuire l’attivo nella stessa misura della diminuzione del passivo conseguente all’estinzione del debito) bensì, semmai, ai creditori. Pertanto, il curatore non veniva considerato legittimato ad esperire, in danno di chi ha eseguito il pagamento preferenziale, l’azione di responsabilità ex art. 146 Legge Fallimentare in relazione agli artt. 2393 e 2394 cod. civ. Secondo la precedente interpretazione, quindi, nel caso di pagamenti preferenziali eseguiti in violazione della par condicio creditorum, si determinerebbe -al limite- una mera contesa tra le posizioni soggettive individuali dei singoli creditori, ma non anche un pregiudizio per la massa creditoria considerata nel suo complesso, la quale manterrebbe la medesima consistenza anche in caso di pagamento preferenziale, qualunque sia il creditore beneficiato dal pagamento lesivo della par condicio tra quelli aventi diritto a partecipare al concorso. Le SS.UU. hanno invece precisato che il pagamento preferenziale in una situazione di dissesto può comportare una riduzione del patrimonio sociale in misura anche di molto superiore a quella che si determinerebbe nel rispetto del principio della par condicio creditorum. Infatti, il pagamento di un creditore in misura superiore a quella che otterrebbe in sede concorsuale comporta per la massa dei creditori una minore disponibilità patrimoniale cagionata dall’inosservanza degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale in funzione di garanzia dei creditori nella prospettiva della prevedibile procedura concorsuale. Pertanto, il pagamento preferenziale non è neutro dal punto di vista patrimoniale; arrecando piuttosto un danno al patrimonio sociale direttamente proporzionale alla falcidia che il credito pagato in violazione della par condicio creditorum avrebbe subito in seno alla procedura concorsuale. In conclusione, l’amministratore è responsabile ex art. 146 L.F. della differenza tra quanto corrisposto  al creditore prima della procedura concorsuale e quanto lo stesso avrebbe ricavato nell’ambito della procedura concorsuale stessa.

Vai alla sentenza Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, 23/01/2017 n. 1641


IL SOCIO ACCOMANDATARIO CHE ABBIA CONCESSO IPOTECA PER UN DEBITO DELLA SOCIETA’ RISPONDE INTEGRALMENTE DELL’OBBLIGAZIONE ANCHE A SEGUITO DI OMOLOGAZIONE DI CONCORDATO

Le S.U. chiariscono che la disposizione contenuta nell'art. 184 co. 2° L.F., che estende ai soci illimitatamente responsabili di società di persone l'efficacia remissoria del concordato preventivo, si riferisce ai debiti sociali; nel senso che il pagamento della percentuale concordataria ha effetto liberatorio anche nei loro confronti, senza con ciò determinare l'estensione della procedura al patrimonio dei soci, che resta estraneo ad essa (Cass. 11343/01; Cass. 7273/10). La Corte desume dalla norma in tema di “maggioranza per l’approvazione del concordato” (art. 177 L.F.) l’assunto, sia pure in riferimento al concordato preventivo con cessione dei beni, che ai creditori ipotecari deve essere assicurato il pagamento integrale dei loro crediti, indipendentemente dal grado dell'ipoteca e dalla conseguente possibilità concreta di trovare capienza sul ricavato del bene ipotecato (Cass. 3936/69).  Ritenuto, poi, a seguito di un complesso iter argomentativo, che l’art. 177 L.F., laddove specificatamente afferma l'obbligo di rinuncia al voto per i soli creditori che abbiano "prelazione sui beni del debitore", sia suscettibile di una interpretazione estensiva che porti a ricomprendere anche i crediti muniti di prelazione sui beni dei soci illimitatamente responsabili, la Corte ne fa discendere, quale corollario, che se il debito del socio illimitatamente responsabile è sostanzialmente il medesimo di quello della società non vi è ragione che l'ipoteca che il detto socio abbia prestato per un debito sociale, e che è al tempo stesso un debito proprio, non possa rientrare nella previsione dell'art. 177 L.F. co. 2°, applicabile ratione temporis, e ritenersi che l'espressione "prelazione sui beni del debitore" riguardi complessivamente sia i beni della società che quelli dei soci illimitatamente responsabili con la conseguenza che l'ipoteca prestata da questi ultimi riguardi ad un tempo il debito proprio e quello della società, per cui, come debito societario, dovrebbe comunque essere soddisfatto integralmente.
La Corte ha quindi fissato i seguenti principi:

§ il socio di società di persone che abbia prestato garanzia reale per la società non può considerarsi terzo rispetto ad essa con l’effetto che non trova -nel caso di specie- applicazione l'art. 184 co. 1° u.p. L.F. ancorché detta norma debba ritenersi astrattamente applicabile anche ai terzi datori di ipoteca;

§ l'estinzione del debito, da considerarsi come unico, per effetto del pagamento integrale ovvero del pagamento parziale in sede concordataria, porta comunque, in assenza di patto contrario, alla estinzione del debito sia in capo alla società che in capo al socio come del resto stabilito dall'art. 184 co. 2° L.F.;

§ essendo la garanzia ipotecaria comunque prestata per un debito della società per il quale tutti i soci sono coobbligati, ancorché il bene ipotecato sia di proprietà del solo socio che ha concesso l'ipoteca, il credito vada riconosciuto in sede concordataria con il privilegio ipotecario;

§ nel momento in cui il creditore della società munito di ipoteca prestata dal socio ha titolo per ottenere in sede concordataria il pagamento integrale del proprio credito, nei limiti ovviamente del valore del bene sul quale l'ipoteca insiste, viene meno ogni problema relativamente all'effetto esdebitatorio poiché quando il concordato è adempiuto tale effetto si realizza pienamente anche nei confronti del socio datore d'ipoteca e di riflesso anche nei confronti degli altri soci;

§ il credito garantito da ipoteca rilasciata dal socio va riconosciuto come credito ipotecario in sede concordataria ove va quindi soddisfatto in modo integrale nei limiti della capienza del bene ipotecato e, qualora ciò non avvenga, residua l'obbligazione in capo al socio salvo il successivo regresso di questo verso i coobligati;

§ benchè l’ultimo periodo dell’art.184 co. 1° L.F. sia astrattamente applicabile anche ai terzi datori di ipoteca, l’atto con cui il socio accomandatario rilascia garanzia ipotecaria per un debito della società deve essere qualificato quale atto di costituzione di garanzia per un’obbligazione propria, con la conseguenza che il creditore della società ha titolo per ottenere in sede concordataria il pagamento integrale del proprio credito nei limiti del valore del bene sul quale insiste l’ipoteca. 

Vai alla sentenza Cassazione S.U. 16/02/2015 n. 3022


LA CASSAZIONE AGGIORNA LA NOZIONE DI "RICAVO" DI CUI ALL'ART. 1 LETT. B, L.F.

Con la pronuncia n. 28667 del 27/12/2013, la Suprema Corte definisce con più precisione i requisiti previsti per la non fallibilità (art. 1 L.F. così come modificato dal D.Lgs. 12/09/2007 n. 1693) che, comportando una deroga alla disciplina generale che assoggetta gli imprenditori alle procedure concorsuali, devono essere inquadrati in modo particolarmente attento in considerazione della definizione dei “ricavi” ora fornita dal Giudice di legittimità. Come noto i criteri previsti dall’art. 1 L.F. debbano essere posseduti congiuntamente affinché operi l’esclusione dall’assoggettabilità alle procedure concorsuali. Viceversa, ove anche uno solo dei tre requisiti dimensionali non sia rispettato, l’area di fallibilità tornerà ad espandersi.
La questione controversa atteneva all’interpretazione del requisito di fallibilità sub lett. b) art. 1 L.F. (“aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila”): la Corte del merito aveva interpretato, attraverso un meccanismo estensivo–analogico, il termine “ricavo” non in senso tecnico (ricavi dalle vendite di merci), bensì in relazione al valore della produzione, così come descritta dall’art. 2425, lett. A), cod. civ. La Cassazione ha censurata la predetta interpretazione sottolineando che “il legislatore, nel riferirsi ai “ricavi”, non può che avere considerato gli stessi in senso tecnico … riferendosi ai “ricavi delle vendite e delle prestazioni” sub n. 1, ed altresì la ricomprensione della voce sub n. 5, “altri ricavi e proventi”, per l’assimilazione della seconda voce alla prima, trattandosi di componenti positive, quali ricavi accessori, dividendi, royalties, canoni attivi, sempre generati dall’attività d’impresa”; “la logica valutativa delle rimanenze e dei lavori in corso trova il suo fondamento nel rappresentare la corretta correlazione tra costi e ricavi, sì da non penalizzare economicamente l’esercizio in cui sono stati sostenuti i costi di acquisizione e/o produzione, a fronte di quelli in cui vengono realizzati i correlativi ricavi”.
In effetti, la ratio dell’introduzione di questo parametro (i “ricavi”) è correlata alla necessità di colpire le imprese che, pur essendo scarsamente patrimonializzate, hanno estesi rapporti commerciali ovvero impiegano molta forza lavoro: a tal fine, deve sottolinearsi che norma richiede che i ricavi lordi siano “realizzati”. Questa precisazione impone di riferirsi ai soli ricavi effettivamente conseguiti, rivolgendosi precipuamente al concetto di trasferimento o di cessione di beni a terzi mediante un contratto a prestazioni corrispettive in cui sorga, in capo all’impresa, un credito. Tale conclusione porta agevolmente a escludere le voci di cui all’art. 2425, lett. A), cod. civ. che non corrispondano in senso tecnico al concetto di “ricavi” come descritto; così come le sole voci da considerare sono quelle sub 1) e sub 5), che consentono di avere un panorama corretto ed oggettivo delle condizioni economiche dell’impresa.

Vai alla sentenza Cass. Civ., Sez. I, 27/12/2013 n. 28667


REVOCATORIA E CONTRATTO DI APERTURA DI CREDITO APPARENTE

Con la sentenza n. 22915/10 la Cassazione torna a esaminare la questione della revocabilità delle rimesse in conto scoperto durante il periodo c.d. "sospetto"; ma -questa volta- l'argomento è affrontato mettendo in discussione la stessa validità del rapporto -apertura di credito- che ne costituisce la base. Il Giudice di legittimità giunge alla conclusione del carattere solutorio delle rimesse in conto dall'analisi degli specifici avvenimenti e delle peculiarità che hanno caratterizzato gli avvenimenti susseguenti alla situazione di difficoltà economica maturatasi nell'impresa, poi fallita, ed alla revoca dei precedenti affidamenti da parte della banca, cui era inopinatamente seguita l'apertura di linee di credito corrispondenti all'importo di tre cambiali cedute alla banca stessa. Sulla scorta di queste ed altre peculiarità, ad avviso della sentenza, se viene concluso un contratto di apertura di credito senza che i successivi versamenti possano essere riutilizzati dal cliente, il contratto di apertura di credito è soltanto apparente, giacché in tal modo viene posta in essere un'attività negoziale, cui non corrisponde il regolamento di interessi tipico di detto contratto, bensì un diverso regolamento di interessi. Difatti, lo scopo -in tal caso- non è di mantenere una determinata somma, per un determinato periodo di tempo, a disposizione del cliente; ma di consentire alla banca di recuperare i crediti nei confronti del cliente stesso senza che i versamenti effettuati da questi, nei limiti dell'apertura di credito, possano essere ritenuti di natura solutoria e come tali fatti oggetto di azione revocatoria. Viene così a mancare la causa negoziale tipica che costituisce un elemento essenziale del contratto di apertura di credito -il tenere una somma di denaro a disposizione del cliente- e ciò impone di ritenere i versamenti solutori e non ripristinatori della provvista.

Vai alla sentenza Cassazione - Sez. I° civile - 11/11/2010 n. 22915


LA COMPENSAZIONE IN SEDE FALLIMENTARE

Se è vero che nessun problema si pone quando il debitore-creditore del fallito effettua la compensazione in sede di ammissione al passivo, insinuando il residuo credito, previa compensazione del suo debito verso il fallito; la questione dell'osservanza del rito speciale di accertamento del passivo si pone nel caso di eccezione di compensazione sollevata dal debitore-creditore del fallito nel giudizio ordinario instaurato o proseguito nei suoi confronti dal curatore, dovendosi stabilire se tale eccezione rientri nella cognizione del giudice adito in via ordinaria ovvero se debba necessariamente trasmigrare dinnanzi al giudice delegato. Nel caso di compensazione legale, è escluso che l'eccezione di compensazione debba essere necessariamente conosciuta e decisa nelle forme della verifica del passivo; mentre nel caso di compensazione legale è proprio la partecipazione al concorso che viene esclusa in radice, venendo il credito soddisfatto integralmente prima ed al di fuori del fallimento. Viceversa, nell'ipotesi di compensazione giudiziale, ormai ritenuta ammissibile anche in corso di procedura (purché il fatto genetico delle reciproche ragioni di credito sia anteriore al fallimento), l'orientamento prevalente giunge ad opposta conclusione, ritenendo che l'accertamento e la liquidazione del credito opposto in compensazione non possa che avvenire in sede di verifica: infatti, mentre nel caso di compensazione legale l'effetto estintivo si è già verificato nel momento in cui i due controcrediti sono divenuti coesistenti, sicché il debitore-creditore in bonis, eccependo la compensazione, deduce che il proprio credito si è estinto prima del fallimento, nella diversa ipotesi di compensazione giudiziale l'effetto estintivo si verifica nel momento in cui il giudice, con provvedimento costitutivo avente efficacia ex nunc, dichiara l'estinzione dei contrapposti debiti-crediti, previa liquidazione di quello opposto in compensazione. Di conseguenza, il convenuto-creditore, sollevando l'eccezione di compensazione, chiede la liquidazione di un credito ancora esistente dopo il fallimento e che perciò, come tutti i crediti concorsuali, deve necessariamente essere insinuato al passivo per essere accertato e liquidato. La compensazione giudiziale è ammessa dall'art. 1243 co. 2° c.c. soltanto se il giudice davanti al quale viene dedotta riconosce la facile e pronta liquidabilità del debito opposto in compensazione, con la conseguenza che, difettando tale condizione, il giudice dovrà disattendere la relativa eccezione ed il convenuto potrà soltanto far valere il credito in separata sede (così: Cass. 27/10/87 n. 7924). In particolare, la Cassazione -con la sentenza n. 13769/07- precisa che la compensazione giudiziale non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall'esito di un separato giudizio in corso, restando esclusa anche la possibilità di sospendere il processo avente ad oggetto la domanda principale in attesa della definizione del giudizio relativo al controcredito opposto in compensazione. Eppure, se il debitore-creditore del fallito non si fosse limitato a far valere il suo credito al solo fine di paralizzare la pretesa della curatela, ma avesse proposto una vera e propria domanda riconvenzionale, sarebbe stato possibile assicurare il rispetto del principio di esclusività del giudizio di verifica senza negargli la possibilità di giovarsi della compensazione pro concorrenti quantitate.  Difatti, come hanno chiarito le S.U. con sentenza 10/12/04 n. 23007, qualora nel giudizio promosso dal curatore per il recupero di un credito del fallito il convenuto proponga domanda riconvenzionale diretta all'accertamento di un proprio credito nei confronti del fallimento, la suddetta domanda, per la quale opera il rito speciale ed esclusivo dell'accertamento del passivo, deve essere dichiarata inammissibile od improcedibile nel giudizio di cognizione ordinaria e va eventualmente proposta con domanda di ammissione al passivo su iniziativa del presunto creditore; mentre la domanda proposta dalla curatela resta davanti al giudice per essa competente, che pronunzierà al riguardo nelle forme della cognizione ordinaria. Se, dopo l'esaurimento della fase sommaria della verifica dello stato passivo, sia proposto dal creditore giudizio di opposizione allo stato passivo o per dichiarazione tardiva di credito e anche la causa promossa dal curatore penda davanti allo stesso ufficio giudiziario, è possibile una trattazione unitaria delle due cause nel quadro dell'articolo 274 c.p.c., ove ne ricorrano gli estremi; possibilità che sussiste anche quando le due cause siano pendenti davanti a uffici giudiziari diversi, potendo trovare applicazione i criteri generali in tema di connessione, se non si siano verificate preclusioni e sempre che il giudice davanti al quale il curatore ha proposto la sua domanda non sia investito della controversia per ragioni di competenza inderogabile, in quanto la translatio iudicii dovrebbe comunque aver luogo in sede fallimentare. Qualora non si possa giungere a questo risultato, va verificata la sussistenza dei requisiti per l'applicazione dell'articolo 295 c.p.c., fermo restando che la sospensione necessaria deve riguardare la causa promossa in sede ordinaria.

Vai alla sentenza Cassazione, Sez. I, 12/06/2007 n. 13769


LA CORTE COSTITUZIONALE ACCERTA CHE LA INCAPACITA' PERSONALI DEL FALLITO CESSANO AL MOMENTO DELLA CHIUSURA DELLA PROCEDURA CONCORSUALE

Con la sentenza n. 39/2008, la Corte Costituzionale è intervenuta su uno dei tempi più complessi posti dalla riforma delle procedure concorsuali: quello della sorte delle incapacità personali per i soggetti falliti anteriormente all'entrata in vigore delle nuove norme. Secondo l'interpretazione originaria della Legge fallimentare del 1942, il fallimento produceva una riduzione permanente delle capacità del Fallito. Trattavasi di una sorta di capitis deminutio,  simile a quella tuttora prevista a carico di chi subisca determinate condanne penali, i cui effetti erano destinati a protrarsi, anche dopo la chiusura della procedura concorsuale, finché non fosse intervenuta la riabilitazione civile (quest'ultima sottoposta alla condizione che il Fallito avesse pagato interamente i crediti ammessi, ovvero avesse adempiuto al concordato, ovvero avesse dato prove effettive e costanti di buona condotta per un periodo di almeno 5 anni dalla chiusura del fallimento). Segnalatasi -nel tempo- una incompatibilità con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la riforma organica delle procedure concorsuali (D.Lgs. 9 gennaio 2005 n. 5 ) ha profondamente innovato la materia abrogando sia l'art. 50 L.F. (che prevedeva il pubblico registro dei falliti) sia le disposizioni relative alla riabilitazione civile e quelle ulteriori in materia di elettorato attivo. L'adeguamento dell'ordinamento nazionale agli obblighi assunti a livello internazionale con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo è proseguito -in materia di procedure concorsuali- con l'intervento correttivo di cui al D.Lgs. 12/09/07 n. 169; ma restava pur sempre ignorata la questione dei fallimenti dichiarati prima dell'entrata in vigore della riforma del 2005. A ciò ha posto finalmente rimedio il Giudice delle Leggi, stabilendo con chiarezza che le incapacità personali darivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento non possano perdurare oltre la chiusura della procedura concorsuale.

Vai alla sentenza Corte Costituzionale 25-27/02/2008 n. 39  

 


GLI EFFETTI DEL FALLIMENTO NELLA S.R.L.

L'applicabilità dell'art. 147 L.F., che consente l'estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili, è subordinata alla duplice condizione che il socio sia illimitatamente responsabile e che l'ente sia costituito nelle forme e con i caratteri della società con soci a responsabilità illimitata. In particolare, si riferisce esclusivamente alle società di persone, nelle quali la responsabilità illimitata del socio è conseguenza della natura del modello societario; e non è applicabile alle società di capitali, in cui la responsabilità illimitata rappresenta un'eventualità collegata all'assunzione da parte del socio, nel corso della vita sociale e con riferimento ad uno specifico periodo, di una responsabilità personale e solidale, in conseguenza della concentrazione nelle sue mani della totalità delle azioni o delle quote (artt. 2362 e 2497 c.c.), e quale riflesso del suo potere di determinare in via assoluta la volontà dell'ente.

Vai alla sentenza Cassazione Civile, Sez. I°, 14/04/2010 n. 8964


LE ISCRIZIONI DI FALLIMENTO AL CASELLARIO GIUDIZIALE DEVONO ESSERE ELIMINATE D'UFFICIO OVVERO SU ORDINE DEL GIUDICE

Con decreto del 31/05/07, il Tribunale di Roma ha dichiarato inammissibile la domanda di riabilitazione avanzata da un Fallito per abrogazione della normativa avvenuta con il D.Lgs. n. 5/2006. Ciò nondimeno, ha interpretato il ricorso come richiesta di ordine al Casellario giudiziale di cancellare le iscrizione relative al fallimento del ricorrente e -sotto tale profilo- ha accolto la domanda. Il Tribunale capitolino ricorda che il D.Lgs. n. 5/06 ha eliminato l'obbligo della cancelleria di inviare l'estratto della sentenza dichiarativa di fallimento al Casellario giudiziale ed ha abrogato le norme sulla riabilitazione del fallito. Poiché -tuttavia- nessuna disposizione di legge indica in quali casi l'iscrizione al Casellario giudiziale possa essere cancellata, se non si vuole affermare che la sentenza di fallimento ed il decreto di chiusura debbano rimanere per sempre iscritti, ovvero che debba persistere indefinitamente il relativo effetto, occorre ritenere, quale interpretazione costituzionalmente orientata, che tutte le iscrizioni pregresse debbano essere eliminate d'ufficio ovvero su ordine del Giudice, mentre le sentenze successive al 16 luglio 2006 non dovranno essere comunicate -e quindi non saranno iscritte- al Casellario Giudiziale.

Vai al decreto del Tribunale di Roma - Sez. Fallimentare del 31/05/2007

 


IL NUOVO CONCORDATO PREVENTIVO. PRIME APPLICAZIONI PRATICHE

TRIBUNALE DI MILANO - 07/11/2005 : La fattispecie riguarda il caso di un'attestazione resa, ai sensi del nuovo art. 160 L.F. , da un Professionista che non ha i requisiti previsti dall'art. 161 L.F. (che richiama i requisiti previsti dall'art. 28 L.F. per la nomina a curatore) in quanto aveva ricoperto la carica di componente del consiglio di amministrazione e risultava pure creditore della società. Il Commissario giudiziale ne riferisce al G.D. ai sensi dell'art. 173 L.F. (il quale, lasciato immutato dalla riforma, prevede che "..se in qualunque momento risulta che mancano le condizioni prescritte per l'ammissibilità del concordato ", il Tribunale dichiara il fallimento). Nei primi commenti alla riforma si è posto in dubbio che l'art. 173 L.F. fosse tuttora applicabile. Ed infatti, mentre nella vecchia procedura di concordato preventivo il presupposto era lo stato d'insolvenza (per cui, in difetto delle condizioni per l'ammissibilità del concordato, era conseguente che il Tribunale dovesse dichiarare immediatamente il fallimento), ora il presupposto è lo stato di crisi, che può consistere nell'insolvenza od in una situazione di difficoltà che non è ancora sfociata nell'insolvenza. Poiché il legislatore non ha definito lo stato di crisi, si è ritenuto che esso non comprenda lo stato d'insolvenza. Se insolvente, l'imprenditore dovrebbe fallire. Ciò che rileva è il carattere reversibile o meno dell'insolvenza. Se l'imprenditore, con l'aiuto di nuovi soci o di finanziatori, è in grado di porre rimedio alla situazione in cui si trova non è insolvente; se non lo è, è insolvente. Il legislatore ha fatto male a non definire lo stato di crisi; tuttavia è ragionevole ritenere che esso comprenda anche lo stato d'insolvenza. Nel decreto in esame, il Tribunale di Milano richiama che "lo stato di crisi...solo eventualmente coincide con lo stato di dissesto, potendo al contrario limitarsi ad integrare una diversa situazione di difficoltà finanziaria, non necessariamente prodromica allo stato d'insolvenza". Tornando all'applicabilità dell'art. 173 L.F., se la mancanza dei requisiti di legge per il Professionista che ha firmato l'attestazione di veridicità dei dati aziendali e di fattibilità del piano determina il difetto dei requisiti di ammissibilità del concordato, il Tribunale dovrebbe convocare la società che ha chiesto il concordato in camera di consiglio, contestarle l'assenza di uno dei requisiti di legge, verificare la sussistenza dello stato d'insolvenza e, ove esso ricorra, dichiarare il fallimento. Va osservato che la mancanza di terzietà del Professionista non è un dato da trascurare perché l'attestazione che egli rilascia costituisce il documento sul quale i creditori formano il loro orientamento in sede di adunanza, quando sono chiamati a votare la proposta di concordato. L'unico altro elemento di giudizio è la relazione del Commissario giudiziale, che potrà dare indicazioni concordanti o in senso contrario. La riforma ha eliminato la valutazione iniziale di ammissibilità che, nella vecchia procedura di concordato preventivo, era demandata al Tribunale, valutazione che implicava già un primo giudizio di merito sulla realizzabilità del progetto contenuto nella domanda. Oggi la decisione spetta soltanto ai Creditori mentre il Tribunale si limita a verificare "la completezza e regolarità della documentazione ".
Nel caso in esame, la società in concordato ha depositato una nuova relazione firmata -questa volta- da un Professionista che ha i requisiti di legge. Secondo il Tribunale meneghino la relazione non è un requisito di ammissibilità della domanda di concordato bensì solo un "elemento di validità (regolarità) ", con la conseguenza che l'irregolarità è sanabile. In altri termini la relazione mancante o non conforme a legge può essere sostituita con una nuova relazione che abbia i requisiti di legge.
La soluzione può essere approvata sul piano pratico, perché ha consentito di non interrompere la procedura di concordato preventivo in essere, tenuto conto che i requisiti richiesti dalla legge erano tutti presenti, sia pur a seguito della sostituzione della relazione del professionista inidonea con una nuova relazione. Sul piano dei principi, tuttavia, lascia perplessi l'interpretazione del Tribunale di Milano. Questo argomenta che la relazione è richiesta non dall'art. 160 L.F. (che indica le condizioni di ammissione alla procedura), bensì  dall'art. 161 L.F. (che indica i requisiti della domanda e la documentazione che deve essere allegata) e conclude che i requisiti sostanziali per l'ammissione alla procedura sono costituiti soltanto dalla qualità di imprenditore commerciale non piccolo, dallo stato di crisi e dalla presenza di un piano di ristrutturazione del debito caratterizzato dal requisito della fattibilità. In realtà, come sopra ricordato, la documentazione e la relazione del Professionista sono funzionali a consentire l'ulteriore svolgimento del procedimento, e quindi a permettere al Commissario giudiziale di esprimere il suo parere ed all'adunanza dei creditori di votare sulla proposta. In difetto il procedimento non può ulteriormente proseguire. Di conseguenza non si tratterà di requisiti sostanziali per l'ammissibilità del concordato, ma si tratta pur sempre di requisiti che incidono sull'ammissibilità o quantomeno, ove si voglia distinguere, sulla procedibilità della domanda. Piuttosto che trattarsi di una "mera irregolarità", sarebbe meglio ritenere che il vizio abbia inciso sulla proponibilità della domanda e che, essendo stato sanato, sia venuto meno l'ostacolo alla prosecuzione del procedimento.

Vai al Decreto 07/11/2005 del Tribunale di Milano - Sez. 2°

 

TRIBUNALE DI TORINO - 17/11/2005: Nella valutazione, da effettuarsi ai sensi dell'art. 163 L.F., della completezza e regolarità della documentazione allegata alla domanda di concordato preventivo, non è sufficiente che il Professionista attesti che i dati esposti sono stati reperiti nella contabilità dell'imprenditore. Tuttavia il livello di approfondimento dell'indagine va rimesso alla discrezionalità professionale del professionista, purchè nell'attestazione compaia una motivata assunzione di responsabilità in ordine al risultato, tale da qualificarla come non meramente apparente. L'attestazione del professionista sulla fattibilità del piano allegato alla domanda di concordato preventivo è sufficiente quando da essa risulti che l'assuntore del concordato pone a disposizione una somma di denaro sufficiente al soddisfacimento dei creditori, nella misura prevista per ogni classe, e vi è dichiarazione di una banca attestante la disponibilità a concedere fideiussione a prima richiesta a garanzia dell'adempimento del piano di concordato.
L'indagine demandata al Tribunale in sede di valutazione della completezza e regolarità della documentazione allegata alla domanda di concordato non può spingersi sino a sindacare la liceità degli atti posti in essere dall'assuntore (nella specie il P.M. aveva lamentato che la messa a disposizione di somme da parte dell'assuntore potesse integrare il reato previsto dall'art. 2634 c.c.). E' evidente che il P.M., ove avesse effettivamente ritenuto sussistente una tale situazione, avrebbe potuto domandare al giudice penale il sequestro preventivo dei fondi che sarebbero stati messi a disposizione per l'esecuzione del concordato.
La valutazione della correttezza dei criteri di formazione delle classi deve essere effettuata dal Tribunale, ai sensi dell'art. 163 L.F., in sede di ammissione dell'imprenditore alla procedura di concordato preventivo e non al momento della votazione sulla proposta.
In sede di formazione delle classi non può essere previsto il pagamento parziale dei creditori privilegiati, posto che ai sensi dell'art. 177 L.F. tali creditori non hanno diritto di voto, se non rinunciano al privilegio. Può essere previsto il pagamento parziale dei creditori privilegiati soltanto quando la prelazione non possa essere fatta concretamente valere sul ricavato dei beni vincolati e dunque nel caso di privilegio speciale incapiente ovvero per i crediti assistiti da privilegio generale mobiliare nel caso di totale mancanza di rispondenza patrimoniale del debitore.  Nel caso di specie la Torino Calcio S.p.a. -che chiedeva l'ammissione alla procedura di concordato preventivo- presentava un attivo patrimoniale; ancorché esso, secondo la previsione del piano allegato alla domanda,  dovesse essere integratoda un rilevante apporto dell'assuntore.

Vai alla sentenza del Tribunale di Torino - Sezione Fallimentare 17/11/2005

 


LE SEZIONI UNITE ESCLUDONO CHE L'AVVIAMENTO POSSA ESSERE DI PER SE' OGGETTO DI DISTRAZIONE  

Il problema di diritto affrontato dalle Sezioni Unite riguarda la possibilità di considerare "l'avviamento di per sé" oggetto materiale della bancarotta fraudolenta patrimoniale, cioè se possa essere materialmente "distratto". Come noto l'oggetto materiale della bancarotta fraudolenta patrimoniale consiste nei beni dell'imprenditore nel caso di bancarotta propria, ovvero nei beni della società nel caso di bancarotta impropria. I beni sono definibili come tutte le componenti attive del patrimonio. In dottrina ed in giurisprudenza si ritiene in modo concorde che anche i beni immateriali, così come i beni futuri possano essere identificati come "componenti attive, comunque configurate, del patrimonio giuridicamente inteso" (Pedrazzi, Reati commessi dal fallito, sub. art. 216). Con la sentenza n. 9813/06, le S.U. escludono che l'avviamento commerciale di un'azienda possa essere di per sé oggetto di distrazione in quanto rilevano che, ai fini della sussistenza del delitto in esame, è sufficiente l'utilizzazione dei beni dell'impresa per finalità diverse da quelle dell'impresa cui sono destinati e la loro sottrazione alla stessa funzionalità dell'azienda. Tuttavia il mero avviamento, sganciato da una qualsivoglia disposizione dei beni cui questo accede, non rientrerebbe in tale - pur ampia - definizione. Ciò che porta ad escludere la possibilità di distrazione in relazione all'avviamento è l'impossibilità di riferire allo stesso la definizione di rapporto giuridico rilevante ed economicamente valutabile. L'avviamento, isolato dai beni cui fa riferimento, dovrebbe essere iscritto nella categoria concettuale delle "mere aspettative" e quindi non essere passibile di distrazione. Tale definizione contrasta con la migliore dottrina (Pedrazzi) che considera che "anche i beni che non hanno consistenza economica autonoma (tipico il caso dell'avviamento) possono rivestire interesse per i creditori (p. es. in caso di alienazione dell'azienda del fallito. Anche tali beni sono astrattamente suscettibili di dispersione ai danni dei creditori. In concreto occorrerà pur sempre ricollegare la scomparsa o la diminuzione di un determinato valore a una specifica condotta attiva od omissiva, riconoscibile come tipica (si pensi all'imprenditore che abbia rivelato a un concorrente, senza corrispettivo, importanti segreti di fabbricazione, o che abbia tollerato in odio ai creditori comportamenti di concorrenza sleale, come lo storno dei dipendenti o lo sviamento della clientela)". Non potendosi prescindere dall'esame del caso specifico, ricordiamo che la descrizione in punto di fatto operata dalla sentenza di condanna (cassata con sentenza in esame) lega la perdita dell'avviamento all'avvenuta cessione "di tutte le quote della società poi fallita", fatto che la Cassazione giustamente esclude possa in alcun modo influire sul patrimonio della società, giacché tale condotta non determinò in alcun modo la fuoriuscita del valore dell'avviamento aziendale dalle poste attive. L'imputazione qualificava pertanto la perdita dell'avviamento come effetto patrimoniale di una condotta estranea a quelle che possono rientrare tra quelle idonee a compiere il reato (la cessione delle quote è infatti opera dei soci, mentre la bancarotta impropria è reato proprio degli organi sociali). La censura riguarda quindi la scorretta contestazione di una condotta (la cessione delle quote) che non può determinare l'effetto di perdere il valore rappresentato dall'avviamento. La Corte di Cassazione ritiene infatti che la vicenda possa essere sussunta nel disposto di cui al secondo comma dell'art. 223 n. 2 L.F., se inserita nel più ampio disegno criminoso che emerge dalla ricostruzione in fatto operata dalla Corte territoriale, ovvero la cessione delle quote della società fallita ad altra società, che in seguito al cagionamento del fallimento della società oramai acquisita riuscì a beneficiare dell'avviamento oramai assorbito senza dover comperare l'azienda e pagarne il prezzo. Riprendendo la lezione di Pedrazzi appare altresì ipotizzabile che un'attenta analisi dei fatti consentirebbe forse anche di individuare una condotta - attiva o omissiva - in capo agli amministratori della società fallita, alla quale sia ascrivibile la dissoluzione della particolare organizzazione capace di rendere i beni aziendali più pregiati se considerati unitariamente, piuttosto che sommandone i singoli valori. La problematica dell'avviamento come possibile oggetto di distrazione non viene quindi risolta dalla sentenza in commento e rappresenta invece una questione aperta, per analizzare la quale in modo approfondito appare necessario un approfondimento nell'ambito del diritto commerciale, ove si è precisato che l'avviamento è rappresentato dal rapporto di strumentalità e di complementarietà fra i singoli elementi costitutivi dell'azienda, cosicché "il complesso unitario acquisti di regola un valore di scambio maggiore (ed entro certi limiti anche indipendente) dalla somma dei valori dei singoli beni che in un dato momento lo costituiscono " (Campobasso, Diritto commerciale ). Inoltre va sottolineata la differenza tra avviamento soggettivo e avviamento oggettivo (a seconda che dipenda o meno dalla persona cui fa riferimento l'azienda). Quindi l'accertamento del valore economico, la possibile ipotetica indipendenza del valore dell'avviamento rispetto al valore dei beni, la differenza tra avviamento oggettivo o soggettivo, sono tutte sfumature che rendono possibili diverse costellazioni di casi di possibile rilievo fallimentare, sicché pare prudente evitare affermazioni troppo trancianti alle quali potrebbe spingere una prima lettura della sentenza, accomunando l'avviamento a quelle "mere aspettative" che universalmente vengono escluse dai possibili oggetti materiali della bancarotta.
 

REVOCABILITA' -EX ART. 67 L.F. 1° CO. N. 2- DI MUTUO DELL'IMPORTO NECESSARIO PER ESTINGUERE LO SCOPERTO DI C/C

Se la banca concede al cliente un mutuo di importo pari a quello cui ammonta lo scoperto di conto corrente, al solo fine di trasformare in ipotecario un credito avente natura chirografaria, l'intera operazione è revocabile ai sensi dell'art. 67, primo comma, n. 2) L.F. La Corte di Cassazione ha quindi ravvisato una funzione solutoria nell'operazione posta in essere dalla banca che, evidentemente presagendo il fallimento del proprio cliente, gli aveva concesso un mutuo al fine di ripianare lo scoperto di conto corrente in essere. Trattandosi di mutuo fondiario, la banca puntava ad ottenere al tempo stesso il consolidamento dell'ipoteca nel termine breve (dieci giorni) di cui all'art. 39, quarto comma, t.u.b. (con conseguente successiva inapplicabilità dell'art. 67 l.f. in tema di revocatoria fallimentare), e la modifica della natura del credito, che da chirografario diveniva ipotecario, con ogni evidente vantaggio in sede di concorso con gli altri creditori. In particolare, la Cassazione ha qualificato l'intera operazione come "negozio-procedimento indirettamente solutorio di pregresse passività", in quanto tale non opponibile al fallimento. Con la sentenza n. 20622/07, la Cassazione ha anche avanzato  ulteriori  considerazioni di portata generale, come quella relativa allo stretto collegamento sussistente tra il contratto di mutuo e l'ipoteca in virtù di questo rilasciata. Non soltanto la nullità o la simulazione del contratto di mutuo, ma anche la revoca dello stesso, cui consegue in ogni caso l'inopponibilità al fallimento, è ritenuta idonea ad escludere il beneficio del consolidamento dell'ipoteca nel termine di favore sopra indicato che il t.u.b. accorda in caso di mutuo fondiario. Ciò in quanto, "ricostruita la fattispecie come procedimento indiretto anormalmente solutorio e revocato dunque, nel suo ambito, lo stesso contratto di mutuo, anche l'ipoteca perde la sua qualificazione - che deriva dal contratto - di ipoteca iscritta a garanzia di mutuo fondiario e, con essa, il beneficio in questione".
Un ulteriore motivo di ricorso concerneva l'asserita impossibilità per il fallimento di far valere in giudizio ragioni diverse da quelle addotte dal giudice delegato in sede di verifica del credito, a sostegno del mancato accoglimento della domanda di ammissione al passivo svolta dalla banca. Secondo la S.C., invece, "nel giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dal creditore la cui richiesta di insinuazione sia stata respinta dal giudice delegato, è lo stesso creditore opponente ad avere la veste di attore, mentre il curatore che contesti la pretesa assume la veste di convenuto". Conseguentemente, "nulla impedisce a detto curatore di far valere, in via di eccezione, ragioni di infondatezza della pretesa del ricorrente diverse da quelle enunciate nell'originario provvedimento di non ammissione del credito al passivo, non essendovi alcun onere di sollevare tutte le possibili contestazioni nel corso dell'adunanza prevista dall'art. 96 della legge fallimentare (udienza di verifica dei crediti).

Vai alla sentenza Cassazione Sez. I°, 01/10/2007 n. 20622


LA RICONVENZIONALE RESTA SEPARATA DAL GIUDIZIO, PROMOSSO DAL CURATORE, DI RECUPERO DEI CREDITI  

Le Sezioni Unite della Cassazione, modificando la giurisprudenza avviata con Cass. S.U. 06/07/79 n. 3878 e rimasta invariata sino a Cassazione 10/01/03 n. 148, intervengono sui rapporti tra il rito fallimentare e quello ordinario stabilendo che qualora, nel giudizio promosso dal Curatore per il recupero di un credito del Fallito, il convenuto proponga domanda riconvenzionale diretta all'accertamento di un proprio credito nei confronti del fallimento, la suddetta domanda, per la quale opera il rito speciale ed esclusivo dell'accertamento del passivo, deve essere dichiarata inammissibile od improcedibile nel giudizio di cognizione ordinaria; e va eventualmente proposta con domanda di ammissione al passivo non determinando l'attrazione in sede fallimentare della domanda principale del curatore. 
Secondo la S.C., infatti, il trasferimento dell'intero giudizio al Tribunale Fallimentare (secondo quanto ritenuto dalla costante giurisprudenza precedente) realizzerebbe uno "strappo" al sistema complessivo della legge fallimentare ed al principio della precostituzione del Giudice. Quindi, non e' possibile sottrarre alla sede naturale del giudizio ordinario le domande proposte dal fallimento per ottenere la condanna di un terzo, sia perché esse non potrebbero essere trattate e decise con il rito speciale ed esclusivo dell'accertamento del passivo, sia perché il Giudice fallimentare sarebbe carente del potere di decidere su tali domande.

Vai alla sentenza Cassazioni Sezioni Unite 23/09 - 12/11/04 n. 21499


ACCERTAMENTO DELLO STATO DI INSOLVENZA DI UNA SOCIETA' POSTA IN LIQUIDAZIONE VOLONTARIA

Il Giudice di legittimità, ribadendo la propria giurisprudenza (Cass. 3321/96), ha valutato l'insussistenza dei requisiti di cui all'art. 5 L.F. nell'ipotesi in cui la società di cui viene chiesto il fallimento è posta in liquidazione ed il suo attivo patrimoniale, benchè illiquido, sia superiore al passivo. Con la sentenza n. 6550 del 11/05/2001, ha posto -inoltre- in rilievo come la procedura di liquidazione volontaria assolva a finalità "analoghe" a quella fallimentare: dopo l'estinzione delle obbligazioni (oltretutto non con moneta fallimentare) si arriva allo scioglimento della società stessa. Il rispetto delle norme in materia di liquidazione garantisce la "par condicio creditorum" ed il sanzionamento previsto per la loro violazione costituisce un adeguato deterrente.

Vai alla Sentenza Cassazione Sez. I° 11/05/2001 n. 6550


LA DECORRENZA DEL PAGAMENTO DA PARTE DEL FONDO DI GARANZIA

Con sentenza n. 1106 del 9/2/99, la Corte di Cassazione ha affermato importanti principi in ordine all'obbligo del Fondo di garanzia dell'INPS di pagare le ultime retribuzioni non corrisposte dal datore di lavoro dichiarato fallito; tali principi si fondano sul principio, pure importante, che la normativa comunitaria prevale, a certe condizioni, su quella statale.
La questione nasce dall'art. 2 D.Lgs. 27/01/92 n. 80, che ha dato attuazione alla direttiva 80/987/CEE in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro. Per completezza, va osservato che la norma ora richiamata non è l'unica che, nel nostro ordinamento, presti tutela al lavoratore nel caso di fallimento del datore di lavoro. La L. 297/82 garantisce al lavoratore, nel caso di fallimento del datore di lavoro, il pagamento della somma dovuta a titolo di trattamento di fine rapporto a carico del Fondo di garanzia istituito presso l'INPS.
Tornando alla questione che qui interessa, il citato art. 2 D.Lgs. 80/92 ha disposto che il lavoratore può chiedere al Fondo di garanzia dell'INPS il pagamento delle ultime tre retribuzioni, che non siano state corrisposte dal datore di lavoro, sempre che le retribuzioni in questione rientrino nei dodici mesi precedenti la sentenza dichiarativa di fallimento del datore di lavoro.
La norma, così formulata, ha dato adito a numerose perplessità. Infatti, può accadere che il rapporto di lavoro finisca, a causa della durata della procedura per la dichiarazione di fallimento, prima dei dodici mesi antecedenti la dichiarazione di fallimento. In un caso come questo, il lavoratore -secondo la lettera della disposizione richiamata- non avrebbe il diritto di rivolgersi al Fondo di garanzia per il pagamento dei suoi crediti di lavoro.
Investita della questione, la Corte di Giustizia della Comunità europea ha stabilito, con sentenza 10/07/97, che la direttiva 80/987/CEE dispone nel senso che l'insolvenza del datore di lavoro, che fa operare la garanzia, si determina all'atto di apertura della procedura per la dichiarazione del fallimento, e non al successivo momento in cui il fallimento viene dichiarato, sebbene sia necessario attendere questa dichiarazione per ottenere la garanzia del pagamento a carico del Fondo. Sulla base di questa pronuncia, la citata sentenza della Cassazione ha ritenuto che la normativa comunitaria, così come interpretata dalla Corte di giustizia, e la normativa nazionale formano un complesso unitario di regole: alla norma attuativa nazionale non può attribuirsi contenuto contrastante con quello della norma comunitaria di cui costituisce attuazione, e quest'ultima deve essere letta secondo l'interpretazione fornitane dalla Corte di giustizia comunitaria.
Pertanto, a dispetto della lettera della norma nazionale, si deve ritenere che l'intervento del Fondo di garanzia dell'INPS, per il pagamento dei crediti di lavoro inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto, debba operare in tutti i casi in cui tali crediti siano sorti nei dodici mesi antecedenti l'apertura della procedura per la dichiarazione di fallimento, e non nei dodici mesi antecedenti la sentenza che abbia dichiarato il fallimento del datore di lavoro.

Vai alla sentenza Cassazione Sezione Lavoro 09/02/99 n. 1106

Vai agli articoli 1 e 2 del Dlgs. 27/01/92 n. 80

Vai alla sentenza Corte di Giustizia della Comunità Europea 10/07/97 (proc. C-261/95)


REGOLAMENTO CEE RELATIVO ALLE PROCEDURE DI INSOLVENZA

Il 31/05/2002 è entrato in vigore il Regolamento del Consiglio Europeo del 29/05/00 (in G.U.C.E. 30/06/00, L160). La norma prevede il riconoscimento automatico -in tutti i paesi dell'Unione- delle decisioni che aprono una procedura di insolvenza. Di particolare rilievo va richiamato, nel merito: 1) il riconoscimento delle cause di prelazione disciplinate dal diritto italiano; 2) l'introduzione di nuove norme in materia di revocatoria fallimentare; 3) la previsione di ampi poteri del Curatore fallimentare in tutti gli Stati membri; 4) il riconoscimento dei diritti dei creditori in sede di accertamento del passivo e liquidazione dell'attivo.

Vai al Regolamento CE 29/05/2000 n. 1346


LA RESPONSABILITA' DELL'AMMINISTRATORE DI DIRITTO NELLA BANCAROTTA FRAUDOLENTA 

Secondo Cass. Pen. 28007/04, la riconducibilità all'amministratore di diritto (c.d. "testa di legno") dei fatti distrattivi commessi dall'amministratore di fatto richiede, se non la prova della consapevolezza dei singoli episodi distrattivi, almeno la generica consapevolezza di tali eventi, fermo restando che questa non può presumersi in base al semplice dato di avere il soggetto acconsentito a ricoprire formalmente la carica. Non è automatico, infatti, che ogni accettazione della carica di amministratore formale celi un disegno criminoso, nè automatica è la riconducibilità all'amministratore di diritto dei fatti distrattivi commessi dall'amministratore di fatto.
Integra il reato di bancarotta fraudolenta documentale la condotta dell'amministratore di diritto che, considerato il suo diretto e personale obbligo di tenere e conservare le scritture contabili, abdichi volontariamente a tale dovere specifico con l'estromissione "fisica" delle scritture di legge dall'area del suo immediato e costante controllo.

Vai alla sentenza Cassazione Penale n. 28007 del 22/06/2004


L'AMMISSIONE AL PASSIVO DEL CREDITO BANCARIO DERIVANTE DA SALDO DI CONTO CORRENTE

Il Tribunale di Monza non ha ritenuto idonei, ai fini dell'ammissione al passivo del credito vantato da una banca, gli estratti conto già trasmessi al debitore ai sensi e con gli effetti dell'art. 119 T.U.B. In particolare, si ribadisce che la natura confessoria della mancata contestazione degli estratti conto trasmessi al debitore non può avere, nei confronti del curatore, l'efficacia probatoria di cui agli artt. 2733 e 2735 c.c. Ma la questione non viene esaurita nella riaffermata posizione di terzietà del curatore nel procedimento di accertamento del passivo (ex plurimis: Cass. 23/01/97 n. 689; Cass. 02/04/96 n. 3055). Sia l'estratto conto sia le scritture relative alle singole operazioni della banca non conservano valore nè di "prova legale" (art. 2700 c.c.) nè di "prova piena" (art. 2712 c.c.); ma risultano soggette "al libero apprezzamento del Giudice" ed alla analitica contestazione da parte del curatore. La novità consiste nel rilievo che la decisione in esame affronta in termini "realistici" la questione relativa alla prova, in sede fallimentare, del credito vantato dalla banca. Se Cass. 09/05/2001 n. 6465 ha ritenuto che "nel procedimento di accertamento del passivo fallimentare la banca è tenuta a fornire la prova del proprio credito producendo in giudizio tutta la documentazione relativa alle singole operazioni", il Giudice di merito valuta tale soluzione "un onere abnorme sotto il profilo della quantità di documenti da produrre"; imponendo alla banca l'onere di produrre la sola copia integrale della "scheda del conto" ed al curatore quello di avanzare sullo stesso contestazioni specifiche.

Vai al Sentenza Tribunale di Monza del 20/03 - 09/04/2002


NON E' REVOCABILE IL PAGAMENTO ESEGUITO, CON MEZZI PROPRI E SENZA RIVALERSI NEI CONFRONTI DEL FALLITO, DAL TERZO FIDEJUSSORE

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, intervenute per risulvere un contrasto giurisprudenziale in materia di azione revocatoria, hanno stabilito che le rimesse effettuate dal terzo fideiussore sul conto corrente dell'imprenditore, poi fallito, non sono revocabili ai sensi dell'art. 67 L.F. 2° comma quando risulti che, attraverso la rimessa, il terzo non ha posto la somma nella disponibilità giuridica e materiale del debitore ma - senza utilizzare una provvista del debitore e senza rivalersi nei suoi confronti prima del fallimento - ha adempiuto in qualità di terzo fideiussore l'obbligazione di garanzia nei confronti del creditore. 

Vai alla sentenza Cassazione SS.UU. 12/08/2005 n. 16874