Diritto delle Persone e della Famiglia

 

Vai alla Guida sulla L. n.112/2016, c.d. “Dopo di noi”, realizzata dal Consiglio Nazionale del Notariato e da varie Associazioni dei Consumatori - Maggio 2017

Vai alla Guida "La convivenza, regole e tutele della vita insieme" realizzata dal Consiglio Nazionale del Notariato e da varie Associazione dei Consumatori - Marzo 2014

 



Vai al modello di Convenzione patrimoniale tra conviventi "more uxorio"

Vai al Modello sperimentale di Calcolo dell'Assegno di Mantenimento (MoCAM)

 

IL GIUDICE DI LEGITTIMITA' CHIARISCE LA NATURA DELLE "SPESE STRAORDINARIE" NEL MANTENIMENTO DELLA PROLE

In tema di mantenimento della prole, devono intendersi spese "straordinarie" quelle che -per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità- esulano dall'ordinario regime di vita dei figli, cosicchè la loro inclusione in via forfettaria nell'ammontare dell'assegno, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall'art. 155 c.c. e con quello dell'adeguatezza del mantenimento, nonchè recare grave nocumento alla prole che potrebbe essere privata, non consentendolo le possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell'assegno "cumulativo", di cure necessarie o di altri indispensabili apporti.  In particolare, non possono essere considerate “straordinarie”  le spese per mantenere la figlia fuori sede e il figlio tirocinante non retribuito; in quanto non risultano imprevedibili, imponderabili e rilevanti rispetto a quelle ordinarie. Aggiungasi che, anche in assenza -in Sentenza- della necessaria indicazione del se e del quantum delle spese straordinarie, le stesse sono dovute nella misura del 50% ciascuno nel rispetto del principio di proporzionalità. Dal punto di vista pratico, le spese straordinarie che, pur non rientranti nella quantificazione forfettaria dell'assegno (ed a prescindere dal nomen meramente ricognitivo utilizzato dal giudice nel prevederne il rimborso pro quota), si propongano routinariamente e assumano una connotazione di probabilità tale da potersi definire come sostanzialmente certe (es.: le cure mediche e le rette scolastiche) sono indeterminate nel quantum e nel quando, ma non lo sono nell'an. Per il rimborso di tali spese, è dunque possibile iniziare l'azione esecutiva sulla base del titolo già esistente e che ne ha previsto l'obbligo di rimborso in capo al genitore che non le abbia direttamente sostenute senza bisogno di costituirsi un nuovo titolo. Il genitore che non abbia sostenuto tali spese potrà, semmai, contestarne la debenza, in sede di incidente di cognizione introducibile nelle forme dell'opposizione precetto o all'esecuzione ex art. 615 c.p.c., sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza rispetto alle esigenze del mantenimento e, quindi, ai bisogni del figlio. A sua volta, risulterebbe privo di interesse ex art. 100 c.p.c. il genitore anticipatario che, già in possesso di idoneo titolo esecutivo, ne richiedesse ex novo un altro contro il medesimo debitore per la medesima ragione ed oggetto.

Vai alla Sentenza Cass. Civ., Sez. 1° Civile, 15/12/2021 n. 40281 (conf.: Cass. Civ. 13/01/2021 n. 379; 23/01/2020 n. 1562; 02/06/2012 n. 9372) 


MODALITA' DI DETERMINAZIONE DEL DANNO BIOLOGICO SECONDO IL "CRITERIO DELLA PROPORZIONE"

Con la sentenza n. 8532 del 6 maggio 2020, la Cassazione ha precisato che il Giudice di merito, nel liquidare il danno, debba adottare il c.d. "criterio della proporzione" secondo cui il risarcimento che si sarebbe liquidato a persona vivente sta al numero di anni che questi aveva ancora da vivere secondo le statistiche di mortalità in uso, come il risarcimento da liquidare a persona già defunta sta al numero di anni da questa effettivamente vissuti tra l'infortunio a la morte. In altri termini, nel caso di intervenuto decesso della parte danneggiata, il danno liquidabile secondo le Tabelle deve essere ridotto dal Giudice di merito proporzionalmente, avuto riguardo al tempo di effettiva sopravvivenza del danneggiato.

Vai alla Sentenza Corte di Cassazione, Sezione III Civile, 6 maggio 2020 n. 8532


LA CORTE D’APPELLO DI ROMA STABILISCE UNA SORTA DI “VADEMECUM” IN MATERIA DI ASSEGNO DIVORZILE

In sede di calcolo dell'assegno divorzile il giudice, in prima battuta, procede alla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti e, qualora risulti l'inadeguatezza dei mezzi del richiedente o, comunque, la sua impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, ne accerta le cause in base ai parametri dell'art. 5 c. VI, prima parte, L. 898/70, appurando se quella sperequazione sia o meno conseguenza del contributo fornito dal medesimo istante alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all'età e alla durata del matrimonio. Solo a questo punto il Giudice quantifica l'assegno parametrandolo non al pregresso tenore di vita familiare, né al parametro della autosufficienza economica, bensì in misura tale da assicurare, all'avente diritto, un livello reddituale adeguato al contributo sopra richiamato. La nozione di “adeguatezza” dei mezzi ha subito un'evoluzione: dopo un periodo ove il parametro di riferimento è stato quello del mantenimento del tenore di vita goduto in costanza del vincolo, con due arresti giurisprudenziali (cfr.: Cassazione, Sez. I n. 11504/17 e Cassazione S.U. 11/07/2018 n. 18287) i caratteri dell'assegno in questione sono stati ridefiniti e precisati tenendo conto: § del criterio dell'indipendenza economica inteso quale possibilità di condurre una vita considerata dignitosa alla luce delle indicazioni provenienti dalla coscienza collettiva in un dato momento storico; § del tener conto -primariamente- della funzione assistenziale e, a determinate condizioni, anche di quella compensativo-perequativa cui tale assegno assolve.

Come ulteriormente esplicitato dalla Giurisprudenza (cfr.: Cassazione, Sez. I, n. 21234/19) nel valutare l'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge che ne faccia istanza, o l'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, si deve tener conto, impiegando i criteri di cui all'art. 5, comma VI, della L. n. 898/1970: § dell'impossibilità di vivere autonomamente e dignitosamente da parte di quest'ultimo, § della necessità di compensarlo per il particolare contributo, che comprovi di avere fornito, alla formazione del patrimonio comune o dell'altro coniuge nel corso della vita matrimoniale, senza che abbiano rilievo, da soli, lo squilibrio economico tra le parti e l'alto livello reddituale dell'altro ex coniuge, tenuto conto che la differenza reddituale è coessenziale alla ricostruzione del tenore di vita matrimoniale, tuttavia risulta oggi irrilevante ai fini della determinazione dell'assegno, e l'entità del reddito dell'altro ex coniuge non giustifica, di per sé, la corresponsione di un assegno in proporzione delle sue sostanze. Pertanto, nella pluralità di voci che contribuiscono a definire l'assegno divorzile, con la riaffermata funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, si combinano: § l'inadeguatezza dei mezzi della parte richiedente, § la sua impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive; in tal modo tutelando non la protrazione del godimento del tenore di vita avuto in costanza di matrimonio, bensì (in ragione della nuova situazione determinatasi tra le parti all'esito della cessazione del vincolo) attribuendo un livello di reddito adeguato al ruolo ed al contributo fornito dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della donna e di quello personale degli ex coniugi, in particolare tenendo conto: § delle aspettative professionali sacrificate, in relazione alla durata del matrimonio, dell'età dell'avente diritto. Nella sua disamina, il Collegio ha altresì evidenziato che, mentre in sede di separazione l’assegno di mantenimento tiene conto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, l’assegno di divorzio ha una finalità meramente assistenziale, perequativa e compensativa; oltre che in nessun caso legata all’assegno riconosciuto in sede di separazione.

L'onere di provare la sussistenza delle condizioni che legittimano l'attribuzione e la quantificazione dell'assegno grava sul coniuge istante, il quale dovrà documentare compiutamente i propri redditi e la propria capacità od incapacità di procurarsene, l'eventuale ricerca di occupazione, la propria capacità di spesa.

Per quanto attiene -poi- alla domanda di divisione delle somme presenti sul conto corrente cointestato ai coniugi in costanza di matrimonio, il Collegio (richiamando Cassazione, Sez. VI - 1, Ordinanza n. 6424 del 13/03/2017) ha precisato che non è ammissibile il cumulo in un solo processo della domanda di divorzio, soggetta al rito camerale, con quella di divisione dei beni comuni dei coniugi, soggetta al rito ordinario; trattandosi di domande non allacciate da vincoli di connessione, bensì autonome e distinte l'una dall'altra e, peraltro, comportando l'eventuale riunione, la trattazione con rito camerale al di fuori dei casi previsti dalla legge.

Vai a Corte d'Appello di Roma, sentenza 12 marzo 2020 n. 1776


ANCORA SULLA DETERMINAZIONE DELL'ASSEGNO DIVORZILE

Dopo l'intervento delle S.U. con la sentenza n. 18827 del 11/07/2018, il Giudice di legittimità interviene nuovamente onde specificare la natura dell'assegno divorzile e la ragione della sua determinazione. Con la sentenza n. 21228/19, la prima Sezione della S.C. ha stabilito il seguente principio di diritto: "In definitiva il giudice deve quantificare l'assegno rapportandolo non al pregresso tenore di vita famigliare, ma in misura adeguata innanzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l'indipendenza economica del coniuge non autosufficiente, intendendo l'autosufficienza in una accezione non circoscritta alla pura sopravvivenza. Inoltre, ove ne ricorrano i presupposti, a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato, in funzione di contribuzione ai bisogni della famiglia, a realistiche occasioni professionali-reddituali, attuali o potenziali, rimanendo in ciò assorbito, in tal caso, l'eventuale profilo assistenziale".

Vai alla Sentenza Cassazione Civile, Sez. I, 09/08/2019 n. 21228 


I CRITERI FISSATI DALLE SEZIONI UNITE PER L’ASSEGNO DI DIVORZIO

Definendo alcuni diversi indirizzi sorti a seguito della sentenza di legittimità n. 11504 del 10/05/2017, le Sezioni Unite -pur ribadendo che, al fine del calcolo dell'assegno di divorzio di cui all’art. 5 della L. 01/12/1970 n. 898, non va tenuto in considerazione il tenore di vita condotto durante il matrimonio- hanno precisato che bisognerà tener conto di diversi fattori, attraverso un criterio c.d. “composito” che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall'ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all'età dell'avente diritto. Tale parametro si fonda sui principi costituzionali di pari dignità e di solidarietà che permeano l'unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo e tiene conto che la natura e l'entità del  contributo fornito alla conduzione della vita famigliare sono frutto delle decisioni comuni, libere e responsabili, riguardanti i ruoli endofamiliari che "costituiscono l'espressione tipica dell'autodeterminazione e dell'autoresponsabilità sulle quali si fonda ... la scelta di unirsi e di sciogliersi dal matrimonio"; scelte che possono incidere anche profondamente sul profilo economico patrimoniale di ciascuno dei coniugi dopo la fine dell'unione matrimoniale. Con la sentenza n. 18287/18, le Sezioni Unite hanno tra l'altro affrontato il problema che determina maggiori contenziosi e cioè quello sui criteri ai quali fare riferimento per accertare l'inadeguatezza dei mezzi o l'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, ovverosia la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell'assegno di divorzio. I giudici, nell'argomentare il principio sancito con la pronuncia in commento, ne hanno messo in evidenza l'elasticità che lo connota, necessaria per adeguarsi alle fattispecie concrete. L'adeguatezza dei mezzi, quindi, va valutata non solo riferendosi strettamente alla loro mancanza o insufficienza oggettiva, bensì tenendo conto di quello che si è contribuito a realizzare in funzione della vita familiare. Occorre, in buona sostanza, procedere a formulare il giudizio di adeguatezza dei mezzi considerando le legittime aspettative reddituali che conseguono al contributo personale ed economico che ciascun coniuge ha fornito alla conduzione della vita familiare, alla formazione del patrimonio di ciascuno e a quello comune. Come sopra accennato, non vi è alcun contrasto con la sentenza n. 11504/17, che per la prima volta ha statuito come la funzione equilibratrice dell'assegno non sia finalizzata a ricostruire il tenore di vita endoconiugale. Piuttosto, si chiarisce che l'assegno divorzile è teso al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla realizzazione della situazione comparativa successiva allo scioglimento del legame matrimoniale attraverso un accertamento probatorio rigoroso del rilievo causale dei predetti indicatori sulla sperequazione determinatasi.

Vai alla sentenza Cassazione Sezioni Unite 11 luglio 2018 n. 18287


ANCHE NELLA DETERMINAZIONE DELL'ASSEGNO DI MANTENIMENTO IN SEDE DI SEPARAZIONE NON HA PIU' RILIEVO IL TENORE DI VITA IN COSTANZA DI MATRIMONIO

Coerentemente a quanto stabilito, in materia di assegno divorzile, con la sentenza n. 11504 del 10/05/2017 (vedi commento in questo sito), la Cassazione, affrontando questa volta la questione della determinazione dell'assegno di mantenimento nell'ambito di una separazione, ha dato peso solo alla disparità economica tra le parti ed ignorato il criterio del tenore di vita mantenuto durante il matrimonio. Con la sentenza n. 16190/17 la S.C. ha affrontato il caso di un marito che aveva guadagni superiori a quanto da lui dichiarato precisando che il giudice che deve decidere sui presupposti dell’assegno ed eventualmente quantificarlo non è tenuto ad accertare i redditi nel loro esatto ammontare, ma può limitarsi a ricostruire in maniera attendibile la situazione patrimoniale dei coniugi. In tale ambito, il giudice dovrà affermare il diritto all'assegno in considerazione del divario economico tra gli ex, ma senza guardare al più alto tenore di vita goduto prima della separazione.

Vai alla sentenza Cassazione Civile, Sezione 1°, 28/06/2017 n. 16190


CON LA NEGOZIAZIONE ASSISTITA E’ POSSIBILE PROCEDERE AL TRASFERIMENTO DI IMMOBILE ANCHE SENZA L’INTERVENTO DEL NOTAIO

Lo ha stabilito il Tribunale di Pordenone con decreto del 16-17/03/2017 che ha accolto il ricorso di una coppia, separatasi utilizzando l’istituto della negoziazione assistita ed il cui accordo, che prevedeva  il trasferimento della quota di proprietà di un immobile in maniera tale da rendere la moglie proprietaria esclusiva, aveva ottenuto autorizzazione da parte del P.M. Tale accordo, trascritto dall’ufficiale di stato civile del Comune, veniva però rifiutato dalla Conservatoria la quale riteneva inidoneo il titolo sotto il profilo dell’assenza di una valida autenticazione per mancanza di intervento di un Notaio. Il Tribunale, dopo un’approfondita valutazione dell’istituto della negoziazione assistita, ha escluso che «l’intervento del predetto “pubblico ufficiale a ciò autorizzato” sia necessario in un procedimento di negoziazione assistita in materia di famiglia, regolato in forma specifica dall’art. 6 D.L. n. 133/2014» il quale prevede che, una volta ottenuto il nullaosta del P.M., «produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono (...) i provvedimenti di separazione giudiziale». E poiché i provvedimenti giudiziali (sentenze, ordinanze e decreti) non richiedono autenticazioni delle sottoscrizioni da parte di altri pubblici ufficiali, per la trascrizione delle cessioni immobiliari in essi inseriti, è evidente che neppure gli accordi di negoziazione vi dovranno essere soggetti. Medesimo indirizzo è stato accolto dal Tribunale di Roma con decreto n. 2176/17 il quale ha posto l'accento sulla mancata armonizzazione tra la normativa codicistica e quella che ha introdotto la negoziazione assistita e sul fatto che, una volta adempiuto l'onere pubblicitario, la parte assegnataria potrà validamente far valere il proprio diritto nei confronti dei terzi eventuali acquirenti del bene.   

Vai al decreto Tribunale di Pordenone del 16-17/03/2017

Vai al decreto Tribunale di Roma, Sez. V, 17/03/2017 n. 2176


LA CONVIVENZA MORE UXORIO FA CESSARE IL DIRITTO ALL'ASSEGNO DI MANTENIMENTO O DIVORZILE INDIPENDENTEMENTE DALLE CONDIZIONI ECONOMICHE DEGLI EX CONIUGI

La Cassazione ha ribadito che non si ha diritto ad ottenere, dall’ex coniuge, l’assegno di mantenimento dopo la separazione od il divorzio se il richiedente ha avviato una  convivenza stabile e continuativa con un nuovo partner; e ciò anche se le condizioni economiche tra gli ex coniugi siano nettamente sproporzionate e contrastanti.
Tale pronuncia rientra in un indirizzo recentemente assunto dal Giudice di legittimità secondo il quale chi inizia una nuova relazione stabile, anche se basata sulla convivenza “more uxorio”, perde ogni diritto economico al mantenimento nei confronti dell’ex. Sia che si tratti di assegno di mantenimento (conseguente alla separazione), sia che si tratti di assegno divorzile  (conseguente, invece, al divorzio). In altri termini chi avvia una nuova relazione dovrà, in questa, trovare le risorse per mantenersi, senza poter gravare su altre persone appartenenti a un passato ormai reciso. L’assegno di mantenimento cessa anche se il nuovo partner è disoccupato e non percepisce alcun reddito. È proprio il fatto di aver avviato una convivenza o, comunque, un rapporto stabile e basato sui presupposti di una tipica famiglia di fatto a far venir meno il dovere del mantenimento. Tale dato rende secondaria la “sperequazione dei redditi” tra gli ex coniugi facendo divenire irrilevante l’inadeguatezza dei mezzi a disposizione del “mantenuto”, confrontati col tenore di vita avuto in costanza di matrimonio.
 

LA CONTESTAZIONE DELLA VERIDICITA’ DI UN TESTAMENTO OLOGRAFO VA EFFETTUATA TRAMITE AZIONE DI ACCERTAMENTO NEGATIVO

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12307/15, hanno fatto finalmente chiarezza sullo strumento da adottare nel caso si voglia eccepire la falsità di un testamento olografo. La tesi della sufficienza del disconoscimento. Secondo un primo, e maggiormente diffuso, orientamento, la falsità di un testameno olografo può essere fatta valere da chi ne abbia interesse, attraverso un disconoscimento dell’atto. Intervenuto tale disconoscimento, sarà il soggetto beneficiario del testamento impugnato a dover proporre all’autorità giudiziaria domanda di verificazione, al fine di accertarne la genuinità, sobbarcandosi il relativo onere della prova (così Cass. n. 2474/05). La tesi della necessità della querela di falso. Secondo un diverso orientamento, la terzietà del soggetto rispetto al testamento olografo contro di lui prodotto rende necessario il ricorso allo strumento della querela di falso al fine di contestare la veridicità della scrittura testamentaria (così Cass. n. 16362/2003). Per altra parte della giurisprudenza, la possibilità di utilizzare lo strumento della querela di falso si pone come semplice alternativa al disconoscimento, in ragione delle diverse conseguenze che derivano dalla scelta di uno strumento anziché un altro, ovverosia la rimozione degli effetti del testamento solo tra le parti nel caso di disconoscimento o erga omnes nel caso di querela di falso (Cass. n. 4728/2007). L’intervento delle Sezioni Unite: la domanda di accertamento negativo. In tale contesto si inserisce la sentenza n. 12307/2015, in base alla quale il successore che intenda impugnare un testamento olografo che ritenga privo di autenticità non può né limitarsi a disconoscerlo, né essere costretto a procedervi attraverso la querela di falso: egli deve formulare domanda di accertamento negativo, con conseguente necessario assolvimento dell’onere probatorio circa quanto contestato. Le S.U. pongono a sostegno del principio di diritto enunciato la circostanza che esso permette di rispondere all’esigenza di mantenere il testamento olografo circoscritto nell’orbita delle scritture private, di evitare di dover individuare un criterio di distinzione tra la categoria delle scritture private con valenza probatoria di incidenza sostanziale e processuale elevata a tal punto da richiedere la querela di falso, di non equiparare il testamento olografo ad una qualsivoglia scrittura proveniente da terzi e di evitare che il semplice disconoscimento di un atto caratterizzato da tale efficacia dimostrativa renda troppo gravosa la posizione dell’attore che si professa erede. La decisione è inoltre sostenuta dalla necessità di evitare il dispendio di risorse giudiziarie che potrebbe derivare dal procedimento incidentale che consegue alla querela di falso.

Vai alla sentenza Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, 15/06/2015 n. 12307


LE REGOLE IN MATERIA DI ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE

Il Giudice di legittimità, richiamando giurisprudenza già consolidata e parzialmente formulandone di nuova, ha indicato le regole (sia sostanziali che processuali) da adottare onde individuare i casi di addebito della separazione personale tra i coniugi. In particolare, la violazione dell'obbligo di fedeltà coniugale, specie se attuata attraverso una stabile relazione extraconiugale, determina normalmente l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza e costituisce, di regola, causa della separazione personale, addebitabile al coniuge che ne è responsabile, sempre che non si constati la mancanza di un nesso di causalità tra l'infedeltà e la crisi coniugale, mediante un accertamento da cui risulti la preesistenza di una rottura già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale (cfr. Cass. n. 13592/06). Inoltre, l'abbandono della casa familiare, che di per sé costituisce violazione di un obbligo matrimoniale, non concreta tale violazione se si provi che esso è stato determinato dal comportamento dell'altro coniuge, ovvero quando il suddetto abbandono sia intervenuto nel momento in cui l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata, ed in conseguenza di tale fatto (cfr. Cass. n. 10719/13). Grava sulla parte che richieda, per l'inosservanza degli obblighi familiari, l'addebito della separazione all'altro coniuge l'onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza; mentre è onere di chi eccepisce l'inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell'infedeltà nella determinazione dell'intollerabilità della convivenza, provare l'anteriorità della crisi matrimoniale all'accertata violazione del dovere derivante dal matrimonio (cfr. Cass. n. 2059/12).

Vai alla sentenza Cassazione civile, sez. I, 05/02/2014 n. 2539


LA DONAZIONE IN CONTO DI LEGITTIMA E' SOGGETTA A RIDUZIONE ANCHE IN CASO DI DISPENSA DA COLLAZIONE

Il Giudice di legittimità (Sezione II Civile, sentenza 30 maggio 2017 n. 13660) ha stabilito essere soggetta a riduzione, secondo i criteri indicati negli articoli 555 e 559 del cod. civ., la donazione fatta a un legittimario dal defunto a valere in conto di legittima e per l'eventuale esubero sulla disponibile, con dispensa da collazione. Tale clausola, infatti, non implica una volontà del de cuius diretta ad attribuire alla stessa liberalità un effetto preminente rispetto alle altre in caso di esercizio dell'azione di reintegrazione da parte degli altri legittimari lesi, secondo quanto invece stabilito per le disposizioni testamentarie dall'art. 558 co. 2° cod. civ., e rimanendo, pertanto, il medesimo donatario esposto alla riduzione per l'eccedenza rispetto alla sua porzione legittima. Per la Cassazione la dispensa dalla collazione e la volontà del donante di attribuire il donatum in conto di legittima sono disposizioni tra loro del tutto conciliabili. La prima agisce nei rapporti tra coeredi, mentre cosa del tutto diversa è la dispensa dall'imputazione, la quale è destinata a operare nei confronti degli altri legittimari e serve a spostare il limite che la legittima rappresenta per i poteri di disposizione del de cuius. La dispensa dalla collazione è volta a esonerare il donatario dal conferimento del donatum, con l'effetto che la successione si svolge, e la determinazione delle quote di eredità si attua, come se la donazione non fosse stata fatta e il bene, che ne fu l'oggetto, non fosse uscito dal patrimonio del de cuius a titolo liberale. La dispensa dall'imputazione esige, tuttavia, un'apposita manifestazione di volontà, distinta dalla dispensa dalla collazione, presumendosi, altrimenti, che la donazione sia fatta in conto di legittima e solo per l'eccedenza, a valere sulla disponibile.

Vai alla sentenza Cassazione Civile, Sez. II, 30/05/2017 n. 13660

 


LA CASSAZIONE CHIARISCE CONTENUTI ED IMPUGNABILITA' DEI PROVVEDIMENTI EMESSI EX ART. 156 COD. CIV.

Con la sentenza n. 9671/13, il Giudice di legittimità rileva che i due mezzi previsti dall'art. 156 cod. civ. (ordine a terzi tenuti a corrispondere somme di denaro all'obbligato ed il sequestro di beni di quest'ultimo) possono essere concessi anche contemporaneamente. Il presupposto per la concessione di tali garanzie non è un generico pericolo nel ritardo bensì un preciso inadempimento dell'obbligato. I mezzi di tutela ex art. 156 cod. civ. possono essere richiesti e concessi nel corso del procedimento, con semplice istanza riportata nel processo verbale ovvero con ricorso separato. Concluso il giudizio di merito, il procedimento va svolto in camera di consiglio. I mezzi di tutela concessi possono essere revisionati in caso di mutamento delle circostanze, anche costituite dall'attenuarsi del pericolo di futuri inadempimenti.

Vai alla sentenza Cassazione Civile, Sez. I, 22 aprile 2013 n. 9671 (da: www.ilcaso.it)  


NON SEMPRE GLI ACCORDI PREMATRIMONIALI SONO NULLI

Con un innovativo intervento (sentenza n. 23713/12) il Giudice di legittimità ha stabilito che l’accordo con cui, prima del matrimonio, il futuro coniuge si impegna a ritrasferire all’altro la proprietà di un immobile “in caso di fallimento di matrimonio” ed a titolo di corrispettivo per le spese sostenute per la ristrutturazione di altro locale adibito a residenza familiare, non configura un’ipotesi di accordo pre-matrimoniale nullo per illiceità della causa, bensì una “datio in solutum”, in cui l’impegno negoziale assunto è collegato “alle spese affrontate”, e il fallimento del matrimonio non rappresenta la causa genetica dell’accordo, ma è degradato a mero evento condizionale. Quanto sopra costituisce un'eccezione atteso che, in linea generale, gli accordi assunti prima del matrimonio o magari in sede di separazione consensuale ed in vista del futuro divorzio, sono nulli per illiceità della causa, perché in contrasto con i principi di indisponibilità degli status e dello stesso assegno di divorzio.

Vai alla sentenza Cassazione 21/12/2012 n. 23713


LA CASSAZIONE DELINEA I PARAMETRI PER LA DETERMINAZIONE DELL'ASSEGNO DI MANTENIMENTO DEI FIGLI TRA CONIUGI SEPARATI

Nella determinazione del contributo per il mantenimento del figlio minore, l'interesse della prole non può essere individuato solo sulla base di un dato come l'età, isolato dalle aspirazioni, dalle capacità del minore e dal contenuto socio-economico della famiglia nonché dalle aspettative che derivano o possono derivare dalla collocazione sociale della famiglia. Con la sentenza n. 13630/11, la Suprema Corte ha ribadito che, ai fini della determinazione dell'assegno di mantenimento a favore del figlio minore, le risorse economiche dell'obbligato hanno rilievo non soltanto nel rapporto proporzionale col contributo dovuto dall'altro genitore, ma anche in funzione diretta di un più ampio soddisfacimento delle esigenze del figlio; posto che i bisogni, le abitudini e le sue prospettive di vita non potranno non risentire del livello socio-economico in cui si colloca la figura del genitore.
 

RESPONSABILITA' ENDOFAMILIARE E DANNO ESISTENZIALE 

La Corte d'Appello di Roma, con la sentenza n. 2682/11,  ha stabilito importanti principi in tema di responsabilità endofamiliare e di risarcimento del danno esistenziale. La questione era stata sollevata da una donna avverso la sentenza di un tribunale che le aveva negato il diritto al risarcimento dei danni, giudicati non provati, patiti in conseguenza dei comportamenti immorali e prevaricatori assunti dal coniuge nei suoi confronti durante la loro vita matrimoniale, conclusasi con separazione giudiziale con addebito. La Corte d’Appello ha evidenziato, al fine di pervenire al convincimento di fondatezza o meno della pretesa risarcitoria azionata dall’appellante, la liceità del ricorso alle presunzioni, nonchè “ad ogni elemento probatorio ritenuto utile alla valutazione della domanda anche se proveniente da altro procedimento giudiziario (civile o penale) che abbia visto accertare fatti e circostanze rilevanti nel diverso giudizio”. Quindi, accertato che il marito dell’appellante, durante tutta la durata della vita coniugale, aveva tenuto “comportamenti altamente lesivi della dignità personale della moglie cagionandole danni fisici e morali di indubbio rilievo”, tra cui la frequentazione di prostitute e la costrizione della donna a intrattenere rapporti sessuali, ha giudicato il convenuto civilmente responsabile per violazione dei doveri nascenti dal matrimonio ex artt. 143 e segg. c.c. A questo punto, la Corte territoriale ha preso in considerazione il conseguente aspetto del risarcimento del danno e, dopo aver precisato, in linea generale, che “il rispetto della dignità e della personalità di ogni componente del nucleo familiare assume i connotati di diritto inviolabile”, ha rilevato come, nella fattispecie, l’appellante fosse “stata privata del diritto alla libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la quale trova riconoscimento nelle norme di cui agli artt. 2, 29 e 30 Cost.”. Di qui, il risarcimento del danno esistenziale patito dalla vittima, direttamente conseguente al “clima di violenza e sopraffazione creato nell'ambiente familiare dal comportamento dell'appellato”, alle “paure e sofferenze inferte alla coniuge” ed al “peggioramento delle sue capacità di relazionarsi con persone di sesso maschile”, nonché con tutte le altre all’esterno del proprio nucleo familiare. La Corte ha quindi precisato come la violazione dei diritti fondamentali della persona umana, collocati al vertice della gerarchia dei diritti costituzionalmente garantiti, debba essere risarcita (quale lesione in sé ed indipendentemente dai suoi profili patrimoniali), non come danno morale ma, espressamente, come “danno esistenziale” (voce, questa, che, secondo la Corte di Appello, “si avvia ormai a costituire un autonomo titolo di danno”) e secondo la regola di responsabilità aquiliana contenuta nell'art. 2043 c.c. in combinato disposto con l'art. 2 cost.

Vai alla sentenza Corte Appello di Roma,  Sez. III, 14/06/2011 n. 2682


IL DIRITTO DEL PAZIENTE AD INTERROMPERE IL TRATTAMENTO TERAPEUTICO E GLI OBBLIGHI DEL MEDICO CURANTE

La Procura di Roma (in sede di parere) ed il Giudice civile del medesimo Tribunale (in sede di decisione su ricorso ex artt. 669 ter e 700 c.p.c. ) hanno affrontato -giungendo a conclusioni diverse- il noto "caso Welby".
La Procura ha considerato ammissibile l'azione cautelare per interrompere il trattamento sanitario volto a mantenere in vita il paziente; e ciò anche nell'ipotesi in cui il provvedimento comporti l'emergere di effetti definitivi ed irreversibili. Emerge una dicotomia tra l'art 32 Cost., che sancisce che "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario", ed il dovere del medico di proseguire la terapia, nelle ipotesi di compromissione della coscienza del paziente, finché ritenuta ragionevolmente utile ai sensi dell'art. 37 del codice deontologico. In altri termini quest'ultimo impone al medico di assumere autonomamente la decisione in ordine alla concreta fattibilità ed utilità del trattamento nell'ipotesi in cui il paziente non sia in condizione di decidere autonomamente (indipendentemente, quindi, dalla sua autodeterminazione in un momento antecedente).
Il Giudice civile ha, invece, dichiarato il ricorso inammissibile stante l'assenza di una specifica previsione normativa che sottragga alla discrezionalità del medico curante la scelta se proseguire o meno nella terapia successivamente alla perdita di conoscenza derivante dalla somministrazione dei sedativi. Il Giudice del cautelare, pur osservando che esiste un diritto di autodeterminarsi del paziente, una sua libertà di scelta del come e del quando concludere il proprio ciclo vitale nonché il dovere del medico di tener conto delle direttive espresse dal paziente manifestate precedentemente al sorgere dello stato di incoscienza, ha rilevato che incombe in ogni caso sul medico un preciso obbligo giuridico di mantenere in vita il paziente; obbligo che si arresta solo di fronte all'incurabilità della malattia ed alla futilità del trattamento (cd. accanimento terapeutico). Le nozioni di futilità o di accanimento terapeutico sono però concetti discrezionali ed appartengono ad un campo non ancora regolato dal diritto; dunque non è possibile per un Giudice consentire l'esecuzione coattiva in caso di mancato adempimento spontaneo da parte del medico.

Vai al ricorso ex artt. 669 ter e 700 c.p.c. proposto dal Sig. P. Welby innanzi al Tribunale Civile di Roma
Vai al Parere 11/12/2006 della Procura della Repubblica di Roma
Vai all'Ordinanza 16/12/06 del Tribunale di Roma - 1° Sez. Civile nel procedimento R.G. 78596/06
Vai al commento del Dott. Guido Alpa, in "Resp. civ. e prev." 2007, 1, 78


L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO PUO' IDONEAMENTE TUTELARE ANCHE IPOTESI DI INCAPACITA' ASSOLUTA

Con la sentenza n. 13584/06, la Corte di Cassazione affronta per la prima volta una delle problematiche più delicate relativamente alla figura dell'amministrazione di sostegno, recentemente introdotta nel nostro codice civile con L. n. 6/2004, individuando i criteri interpretativi utili alla scelta, da parte del Giudice, per l'applicazione dell'amministrazione di sostegno ovvero dell'interdizione. Assume al riguardo preliminare importanza il rilievo attinente alla dichiarata finalità della L. 6/2004 consistente, come sancito nel suo art. 1, nell'obiettivo di "tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente". Se è vero che la Legge n. 6/2004 risulta integralmente trasfusa nel codice civile proprio ad eccezione della disposizione di cui al suo art. 1, è anche vero che la Corte Costituzionale (dec. n. 440 del 09/12/05) ha ravvisato la assoluta complementarità degli istituti dell'amministrazione di sostegno e dell'interdizione nel nostro ordinamento. Ciò in ragione delle differenti gradazioni di protezione che essi assicurano e che il Giudice investito della singola problematica è chiamato a valutare con suo insindacabile giudizio se correttamente motivato. Ferma la maggiore flessibilità dello strumento costituito dall'amministrazione di sostegno rispetto alla tendenziale definitività della scelta per l'interdizione, la Corte d'Appello di Salerno -giudice a quo- ha affermata l'incompatibilità tra amministrazione di sostegno ed un'assoluta incapacità del soggetto coinvolto di tutelare i propri interessi. Su questo aspetto della decisione si concentra il giudicato di legittimità osservando come, in astratto, esso non risponda ad un'adeguata lettura delle norme come novellate. La volontà del legislatore, se non ha realizzato la sussistenza di istituti incompatibili, non ha nemmeno previsto che, necessariamente, la presenza di un amministratore di sostegno debba convivere con una sia pur minima capacità del beneficiario. Ed a ciò non osta né il regime previsto per il caso di conflitto tra quanto deciso dall'amministratore e quanto voluto dal beneficiario (art. 410, co. 2, cod. civ.), né la necessità della previsione degli atti che l'amministratore di sostegno può compiere in sostituzione del beneficiario (art. 405, co. 4. n. 3, cod. civ.). Ed infatti entrambe le disposizioni non risultano preclusive di una sostituzione generale dell'amministratore di sostegno rispetto al beneficiario, essendo questa implicitamente riconoscibile come possibile in virtù del sopra citato art. 1 della l. 6/2004, che ne prevede l'operatività anche a favore di soggetti del tutto privi di autonomia. Secondo la Cassazione, quindi, è solo la sensibilità del Giudicante a dover valutare se le circostanze concrete suggeriscano, anche in caso di totale incapacità, la scelta dell'amministratore di sostegno o quella del tutore e, quindi, dell'interdizione.

Vai alla sentenza Cassazione Civile, Sez. I, 12/06/2006 n. 13584


NON E' RIPETIBILE L'IMPORTO PERCEPITO A SEGUITO DI ASSEGNO DI MANTENIMENTO RIDOTTO OVVERO REVOCATO

Il Giudice di legittimità, con la sentenza n. 6864/09, affronta la questione in cui l'assegno di mantenimento, originariamente fissato per in un determinato importo, viene ridotto o, financo, revocato. L'art. 143, comma 3, c.c. nell'ambito dei diritti e doveri reciproci dei coniugi derivanti dal vincolo matrimoniale, pone l'obbligo di contribuzione su ciascuno dei coniugi ai bisogni della famiglia in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o svolto all'interno delle mura domestiche. Nel caso di separazione personale dei coniugi, l'obbligo di contribuzione -che nella fase di vita in comune è ancorato saldamente alle reali capacità contributive dei coniugi- non viene meno, ma necessariamente subisce una trasformazione risolvendosi nella corresponsione di un assegno attribuito, a seconda dei casi, a titolo di mantenimento o titolo alimentare. In particolare, la Suprema Corte ribadisce come gli effetti della decisione che nega il diritto del coniuge al mantenimento, ovvero ne riduce la misura, non possono comportare la ripetibilità delle maggiori somme corrisposte a tale titolo, in forza di provvedimenti non definitivi, qualora queste, per la loro non elevata entità, siano comunque destinate ad assicurare il diritto al mantenimento del coniuge, che non disponga di adeguati redditi propri, fino all'eventuale esclusione del diritto stesso od al suo affievolimento in un diritto meramente alimentare, che può derivare solo dal giudicato, e si presumono, in ragione della modestia del loro importo, consumate per il sostentamento del coniuge stesso, il quale non è pertanto tenuto ad accantonarle in previsione dell'eventuale successiva esclusione del diritto all'assegno o di una sua riduzione. Tale principio era stato seguito dalla giurisprudenza anche con riferimento all'assegno stabilito in via provvisoria con provvedimento presidenziale, ex art. 708 c.p.c.:  "In tema di separazione personale dei coniugi, il provvedimento presidenziale di fissazione di un assegno di mantenimento, emesso in via provvisoria ai sensi dell'art. 708, terzo comma, c.p.c., ha natura cautelare e tende ad assicurare i mezzi adeguati al necessario sostentamento del beneficiario fino all'eventuale esclusione, od al suo affievolimento in un diritto meramente alimentare, che può derivare solo dal giudicato, onde gli effetti della decisione che esclude il diritto del coniuge al mantenimento, oppure ne riduce la misura, non possono comportare (anche in relazione al dettato dell'art. 189 disp. att. c.p.c., che, nel disporre che il provvedimento presidenziale conserva efficacia pure nel caso di estinzione del processo, implicitamente stabilisce che questa possa essere modificata solo da un provvedimento di carattere sostanziale e definitivo) la ripetibilità delle (maggiori) somme, a quel titolo, sino a quel momento corrispostegli, le quali si presumono consumate per far fronte alle riferite necessità di sostentamento, a meno che non vengano dimostrati gli estremi dell'eventuale responsabilità processuale aggravata, ex art. 96 c.p.c., per avere il coniuge stesso "agito.in giudizio con mala fede o colpa grave", ai sensi del primo comma, ovvero "eseguito (il) provvedimento cautelare.senza la normale prudenza", ai sensi del secondo comma" (Cass. Civ., Sez. I, 12/04/06 n. 8512).

Vai alla sentenza Cassazione Civile, Sez. I°, 20/03/2009 n. 6864


LA CASSAZIONE INDICA I PRINCIPI PER LA CONGRUITA' DELL'ASSEGNO DI MANTENIMENTO E PER LA SUA EVENTUALE REVISIONE

Ribadendo il principio di diritto stabilito con la sentenza n. 14214/09 (v. notizia sotto) la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16800/09 , ha precisato che il Giudice, ritenuto il diritto all'assegno di mantenimento, al fine di valutarne la congruità deve: 1. prendere in considerazione il contesto sociale nel quale i coniugi hanno vissuto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e quantità dei bisogni emergenti del coniuge istante; 2. accertare le disponibilità economiche del coniuge a carico del quale va posto l'assegno, dando adeguata motivazione del proprio apprezzamento (cfr. Cass. 30 luglio 1997, n. 7127). Inoltre, il Giudice di legittimità ha individuato i seguenti "elementi valutativi" al fine della determinazione dell'assegno: A) proporzione alle sostanze dell'obbligato: deve considerarsi non solo la situazione economica al momento della proposizione della domanda giudiziale, ma anche il complesso della situazione economica, in relazione alla sua capacità economica nelle varie epoche anteriori alla decorrenza dell'assegno, con specifico riguardo alla sua attività lavorativa(Cass. 22 agosto 2006 n. 18241) secondo la quale è sufficiente un'attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi). La determinazione del reddito può aversi per via deduttiva, attraverso l'esame della dichiarazione dei redditi, sia attraverso l'accertamento compiuto dagli ufficiali fiscali, sia attraverso la considerazione che il coniuge pur non risultando avere beni propri o una propria fonte di guadagno, è tuttavia in grado di condurre una vita agiata. Deve anche tenersi conto di ciò che l'obbligato riceve dai genitori durante il matrimonio e che si protraggono in regime di separazione con carattere di regolarità e continuità. B) condizioni economiche del beneficiario: il bisogno del coniuge può essere sia totale che parziale, cioè dato dalla differenza tra il reddito di lavoro o patrimoniale del coniuge che deve essere mantenuto e quello di colui che è tenuto al mantenimento (cfr.: Cass. 28/04/2006 n. 9876, Cass. 12/06/2006 n. 13592 e Cass. 19/06/2003 n. 9806). Con riferimento alle condizioni dell'istante, vengono espressamente inclusi tra gli elementi che rappresentano un'utilità economicamente valutabile: §) l'ottenuto godimento della casa coniugale (cfr.: Cass. 30/01/1992 n. 961); §) la disponibilità del prezzo dell'alienazione di un immobile (cfr.: Cass. 02/07/1994 n. 6774); §) i redditi di qualsiasi natura ed i cespiti in godimento diretto (cfr.: Cass. 13/01/1987 n. 170). Quando il coniuge separato costituisca un nuovo rapporto di convivenza caratterizzata dalla stabilità, è corretto attribuire rilievo, ai fini della quantificazione del suo diritto al mantenimento da parte dell'altro coniuge, alle prestazioni di assistenza che gli vengano corrisposte da parte del convivente more uxorio, quando esse escludano o riducano lo stato di bisogno, a condizione che abbiano carattere di stabilità ed affidabilità (cfr.: Cass. 12/07/2007 n. 15611, Cass. 28/02/2007); 3) altre circostanze ex art. 156 comma II° cod. civ.: la norma contempla quelle situazioni in cui, pur in presenza di una possibilità di lavoro per il coniuge beneficiario, questi, cui non è addebitabile la separazione, non può essere costretto a ridimensionare e a trasformare un sistema di vita soprattutto quando, vista l'età in genere matura, non gli è possibile dare inizio o riprendere un'attività lavorativa. La Cassazione ha anche spiegato che, se prima della separazione i coniugi avevano concordato o anche solo tacitamente accettato che uno dei due non lavorasse, l'accordo può conservare efficacia anche durante la separazione, tendendo la disciplina di questa ad assicurare il più possibile gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza (cfr.: Cass. 18/08/1994 n. 7437). Si è, infatti, affermato che l'attitudine al lavoro del coniuge separato acquista rilievo non in senso astratto, quale generica possibilità di reperire e svolgere una qualunque attività lavorativa, ma soltanto se si traduca in una effettiva possibilità di svolgere un lavoro retribuito, valutati tutti gli elementi oggettivi e soggettivi (cfr. Cass. 17.10.1989).

Vai alla sentenza Cassazione Civile, Sez. I°, 17/07/2009 n. 16800


L'ASSEGNO DI DIVORZIO NON DEVE PRECLUDERE ALL'ONERATO DI FARE FRONTE ALLE ESIGENZE DI VITA PRIMARIE 

Intervenendo ancora una volta sulle modalità di determinazione dell'assegno di divorzio, il Giudice di legittimità, con la sentenza n. 14214/09, ha ricordato che "l'accertamento del diritto all'assegno di divorzio va effettuato verificando l'adeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente a consentirgli il mantenimento di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio". E' anche vero però che la liquidazione in concreto dell'assegno "va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, del reddito di entrambi, valutandosi tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio". Comunque sia, aggiunge la Corte, quand'anche in astratto l'ammontare dell'assegno per assicurare "lo stesso tenore di vita" potrebbe raggiungere importi elevati, bisogna considerare che detto assegno non può finre con l'incidere "sul reddito dell'onerato in misura tale da impedire a quest'ultimo di far fronte alle esigenze di vita di carattere primario".
 

NELLA DETERMINAZIONE DELL'ASSEGNO DIVORZILE NON POSSONO ESSERE VALUTATI I MIGLIORAMENTI DELLA SITUAZIONE ECONOMICA DEL CONIUGE OBBLIGATO CHE SCATURISCANO DA EVENTI AUTONOMI

Con la sentenza n. 20204/07, il Giudice di legittimità ha stabilito che, nella determinazione dell'importo dell'assegno di divorzio, occorre tener conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chieda l'assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell'attività svolta durante il matrimonio, mentre non possono essere valutati i miglioramenti che scaturiscano da eventi autonomi, non collegati alla situazione di fatto e alle aspettative maturate nel corso del matrimonio e aventi carattere di eccezionalità, in quanto connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali e imprevedibili. Le Corti di merito avevano deciso sul caso in esame tenendo conto della circostanza che il reddito dell'obbligato (un ex comandante dei vigili del fuoco), negli anni successivi alla separazione dalla moglie, erano andati progressivamente aumentando in conseguenza dell'attività libero-professionale dallo stesso già svolta in concomitanza con il suo precedente impiego pubblico. Secondo la Cassazione, nella determinazione dell'importo dell'assegno di divorzio, occorre tener conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chieda l'assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell'attività svolta durante il matrimonio; mentre non possono essere valutati i miglioramenti che scaturiscano da eventi autonomi, non collegati alla situazione di fatto e alle aspettative maturate nel corso del matrimonio e aventi carattere di eccezionalità, in quanto connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali e imprevedibili. La  Cassazione ha quindi annullato le precedenti decisioni rilevando come, nel caso di specie, il successo economico conseguito circa dieci anni dopo la cessazione della convivenza matrimoniale è derivato dalla sua attività libero-professionale, la quale costituisce, rispetto alla precedente attività di pubblico dipendente, non già il frutto di un prevedibile sviluppo di carriera, bensì un evento eccezionale, determinato dalla scelta di accedere al pensionamento anticipato e di dedicarsi alla vita professionale autonoma, una scelta non prevedibile sulla base delle circostanze preesistenti e comportante una forte assunzione di rischi.


L'ELEMENTO OGGETTIVO DEL RIPRISTINO DELLA COABITAZIONE TRA I CONIUGI E' POTENZIALMENTE IDONEO A FONDARE IL POSITIVO CONVINCIMENTO DEL GIUDICE QUANTO ALL'AVVENUTA CONCILIAZIONE

L'orientamento prevalente in giurisprudenza vuole che non sia sufficiente ai fini della prova dell'avvenuta riconciliazione tra coniugi separati e per gli effetti che ne derivano relativamente allo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 3, comma 2, lett. B L. 898/1970), che gli stessi abbiano ripristinato una mera forma di convivenza o, meglio, di coabitazione, essendo invece necessario il ripristino del consorzio familiare attraverso la restaurazione della comunione materiale e spirituale, caratteristica della vita coniugale (cfr., ex multis, Cass. Civ. 19947/2005; 12427/2004; 3744/2001)
Nella sentenza n. 12314/07, il Giudice di legittimità ha voluto tuttavia conferire maggior rilievo all'elemento della ripresa coabitazione, quale elemento esteriore oggettivamente riscontrabile ed inequivocabilmente diretto a dimostrare la seria e comune volontà dei coniugi di ripristinare la comunione di vita, piuttosto che a quegli stati d'animo che, appartenendo alla sfera dei sentimenti, sono tanto più difficili da accertare in quanto permeati di soggettività. In tale prospettiva si è ritenuto di doversi conferire al ripristino della coabitazione (che è altra cosa rispetto ad una vera e propria convivenza coniugale) quantomeno un valore presuntivo della volontà dei coniugi di voler superare il precedente stato di separazione in favore della ricostituzione del nucleo familiare. Sulla scorta di tale ragionamento la Corte ha ritenuto che spetta al coniuge interessato a negare l'avvenuta riconciliazione di dimostrare che, malgrado la coabitazione, per accordi fra le parti o per le modalità di svolgimento della vita familiare, la coabitazione stessa non integra una ripresa della convivenza e -pertanto- non si configura come un evento riconciliativo, idoneo ad interrompere il periodo di separazione.

 

L'ASSEGNAZIONE DELLA CASA CONIUGALE IN SEDE DI DIVORZIO HA UNA SPECIFICA VALENZA ECONOMICA

L'assegnazione della casa familiare deve essere considerata ai fini della determinazione dell'assegno di divorzio. E' questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione (Sez. 1° - 27/07/2005 n. 15722) che ha ribadito che è consentito "sacrificare" la posizione del coniuge titolare di diritti reali o personali sull'immobile adibito ad abitazione familiare (attraverso l'assegnazione della stessa -in sede di divorzio- all'altro coniuge) solo quando quest'ultimo si veda affidati i figli. Il Giudice di legittimità, con la sentenza in esame, pone in rilievo la natura economica del provvedimento di assegnazione, che si traduce in un risparmio per il coniuge assegnatario almeno pari al canone di locazione. L'assegno di divorzio (che è destinato invece a riequilibrare la debolezza economica di uno dei due coniugi) ha una funzione ben diversa; ma nella sua determinazione il Giudice dovrà tenere conto, in caso di assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, del vantaggio economico avuto da questi e del pregiudizio subìto dall'altro. E' da rilevare che tale previsione è espressamente contenuta nel Progetto di Legge n. 66 sul c.d. "affidamento condiviso", approvata dalla Camera dei Deputati il 07/07/05 ed attualmente in attesa di esame da parte del Senato. Sempre con la sentenza n. 15722/05, il Giudice di legittimità ha ribadito la non vincolatività -in sede di divorzio- dell'accordo  patrimoniale raggiunto dai coniugi nella separazione. Richiamando una giurisprudenza ormai consolidata, viene posta in risalto la diversità della disciplina dei due trattamenti: l'assegno di divorzio prescinde dagli obblighi di mantenimento e di alimenti (i quali operano invece in regime di convivenza e di separazione) e va determinato tenendo conto di tutti i criteri previsti dalla L. 898/70.

Vai alla sentenza Cassazione Civile - Sez. 1° n. 15722 del 27/07/2005


LE NUOVE NORME SULL'AFFIDAMENTO CONDIVISO DEI FIGLI 

La legge n. 54/06 introduce importanti modifiche all'art. 155 cod. civ., indicando gli obiettivi e i criteri ai quali il Giudice deve attenersi nell'adozione di provvedimenti relativi alla prole. La scelta di affidamento ad entrambi i genitori è qualificata come prioritaria e la potestà genitoriale deve essere esercitata congiuntamente: il Tribunale interverrà in caso di disaccordo. Quanto al mantenimento della prole, questo spetta ad entrambi i genitori in misura proporzionale ai loro redditi. Il Giudice ha comunque la facoltà di determinare l'entità dell'assegno di mantenimento. Previsioni specifiche vengono anche introdotte per i figli maggiorenni: il Giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del Giudice, è versato direttamente all'avente diritto.

Vai alla Legge 08/02/2006 n. 54 (in G.U. 01/03/2006 n. 50)


PRESUPPOSTI E NATURA DELLA SEPARAZIONE TRA I CONIUGI

Con la sentenza n. 21099/07, il Giudice di legittimità fa il punto sulle varie scelte di politica legislativa afferenti la separazione dei coniugi, precisdando che, pur dovendo la separazione dei coniugi trovare causa e giustificazione in situazioni di intollerabilità della convivenza oggettivamente apprezzabili e giuridicamente controllabili, per la sua pronuncia non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e di distacco spirituale di una sola delle parti. L'art. 151 c.c. prevede che la separazione giudiziale possa essere chiesta quando si verifichi, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza: la norma, innovativa del precedente regime, è manifestazione di una concezione del matrimonio e della famiglia che è andata modificandosi cosicché la possibilità attribuita dal nuovo testo a ciascun coniuge, a prescindere dalle responsabilità o dalle colpe nel fallimento del matrimonio, di richiedere la separazione, ne ha eliminato il carattere sanzionatorio ed ha modificato la posizione giuridica dei coniugi in relazione alla continuazione del rapporto quando l'affectio coniugalis sia venuto meno. Il giudice, dunque, per pronunciare deve verificare, in base ai fatti obiettivi emersi, compreso il comportamento processuale delle parti, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione ed a prescindere da qualsivoglia elemento di addebitabilità, la esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, la convivenza; pur a prescindere da elementi di addebitabilità a carico dell'altro: ove tale situazione d'intollerabilità si verifichi, anche rispetto ad un solo coniuge, questi ha diritto di chiedere la separazione.

Vai alla sentenza Cassazione Civile, Sez. I°, 09/10/2007 n. 21099


RILEVANZA PENALE DEL MANCATO VERSAMENTO DELL'ASSEGNO DI MANTENIMENTO

Con la sentenza n. 14013/07, la Cassazione Penale ribadisce che, in regime di separazione personale tra coniugi, non vi è interdipendenza tra il reato di cui all'art. 570, comma 2, numero 2, c.p. e l'inadempimento da parte dell'obbligato al versamento dell'assegno liquidato dal Giudice civile sia che tale assegno venga corrisposto sia che non venga corrisposto agli aventi diritto. Inoltre, l'assegno liquidato dal Giudice civile non fa stato nel processo penale né in ordine alle condizione economiche dell'obbligato né per quanto riguarda lo stato di bisogno degli aventi diritto, circostanze che devono essere entrambe accertate in concreto. Di conseguenza, la mancata corresponsione, specie ove parziale, dell'assegno di mantenimento non rende, per ciò solo, responsabile l'obbligato del reato di cui all'articolo 570, comma 2, numero 2, c.p.; mentre anche il completo adempimento dell'obbligo civile potrebbe lasciare spazio alla configurabilità del reato suddetto, dovendosi distinguere dalle nozioni civilistiche di "mantenimento" e di "alimenti" (nelle quali rientra anche ciò che è soltanto utile o che è conforme alla condizione dell'alimentando, oltre che proporzionale alle sostanze dell'obbligato) quella penale di "mezzi di sussistenza" (la quale si identifica in ciò che è strettamente indispensabile, a prescindere dalle condizioni sociali o di vita pregressa degli aventi diritto, come il vitto, l'abitazione, i canoni per utenze indispensabili, i medicinali, le spese per l'istruzione ed il vestiario). Ne consegue che la mancata -o minore- corresponsione dell'assegno stabilito dal Giudice civile non è sufficiente di per sé a dimostrare la responsabilità penale se non è accompagnata dalla prova che, in ragione di quella omissione, siano venuti meno i mezzi di sussistenza all'avente diritto. Pertanto, per la configurabilità del reato, deve positivamente dimostrarsi la sussistenza, in concreto, del duplice requisito dello stato di bisogno dell'avente diritto e della capacità economica dell'obbligato di fornire al primo i mezzi indispensabili per vivere. Quando invece il soggetto passivo non disponga di redditi propri, come normalmente avviene nel caso di minori, e quando l'assegno sia di importo appena adeguato al fine di assicurare la sua sussistenza, la relativa decurtazione, arbitraria e dipendente da fatto volontario dell'obbligato, incide necessariamente sull'adempimento dell'obbligazione alimentare ed integra gli estremi del reato. Anzi, in tal caso, sussisterebbe il reato anche in presenza della corresponsione integrale dell'assegno, quando il suo importo sia manifestamente inadeguato ad assicurare all'alimentando la soddisfazione degli stessi bisogni elementari dell'esistenza, cui l'obbligato ha l'onere di provvedere indipendentemente da qualsiasi statuizione del giudice civile e dai suoi limiti.

Vai alla sentenza Cassazione Sez. VI° Penale, 04/04/2007 n. 14013 - B


L'OBBLIGAZIONE ALL'ASSEGNO DI MANTENIMENTO CESSA SOLO QUANDO IL FIGLIO, PUR SE MAGGIORENNE, ABBIA ACQUISITO UN'INDIPENDENZA ECONOMICA BASATA SU UN LAVORO NON SALTUARIO

Lo svolgimento di un lavoro saltuario, limitato nel tempo, non basta ad esonerare il genitore obbligato perché non è stata raggiunta quell'indipendenza economica che richiede una prospettiva concreta di continuità dell'attività lavorativa. Lo ha ribadito il Giudice di legittimità con la sentenza n. 8227/09, precisando che lo stato di indipendenza economica dei figli maggiorenni di genitori separati non può prescindere da una situazione di stabilità dell'attività lavorativa svolta. Ciò vuol dire che il genitore obbligato al mantenimento non è più tenuto a pagare l'assegno se dimostra che la prole, ormai di maggior età, sia in grado di badare a se stessa attraverso il lavoro svolto. In pratica, quando è stata raggiunta la cosiddetta autosufficienza economia. Ne consegue che il figlio maggiorenne che ha un lavoro precario ha sempre diritto al mantenimento in quanto non ha ancora raggiunto quella prospettiva concreta di continuità nello svolgimento dell'attività lavorativa. La S.C. ha richiamato la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo la quale "l'obbligo del genitore, separato o divorziato, di concorrere al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento da parte di costoro della maggiore età, ma persiste finché non abbiano raggiunto l'indipendenza economica attraverso un'attività lavorativa con concrete prospettive di indipendenza ovvero non sia provato che, posti nelle concrete condizioni di addivenire a detta autosufficienza, non ne abbiano tratto profitto per loro colpa".

Vai alla sentenza Cassazione, Sez. I°, 06/04/2009 n. 8227


SOLO L'ACCERTATO RIFIUTO DI OPPORTUNITA' DI LAVORO PUO' ANNULLARE L'OBBLIGO DELL'ASSEGNO DI MANTENIMENTO

L'attitudine al lavoro proficuo, come potenziale capacità di guadagno, è un elemento valutabile dal giudice per definire la misura dell'assegno in sede di separazione, ma il mancato sfruttamento della supposta attitudine al lavoro non equivale ad un reddito attuale, né lascia -di per sé- presumere la volontaria ripulsa di propizie occasioni di reddito.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione precisando che l'inattività lavorativa non è necessariamente indice di scarsa diligenza nella ricerca di un lavoro, almeno finché non sia provato il rifiuto di una concreta opportunità di occupazione: solo in tal caso lo stato di disoccupazione potrebbe essere interpretato come rifiuto o non avvertita necessità di un reddito che condurrebbe ad escludere il diritto di ricevere dal coniuge, a titolo di mantenimento, le somme che il richiedente avrebbe potuto ottenere quale retribuzione per l'attività lavorativa rifiutata o dismessa senza giusto motivo. La teorica possibilità del coniuge privo di reddito, infatti,di reperire un'occupazione non elide il dovere di solidarietà ed il conseguente obbligo di condivisione dei beni e di sostegno verso il coniuge più debole, tanto più se, come nel caso di specie, la moglie era "casalinga" già prima della separazione, giacché dopo di essa, a differenza di quanto accade dopo il divorzio, permangono tendenzialmente, e sono tutelati per quanto possibile, gli effetti del matrimonio ed il regime di vita precedente la rottura della convivenza coniugale.

Vai alla sentenza Cassazione Civile - Sez. I° n. 12121 del 02/07/2004


REVOCABILITA' DEL FONDO PATRIMONIALE IN PREGIUDIZIO DEI CREDITORI

Ai fini della revocatoria ordinaria del fondo patrimoniale costituito antecedentemente all'assunzione di un'obbligazione, è sufficiente provare che l'atto impugnato potrebbe comportare una eventuale infruttuosità della futura esecuzione sui beni del debitore od, in ogni caso, una maggior difficoltà della stessa. Il carattere lesivo dell'atto dispositivo impugnato lo si desume pacificamente dall'entità della variazione del patrimonio del debitore, da cui consegue la consapevolezza di quest'ultimo di precludere o rendere quantomeno difficile l'attivazione coattiva del credito, in uno alla dolosa preordinazione dell'atto, a tal riguardo, dovendosi valorizzare, quale indice presuntivo, il lasso di tempo trascorso fra il compimento dell'atto di cui si chiede la revoca ed il sorgere del debito. Questi i principi stabiliti dalla Cassazione con la sentenza n. 24757/08, la quale -precisato che la costituzione del fondo patrimoniale limita l'aggredibilità dei beni del fondo- ricorda che l'actio pauliana ha la funzione non solo di ricostituire la garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del debitore, ma anche di assicurare uno stato di maggiore fruttuosità e speditezza dell'azione esecutiva diretta a far valere la detta garanzia. Nel caso di un atto a titolo gratuito, quale la costituzione del fondo patrimoniale, non è necessario provare il c.d. consilium fraudis del terzo, per cui è sufficiente che ricorrano le condizioni di cui al n. 1 dell'art. 2901 c.c. e, dunque, che il debitore conoscesse il pregiudizio che l'atto avrebbe arrecato al creditore o che, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, che esso fosse stato dolosamente preordinato al pregiudizio del soddisfacimento del credito stesso. Al fine di provare tale circostanza è sufficiente la presunzione della dannosità dell'atto, nel senso che è sufficiente per chi agisce provare che l'atto impugnato potrebbe comportare una eventuale infruttuosità della futura esecuzione sui beni del debitore ovvero una maggior difficoltà della stessa (analogamente: Cass. 06/12/07 n. 25433). Al contrario, è onere del convenuto eccepire l'insussistenza dell'eventus damni (cfr.: Cass. 18/03/05 n. 5972). Quanto al richiesto requisito della dolosa preordinazione dell'atto al fine di pregiudicare il soddisfacimento del diritto del creditore,la S.C. ritiene sufficiente la ricorrenza del dolo generico, sostanziantesi nella mera previsione del pregiudizio dei creditori, non essendo necessario il dolo specifico e cioè la consapevole volontà del debitore di pregiudicare le ragioni del creditore. A tale proposito, peraltro, va registrato come altra parte della giurisprudenza, ricordata dallo stesso Collegio nella sentenza in commento, ritenga invece che sia necessaria la volontà del debitore di contrarre debiti ovvero la sua specifica intenzione di porsi in una situazione di totale o parziale impossidenza (così: Cass. 27/02/85 n. 1716).

 

Vai alla sentenza Cassazione civile 07/10/2008 n. 24757


IL FONDO PATRIMONIALE E' OPPONIBILE AI TERZI SOLO SE ANNOTATO SULL'ATTO DI MATRIMONIO

Intervenendo di nuovo sull'opponibilità ai terzi del fondo patrimoniale, il Giudice di legittimità, con la sentenza n. 24798/08, ha stabilito che non basta la trascrizione dovendo -la costituzione del fondo- risultare anche dai registri dello stato civile. La costituzione del fondo patrimoniale va compresa tra le convenzioni matrimoniali. Di conseguenza, è sottoposta alle disposizioni previste dal codice civile per le forme di tali accordi, inclusa quella che condizione l'opponibilità ai terzi all'annotazione del relativo contratto a margine dell'atto di matrimonio. La Cassazione ha anche sottolineato che "la trascrizione resta degradata a mera pubblicità-notizia e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato civile". Insomma, l'annotazione sull'atto di matrimonio non ammette deroghe od equipollenti, restando irrilevante la conoscenza che i terzi abbiano acquisito altrove dell'avvenuta costituzione del fondo.

 

Vai alla sentenza Cassazione Civile, Sez. III°, 08/10/08 n. 24798