Clausola generale e caparra
I principi generali  e la disciplina delle fattispecie

di Federico Roselli
Consigliere della Corte di Cassazione

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Quanto segue è un capitolo del volume collettaneo (A.Cecchini, M.Costanza, M.Franzoni, A.Gentili, F.Roselli, G.Vettori, Gli effetti del contratto, Torino, 2002, 578) costituente il 5° dei tomi dedicati alla disciplina generale del contratto nel Trattato di diritto privato diretto da Mario Bessone e in corso di pubblicazione presso la casa editrice Giappichelli.

1.   La clausola penale. Nozione
2.   Funzione risarcitoria e funzione sanzionatoria della clausola penale
3.   Aspetti pratici della disputa circa la funzione, risarcitoria o sanzionatoria, della clausola penale
4.   Accessorietà della clausola penale all’obbligazione
5.   Imputabilità dell’inadempimento sanzionato con la clausola penale
6.   L’oggetto della clausola penale
7.   Penale per il ritardo nell’inadempimento (pena moratoria)
8.   Divieto di cumulo della prestazione principale con la penale
9.   Riduzione della penale
10. Se la riduzione possa essere disposta dal giudice d’ufficio
11. Riducibilità della clausola nei contratti stipulati con la pubblica amministrazione
12. Se la clausola penale possa essere compresa tra le clausole vessatorie
13. La caparra confirmatoria. Nozione
14. Funzione della caparra confirmatoria
15. Accessorietà e realità del patto di caparra confirmatoria
16. Effetti della consegna della caparra
17. La caparra e la multa penitenziale

 

1. La clausola penale. Nozione

Secondo la definizione contenuta nell’art. 1382, c. 1°, c.c., con la clausola penale si conviene che, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, uno dei contraenti è tenuto ad una determinata prestazione.

Essa ha l’effetto di limitare il risarcimento del danno derivante dall’inadempimento (cfr. art. 1218 c.c.) alla prestazione promessa, se non è stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore.

La funzione della clausola è pertanto e soprattutto quella di far risparmiare al contraente-creditore, che chieda il risarcimento alla controparte, debitore inadempiente, la prova dell’ammontare del danno. Non solo, ma la clausola esonera addirittura dalla prova sull’esistenza del danno, poiché il c. 2° dello stesso art. 1382 dice che essa è dovuta indipendentemente da detta prova. La clausola dunque opera a favore del contraente creditore, che può pretendere la determinata prestazione anche se dall’inadempimento sia derivato un danno di valore inferiore o addirittura se non sia derivato alcun danno; ma, se non sia stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore, può risolversi in favore della parte inadempiente giacché il danno effettivo può essere superiore alla prestazione convenuta (vedi infra, § 2).

La stessa funzione di liquidazione preventiva del danno caratterizza la caparra confirmatoria, prevista nell’art. 1385 c.c. e di cui si dirà tra breve (§ 13). Questa esercita però una maggiore funzione di stimolo all’adempimento poiché il contraente non inadempiente, anziché ritenere la caparra ricevuta o pretendere il doppio della caparra data, può pretendere l’esecuzione o la risoluzione del contratto, ed in tal caso il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali, ossia dagli artt. 1223 ss. c.c. (art. 1385 cit., c. 3°).

Assai diversa è invece la funzione della caparra penitenziale, di cui al successivo art. 1386 (infra, § 17). Questa, a differenza della clausola penale e della caparra confirmatoria, non rafforza il vincolo contrattuale ma lo indebolisce poiché accede ad una pattuizione del diritto potestativo di recesso: la caparra viene perduta, se fu data, o viene restituita nella misura del doppio, se fu ricevuta, dal recedente, il quale esercita così il diritto di pentirsi della stipulazione del contratto (ius poenitendi, da cui il nome di caparra penitenziale).

La clausola penale non può essere poi confusa con i patti che aggravino o limitino la responsabilità del debitore, ossia che in diverso modo condizionino la formazione della fattispecie di inadempimento e perciò non attengano all’ammontare del danno;oppure che riguardino questo ammontare, ma si limitino a porre un tetto massimo di risarcibilità, così permettendo la prova che il danno è minore. La differenza tra la clausola penale e questi patti, ai quali è estraneo ogni scopo di facilitazione probatoria, risulta più evidente quando li si accosti alle limitazioni o aggravamenti di responsabilità talvolta stabiliti dalla legge (ad esempio, l’art. 1710, c. 1°, c.c. dice che, se il mandato è gratuito, la responsabilità del mandatario per colpa viene valutata con minor rigore; per contro, a norma dell’art. 1839, nel servizio di cassette di sicurezza la banca è esonerata dalla responsabilità soltanto per caso fortuito). L’art. 1229 c.c., sul quale si dovrà qui tornare (§ 9), commina la nullità dei patti di preventiva esclusione o limitazione della responsabilità del debitore per dolo, per colpa grave o per violazione di norme di ordine pubblico.

Le clausole di decadenza da un diritto possono costituire uno stimolo al l’adempimento e, quando ciò si verifichi, può essere applicata per analogia la disciplina della clausola penale.

Clausole contrattuali di limitazione della responsabilità (exemption clauses), da non confondere con le previsioni di penali di ammontare inferiore al danno prevedibile, sono poi frequenti nel commercio internazionale: esse possono escludere la responsabilità per inadempimento causato da force majeure, sostanzialmente corrispondente all’impossibilità sopravvenuta del nostro codice civile (artt. 1256, 1463, 1464), oppure possono limitare la responsabilità al dolo o alla colpa grave (willful misconduct or gross negligence) oppure ancora porre un limite massimo di risarcibilità, anche fissandolo per relationem. Il problema maggiore che queste clausole pongono è dato dal possibile contrasto con le norme imperative della legislazione nazionale applicabile al contratto.

La clausola penale viene distinta in dottrina dalla dichiarazione di valore, che, inserita nel contratto, serve a calcolare l’ammontare di una futura prestazione pecuniaria, ad esempio, il risarcimento del danno per mancata consegna di una cosa. Una dichiarazione del genere suole essere inserita nel contratto di assicurazione contro i danni, ad opera del solo assicurato o di entrambi i contraenti (e allora si parla di polizza «stimata» o «tassata»), e concerne il valore della cosa assicurata: ldella dichiarazione unilaterale è di limitare in ogni caso l’indennizzo al valore dichiarato, ma senza esonero dell’assicurato dalla prova del danno; la dichiarazione nella polizza stimata (dichiarazione di volontà e non di scienza) avrebbe invece l’effetto di invertire l’onere della prova, ossia di porlo a carico dell’assicuratore che, verificatosi il danno, ne contesti l’ammontare.

Non può essere considerata come clausola penale, ma presenta piuttosto i caratteri della transazione, la stipulazione con cui le parti stabiliscono la misura di un danno già verificatosi.

Talvolta la dottrina parla di penale testamentaria con riferimento a casi eterogenei di disposizioni mortis causa con cui il testatore si propone di spingere l’erede o il legatario a determinati comportamenti, con la comminatoria di certi svantaggi patrimoniali; tale comminatoria viene formulata attraverso la previsione di una decadenza dal lascito, eredità o legato, oppure della risoluzione giudiziale di cui all’art. 648, c. 2°, c.p.c., oppure ancora attraverso l’imposizione di una condizione risolutiva. Questi casi non sono però riconducibili alla clausola penale poiché in essi la volontà testamentaria impone oneri e non obblighi.

In ogni caso la clausola penale accede ad un’obbligazione (infra, § 3): tale non è la cosiddetta obbligazione naturale (art. 2034 c.c.), nella quale manca il vinculum iuris, e perciò l’azione giudiziaria nonché la tutela risarcitoria; una convenzione che imponesse una penale per il mancato assolvimento di un dovere morale o sociale potrebbe tuttavia trasformare questo in un’obbligazione civile, ossia contrattuale, e mantenere così la sua validità. L’attitudine di una clausola penale a rendere valida un’obbligazione, che altrimenti rimarrebbe giuridicamente irrilevante, è affermata già nell’epoca del diritto comune. Pothier accomuna quest’ipotesi a quella in cui una persona prometta il fatto del terzo: l’obbligazione a carico del terzo non sorge ma, se la promessa è munita di clausola penale, il promittente deve pagare la penale al promissario. In questa seconda ipotesi è evidente l’origine dell’art. 1381 del nostro codice civile attuale.

Oggi si è al di fuori della clausola penale quando si fa riferimento a prestazioni dovute per inadempimento di un’obbligazione altrui: ipotesi in cui si è talvolta parlato di clausola penale impropria. Altri ha parlato di clausola impropria con riferimento a quella che imponga la prestazione al debitore inadempiente solo se il creditore provi di aver sofferto un danno, restando così limitata la sua funzione alla fissazione dell’ammontare. Sulla validità di questa clausola, che derogherebbe al c. 2° dell’art. 1382 c.c., vedi in seguito, nel § 2.

La clausola penale non dà luogo ad un’obbligazione alternativa: il debitore non potrebbe liberarsi dall’obbligazione principale (art. 1285 c.c.) offrendo la prestazione prevista nella clausola, come avverrebbe se si trattasse di multa penitenziale (infra, § 17). Particolari figure di clausole penali sono quella con cui i contraenti convengano la misura degli interessi moratori ai sensi dell’art. 1224, c. 2°, c.c. (penale per il «ritardo nell’adempimento»: art. 1382 cit., 1° c.), oppure quella con cui venditore e compratore con riserva di proprietà stabiliscano che in caso di risoluzione del contratto le rate pagate restino acquisite dal venditore a titolo d’indennità (art. 1526, c. 2°, c.c.).

Non rientrano nella previsione dell’art. 1382 c.c. le penali legali, comminate sia nel codice civile (per esempio, gli interessi moratori, per il caso di ritardo nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria: art. 1224, c. 1°, c.c.) sia in leggi speciali (per esempio, le cinque mensilità di retribuzione, dovute al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo ai sensi dell’art. 18, c. 4°, L. 20/05/1970, n. 300). Però le relative problematiche spesso coincidono con quelle proprie della clausola pattizia. Circa la configurabilità della clausola per la tutela di obbligazioni extracontrattuali vedi infra, § 4.

Le penali giudiziali vengono imposte dal giudice alla parte soccombente onde rafforzare la sentenza di condanna, come avviene ai sensi dell’art. 86, c. 1°, r.d. 29 giugno 1939, n. 1127 in materia di brevetti per invenzioni o dell’art. 66, c. 2°, r.d. 21 giugno 1942, n. 929, in materia di marchi.

Qui la funzione afflittiva della penale prevale in modo evidente su quella risarcitoria (vedi il § seguente), ciò che ha indotto la dottrina a considerarle poco in armonia col sistema privatistico italiano. Le pene giudiziali possono accostarsi alle astreintes del diritto francese, vale a dire alle sanzioni pecuniarie, provvisorie o definitive, che assicurano l’esecuzione di una sentenza e vengono imposte dallo stesso giudice che l’ha pronunciata o, eccezionalmente, da altro giudice; esse possono aggiungersi ai «dommages intérêts» (l. 9 luglio 1991, n. 91-650, artt. 33-37 e decreto 31 luglio 1992, n. 92-755, artt. 51-53).

L’art. 79 c.c. vieta la clausola penale per il caso di violazione della promessa di matrimonio.

 

2. Funzione risarcitoria e funzione sanzionatoria della clausola penale

La dottrina meno recente poneva in risalto solo la funzione risarcitoria della clausola penale, ossia attinente alla determinazione quantitativa del danno, che ne veniva semplificata, anche se ammetteva che la non necessità di provare l’esistenza stessa del danno (art. 1382, c. 2°) rendeva più gravosa la posizione dell’inadempiente. Si ammise poi che tale più gravosa posizione potesse produrre un effetto compulsivo sul debitore e così potesse più facilmente indurlo all’adempimento e si ravvisò perciò nella clausola la comminatoria di una sanzione, ossia di un’afflizione diversa dall’obbligo di risarcire il danno: entrambe le funzioni, risarcitoria e punitiva, erano «essenziali, tipiche e insopprimibili». La funzione punitiva era evidente, in particolare, quando la clausola fosse stipulata per un ammontare superiore al danno, inteso come diminuzione patrimoniale conseguente all’illecito, e si osservò che in tal caso la funzione risarcitoria veniva posta in secondo piano.

La dottrina successiva assegnò alla clausola penale la sola funzione sanzionatoria, così considerandola come una pena privata. Il risarcimento del danno non era sufficiente a stimolare il debitore all’adempimento perché non sempre idoneo a riparare i danni non patrimoniali (art. 2059 c.c.) e talvolta inferiore al profitto derivante dall’inadempimento.

Si pose così in evidenza il capoverso dell’art. 1382, e si escluse, anche sulla base della relazione ministeriale al codice (n. 632, che parla appunto di «esclusione» della prova del danno), che esso disponesse semplicemente un’inversione dell’onere della prova del danno da inadempimento, ossia che il debitore potesse sottrarsi alla clausola provando la totale inesistenza del danno; si negò che il necessario carattere patrimoniale della prestazione (art. 1174 c.c.) comportasse sempre la ravvisabilità in concreto del danno patrimoniale; si osservò che fondare la concezione risarcitoria della clausola su una presunzione assoluta di danno equivaleva a null’altro che ad un artificio; si aggiunse che la preventiva e forfettaria liquidazione era contraria alla rigorosa nozione di danno, anche per l’aspetto aleatorio che essa comportava. Infine la concezione risarcitoria non spiegava perché la penale non potesse essere promessa da persona diversa dai contraenti, che comunque avrebbe potuto riparare il danno, né perché la penale potesse pattuirsi a favore di un terzo.

Questi consistenti argomenti non sono tuttavia bastati a far prevalere la concezione sanzionatoria della clausola penale.

Si è replicato anzitutto che la pattuizione a favore di un terzo è valida solo entro i limiti posti dall’art. 1411 c.c. ossia se quegli, avendo un interesse all’adempimento del contratto, abbia dichiarato di volerne profittare; con ciò il terzo abbandona la posizione di estraneo al rapporto obbligatorio e vi entra quale creditore.

L’ostilità della dottrina verso la concezione sanzionatoria è fondata anche sull’affermato contrasto tra potestà punitive stabilite dall’autonomia privata, invece che dalla legge, e principio costituzionale d’eguaglianza: il potere privato di punire darebbe luogo ad una diseguaglianza. Affermazione a cui si risponde però che proprio l’espressa previsione legislativa basta a rendere costituzionalmente legittima la sanzione prevista dall’atto di autonomia privata. Si tratterebbe in definitiva di uno dei tanti mezzi di autotutela del creditore, ossia di induzione all’adempimento attraverso mezzi extragiudiziali.

L’argomento più grave, addotto in favore della concezione sanzionatoria, concerne, come s’è detto, l’ipotesi che all’inadempimento non consegua in concreto alcun danno, e la persistenza dell’obbligo di pagare la penale, gravante pur sempre sul debitore inadempiente, stante la preclusione posta dal capoverso dell’art. 1382 c.c.

A questo argomento si obietta anzitutto che proprio tale preclusione impedisce in ogni caso la verifica dell’ipotesi. Non potrebbe ravvisarsi poi la funzione punitiva quando, in assenza di convenzione sulla risarcibilità del danno ulteriore (art. 1382, c. 1°, ultima parte, c.c.), l’ammontare della pena pattizia sia inferiore al danno effettivo.

È ben vero, inoltre, che parlare di presunzione assoluta di danno significa ricorrere ad una pura finzione, ma ciò che rimane decisivo per riconoscere alla clausola una funzione di facilitazione del risarcimento attraverso la liquidazione preventiva è l’ineliminabile possibilità astratta del danno da inadempimento e la conseguente non configurabilità della clausola là dove il danno non sia neppure ipotizzabile. La clausola può accedere tanto ad obbligazioni di mezzo quanto ad obbligazioni di risultato (quest’ultimo è il caso più frequente, specie nel commercio internazionale) ma presuppone sempre che possa prodursi il danno patrimoniale; un comportamento sanzionabile ma privo di contenuto patrimoniale (art. 1174 c.c.) non può identificarsi con l’inadempimento di un’obbligazione civile.

Per questa ragione non può essere considerata come clausola penale la previsione di una sanzione per la trasgressione di un impegno negoziale per sua natura insuscettibile di produrre un danno patrimoniale, come nel caso delle sanzioni comminate negli statuti associativi per infrazioni disciplinari.

Così pure, non possono essere ricondotte alla clausola le sanzioni disciplinari irrogabili ai sensi dell’art. 2106 c.c. dall’imprenditore al prestatore di lavoro; quando il comportamento indisciplinato costituisca anche inadempimento di uno degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, la sanzione colpisce l’indisciplina e non l’inadempimento. Essa si fonda perciò non su ragioni di diretta tutela degli interessi patrimoniali dell’imprenditore creditore bensì sull’esigenza di assicurare ordine ed efficienza dell’organismo-impresa, ossia dell’ordinamento di un’istituzione particolare. Non si ravvisa dunque una clausola penale a cui sia estranea la funzione risarcitoria.

 

3. Aspetti pratici della disputa circa la funzione, risarcitoria o sanzionatoria, della clausola penale

In realtà, e specie se si guarda all’esperienza, la disputa ha avuto un limitato rilievo pratico.

È rimasta confinata nell’ambito dottrinale la questione della validità di una clausola penale cosiddetta pura, ossia che preveda a carico del debitore inadempiente una prestazione a solo titolo di pena, da aggiungere all’integrale risarcimento del danno. Validità sostenuta in tempo ormai non recente dal Trimarchi, ma mai affermata in giurisprudenza. La dottrina successiva nota, al contrario, come le norme del codice prevedano la pattuizione di risarcibilità del «danno ulteriore» ma non anche del danno totale in aggiunta alla penale.

Altro aspetto pratico della disputa riguarda il potere giudiziale di riduzione della penale manifestamente eccessiva, previsto nell’art. 1384 c.c. e di cui si dirà nei §§ 9 e 10. La concezione risarcitoria porta a limitare il criterio di valutazione della misura eccessiva, e quindi della riduzione, al solo interesse patrimoniale del creditore, mentre la concezione sanzionatoria giunge a dar rilievo anche ad aspetti soggettivi dello svolgimento del rapporto obbligatorio, quale ad esempio lo stato di buona o di mala fede delle parti.

Secondo un autore il «preteso carattere sanzionatorio» della clausola sarebbe ravvisabile in concreto soltanto quando l’interesse del creditore, cospicuo nel momento della conclusione del contratto, impedisca la riduzione della penale, e tuttavia il danno si riveli inesistente nel momento dell’inadempimento.

Quanto alla questione della riducibilità della pena quando il fatto colposo del creditore abbia concorso alla produzione del danno (art. 1227 c.c.), la soluzione è indipendente dalla funzione, risarcitoria o sanzionatoria, della clausola. Chi sostiene la funzione risarcitoria, nega tuttavia l’applicabilità dell’art. 1227, ritenendo che l’interesse del creditore, giustificante la riduzione, sia da valutare solo con riferimento al momento di conclusione del contratto (art. 1384 c.c.) e non con riferimento alle sopravvenienze, quali il successivo fatto colposo del creditore stesso. Chi, all’opposto, sostiene la funzione sanzionatoria, ammette tuttavia la riducibilità per fatto colposo del creditore, o considerandolo analogo al parziale adempimento di cui all’art. 1384, c. 1°, oppure perché ritiene che l’interesse del creditore alla riduzione debba essere apprezzato come interesse morale all’applicazione della sanzione.

Riprendendo la tesi di Gorla, si è recentemente e in definitiva osservato che la clausola può esercitare funzioni diverse, sì che è vano lo sforzo di individuare la funzione tipica. Le parti possono inserirla nel contratto per creare una sanzione, fissando una penale superiore al danno prevedibile; possono limitare il risarcimento determinandola in misura inferiore ed escludendo il risarcimento del danno ulteriore; possono infine voler evitare le controversie sulla misura del risarcimento, anche relativamente ad una sola voce di danno. Né può escludersi che esse diano vita alla clausola per salvaguardare un interesse non patrimoniale del creditore (cfr. art. 1174 c.c.), che altrimenti rimarrebbe irrimediabilmente sacrificato dall’inadempimento; la clausola potrebbe così servire anche a superare l’irrisarcibilità del danno non patrimoniale stabilita dall’art. 2059 c.c.

Questa funzione per così dire promiscua della clausola penale nel diritto italiano non sussiste nella common law, dove si distingue tra liquidated damages, liquidazione forfettaria e anticipata dei danni da inadempimento, suscettibile di riduzione giudiziale, e penalty, sanzione per l’inadempimento.


4. Accessorietà della clausola penale all’obbligazione

Le espressioni «clausola» e «contraenti», contenute nell’art. 1382 c.c., fanno pensare che la pattuizione della penale possa accedere soltanto ad un contratto. Non solo perciò la clausola penale servirebbe a rafforzare le obbligazioni civili (s’è già detto nel § 1 delle cosiddette obbligazioni naturali) ma essa si riferirebbe soltanto a quelle pattizie. Su questo punto però le opinioni non concordano.

Secondo alcuni le espressioni letterali riportate non sarebbero decisive e comunque l’analogia permetterebbe di riferire l’art. 1382 c.c. alle obbligazioni extracontrattuali, come pure al patto d’opzione.

Altri ritiene che la clausola possa accedere soltanto ad un contratto, al massimo ammettendo che, se questo è nullo, la penale possa essere dovuta per la responsabilità precontrattuale (art. 1338 c.c.). Si nega in particolare che presupposto della clausola possa essere un’obbligazione risarcitoria ex art. 2043 c.c.: se infatti questa già esiste e viene concluso un negozio che fissa un termine e stabilisce una penale, si tratta di un contratto modificativo. Anche l’esempio, addotto di solito, della persona che, in procinto di svolgere un’attività pericolosa, promette una penale per i danni che potrà arrecare, fa dubitare che l’eventuale obbligazione risarcitoria nasca dall’art. 2043 c.c. e non piuttosto dal tacito impegno di non arrecare danno, assunto in corrispettivo della tolleranza dell’attività pericolosa; impegno contrattuale dunque.

L’individuazione di una propria funzione economico-sociale, vale a dire di una causa, della clausola penale permette di considerarla come un contratto distinto rispetto a quello a cui accede, e che a sua volta può essere caratterizzato dalle cause più diverse. La necessità del contratto, o quanto meno dell’obbligazione, principale, conserva tuttavia il carattere di accessorietà della clausola, con la conseguenza che la nullità dell’obbligazione principale rende nulla, per difetto di causa, la clausola, la quale non può neppure operare in difetto del presupposto, ossia dell’inadempimento dell’obbligazione principale. Né la clausola può sopravvivere quando il rapporto obbligatorio sia rimasto privo di effetto per il mancato avveramento della condizione a cui era subordinato.

La clausola non può essere considerata come patto aggiunto al contenuto del documento contrattuale, onde non vale il divieto di prova testimoniale posto dall’art. 2722 c.c.

L’art. 1210 c.c. del 1865 stabiliva non solo la nullità della clausola penale per nullità dell’obbligazione principale (c. 1°) ma anche la sopravvivenza dell’obbligazione principale alla nullità della clausola (c. 2°). Secondo alcuni questa seconda disposizione non è stata riprodotta nel codice del 1942 perché superflua, ossia perché l’ininfluenza dell’elemento accessorio su quello principale discende già dai principi. Ad altri questa conclusione non sembra valida in ogni caso, dovendosi valutare, in applicazione analogica dell’art. 1419 c.c., se il creditore avrebbe concluso il contratto principale anche in difetto della penale, ossia senza una garanzia di effettività dell’impegno assunto dal debitore.

Quanto alla forma, la natura accessoria della clausola indurrebbe a credere che la prescrizione legale di forma solenne per il contratto principale debba valere anche per la pattuizione accessoria. Ma qui prevale l’autonomia della causa, alla quale è legata la forma: la forma ad substantiam è giustificata dalla funzione del negozio giuridico onde non si estende alle clausole non riferibili a quella funzione. Libertà di forma per la clausola penale, dunque, salva diversa e specifica disposizione di legge, come nel caso in cui gli interessi vengano previsti in misura superiore al tasso legale (art. 1284, c. 3°, c.c.).

5. Imputabilità dell’inadempimento sanzionato con la clausola penale

L’art. 1218 c.c. connette l’obbligo di risarcire il danno all’inadempimento, o al ritardo nell’adempimento, imputabile al debitore. Che poi l’irrogazione di una qualsiasi sanzione, non soltanto penale, presupponga un illecito imputabile è affermazione che discende dai principi generali del diritto punitivo, a loro volta subordinati al principio costituzionale di ragionevolezza. Pertanto, sia che vogliasi attribuire alla clausola penale una funzione risarcitoria sia una funzione punitiva (retro, § 2), essa non può operare se non in conseguenza di una inadempimento imputabile.

Se la previsione di una sanzione per fatto non imputabile, la cui legittimità è stata pure sostenuta in tempo non recente, è contraria al principio costituzionale ora detto, si ritiene tuttavia valida una clausola contrattuale che imponga un effetto sfavorevole al debitore inadempiente, o in ritardo nell’adempimento, ancorché non versante in colpa: si tratta però, in tal caso, di clausola atipica di assunzione di rischio e non di clausola penale. Così, ad esempio, quando un contratto d’appalto preveda il pagamento immediato del prezzo anche per lavori ritardati per forza maggiore.

Da tutto ciò discende che la pena è dovuta quando l’inadempimento derivi dal mancato conseguimento di un’autorizzazione amministrativa, tuttavia prevedibile dal debitore, ma non è dovuta quando questi possa opporre al creditore l’exceptio inadimpleti contractus.

In relazione alla possibilità che l’ammontare della pena pattizia risulti inferiore al danno effettivo (vedi supra, § 2) alcuni autori ne escludono l’efficacia nel caso in cui l’inadempimento sia dovuto a dolo o colpa grave.


6. L’oggetto della clausola penale

Poiché l’art. 1382 c.c. designa l’oggetto della clausola penale in una «determinata prestazione», prevale la tesi che riconduce a questa generica espressione non soltanto il pagamento di una somma di denaro ma anche prestazioni di dare o di fare, purché determinate o determinabili, ed anche l’estinzione di un debito, o, ancora, la compensazione con importo dovuto ad altro titolo. Nel caso in cui tanto la prestazione principale quanto la penale consistano nel pagamento di una somma di denaro, occorre distinguere.

A) Se viene ritardata la prestazione principale, il risarcimento del danno è costituito dalla penale, che può essere stata pattuita anche in misura proporzionale ai giorni di ritardo. Se è stata convenuta anche la risarcibilità del danno ulteriore ai sensi del c. 1° dell’art. 1382 c.c., il debitore inadempiente dovrà pagare gli interessi di mora ed eventualmente il maggior danno (art. 1224 c.c.), ma non nel loro intero ammontare (data l’impossibilità di cumulare penale e risarcimento integrale: vedi supra, § 2) bensì nella differenza tra l’ammontare di questo e la penale.
Questa può consistere anche nel pagamento di interessi inferiori al tasso legale, ma se la sua misura risulti irrisoria può essere nulla in quanto idonea ad escludere o a limitare la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave (art. 1229 c.c.; vedi più ampiamente infra, § 13).

B) Se viene ritardato il pagamento della penale, essa non è rivalutabile poiché costituisce debito di valuta; né ciò contrasta con la sua finalità risarcitoria, che è propria anche degli interessi moratori, pur essi oggetto di un debito di valuta 65. Tuttavia sono dovuti gli interessi e l’eventuale maggior danno ai sensi dell’art. 1224 66, il quale si applica in luogo dell’art. 429 c.p.c. se la penale si riferisca ad un credito di lavoro. Gli interessi sulla penale, moratori e non compensativi, sono dovuti dal momento della domanda.

La penale può consistere anche nel trasferimento del diritto su una cosa (clausola con effetto reale), né a ciò è d’ostacolo il potere di riduzione attribuito al giudice dall’art. 1384 c.c.: di fronte all’impossibilità di esercitare questo potere per l’indivisibilità della cosa, il giudice può disapplicare la clausola eccessiva ed applicare le norme codicistiche sul risarcimento del danno. L’invalidità della clausola con effetto reale può piuttosto derivare dalla violazione del divieto di patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c. Nel diritto tedesco, se il creditore ottiene la penale non pecuniaria, non può pretendere l’ulteriore risarcimento (§ 342 BGB).

 

7. Penale per il ritardo nell’inadempimento (pena moratoria)

La clausola penale può riferirsi all’inadempimento ritardato oppure a quello definitivo. Per il regime degli interessi sulla somma dovuta a titolo di penale si rinvia al § precedente.

Qualora la penale sia prevista insieme ad un termine non essenziale di adempimento dell’obbligazione principale, essa è dovuta se il superamento del termine superi i limiti della normale tolleranza oppure vi sia stata diffida ad adempiere.

Nonostante un remoto precedente contrario, la giurisprudenza è attualmente orientata nel senso di non richiedere la costituzione in mora per la nascita del diritto alla penale, in ciò trovando l’adesione di tutta la dottrina, la quale tuttavia non esclude che l’indugio del creditore nel pretendere possa equivalere a tolleranza. È possibile che al ritardo segua l’inadempimento definitivo ed in tal caso alla penale per il ritardo potrà aggiungersi quella per l’inadempimento definitivo, se prevista, oppure il risarcimento del danno ulteriore. È vero anche l’inverso: stipulata la penale per l’inadempimento non definitivo, il creditore può chiedere il risarcimento del danno ulteriore da ritardo.

Nelle obbligazioni di durata la penale può essere chiesta più volte, in conseguenza dei diversi periodi di inadempimento.

 

8. Divieto di cumulo della prestazione principale con la penale

A norma dell’art. 1383 c.c. il creditore non può domandare insieme la prestazione principale e la penale, se questa non è stipulata per il semplice ritardo. In dottrina si è assimilato l’adempimento ritardato a quello inesatto per il modo o per il luogo, in ciò seguendo l’esempio del codice civile tedesco, che nel § 341 permette il cumulo della penale con la prestazione, se questa non è stata eseguita in modo esatto ed in particolare nel tempo debito.

Il creditore può chiedere l’adempimento del contratto e, in subordine o successivamente, la penale: la domanda del primo non preclude la domanda della seconda. Non può il creditore, però, proporre entrambe le domande senza graduarle giacché il giudice non può sostituirsi alla parte nella scelta.

Ci si chiede se sia vero il contrario, ossia se, chiesta la penale, possa poi chiedersi l’adempimento. Punto di partenza per rispondere al quesito è l’art. 1453, c. 2°, c.c., secondo cui la risoluzione del contratto può essere chiesta quando è stato già chiesto l’adempimento, ma questo non può chiedersi quando si è chiesta la risoluzione. È evidente la ratio legis: fallita la domanda d’adempimento, la parte non inadempiente ben può liberarsi dal proprio debito attraverso la risoluzione, oppure ottenere in restituzione quanto già dato in esecuzione del contratto. Per contro, chiesto lo scioglimento del vincolo contrattuale, il debitore non ha più interesse ad apprestare l’adempimento.

Si conviene che, su tal punto, la situazione di chi chiede la penale sia analoga a quella di chi chiede la risoluzione. Ma, come spesso avviene nelle dispute in diritto, la norma, ossia il capoverso dell’art. 1453 c.c., viene usato da alcuni come argomento a contrario e da altri come argomento per analogia. E così gli uni dicono che, se il problema è stato risolto espressamente per la risoluzione, il silenzio del legislatore sulla clausola penale significa che l’adempimento può essere chiesto anche dopo la domanda della penale. Gli altri sostengono che questa domanda basta a distogliere il debitore dall’eseguire la prestazione onde, adducendo anche ad esempio il § 340 del codice civile tedesco, sostengono che essa precluda la domanda d’adempimento.

La domanda di risoluzione del contratto può essere accompagnata da quella di pagamento della penale a titolo di risarcimento del danno, ma l’una non contiene implicitamente l’altra.

 

9. Riduzione della penale

Il potere di ridurre equamente la penale, in caso di parziale adempimento o di misura manifestamente eccessiva, attribuito al giudice dall’art. 1384 c.c., corrisponde al generale divieto di ingiustificato arricchimento che, in tema di responsabilità civile, si traduce nella necessità di ripristinare l’equilibrio già alterato dall’atto illecito o, se si voglia sostenere la concezione sanzionatoria invece che risarcitoria della clausola penale (supra, §§ 2 e 3), nella necessaria proporzione della sanzione rispetto all’illecito, quale esigenza imposta dal principio costituzionale d’eguaglianza.

Alcuni autori ritengono possibile affidare al creditore ex art. 1349 c.c. il potere di determinazione quantitativa della clausola; anche in questo caso però sussisterebbe il potere giudiziale di riduzione per mero arbitrio.

La riduzione ad equità non costituisce ormai più la sola forma di tutela del debitore contro la penale manifestamente eccessiva.

Già da tempo la dottrina, sia negli ordinamenti continentali sia di common law, segnala la necessità di interventi intesi ad estendere la tutela del consumatore, controparte debole di imprese operanti in posizione dominante nel mercato, le quali esigono l’adesione incondizionata a clausole contrattuali vessatorie. L’esigenza di riequilibrio può attuarsi anche, ma non soltanto e non soprattutto, ad opera dei tribunali in sede di interpretazione - applicazione dei contratti: di qui una serie di leggi, incidenti su diversi istituti del diritto civile e commerciale e tali da attenuare anche la diffidenza della dottrina verso poteri del giudice equitativi o comunque discrezionali.

Questo movimento di intensificazione della tutela della parte debole ha portato all’emanazione della direttiva CEE 5 aprile 1993, n. 93/13 «concernente le clausole abusive nei contratti stipulati coi consumatori», la quale è stata recepita in Italia con la l. 6 febbraio 1996, n. 52. Questa a sua volta ha introdotto nel codice civile gli artt. 1469 da bis a sexies c.c., i quali disciplinano le clausole vessatorie (già chiamate «abusive» nella direttiva) nei contratti fra «professionista» e «consumatore» (la definizione di professionista è nel capoverso dell’art. 1469 bis e di «vessatorietà» nell’art. 1469 ter), comminandone l’«inefficacia».

Tra le clausole che possono assumere carattere vessatorio, salva la prova contraria, sono quelle che impongano al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente, d’importo manifestamente eccessivo (art. 1469 bis, n. 6).

Inoltre la l. 7 marzo 1996, n. 108 ha sostituito il capoverso dell’art. 1815 c.c. stabilendo che, se nel contratto di mutuo sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi.

I temi delle clausole abusive, o vessatorie, e degli interessi usurari verranno trattati nelle rispettive sedes materiae di questo Trattato. Qui importa rilevare che, in questi casi, il legislatore non ha ritenuto sufficiente la tutela meramente riduttiva contro l’ammontare manifestamente eccessivo della penale ed ha fatto ricorso ad una forma di tutela caducatoria. In generale si è osservato che le clausole vessatorie sono per lo più frutto di predisposizione unilaterale, mentre la natura della penale si presta con più facilità ad una struttura convenzionale.

L’art. 1384 continua ad applicarsi nei casi, per la verità già non molto frequenti, di penale stipulata in contratti non rientranti nella categoria, pur ampia, di quelli stipulati coi consumatori, nei sensi della direttiva citata e dell’art. 1469 bis. Tale ad es. il caso in cui la penale sia a carico di entrambe le parti, ancorché una di loro sia un professionista, nonché, secondo chi argomenta a contrario dall’art. 1469 quinquies, c. 2°, 1a proposizione, c.c., il caso della clausola stipulata dopo una trattativa.

Il potere di riduzione in caso di parziale adempimento era già previsto nell’art. 1214 c.c. del 1865, che a sua volta lo traeva dall’art. 1231 del codice civile francese.

La riduzione della penale manifestamente eccessiva, pur propugnata già dal Pothier, era estranea alla codificazione latina ma era presente nel codice civile tedesco (§ 343 BGB) ed in quello federale svizzero (art. 163).

Il codice tedesco prevede la riduzione tanto nel caso di penale sproporzionata rispetto all’economia del rapporto (§ 343, c. 1°) quanto nel caso in cui essa sia stata promessa a titolo di sanzione per un obbligo di fare o di non fare (§ 343, c. 2°). Il giudice deve tenere in considerazione non soltanto l’interesse patrimoniale del creditore (§ 343, c. 1°). La riduzione è esclusa nei rapporti tra commercianti dai §§ 342 e 351 del codice commerciale (HGB).

Nel codice civile francese in origine non era previsto, come s’è detto, il potere giudiziale di riduzione della clausola manifestamente eccessiva. Ivi la clausola penale è prevista sia nella parte (artt. 1146-1155) sui danni da inadempimento delle obbligazioni pecuniarie (dommages intérêts) e precisamente nell’art. 1152, ove alle parti è attribuita la facoltà di liquidare preventivamente e definitivamente quei danni, nonché negli artt. 1226-1233, ove è disciplinata la clausola penale nelle obbligazioni in generale.

L’esempio tedesco è stato seguito dal legislatore italiano del 1942 e poi da quello francese, che con l. 9 luglio 1975, n. 75 ha aggiunto un c. 2° all’art. 1152 cit. ed ha modificato l’art. 1231 (ma alcune sentenze della Cassazione del Belgio, ove pure è in vigore il code civil, avevano introdotto l’innovazione in via pretoria), attribuendo al giudice il potere non solo di ridurre ma anche di aumentare la penale manifestement excessive ou dérisoire, e poi con l. 11 ottobre 1985, n. 85-1097 ha stabilito l’officiosità del potere (tuttavia non esercitabile, secondo la giurisprudenza, qualora le parti stesse abbiano convenuto la misura della diminuzione per il caso di adempimento parziale).

Anche l’Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato (Unidroit), avendo elaborato nel maggio 1993 Principi per i contratti commerciali internazionali, ha previsto la riducibilità della penale, escludendo altresì la derogabilità della previsione (art. 7.4.13.).

Infatti entrambi i principi sopra detti, di divieto di ingiustificato arricchimento e di proporzionalità della sanzione, sono di ordine pubblico, onde si ritiene in Italia che il potere riduttivo del giudice non possa essere escluso dalla volontà dei contraenti.

L’art. 1384 c.c. non distingue e perciò si applica anche alla penale da ritardo 90. Esso viene però considerato come norma eccezionale e perciò di stretta interpretazione. Non è stato perciò ritenuto applicabile per analogia in un caso in cui le parti avevano previsto la misura dell’indennità di cui all’art. 1381 c.c. Escluso che questa sanzionasse un’obbligazione del promittente, ossia che potesse identificarsi con la clausola penale, si è altresì negata la riducibilità ex art. 1384.
Le parti possono deferire ad un terzo la determinazione della penale e, se questa apparirà eccessiva, la parte interessata potrà chiederne la riduzione ex art. 1384, non trovando applicazione l’art. 1349.

Perché la penale possa essere ridotta non basta che superi l’ammontare del danno ma occorre che sia manifestamente eccessiva.

Il tema del manifesto eccesso non deve essere confuso con quello della validità, regolato dal codice negli articoli sulla nullità e sull’annullabilità del contratto.

Il potere di riduzione, di natura equitativa, è esercitabile secondo criteri non definibili a priori e non censurabili in Cassazione. Ciò non significa che la decisione di merito resti incontrollabile dal giudice di legittimità. Il rinvio legislativo a criteri equitativi non toglie che lo spazio più o meno ampio lasciato al giudice sia delimitato da argini giuridici: si tratta pur sempre di aequitas iuris laqueis innodata. Anzitutto i limiti legali posti all’apprezzamento del giudice stanno nella necessità di avere riguardo all’interesse del creditore, di cui si dirà tra breve, e di non eliminare del tutto la pena: mentre l’inadempimento del contratto costituisce condizione sufficiente, quale che ne sia l’importanza, a far sorgere il diritto alla penale previsto dai contraenti, il giudice di merito, richiesto della riduzione, non può limitarsi a constatare l’inadempimento ma deve valutarne la consistenza. Si tratta dunque di equità integrativa e non sostitutiva.

La scelta dei criteri equitativi è inoltre soggetta, in cassazione, al controllo su completezza e coerenza della motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).

In quanto il giudizio di merito rimane sottoposto ai limiti legali ora detti, è possibile una definizione secondo legge del thema probandum ed entro questi limiti è da intendere la sentenza della Cassazione che impone al debitore, autore della domanda o dell’eccezione di riduzione della penale, gli oneri di allegazione e di prova degli elementi idonei a dimostrarne l’eccessivo ammontare.

Si ritiene, così in dottrina come in giurisprudenza, che l’art. 1384 escluda la rilevanza dell’art. 1227 c.c., che prevede il concorso del fatto colposo del creditore nella produzione del danno quale causa di riduzione del risarcimento. Se si segue, sull’esempio del codice tedesco, l’opinione che attribuisce rilevanza, quanto ai criteri di riduzione, ad elementi non strettamente attinenti all’economia del contratto, quali la buona o mala fede delle parti o la loro situazione finanziaria, allora il concorso colposo del creditore potrebbe assumere rilevanza indipendentemente dall’art. 1227 (su tali questioni vedi retro, § 3). Però la nostra giurisprudenza ritenne che l’art. 1384 consenta di tener conto solo dell’interesse patrimoniale del creditore.

Non si concorda poi sulla questione se «l’interesse che il creditore aveva all’adempimento», a cui il giudice deve aver riguardo nell’esercitare il potere di riduzione, debba essere riferito al momento della conclusione del contratto oppure al momento dell’inadempimento.

Nel primo senso è la giurisprudenza prevalente, la quale ha ad esempio escluso che l’interesse del promittente venditore a conseguire una certa somma a titolo di prezzo possa essere considerato con riguardo alla svalutazione della moneta, sopravvenuta alla conclusione del contratto preliminare. Più di recente però la Cassazione ha ritenuto che l’inadempimento dell’obbligo di cancellare un’ipoteca, gravante su un bene assegnato da una cooperativa edilizia, andasse apprezzato con riferimento non ai valori del bene e del credito garantito, ma al pregiudizio causato alla libera commerciabilità del bene per effetto della mancata cancellazione.

La dottrina condivide in linea di massima l’orientamento della giurisprudenza prevalente, ma poi tende a dar rilievo anche all’eccessiva onerosità sopravvenuta.

In definitiva l’art. 1384, parlando di «interesse che il creditore aveva all’adempimento», sembra riferirsi al momento della conclusione del contratto. Ma se l’intervallo di tempo tra la nascita dell’obbligazione e la sua scadenza non è breve, deve valere il principio della sopravvenienza: l’art. 100 c.p.c. richiede che l’interesse del debitore sussista nel momento in cui egli chiede al giudice la riduzione, onde non può essere ridotta una penale che, elevata nel momento della conclusione del contratto, risulti attualmente irrisoria, ad es. per svalutazione della moneta. Ciò vale anche quando il danno sia costituito da un lucro cessante.

Il nostro codice non dà al giudice il potere di aumentare la clausola, ma, come s’è detto (§ 1), egli può disapplicarla se la ritenga elusiva dell’art. 1229. L’intento elusivo deve essere desunto dal raffronto non già tra le misure della penale e del danno poi in concreto verificatosi bensì tra la penale ed il danno presumibile al momento della conclusione del contratto.

 

10. Se la riduzione possa essere disposta da giudice d’ufficio

Come s’è detto nel § precedente, gli artt. 1152 e 1231 del codice civile francese sono stati ultimamente novellati attraverso l’attribuzione al giudice del potere officioso di riduzione; non solo dunque il legislatore ha superato l’ostilità della dottrina verso l’intervento del giudice nella sfera di autonomia dei privati ma, in ciò oltrepassando anche il legislatore italiano, ha sottratto la materia alla disponibilità della parte interessata, in sede processuale.

Il difetto di previsione legislativa ha attestato la giurisprudenza italiana per lungo tempo su posizione negativa; ultimamente, anzi, perfino l’attenuazione di tale posizione, data dal ritenere la richiesta di riduzione implicita nell’eccezione di nulla dovere a titolo di penale, era stata abbandonata, richiedendosi perciò un’eccezione esplicita. È però sopravvenuta la sent. 24 settembre 1999, n. 10511 che, rifiutando «le suggestioni della dogmatica della volontà» e valutando l’intervento del giudice nella «cittadella dell’autonomia privata» come «semplice aspetto del normale controllo che l’ordinamento si è riservato sugli atti negoziali», ha affermato la riducibilità d’ufficio della clausola penale.

In senso contrario Cass. n. 14172/2000, secondo cui il potere di riduzione è previsto nell’esclusivo interesse del debitore, gravato anche dell’onere di allegare le ragioni della propria richiesta, mentre l’esercizio officioso del giudice violerebbe il divieto di ultrapetizione.

Nello stesso orientamento s’inserisce la pronuncia secondo cui il potere di riduzione non può essere esercitato quando l’appellato sia incorso nella decadenza di cui all’art. 346 c.p.c., per avere riformulato la sua istanza solo nella comparsa conclusionale in appello.

Contro la rilevabilità d’ufficio dovrebbe essere chi sostenga la funzione punitiva della clausola e la possibilità che essa tuteli interessi non patrimoniali, soggettivamente apprezzati dal creditore in sede di stipulazione (retro, p. 428, nt. 21).

La riducibilità d’ufficio è poi difficilmente sostenibile quando il vizio di cui all’art. 1384 c.c. venga riferito non al momento della conclusione del patto ma a quello successivo dell’inadempimento (vedi il § precedente): in questo caso è più arduo pensare ad apprezzamenti comparativi del giudice, sostituiti a quelli della parte.

 

11. Riducibilità della clausola nei contratti stipulati con la pubblica amministrazione

In tempo meno recente la giurisprudenza era orientata nel senso di escludere il potere giudiziale di riduzione quando la clausola penale fosse inserita in un contratto della p.a. Si riteneva che essa fosse oggetto di una determinazione discrezionale della parte pubblica, non sindacabile da parte del giudice ordinario, stante il divieto contenuto nell’art. 4, l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E. Era riservata all’amministrazione il potere di concedere la riduzione, qualora la clausola risultasse sperequata rispetto all’inadempimento del contraente privato.

L’orientamento contrario, già manifestatosi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato negli anni sessanta, si affermò poi in Cassazione. Secondo la Corte l’inderogabilità dell’art. 1384 c.c. si riflette in tutti i rapporti negoziali, ancorché, come avviene nei capitolati d’oneri, il regolamento del rapporto sia contenuto in un atto autoritativamente imposto alla parte privata; in tal caso, anzi, lo strumento equitativo opera a maggior ragione. Quanto alla l. n. 2248/1865, essa permette la disapplicazione degli atti illegittimi da parte del giudice ordinario e, del resto, l’interesse all’adempimento, che il giudice civile prende in considerazione ai fini dell’art. 1384, è di carattere patrimoniale e da bilanciare con quello, egualmente patrimoniale, della controparte, ciò che esclude ogni ingerenza del giudice nella valutazione di interessi pubblici.

Tale giurisprudenza, poi approvata dalla dottrina, è espressione del movimento di riduzione della materia delle obbligazioni pubbliche ad un «diritto comune» ossia ad un diritto privato capace di integrare le lacune di diverso genere, risultanti nell’ordinamento pubblicistico delle obbligazioni e dei contratti.

 

12. Se la clausola penale possa essere compresa tra le clausole vessatorie

Una parte della dottrina osserva come, non soltanto nei paesi di diritto continentale ma anche in quelli di common law, si ponga il problema delle clausole penali capaci di addossare un aggravio eccessivo al contraente debole, sia attraverso la previsione implicita di una serie di obbligazioni ulteriori sia quali strumento per trasferire completamente il rischio della sopravvenienza di circostanze oggettive, impeditive dell’adempimento. Si pone perciò nell’ordinamento italiano la questione dell’applicabilità dell’art. 1341 c.c. nel caso di clausola penale predisposta da una sola delle parti contraenti. La giurisprudenza ritiene che la parte debole sia sufficientemente protetta dal potere giudiziale di riduzione di cui all’art. 1384 c.c. (retro, §§ 9 e 10), mentre una parte della dottrina obietta che tale disposizione, concernente soltanto l’ammontare della penale, non basta ad eliminare il carattere vessatorio della clausola per quanto concerne l’esclusione della prova negativa del danno (art. 1382, c. 2°): la parte forte imporrebbe a quella debole un’alterazione dell’equilibrio probatorio disposto dall’art. 2697 c.c., e così anche dell’equilibrio processuale garantito dall’art. 24 (ed ora anche 111, c. 2°) Cost.

Si è già detto nel § 9 degli artt. 1469, da bis a sexies, c.c. e della «inefficacia» da cui viene colpita la clausola penale manifestamente eccessiva, inserita in un contratto stipulato con un consumatore. Il fatto che tale clausola venga ivi definita come vessatoria può costituire un argomento ulteriore per ricondurla a tale categoria ed applicare quindi l’art. 1341 c.c. anche quando si tratti di negozi non stipulati dal «professionista» e dal consumatore.

 

13. La caparra confirmatoria. Nozione

La caparra confirmatoria è una somma di denaro o una quantità di altre cose fungibili che, al momento della conclusione del contratto, una parte dà all’altra allo scopo di rafforzare l’impegno di garantire l’adempimento. Infatti, in caso di inadempimento l’altra parte può recedere dal contratto, ritenendo la caparra, mentre, se inadempiente è la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere ed esigerne il doppio (art. 1385, c. 2°, c.c.).

È possibile che denaro o cosa vengano dati non a titolo di caparra ma a titolo di anticipo, ossia soltanto come parte della prestazione dovuta, con la conseguenza che la risoluzione del contratto ne comporta esclusivamente la restituzione (salvo il risarcimento del danno se la risoluzione avvenga per inadempimento imputabile). Nel silenzio delle parti, il versamento del denaro o la consegna della cosa sono da considerare come anticipo e non come caparra: questa aggrava la posizione dell’inadempiente onde non si può presumere che le parti vi si siano assoggettate tacitamente. Né al giudice di merito è dato di scindere la funzione della somma versata dal debitore al momento della nascita dell’obbligazione, considerandone una parte quale caparra e un’altra parte quale acconto sul prezzo.

La caparra confirmatoria non deve poi essere confusa con la cauzione di cui il codice civile fa più volte menzione (artt. 381, 515, 647, 1002, 2387, 2535) senza tuttavia darne la specifica disciplina. Quest’ultima può essere anche volontaria, ossia non imposta dalla legge, ed ha per oggetto denaro. La sua funzione è di garantire un credito, attuale o futuro, come quello risarcitorio per un eventuale inadempimento. Se sorge il credito, il creditore lo compensa in tutto o in parte con il debito di restituzione verso colui che ha versato la cauzione. Per alcuni oggetto della cauzione può essere anche un bene mobile, fungibile o infungibile, ma in questo caso si è piuttosto nell’ipotesi del pegno.

L’inadempimento che giustifica il recesso dell’adempiente, e la conseguente ritenzione della caparra, o consegna del doppio, è quello di non scarsa importanza, che permette la risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive ex art. 1455 c.c.; solo una minoranza della dottrina ritiene che le parti possano convenire di dar rilievo all’inadempimento lieve e addirittura non imputabile.

Nel caso di inadempimento ritardato, se il ritardo è di gravità tale da dar luogo al rifiuto della prestazione e quindi alla risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c., non si dubita che la pattuizione di caparra possa esplicare i propri effetti; per contro, nel caso di ritardo non giustificante la risoluzione, è fortemente dubbio che per la caparra possano valere analogicamente le norme sulla clausola penale. In ogni caso non sussiste il potere giudiziale di riduzione.

Ai diritti di ritenzione e di ottenere il doppio corrispondono obbligazioni di valuta, soggette al principio nominalistico di cui all’art. 1277 c.c.

La caparra forma oggetto di un contratto accessorio (infra, § 15) a quello, sempre a prestazioni corrispettive, che ne viene rafforzato. I soggetti dell’uno e dell’altro sono di regola gli stessi, ma è possibile che la caparra sia stipulata da alcune soltanto delle parti del contratto principale.

 

14. Funzione della caparra confirmatoria

Interpretando alla lettera la denominazione «confirmatoria», una dottrina ormai risalente attribuiva alla caparra la funzione di «attestare» ossia di provare l’esistenza del contratto principale; essa successivamente, ossia in caso di inadempimento, si trasformava in penale. Alla dottrina più recente questa funzione probatoria, ravvisabile quando il contratto accedeva ad una convenzione consensuale di compravendita, sembra non più attuale in un ordinamento caratterizzato dalla libertà delle forme e dall’analitica disciplina dei mezzi di prova del contratto, seppure non si escluda che in qualche raro caso il giudice da un patto di caparra possa inferire in via presuntiva l’esistenza del contratto principale (art. 2729 c.c.).

Altra parte della dottrina equipara clausola penale (vedi supra, §§ 2 e 3) e caparra confirmatoria quanto alla loro funzione risarcitoria, ossia di liquidazione preventiva del danno da inadempimento: la caparra però, a differenza della clausola penale, lascia alla parte adempiente in ogni caso, ossia senza bisogno di apposita pattuizione (art. 1382, c. 1°, c.c.), la possibilità di ottenere il risarcimento integrale del danno secondo le norme generali (art. 1385, c. 3°).

V’è, ancora, chi sostiene la funzione compulsiva, ossia sanzionatoria, della caparra, la quale permette all’accipiens di appropriarsi definitivamente della somma o delle cose consegnate, in conto di sanzione per l’inadempimento del tradens, prescindendosi totalmente dalla concreta esistenza del danno, o chi ravvisa le due funzioni, risarcitoria e sanzionatoria, come coesistenti. Dalla concezione sanzionatoria, poi, non si discostano gli autori che vedono come rara la funzione risarcitoria, considerato che di regola l’ammontare della caparra è modesto e dunque inferiore al prevedibile danno da inadempimento, onde affidano alla relativa pattuizione solo lo scopo di rafforzare l’impegno del debitore. Il fatto stesso che il legislatore consideri la caparra come possibile anticipo o acconto per il caso in cui la controprestazione venga eseguita (art. 1385, c. 1°) indica come il valore di essa sia inferiore alla prestazione dovuta e quindi, malgrado il suo carattere di realità (vedi nel § seguente), sia meno idonea della clausola penale a rafforzare il credito.

Più realistica sembra la posizione di chi ritiene che la caparra assolva l’una o l’altra funzione, a seconda dei casi.

Non si dubita infine che il patto di caparra confirmatoria possa presentare caratteri tali da ricomprenderlo tra le clausole vessatorie di cui all’art. 1469 bis c.c. (vedi retro, § 1).

Se si scorrono i repertori non risulta che le dispute dottrinali circa la funzione della caparra abbiano trovato molti riscontri nella pratica. Un riflesso di esse si trova in alcune rationes decidendi: e così quando si è negata la configurabilità di una clausola di caparra confirmatoria inserita in un patto di opzione, stante la possibilità che essa rafforzi soltanto contratti a prestazioni corrispettive, se ne è affermata la funzione compulsiva, ossia di coazione indiretta all’adempimento, sia per il soggetto che la dà sia per quello che la riceve. Idem quando si è detto che tale funzione non può risultare da una manifestazione tacita della volontà, la quale può far presumere soltanto che il versamento anticipato di una somma di denaro da parte del debitore abbia la funzione non di caparra ma di acconto sul prezzo (vedi il § precedente).

La funzione risarcitoria è stata invece ritenuta quando si è affermata la risarcibilità del danno ulteriore solo in caso di esplicita pattuizione.

 

15. Accessorietà e realità del patto di caparra confirmatoria

Il patto di caparra costituisce un contratto con una propria causa, ossia con una propria funzione economico-sociale (vedi il § precedente), distinta da quella del contratto da essa confermato. Si è detto (§ 13) come quest’ultimo possa essere solamente un contratto a prestazioni corrispettive. Dal carattere accessorio del patto deriva la sua nullità o risoluzione per impossibilità sopravvenuta, nel caso di nullità o inefficacia del contratto principale.

L’autonomia causale ne fa un contratto a forma libera, come la clausola penale (retro, § 4) ma esso viene definito come contratto reale, nel senso che la sua esistenza è subordinata alla consegna del denaro o della cosa fungibile. Ha un valore prevalentemente teorico la questione se la caparra possa costituirsi attraverso una traditio ficta e in particolare con la traditio brevi manu: l’importante è che denaro o cosa passino nella materiale disponibilità del creditore, che ne acquista la proprietà per effetto dell’inadempimento. Anche la questione se la consegna della cosa basti a determinare il passaggio della proprietà non ha pratica rilevanza, stante che il perimento della cosa non esonera l’accipiens dall’obbligo di restituzione (genus numquam perit).

Non è necessario che la caparra sia data nel momento di conclusione del contratto principale, purché la consegna avvenga prima dei momenti in cui debbono essere eseguiti prestazione e controprestazione.

Essa deve accedere ad un contratto ad effetti obbligatori, i quali ben possono coesistere con effetti reali, come nel caso di una vendita definitiva, in cui al trasferimento della proprietà della cosa venduta si unisca l’obbligo di pagare il prezzo.

Al denaro non può essere equiparato il vaglia cambiario mentre sono beni fungibili i titoli di Stato.

Occorre che la cosa sia di proprietà del tradens; in caso contrario l’accipiens è tutelato dalla regola possesso vale titolo di cui all’art. 1153 c.c.

Il fatto che la caparra equivalga solo ad una parte della prestazione dovuta impedisce che sorgano questioni di riduzione giudiziale, ossia di applicabilità per analogia dell’art. 1384 c.c.

 

16. Effetti della consegna della caparra

L’art. 1385, c. 1°, c.c. prevede che, nel caso di esecuzione del contratto, la caparra venga restituita alla parte che l’ha data, ovvero che resti all’accipiens con imputazione del valore alla prestazione a lui dovuta, ossia come anticipo o acconto.

Il c. 2° dello stesso art. 1385 prevede nella prima parte l’inadempimento di colui che ha dato la caparra e stabilisce, quale effetto, il recesso della controparte e la perdita della caparra. L’inadempimento che giustifica tale effetto è quello di cui all. 1455 c.c., ossia di non scarsa importanza, come s’è già detto nel § 13.

A norma dell’art. 1373, c. 1°, c.c., il recesso non è possibile quando il contratto abbia avuto un principio d’esecuzione; considerando l’art. 1455, se sia iniziata l’esecuzione da parte del debitore, è necessario che l’inizio sia di importanza tale da escludere l’inadempimento e, qualora sia il creditore ad avere iniziato l’esecuzione della controprestazione, se tale inizio non significhi implicita rinuncia ad avvalersi del patto di caparra.

Promosso il giudizio per ottenere l’adempimento del contratto, la parte non inadempiente può esercitare la facoltà di recedere ex art. 1385, c. 1°, in applicazione analogica dell’art. 1453, c. 2°, c.c. il quale vieta anche il contrario: esercitato il recesso, non può chiedersi l’adempimento. La Cassazione ha ritenuto che, intimata la diffida ad adempiere entro un certo termine ex art. 1454 c.c., prima della scadenza l’intimante possa assegnare un nuovo e più lungo termine, nelle more del quale può esercitare il recesso ex art. 1385, con ritenzione, o con richiesta del doppio, della caparra quale risarcimento completamente satisfattivo; anzi, l’esercizio del recesso ex art. 1385, c. 2°, costituisce un minus rispetto all’azione di risoluzione ex art. 1453 e di integrale risarcimento del danno, onde la relativa domanda può essere proposta per la prima volta in appello. Qualora la parte non inadempiente abbia chiesto la risoluzione del contratto secondo le regole generali, la caparra conserva la sua funzione di garanzia fino alla conclusione del procedimento di liquidazione dei danni, con conseguente compensazione con il credito risarcitorio, oppure con restituzione della caparra stessa per mancata prova dei danni.

La seconda parte del capoverso dell’art. 1385 prevede l’inadempimento di colui che ha ricevuto la caparra: in tal caso la controparte può recedere esigendo il doppio della caparra, la quale funge da liquidazione del danno.

Qualora entrambe le parti siano inadempienti, il giudice deve procedere ad una valutazione comparativa onde stabilire a chi delle due spetti il diritto di recesso ex art. 1385; i criteri sono gli stessi da usare nel caso di reciproche istanze di risoluzione. Nel contratto preliminare di vendita di immobili una causa di recesso del promittente compratore, con diritto alla restituzione del doppio della caparra, viene di solito ravvisato nella non conformità dell’immobile agli strumenti urbanistici.

Il c. 3° dello stesso articolo prevede che, se la parte adempiente preferisce chiedere la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali, ossia dall’art. 1223 ss., c.c. A differenza della clausola penale, dunque, il patto di caparra non preclude mai al creditore di chiedere il risarcimento del danno, fornendone la prova ex art. 2697 c.c.: in tal caso la caparra perde la funzione di liquidazione preventiva del danno e mantiene solo quella di garanzia per il conseguimento del risarcimento totale. Fallita completamente la prova del danno, la parte adempiente deve restituire la caparra.

 

17. La caparra e la multa penitenziale

Se nel contratto è stipulato il diritto di recesso per una o per entrambe le parti, la caparra ha solo funzione di corrispettivo per il recesso (art. 1386, c. 1°). In questo caso il recedente perde la caparra data o deve restituire il doppio di quella che ha ricevuto (art. 1386, c. 2°).

Qui, a differenza che nella caparra confirmatoria, il recesso non è giustificato dall’inadempimento della controparte ma costituisce esercizio di uno ius poenitendi, ossia di un diritto di pentirsi di avere concluso il contratto; la caparra penitenziale costituisce dunque il prezzo dell’esercizio di tale diritto (cfr. art. 1373, c. 3°) e deve essere restituita non appena il recesso non sia più esercitabile.

Stabilire se ci si trovi davanti ad una caparra confirmatoria o ad una caparra penitenziale è questione di interpretazione del contratto.

Come s’è detto nel § 13, la caparra penitenziale non serve a rafforzare il vincolo obbligatorio ma caso mai ad indebolirlo, anche se si è obiettato che la vera causa dell’indebolimento non è il patto di caparra ma l’attribuzione dello ius poenitendi a cui essa accede. Se è pattuita una penale, il contraente in regola è pur sempre arbitro di pretendere invece l’adempimento coattivo; se è convenuta una caparra penitenziale, arbitro di decidere la prosecuzione del rapporto è il titolare dello ius poenitendi.

La multa penitenziale si differenzia dalla caparra perché suole essere pagata non prima che venga esercitato il diritto di recesso, secondo la previsione dell’art. 1373, c. 3°, c.c.; qui il recesso si perfeziona dunque con una dazione e non con una dichiarazione ricettizia, assumendo così il carattere di atto reale; secondo una non recente giurisprudenza, poi, il corrispettivo per il recesso può essere costituito da un’utilità diversa dal denaro.