La pagina che pubblichiamo è tratte dal sito www.valcavi.it ed è opera dell'Avv. Giovanni Valcavi

INDICE:

A. Ancora sul risarcimento del maggior danno da mora nelle obbligazioni pecuniarie: interessi di mercato o rivalutazione monetaria?
B. L’indennizzo del mero lucro cessante, come criterio generale di risarcimento del danno da mora nelle obbligazioni pecuniarie
C. Il problema degli interessi monetari nel risarcimento del danno
D. In materia di criteri di liquidazione del danno in genere e di interessi monetari
E. A proposito del lucro del creditore nel risarcimento del danno in generale: sul tema degli interessi e della rivalutazione monetaria
F. Riflessioni sui c.d. crediti di valore, sui crediti di valuta e sui tassi di interesse

 

A) Ancora sul risarcimento del maggior danno da mora nelle obbligazioni pecuniarie: interessi di mercato o rivalutazione monetaria?

(note a sentenza Cassazione Civile Sezioni Unite 01/12/1989 n. 5299)

1.- La decisione inaugura un nuovo corso nella nostra giurisprudenza in questa tormentata materia e mi sembra muoversi nella direzione giusta.

Essa tiene ferma la classificazione dei creditori di cui alla decisione n. 3776/79 in alcune categorie economiche (operatore economico, risparmiatore, creditore occasionale, modesto consumatore) come base di presunzione del mancato impiego del denaro e perciò del conseguente maggior danno. La sentenza dichiara, poi, di non poter accogliere come soluzione valida "in ogni caso" la proposta di "commisurare il maggior danno allo scarto esistente tra il tasso legale ed il tasso di mercato del costo del denaro" o "il prime rate", per tema che un tale riconoscimento abbia a tradursi di una "operazione normativa" di aumento del tasso legale di interessi.

E tuttavia le sezioni unite, anche se non "sempre ed in ogni caso", accolgono il criterio di riferirsi allo scarto tra interesse legale e quello di mercato, nei casi più frequenti e significativi delle anzidette categorie economiche.

La Suprema corte precisa che, ad es. , nel caso dell’operatore economico deve aversi riguardo al differenziale con l’interesse che il creditore paga alla sua banca per rimpiazzare il denaro non corrispostogli (interesse attivo bancario) mentre nel caso del risparmiatore e de creditore occasionale deve aversi riguardo a quello con l’interesse sui BOT, CCT, sui depositi bancari (interesse passivo bancario). Quest’ultima figura del "creditore occasionale" (si fa qui l’esempio di chi riscuote un indennizzo assicurativo o una somma di finito rapporto, invece del vincitore al lotto ipotizzato dalla decisione n. 3776/79) finisce per equivalere a quella precedente del "creditore in genere".

La corte relega la rivalutazione monetaria - ed in ciò sta la grossa novità - alla ipotesi residuale del mero consumatore per quelle modeste somme, che deduca e provi avrebbe destinato al suo personale consumo (e può essere il caso infrequente che un pensionato, un lavoratore sia creditore di somme). La rivalutazione monetaria viene così ristretta ad un ambito di applicazione del tutto marginale. Le sezioni unite anzi, laddove il creditore sia un operatore economico o un risparmiatore, escludono sino a prova contraria che il danaro possa presumersi destinato al consumo e così farsi luogo alla rivalutazione monetaria, invece che al differenziale di interesse. Esse privilegiano lo scarto di interesse, anche nel caso di impiego multiforme, come nell’ipotesi in cui il lavoratore sia ad un tempo risparmiatore di somme liquide, che è la norma.
Lo scarto di interesse tra il saggio legale e quello di mercato finisce così per assumere correttamente un ruolo centrale nella liquidazione del maggior danno da mora, sia pure come risultato delle presunzioni scaturenti dall’appartenenza alle categorie più significative e ricorrenti di creditori.

Al di fuori dell’ipotesi dell’operatore economico, nella quale si avrà riguardo all’interesse bancario attivo, ci si riferirà in genere allo scarto con gli interessi dei BOT, dei CCT e dei depositi bancari (interesse bancario passivo) come rendimento tipico di categorie occasionale. Non si traduce del resto la mora in un risparmio forzato, conseguente alla mancata trasformazione della liquidità differita immediata, a causa del ritardo?

Mi corre qui però l’obbligo di precisare che la proposta di individuare il maggior danno in codesto scarto di interesse non venne da me avanzata come soluzione applicabile "sempre o comunque", quale è stata intesa dalle nostre sezioni unite, ma come criterio presuntivo, sino a prova contraria. Vi è perciò sostanziale coincidenza di opinioni.

Quale sia la novità della decisione delle sezioni unite, è presto detto.
Un recente dato statistico (P. Pajardi, in Dir. fallim.,1985, I, p. 143) ha indicato che il 44% dei Tribunali (58 su 131 interpellati) nei giudizi ordinari concede la rivalutazione presuntiva, mentre il 93% degli altri concedono in caso di minima prova, ed infine il 41,8% dei Tribunali concede addirittura in via automatica, nei decreti ingiuntivi. Si arriva a liquidare gli interessi sulla somma rivalutata: il che è grave errore economico e si traduce in lucro per il creditore.

2.- I tempi per questa svolta giurisprudenziale, e cosi per il superamento del criterio ancorato alla rivalutazione monetaria, sono divenuti sempre più maturi in questi ultimi anni.
Si ricordano qui le tendenze di politica legislativa, contrarie alle indicizzazioni, venutesi affermando, con sempre maggior vigore, nel nostro Paese (sono note le ultime vicende sul contenimento della scala mobile dei lavoratori) in sintonia con un generale orientamento negativo su scala internazionale. E’ opportuno qui dire che mi pare durata sin troppo a lungo la indicizzazione dei crediti, esplicita e perdurante come nel caso crediti di valore, surrettizia e strisciante, come nel danno da mora di quelli di valuta. Non può non rivelarsi la stranezza che la indicizzazione sia stata da noi introdotta e viga tuttora per prassi di giurisprudenza e pare francamente eccessivo che il nostro paese, senza alcun intervento del legislatore, sia potuto entrare nel ristretto novero dei paesi indicizzati, affiancandosi al Brasieò e ad Israele, dove però ciò è accaduto per dettato legislativo.
Non si disconosce che il cammino dell’umanità sia stato accompagnato dall’aspirazione ad una moneta dal valore immutabile, al punto che i nostri antichi sono ricorsi nei loro conti, per tanti secoli, a quella moneta che non è mai stata coniata da alcuna zecca e che L. Einaudi ha chiamato "moneta immaginaria". E tuttavia, da quando codesta moneta immaginaria non è stata più utilizzata nei suoi conti dall’Europa di due secoli fa, ogni moneta circolante nei vari paesi, sia nel suo potere solitario legale, sia nei suoi conti, è stata ancorata a quello che è definito da Savigny l’unico valore veramente astratto e cioè il valore nominale.
Da noi codesto principio nominalistico fu ribadito nella sua importanza fondamentale dall’art. 1227 c.c. del 1942, malgrado la elevata inflazione di quegli anni. E’ bene ricordare, al riguardo, che l’art. 1224, 2° comma, introdotto per colmare la lacuna circa la responsabilità del danno da mora colposa invece che solo dolosa, è potuto sopravvivere alla soppressione della commissione ministeriale dopo che erano state tranquillizzate le preoccupazioni di coloro che temevano interpretazione eversive del principio nominalistico. E’ risaputo come poi siano andate a finire le cose, nella rincorsa di una moneta immaginaria del valore immutato. Che il tentativo di riallineare i valori monetari al mutuato potere di acquisto fosse una chimera, lo ebbe ad anticipare nell’800 un grande economista come Marshall, laddove scrisse che "è non solo inattuabile ma impensabile misurare il potere di acquisto della moneta". Ognuno sa come il sistema dei prezzi relativi (cioè delle varie merci tra loro) non corrisponda a quello dei livelli dei prezzi dei medesimi tempi e come gli indici siano numerosi e diversi tra loro. E poiché l’inflazione opera una ridistribuzione dei redditi tra le varie categorie sociali (talune salgono, altre scendono), lo spostamento acquista particolare rilievo, in epoca di inflazione della domanda, a favore del ceto emergente costituito dalle famiglie operaie e impiegatizie. La pretesa di indicizzare i crediti di chicchessia al livello dei prezzi del paniere di merci destinate al consumo della famiglia tipo operaia-impiegatizia, e così nella crescita del reddito da essa acquistato, pare davvero eccessiva. Le sezioni unite, con questa decisone, hanno voluto semplicemente rimettere le cose al loro naturale posto. Che il maggior danno da mora possa essere individuato nell’indice di aumento dei prezzi del paniere di merci destinate al consumo di tale ceto, è ammissibile se il creditore sia un modesto consumatore (cioè un operaio, un impiegato, un pensionato, ecc.). Ma che la rivalutazione possa essere generalizzata a favore di chiunque, come se avesse verosimilmente speso quel credito in quel paniere di merci di consumo, non è corretto né ragionevole. Questo, e non altro che questo, hanno inteso dire le sezioni unite, dapprima affermando l’esigenza di un giudizio personalizzato ed ora con questo giro di vite. Ci sarebbe stato, se mai, da stupirsi che le sezioni unite avessero continuato sulla strada di codesta indicizzazione generalizzata, in un contesto di politica economica e legislativa, quale quello emerso in occasione delle note vicende della scala mobile.

I rilievi che precedono, tradotti in termini giuridici, si risolvono nel negare vuoi l’applicabilità delle presunzioni a soggetti diversi dal modesto consumatore, vuoi la loro efficacia probatoria e comunque il nesso causale ex art. 1223 c.c. E’ poi a revocarsi in dubbio la risarcibilità in astratto di un maggiore danno sotto il profilo della non prevedibilità del tasso di inflazione galoppante, quale si verificò alcuni anni addietro, sia ora in ipotesi di tasso tendenziale di inflazione pari al 6%.

3.- Il discorso imperniato sulla rivalutazione monetaria sta perdendo vieppiù di importanza, mano a mano che procede il rapido rientro dalla inflazione ed il relativo tasso scende al valore del saggio legale di interesse.
Il maggior danno da mora, sin qui individuato nel differenziale tra interesse legale e tasso di inflazione, finirà fra poco per non essere più ipotizzabile, in quanto tale. Esso sin d’ora può ritenersi non risarcibile, perché il tasso tendenziale dell’inflazione al 5% o poco più costituisce un obiettivo limite alla prevedibilità.
E’ venuto per contro e per logica di eventi acquistando sempre maggior evidenza quello che è e che resta l’autentico danno ulteriore contemplato dall’art. 1224, 2° comma. Esso è quello costituito dalla inadeguatezza dell’interesse legale rispetto al rendimento normale o al costo di rimpiazzo del denaro, cioè dal differenziale tra saggio legale e saggio di mercato dell’interesse monetario.

Come abbia potuto accadere negli anni testé decorsi che un tale discorso sia passato in seconda linea rispetto a quello imperniato sullo scarto col tasso inflazionistico e perciò sulla rivalutazione, è presto detto. Sino a non molto fa il costo del denaro è rimasto notevolmente al di sotto del tasso inflazionistico, a causa di una tendenza generale a non investire e perciò di una scarsità della domanda di credito a fronte di una elevata liquidità del sistema e quindi di una abbondanza di offerta di denaro. E’ stata una caratteristica assolutamente particolare della nuova inflazione (stagflazione, slumpfazione la circostanza che gli interessi reali (cioè gli interessi nominali ragguagliati al tasso inflazionistico) siano stati negativi. In questi ultimi tempi la situazione si è capovolta, con la ripresa degli investimenti e della domanda di credito. Gli interessi nominali di mercato sono tornati ben al di sopra del tasso di inflazionistico e perciò gli interessi reali sono tornati positivi, come del resto era la regola in tempi normali. E così, mentre prima prendevasi a riferimento (a mio avviso non correttamente) il più alto tasso inflazionistico, oggi lo spread torna a commisurarsi al tasso di interesse nominale di mercato. La caduta verticale del tasso di inflazione a livello del saggio legale di interesse, come si è detto, fa sì che non possa più ipotizzarsi sotto tale profilo un danno ulteriore ex art. 1224, 2° comma, mentre al contrario esso torna a riavere il suo naturale riferimento nell’interesse di mercato. Sono d’accordo con Amatucci e Pardolesi che "l’ulteriore risarcimento di cui all’art. 1224, 2° comma, si giustappone e non si aggiunge, a quello, forfetario, del 1° comma", perché rileva solo quella parte che non è "assorbita dal forfait moratorio". Il maggior danno ipotizzabile finisce per essere quello costituito dal differenziale con il rendimento normale o al costo di ricopertura del denaro.

Si può stare certi per il futuro che anche il modesto consumatore si guarderà bene dal dedurre e provare tale sua qualità e perciò dall’invocare il criterio della rivalutazione monetaria, e sicuramente pretenderà di essere trattato come un risparmiatore per potere fruire del differenziale più alto. Con il che gli eventi da soli hanno corretto tutto il discorso in fatto di maggior danno, riponendolo sui suoi binari. Le indicizzazioni giurisprudenziali finiscono per perdere di significato in senso generale (cioè anche a proposito dei c.d. crediti di valore) e per rivelarsi strumento inadeguato di risarcimento del danno da durata (come quello del ritardo), oltre a porsi al di fuori delle linee di politica legislativa. L’orientamento odierno delle nostre sezioni unite coglie la realtà dei fatti più di quanto appaia. E’ opportuno peraltro aggiungere che il parametro costituito dallo scarto tra interesse di mercato è dominante nella dottrina e nella giurisprudenza germanica, mentre in Francia il problema non rileva perché il tasso legale è stato dal legislatore ancorato a quello ufficiale di sconto. Da noi un tale criterio è stato adottato dal legislatore in materia di ritardo nel pagamento del prezzo di una compravendita internazionale di cosa mobile, attraverso la ratifica, con legge 21 giugno 1971 n. 816, della convenzione dell’Aja 1° luglio 1964, che agli art. 63-83 fissa un tasso standardizzato dell’1% al di sopra del tasso ufficiale di sconto. Assume particolare importanza il fatto che il riferimento al maggior interesse corrente abbia ricevuto il suo riconoscimento dalle convenzioni internazionali, in materia di compravendita di cose mobili, come quella dell’ONU -11 aprile 1980, oltre a quella sopra citata dell’Aja.

4.- Non è dubbio che l’unico discorso scientificamente corretto ed accettabile sul piano giuridico sia quello imperniato sul differenziale tra interesse legale ed interesse di mercato. Il denaro, con buona pace di chi discorre della sua "naturale redditività", è un bene che di per sè non produce frutti, cioè interessi. In questo senso, come diremo più oltre, non si riesce a cogliere la logica di chi, nel senso dei crediti di valore, alla rivalutazione monetaria aggiunge gli interessi, perché si tratterebbe di interessi compensativi e perciò giustificati dalle naturale fruttuosità del denaro, come bene ha osservato Amatucci e di cui infra discorreremo. Gli interessi monetari ricorrono solo nel caso di prestazione differite nel tempo e cioè sono fenomeni inscindibilmente legati al credito. Ognuno sa che la gente preferisce un bene presente ad un bene futuro (time preference). Correttamente, sotto tale profilo, gli interessi sono stati definiti da un grande economista, il Bohm-Bawerk, l’aggio di deprezzamento di una prestazione di denaro differita rispetto a quella immediatamente disponibile. E cioè, gli interessi altro non sono che il saggio di apprezzamento di una prestazione a pronti rispetto ad una identica prestazione di denaro differita. Un altro aspetto posto in rilievo dagli economisti è che l’interesse è caratterizzato da un alto premio di liquidità, ed è perciò tipico del danaro, per la sua versatilità a tutti gli impieghi. Sotto tale riguardo apparirà la contraddizione inaccettabile di chi fa decorrere gli interessi sui crediti di valore, che tuttavia continua a qualificare come assolutamente diversi da quelli di valuta. L’interesse, inerendo ad una prestazione differita, viene inteso correttamente come corrispettivo del "risparmio", che altro non è se non una rinunzia ad una disponibilità presente in vista di una analoga in futuro. E poiché il danno da mora consiste nel differimento ope debitoris della liquidità immediata, esso si traduce in un risparmio forzato che deve trovare il suo risarcimento negli interessi normali. E’ notorio fra gli economisti che il tasso di mercato si equilibra con l’offerta di risparmio e così la produttività marginale del capitale con la disutilità dell’attesa. Alla base vi sono anche le aspettative razionali relative al tasso inflazionistico, alla futura offerta di risparmio, alla domanda di credito e così via. Tale relazione è stata colta anche da Corte cost. 23 aprile 1980, n.60 (in Foro It., 1980, I, 1249).
Il saggio legale di interesse, che è quello predeterminato dalla legge per i rapporti di diritto privato, come misura suppletiva, nel silenzio della volontà delle parti, non ha potuto e non può, in ragione della sua rigidità, tenere dietro all’evoluzione del tasso di mercato. Il tasso legale è rimasto fermo al 5% dal tempo napoleonico ad oggi, e tale misura ha tutta una sua storia di relazioni col tasso di mercato del tempo delle codificazioni, da quella francese alla nostra del 1940 (allorché il tasso ufficiale di sconto era fermo al 5% dal 1905 ed il rendimento dei BOT, nel periodo 36-39 del 4,99%).

5.-Le sezioni unite, riguardo al caso dell’operatore economico, accennato nell’ipotesi alternativa, "suggerita dalle sentenze del 1979", del mancato guadagno, da investimento diverso da quello creditizio, come maggior danno rispetto a quello "qui aggiunto" del costo del denaro, non vanno oltre una apparente conferma di superficie; ed, a ben vedere, prendono le distanze dal vecchio orientamento. Le sezioni unite mostrano di prediligere il riferimento al costo del danaro per la semplicità della prova, mentre sottolineano, a proposito del mancato guadagno, la "complessità della prova" ed il rigore della sua valutazione, cioè la inutilizzabilità delle presunzioni.

Dove però si misura la grande distanza tra questa decisione e l’orientamento precedente, è rispetto ai limiti di risarcibilità del mancato guadagno, che viene correttamente ridotto alla redditività marginale del denaro nel conto economico dell’impresa. Ciò equivale al costo finanziario del flusso di liquidità mancato ed in definitiva all’interesse attivo bancario, che ne è il costo di rimpiazzo.

Per meglio intendere questo aspetto della decisione occorre afre un passo indietro. Le decisioni del 1979 proponevano che si avesse riguardo al risultato medio dell’attività per un certo periodo di tempo e ciò venne criticato da chi scrive (in Foro it., 1980, I, p. 118), perché equivaleva "ad avventurarsi nel campo dell’opinabile, a congetturare guadagni personali", ecc. Osservai in particolare che finiva per essere escluso dal risarcimento chi aveva un interesse all’adempimento puntuale, come l’operatore che lavorava in pareggio in perdita. Ed aggiunsi: "quel che occorrerebbe dimostrare oltre tutto non è il guadagno, ma l’incidenza del credito nella formazione del guadagno, cioè la sua redditività marginale". In ultima analisi, ciò finiva per corrispondere all’incidenza degli oneri passivi e, quindi, all’interesse bancario quale costo di rimpiazzo. Questa decisione delle sezioni unite ha il merito di avere colto in modo penetrante questo aspetto del discorso.
Essa riconosce che, nel caso di un operatore che lavora in pareggio o in perdita, deve aversi esclusivo riguardo all’interesse bancario.

La a parte più significativa della motivazione è laddove però essa assume "il risultato medio dell’attività in un certo periodo" solo come "base da cui inferire la redditività (marginale) media dell’investimento", per poi meglio e più puntualmente precisare che il "creditore deve fornire gli elementi necessari a stabilire la redditività marginale dell’impresa e quella che deve ricevere remunerazione distinta dagli altri fattori. Tale redditività marginale può essere anche superiore od inferiore al costo normale del denaro. Nella misura in cui essa è superiore, indurrà la convenienza al rimpiazzano con quello da prendere a prestito. Sovente essa è tuttavia inferiore e si pone come limite di non convenienza all’indebitamento. La redditività marginale del denaro da investire, nel suo livello più alto, finisce perciò per corrispondere all’interesse bancario.

Amatucci e Pardolesi, a proposito del risparmiatore, traggono lo spunto dalle più recenti evoluzioni degli indici azionari, per domandarsi fin dove possa condurre il criterio stabilito dalla Suprema Corte. La decisione delle sezioni unite non pare autorizzare grandi spazi interpretativi al riguardo: essa contiene un solo cenno "al rendimento dei titoli azionari", che ha il suo equivalente nell’interesse monetario." Altro è il discorso a proposito di un guadagno o di una perdita di capitale conseguente alla variazione dei loro corsi e nessun cenno è stato fatto, al riguardo, dalla Suprema corte. Essi, invero sono danni del tutto problematici ed imprevedibili, ex art. 1225, è perciò non risarcibili. Come può dirsi da un giudice, e con quali argomenti, che era prevedibile ed in quale misura l’impiego che il creditore avrebbe fatto del denaro, per sua natura versatile ai vari tipi di impiego, a quale fra essi, per quale durata l’avrebbe conservato, quando e con quale esito disinvestito?

Il risarcimento del risparmiatore abituale non può spingersi oltre, a mio avviso, all’interesse bancario attivo, cioè al costo di rimpiazzo del denaro, attuandosi ex art.1227 quell’onere di collaborazione attiva circa un bene tipicamente fungibile. Diversamente, il danaro verrebbe considerato infungibile o il dovere di cooperazione non andrebbe oltre la mera attesa della prestazione del debitore, cioè sarebbe privo di senso.

6.- Passiamo ora alle controverse categorie economiche scelte alla base delle presunzioni dalle sentenze del 1979 e tenute ferme da questa, anche se sfrondate da quella dei creditori in genere che era una non categoria. Essa, del resto, ha il suo equivalente in quella del creditore occasionale. A loro riguardo può concordarsi nel rilievo di una sostanziale genericità. Alla luce, però, del tipo di impiego del danaro individuato, ora come normale per ciascuna di esse, anche codeste categorie assumono significato diverso e più giustificato di quelle del 1979.

Appare assai più che meramente esemplificativa l’indicazione delle normali modalità di impiego del denaro proprie di ciascune di esse. Vale la pena di ricordare che nelle decisioni del 1979 la mera appartenenza a questa o a quella categoria avrebbe dovuto condurre alla presunzione quantitativa del mancato guadagno, tenuto conto delle condizioni e qualità personali, o quanto meno alla rivalutazione monetaria. Questa finiva così per divenire pressochè l’unico rimedio a portata di mano.
Ora, per contro, le Sezioni Unite hanno fissato l’impiego normale secondo il quod plerumque accidit per ciascuna categoria in modo appropriato; ed il parametro è congruo allo scopo. Siamo così di fronte ad un operatore economico che investe il denaro nella sua impresa, anche ricorrendo al credito bancario, al risparmiatore che, lungi dal correre rischi, investe in titoli a reddito fisso o in depositi bancari, al consumatore che subisce il rialzo dei prezzi. Entro questi limiti, e cioè riferita al modesto consumatore, anche la rivalutazione monetaria ha una sua logica ed appare accettabile.

Quanto alle altre categorie, in via presuntiva, non può che ricorrersi all’interesse attivo o passivo bancario, perché diversamente le Sezioni Unite correttamente pretendono che il creditore offra gli elementi di prova, definita complessa, che è quanto escludere la presunzione e l'utilità della classificazione per categoria.

7.- Trattasi ora di fornire indicazioni più precise a proposito del tasso di interesse, cui deve aversi riguardo.
Le Sezioni Unite hanno correttamente indicato, nel caso dell’operatore economico, l’interesse bancario attivo, che egli paga in via di rimpiazzo. Non penso occorra prova specifica dell’utilizzo di quel credito a quel tasso, bastando quella del tasso a lui praticato dalla banca, in via di presunzione. Nel caso di mancanza di una tale prova, il giudice potrà ricorrere ai dati di esperienza notori, quali il prime rate (tasso per la clientela migliore) o quanto meno il tasso ufficiale di sconto (quello praticato dalla banca centrale agli istituti di credito), concordando tuttavia ora con Pardolesi che essi hanno valore suppletivo di riferimento. Un discorso analogo va fatto per il creditore in genere che deduca e provi di non avere potuto fare un migliore investimento di quello presunto, quale costo di ricopertura del danno da impiegare ex art. 1227.

Le Sezioni Unite hanno indicato per il creditore in genere il tasso sui depositi bancari o sui titoli a reddito fisso. A mio modo di vedere, data anche la sempre più larga diffusione dei servizi di informazione finanziaria, deve aversi riguardo al tasso medio del tipo di investimento più redditizio (oggi è quello in BOT, CCT, ecc.).

8.- E veniamo da ultimo, perché la nota di Amatucci offre ampio sunto al riguardo, a quella categoria di crediti che sono dalla dottrina e dalla giurisprudenza considerati indicizzati: cioè ai crediti di valore. Questa costruzione dogmatica, a mio avviso, è priva di fondamento teorico. Non è ipotizzabile in alcun modo che gli interessi monetari, anche solo a livello di saggio legale, abbiano a maturare con riguardo ad un tale credito perché sono tipici di quello di valuta.

E’ la conclusione cui ora perviene Amatucci, che peraltro tiene ferma codesta categoria dei crediti di valore, nel novero dei quali, in primi figura quello del risarcimento del danno. E' sopra accennato come gli interessi di un credito di valore non siano giustificabili in alcun modo: non per la pretesa redditività del denaro, perché accederebbero a crediti di valore e non di valuta, e neppure in ragione della loro precipua caratteristica del premio di liquidità. Amatucci osserva correttamente come essi non possano giustificarsi sotto il profilo di interessi compensativi, perché non ineriscono a crediti liquidi, come vuole l’art. 1282 c.c. Il credito di valore, perciò, comporterebbe solo la rivalutazione monetaria, senza interessi. Ognuno acquista speciale evidenza oggidì in una fase caratterizzata -come si è detto- dal rapido calo del tasso inflazionistico e di quello tendenziale che segna la misura di interessi, al di sopra dell’inflazione (interessi reali). Nel caso limite di una inflazione " a tasso zero o addirittura negativo", quale si sta verificando ora in Germania, il danneggiato riceverebbe a distanza di anni il medesimo indennizzo monetario dovutogli o addirittura uno inferiore e non sarebbe compensato per il ritardo. Il danneggiante, per contro, sarebbe incentivato a dilazionare la prestazione dell’indennizzo. Non può tuttavia ipotizzarsi, per una intima contraddizione concettuale, l’aggiunta degli interessi.

In un altro senso, e questa volta per eccesso, il criterio della rivalutazione monetaria manifesta la sua inadeguatezza.
Si tratta del caso, tutt’altro che infrequente, in cui il danneggiato sia un estero-residente che non viva e non spenda in Italia, sì da non esser pregiudicato dalla crescita del costo della vita. La nostra dottrina e la giurisprudenza, sul presupposto teorico del credito di valore, rivalutano l’indennizzo a favore di codesto straniero in base agli indici dei prezzi al consumo interni, invece della perdita di cambio, come nelle obbligazioni di valuta. Più in generale, appare arbitraria un’indicizzazione generalizzata ed automatica di una intera categoria di crediti, come pure lo scambiare un indice ristretto di prezzi per un valore astratto ed universale, che sarebbe da riconoscere ex lege invece del valore nominale.

Questo orientamento delle sezioni unite è suscettibile di sviluppi in questa direzione.

L’inadeguatezza del criterio, basato sulla rivalutazione monetaria, è da ultima avvertita da Amatucci là dove scrive: " la percezione dell’equità o della iniquità della soluzione viene istintivamente da ciascuno correlata alla redditività media del denaro nel frattempo", scilicet all’interesse di mercato, che egli coglie con i riferimenti a quelli sui depositi bancari, sui BOT, sui CCT, ecc. Detta inadeguatezza è destinata a crescere con il calare dell’inflazione ed il permanere invece della normale redditività del denaro a buon livello. Il riferimento all’interesse di mercato (invece che alla rivalutazione monetaria), come saggio di attualizzazione di valori nel tempo, è quanto vado da tempo sostenendo. Ovviamente, ciò postula che si abbandoni la costruzione del credito di valore come contrapposto a quello di valuta e lo si riduca, come nel caso tipico di risarcimento del danno, alla sua intima essenza di credito illiquido di moneta. E poichè oggidì, contrariamente ad un tempo, vige il principio che fit mora in illiquidis, deve riconoscersi il diritto del creditore al risarcimento del danno di mora, anche nei crediti illiquidi sotto la forma di interessi e di differenziale con il rendimento normale del denaro ex art. 1224, 1° e 2° comma.

E’ quanto:
a) assumere la moneta avente solutorio legale anche a moneta di conto, qual’è, abbandonando il riferimento e parametri estrinseci quali indici di prezzi , ecc. e la distinzione tra credito di valuta e credito di valore;
b) applicare l’art. 1224 al danno da mora in genere, sia che inerisca a crediti liquidi, sia a crediti illiquidi;
c) il riconoscere all’interesse di mercato la sua funzione di universale saggio di attualizzazione dei valori nel tempo in sintonia con i risultati della scienza economica moderna.
Ed è anche la strada più semplice e coerente, che demotiva il ritardo del debitore e risarcire il danno del creditore.

Non v’è alcuna ragione teorica perchè il debitore non debba risarcire il danno da mora dei crediti pecuniari illiquidi, secondo le norme generali in materia di obbligazioni pecuniarie. La mora non suppone la trasformazione del credito da illiquido in liquido (arg. ex art. 1219, 2°comma, n. 1, c.c.). perciò gli interessi che si accompagnano ai crediti illiquidi sono quelli moratori, a differenza di quelli compensativi, che accedono solo ai crediti liquidi. Non vi è, peraltro, motivo perchè non debba essere risarcito anche l’ulteriore danno ex art. 1224, 2° comma, stante l’inadeguatezza del tasso legale. In tale modo l’indennizzo, anche nei crediti illiquidi, è parametro sul normale rendimento del denaro, come intuisce il comune cittadino.

 

B) L’indennizzo del mero lucro cessante, come criterio generale di risarcimento del danno da mora nelle obbligazioni pecuniarie

(nota a sentenza Corte di Cassazione, Sez. lavoro, 15/02/1990 n. 113)

1.- La decisione in rassegna è in linea con l’orientamento ora divenuto giustamente dominante e che è stato autorevolmente confermato dalla recente sentenza 5299/89 delle sezioni unite civili. Esso correttamente esclude che si possano cumulare gli interessi legali e l’interesse di tasso di rivalutazione per risarcire il danno da mora nelle obbligazioni pecuniarie.

La pronuncia delle sezioni unite civili merita particolare attenzione perché ha avuto riguardo al caso emblematico di un modesto consumatore (nella specie un pensionato) che avrebbe verosimilmente speso in beni di consumo i ratei di pensione (se li avesse ricevuti puntualmente). Il ragionamento della Corte, sotto un certo punto di vista, non fa una grinza. Non può ipotizzarsi che quel pensionato avrebbe ad un tempo speso quel danaro in beni di consumo, così da fruire della rivalutazione, e per altro verso invece si assuma che avrebbe risparmiato quel denaro, così da attenere il compenso per il risparmio (cioè gli interessi), dovrà anche ipotizzarsi che nuovi e maggiori prezzi del differito momento di consumo. Ovviamente questo discorso, se vale per il pensionato, vale in via di massima per tutti. Infatti, obbedisce a criteri elementari ed ineludibili di logica economica, che resta -a ben vedere- l’unico strumento cui affidarsi per individuare la situazione in cui il creditore si sarebbe trovato, se l’obbligazione fosse stata tempestivamente adempiuta.
Il quod plerumque accidit non consente di ritenere che il creditore, in genere, avrebbe nel medesimo tempo speso e risparmiato l’importo dovuto se lo avesse ricevuto per tempo. Quanto dire che il quod interest non può essere identificato insieme nella rivalutazione dell’importo e nell’interesse monetario: non può cumularsi qui il danno emergente con il lucro cessante.

L’ipotizzabilità di un danno emergente (per la perdita del potere di acquisto della moneta) è esclusa dal principio nominalistico contemplato dall’art. 1277 c.c., che viene sovente ignorato, senza alcuna ragione. L’ipotesi normalmente configurabile di danno da inadempienza di un’obbligazione che abbia per oggetto una somma di denaro, avente corso legale (sia essa liquida dall’origine o da liquidarsi in seguito), è costituita dal lucro cessante. Esso coincide, secondo il quod plerumque accidit, con il normale rendimento che il creditore avrebbe tratto da un impiego omogeneo e cioè finanziario di carattere non aleatorio.
Il predetto "normale rendimento del danaro" corrisponde al quod interest secondo il quod plerumque accidit, ripristina, in conformità a regole economiche generali, la situazione che si sarebbe avuta se l’obbligazione fosse stata adempiuta tempestivamente, ed altresì in linea generale con gli artt. 1223, 1225, 1227, 2° comma, 2056, 2° comma, c.c.
L’interesse monetario, nella variegata gamma dei tassi, consente anche di personalizzare il risarcimento. In linea di massima esso corrisponderà al più elevato tasso del reddito fisso (BOT o formule di risparmio bancario), escludendosi gli impieghi aleatori in titoli azionari.

2.- La logica indennitaria, imperniata esclusivamente sul lucro cessante, soddisfa ad un tempo esigenze irrinunciabili di logica giuridica ed economica.
In primis, postula un ritardo colpevole ed è ad esso coerente, mentre la logica "valoristica" prescinde dalla "mora", sino a porsi, in ultima analisi, al di fuori dei principi generali del sistema ed appare, altresì, intimamente contraddittoria, laddove, da un lato, prescinde dalla mora e, dall’altro, argomenta analogicamente dalla mora ex re, in materia di illecito, per poi generalizzarla, svincolandola da tale presupposto. Essa inoltre riconduce l’interesse alla sua funzione di risarcimento del lucro cessante, causato dalla mora, evitando il ricorso a figure anomale, quale ad es., i c.d. interessi compensativi, che obbediscono ad una logica del tipo di quella rifiutata dall’odierna giurisprudenza.
Registriamo, a questo riguardo, un’ingiustificata estensione da ipotesi residuali, relative a crediti liquidi e non esigibili (ex art. 1499 c.c.), ai crediti illiquidi e tuttavia esigibili (quale il risarcimento del danno da inadempienza). Questa prassi conduce a duplicare la rivalutazione e gli interessi, per cercare di risarcire lo specifico danno per il ritardo con cui viene prestato l’indennizzo per "equivalente" del danno.

La recente decisione 3352/89 della Suprema corte ha correttamente riconosciuto a tali interessi il carattere moratorio. L’interesse legale, di cui al combinato disposto degli artt. 1224, 1° comma, e 1284 c.c., lungi dall’esaurire il lucro cessante derivato da ritardo colpevole, costituisce una misura forfetaria e presunta, non esaustiva, del lucro cessante che nella sua interezza deve essere integrato dal differenziale, rispetto al normale rendimento del danno. Questo differenziale costituisce il "maggior danno" ex art. 1224, 2° comma c.c.
In tale senso è, del resto, tutta la storia delle discussioni legislative che precedettero la fissazione del saggio legale di interesse, dal codice napoleonico in poi.

3.- Sotto altro profilo, il ricorso all’indennizzo del mero lucro cessante del mero lucro cessante (cioè, in termini di normale rendimento del denaro) costituisce anche la sola misura consona alle leggi economiche. E’ assolutamente vano ricercare il danno moratorio in un diminuito "valore della moneta", perché quest’ultima, a causa delle illimitate opzioni che l’accompagnano e del suo valore nominale, è un metro di misura assolutamente astratto. E’ stato a suo tempo scritto da illustri economisti che il serbatoio del potere di acquisto è costituito dalla medesima moneta7 e che è impensabile misuralo diversamente. Appare perciò illusorio individuare il "valore" della moneta nell’indice di un potere di acquisto, per sua natura variabile fissandolo nel tempo. Il danno moratorio, al contrario, consiste più propriamente nel lucro cessante e quindi, come si è detto, in quel compenso che il creditore avrebbe normalmente tratto dal risparmio della somma considerata, per averne rinviato la spendita presente al futuro (in questo senso si parla di utilitas temporis, di time preference).

Nel nostro caso si tratta del normale compenso per quella particolare forma di risparmio che è indotta forzatamente dall’inadempienza del debitore.

L’interesse di mercato (BOT, CCT, interessi bancari nelle diverse forme) si stabilisce, come è stato evidenziato dagli studi economici, al punto in cui la domanda di credito si equilibra con l’offerta di mercato ed indennizza il lucro cessante, secondo il quod plerumque accidit. Esso compensa, in via assorbente, ogni diverso deprezzamento conseguente al differimento temporale, tiene conto dei più diversi fattori e cioè del volume di liquidità, delle attese inflazionistiche, delle misure di raffreddamento dell’economia, dei corsi di cambio e così via. La soddisfazione imperniata sul lucro cessante, vale a dire sul normale interesse monetario, è, l’unica ad avere una giustificazione reale perché affonda le radici nella realtà economica, mentre quella basata sulla rivalutazione ha carattere artificioso e arbitrario.
L’importanza attribuita al lucro cessante, a scapito della rivalutazione, ha avuto conferma concreta nei fenomeni economici del nostro tempo e nella connaturale variabilità reciproca dei livelli dei prezzi e delle merci e degli interessi monetari.

L’inflazione più recente è stata caratterizzata, per un ampio periodo del decennio considerato (1979-1983), dal fenomeno assolutamente nuovo della caduta della domanda di merci (stagflazione, slupflazione) e, per conseguenza, da una elevata propensione a conservare la moneta in forma liquida. L’interesse monetario, in tale periodo, si è mantenuto costantemente al di sotto del tasso inflazionistico. Nell’arco di tempo, invece, più vicino a noi (1984-1989), a seguito della stabilizzazione del potere di acquisto della moneta, si è avuto il fenomeno opposto di un accrescimento della domanda di beni e di una diminuzione della liquidità, con rilevanti effetti sugli interessi monetari, che sono saliti a livelli notevolmente al di sopra del tasso inflazionistico. Oggi, l’indennizzo del lucro cessante, e cioè il compenso del risparmio, è molto al di sopra della misura di rivalutazione che dovrebbe compensare il consumatore. Devesi qui aggiungere che la soluzione imperniata esclusivamente sul lucro cessante consente un indennizzo dei creditori più omogeneo e generalizzato ed un più razionale e convincente uso delle presunzioni. Ciò evita anche quelle disparità di trattamento, ad una delle quali ha accennato l’ordinanza 7 febbraio 1990 della Suprema Corte, con i conseguenti problemi di costituzionalità normativa.

4.- Torniamo ora al caso dell’indennizzo moratorio del nostro pensionato ed alla disparità del suo trattamento rispetto alle altre categorie di creditori, che tiene dietro al divieto del cumulo della rivalutazione e dell’interesse legale, correttamente sancito dalle sezioni unite.
Il pensionato dovrebbe dunque accontentarsi della sola rivalutazione monetaria, ossia di un incremento nominale della somma dovuta del 17,58% per il periodo 1979-1983, del 9,60% per il 1984-1985, del 5,23% per il 1986-1988 e del 6,60% per il 1989.

Non è chi non veda il carattere penalizzante e discriminatorio di un tale trattamento a danno di una così vasta categoria.

Consideriamo ora l’opposta conclusione, che era precedentemente in auge e consentiva il cumulo della rivalutazione monetaria e degli interessi legali. Devesi rilevare, preliminarmente, che non è dato vedere quale senso abbia sommare alla rivalutazione monetaria una quota del lucro cessante pari al 5%. Il cumulo della rivalutazione e dell’interesse legale, posti a confronto per i periodi considerati con il parallelo rendimento dei titoli di debito pubblico (in specie BOT), mette tuttavia in evidenza alcuni dati. Il cumulo porta qui ad un lucro (spropositato) di oltre cinque punti al di sopra del normale rendimento del denaro per il periodo 1979-1983, mentre si attesta al di sotto per gli altri periodi. Ciò porta a concludere che, dopo la caduta del tasso inflazionistico ai livelli odierni, il cumulo nell’ultimo periodo si mantiene addirittura al di sotto o al limite del normale rendimento del denaro.

Passiamo ora a confrontare il caso del nostro pensionato con quello in cui si procede alla rivalutazione automatica, con l’aggiunta degli interessi legali calcolati addirittura sul capitale rivalutato (quali i crediti da lavoro subordinato e quelli di valore). Il primo raffronto da fare, per l’appartenenza al medesimo ambito sociale, concernente il pensionato ed il lavoratore subordinato protetto dal combinato disposto degli artt. 429, 3° comma, c.p.c. e 150 disp. att. c.p.c. A suo tempo, l’autore di queste righe rilevò che il dato testuale dell’art. 429, 3° comma, a rigore non autorizzerebbe un’interpretazione diversa da quella prevista dall’art. 1224, 2° coma, ad esclusione della variante che qui la mora opererebbe ex. re. Ed ebbe altresì ad osservare che la rivalutazione, prevista dall’art. 150 disp. att., dovrebbe essere limitata alla sola eventualità che il tasso inflazionistico superasse l’interesse legale, e perciò a quella parte di inflazione che eccede il 5%. Questo avviso è rimasto senza seguito. All’opposto, è dominante l’opinione che procede alla rivalutazione monetaria nella sua interezza e vi aggiunge altresì gli interessi legali, calcolati addirittura sul capitale rivalutato. Questa conclusione incontra il medesimo rilievo di illogicità che è alla base del del divieto di cumulo, ribadito dall’odierna giurisprudenza. In ogni caso, dovrebbe attribuirsi alla normativa speciale carattere anomalo. La disparità di trattamento tra il pensionato ed il lavoratore subordinato ha recentemente condotto, come si è detto, la sezione di lavoro della Suprema Corte, con ordinanza 7 febbraio 1990, a sollevare un problema di costituzionalità. E’ tuttavia prevedibile che tra non molto, saranno i lavoratori subordinati a dolersi dell’inadeguatezza del trattamento imperniato sulla rivalutazione, invece che sui più alti interessi monetari, e a sollevare gli stessi problemi di disparità di trattamento, per ragioni opposte.
Il medesimo discorso, relativo alla disparità di trattamento, è da farsi tra il pensionato e chiunque appartenga alla categoria dei creditori di valuta, da un lato, ed il danneggiato, o chi appartenga in genere all’evanescente categoria dei crediti di valore, dall’altro.
Anche in questo caso alla rivalutazione automatica, nella sua interezza, si aggiungono gli interessi legali sul capitale rivalutato. Le disuguaglianze finiscono qui per dilatarsi oltre ogni dire, e assumono dimensioni di enorme portata.

E’ ormai tempo, a mio modo di vedere, che si proceda ad un riesame critico ab imis di codeste distinzioni e costruzioni dogmatiche, che non hanno alcuna base normativa e si fondano su alcuni abusanti crittotipi. E' tuttavia il caso di comparare il normale rendimento del denaro, per i periodi considerati, con il cumulo della rivalutazione e degli interessi sul capitale rivalutato. Il raffronto operato dimostra quanto riesca ingigantita la differenza (quasi dieci punti) per il periodo 1979-1983, e come invece, per gli ultimi anni, il cumulo si attesti su valori al limite o al di sotto del normale rendimento del denaro: a riprova del carattere arbitrario delle soluzioni imperniate sulla rivalutazione monetaria e sugli interessi calcolati sul capitale rivalutato, e di come il sicuro e ragionevole punto di riferimento per l’indennizzo moratorio sia costituito solo dal risarcimento del lucro cessante, in termini di normale rendimento del danno.

Il risarcimento del maggior danno da mora, previsto dall’art. 1224, 2° comma, c.c., finirebbe per perdere qualsiasi significato nella misura in cui l’interesse legale sopravanza quello di mercato, mentre all’opposto è da riconoscere a tale norma il ruolo di strumento di raccordo con il quod interest secondo il plerumque accidit.

5.- Per concludere il nostro discorso, si dirà che il trattamento riservato al pensionato, limitato alla sola rivalutazione, appare quanto mai ingiusto.
La via di uscita non consiste tuttavia, nell’aggiungere gli interessi legali alla rivalutazione, ma nell’assicurare al pensionato il normale rendimento del danaro, che in questi anni è molto al di sopra addirittura del cumulo di cui si è detto. Per ottenere ciò, è sufficiente, che il pensionato, deduca che non avrebbe speso, ma risparmiato la somma non ricevuta a suo tempo, in modo da presentarsi come risparmiatore o creditore occasionale, invece che consumatore. In effetti, le sezioni unite riconoscono tale trattamento al pensionato per le somme (più importanti) rappresentate dagli arretrati, per le quali è parso meglio ipotizzare una destinazione al risparmio, invece che all’acquisto di beni di consumo. Come dire che lo stesso pensionato dovrebbe ricevere un trattamento diseguale per le medesime somme di pensione che attende di ricevere, a secondo della loro consistenza.
Il caso del pensionato è oltremodo significativo per verificare la validità della conclusione più generale secondo cui il quod interest dell’art. 1224 c.c. va individuato nel normale rendimento del denaro (o nel suo costo di rimpiazzo, se quest’ultimo sia stato sostenuto).
Esso rappresenta altresì il coerente rimedio per risarcire lo specifico danno per il ritardo con cui viene presentato l’indennizzo, danno che va tenuto assolutamente distinto dal risarcimento dell’altro pregiudizio, di base, che nasce dall’illecito o dall’inadempienza. Quest’ultimo va stimato sulla base dei valori correnti nel tempo in cui esso si verifica.
L’interesse monetario adempie anche alla funzione di raccordare i diversi valori, espressi in moneta, correnti in termini diversi (c.d. saggio di attualizzazione). Ciò dimostra ulteriormente come i fenomeni economici non sono riducibili nei rigidi schemi di precostituite formule dogmatiche; all’opposto, la validità di queste va saggiata sul banco di prova della realtà economica. Occorre, in definitiva, avere sommo riguardo all’analisi economica del diritto, dalla quale non si può prescindere, specie in questa materia.

  

C) Il problema degli interessi monetari nel risarcimento del danno

1.- In questi ultimi anni, da più parti è stata sottolineata l’esigenza di un approfondimento del tema concernente gli interessi monetari in genere e la correttezza teorica e pratica della loro distinzione in compensativi, corrispettivi e moratori, sotto il profilo della loro funzione.
In particolare codesta esigenza è stata avvertita con riguardo al risarcimento del danno dove, non solo da noi (ma anche dalla dottrina e nella giurisprudenza ad es. francese, spagnola e non so di quanti altri paesi) si continuano ad aggiungere gli interessi legali giustificati come interessi compensativi. Codesta aggiunta, invero, su un piano teorico, non consente di verificare appieno la adeguatezza e la inadeguatezza, sia per eccesso che per difetto, di criteri di stima del danno, come quello basato sui prezzi alla decisione o di quello imperniato sulla rivalutazione o di deflazione (c.d. crediti di valore).
Su un piano pratico esso conduce sovente ad ingigantire l’ammontare del risarcimento, con esasperazioni come quelle di sommare gli interessi compensativi a quelli moratori, o di calcolare gli interessi sul capitale rivalutato od infine rivalutare i medesimi. Ora tuttavia il calo dell’inflazione a tassi pari o inferiori agli interessi legali o addirittura negativi, come sta accadendo in Germania e la prospettiva di un possibile calcola alla rovescia di un capitale e degli interessi, calcolati su quello, induce a riconsiderare il problema in termini nuovi e più vasti.
Alla fine molte proposizioni correnti saranno da rivedere: ciò passa tuttavia attraverso una migliore comprensione del fenomeno economico, nei suoi vari aspetti, quale presupposto dell’approfondimento di quello giuridico.
Ed a questo riguardo, a mio sommesso avviso, la strada da percorrere che qui ci si sforza di delineare, è ancora parecchia.

2.- E’ opportuno dire subito che le analisi compiute dai giornalisti a proposito dell’interesse monetario hanno prevalentemente carattere descrittivo e così ne sottolineano l’aspetto pecuniario, accessorio, omogeneo, proporzionale e periodico.
L’essenza dell’interesse monetario non sembra tuttavia colta da essi nella sua ampiezza come quando esso viene inteso solo come frutto per l’uso del capitale e quindi assimilato ai frutti naturali dei beni in dipendenza dell’assioma corrente circa la normale fecondità del denaro..
Non è a meravigliarsi che un tale modo di vedere finisca per condurre a considerare il calcolo degli interessi come d’obbligo sempre e comunque e per di più al netto del tasso inflazionistico.
Ciò ha un ruolo amplificatore degli interessi compensativi e porta a considerare gli interessi legali, come altrettanti interessi reali, cioè al di sopra del tasso inflazionistico.
Codesta visuale è tuttavia erronea solo che si consideri il denaro tesoreggiato non produce frutto e subisce, in fase inflazionistica, l’inesorabile erosione del potere di acquisto.
L’essenza dell’interesse è stato invece colta in modo penetrante dagli economisti moderati e tra questi dal Bohm-Bawerk nella sua natura di fenomeno legato al credito e a quello pecuniario in specie, e perciò alla minore utilità percentuale di una prestazione differita di denaro rispetto a quella a pronti. Nel che è compresa l’altra caratteristica concernente il premio di liquidità.
È piuttosto ovvio che gli interessi (siano convenzionali o legali, compensativi o moratori) trovano la loro spiegazione in codesta minore preferenza per il denaro disponibile a termine rispetto a quelli a pronti e ne costituiscano perciò il tasso di sconto o di attualizzazione.
Codesta funzione di attualizzazione dei valori svolta dall’interesse monetario, è intesa massimamente da chi attribuisce all’art. 1499 c.c. la portata di norma generale, intesa al riequilibrio di una prestazione differita rispetto a quella a pronti.
Un grosso fattore di malinteso è costituito dal divario tra il saggio legale e quello di mercato così che l’interesse legale appare qualcosa di diverso rispetto a quello ordinario. La storia delle relazioni tra tasso legale e tasso normale mostra come l’altezza di quello legale trae l’origine da quella di mercato, corrente in epoca prossima alla sua codificazione.
Che il tasso legale, a causa della sua fissità, sia destinato a rimanere indietro o a sopravanzare quello normale, in epoca di variazione dei tassi, è piuttosto evidente.
Occorre tuttavia guardare all’interesse di mercato, come al solito saggio normale di attualizzazione come si è detto.
È a tutti noto che il tasso legale ha un valore esclusivamente suppletivo.
Quel che appare assolutamente sottovalutato, è il riferimento del nostro sistema all’interesse di mercato, e così il valore normativo.
Ciò è particolarmente trasparente nel caso in cui il tasso legale sia inferiore a quello di mercato.
L’art. 1224, 2° comma, c.c. nel caso degli interessi moratori, e l’art. 1207, 2° comma, c.c., nel caso degli interessi corrispettivi, consentono di recuperare lo scarto tra saggio legale e saggio di mercato, individuando così nella misura di quest’ultimo, quella correttamente dovuta secondo il quod plerumque accidit.
Invero il maggior danno da mora di cui all’art. 1224, 2° comma, c.c., viene sempre più individuato dalla giurisprudenza, senz’altra prova che l’impiego di presunzioni, nello scarto con l’interesse sui depositi bancari, o con il rendimento di titoli di debito pubblico che il creditore avrebbe verosimilmente tratto dall’impiego finanziario del danaro se ricevuto per tempo.
E parimenti poiché l’art. 1207, 2° comma, c.c., stabilisce la regola che il debitore, anche se non versasse in mora, deve al creditore, perfino in mora, il frutto da lui goduto, medio tempore, e questo può presumersi nella misura di quello corrente sopraindicato, occorrerà avere praticamente riguardo al saggio di mercato, specie se più alto di quello legale.
È il caso ora di anticipare una nozione.
L’interesse di mercato, come è stato avvertito di recente, anche dalla giurisprudenza, incorpora le attese inflazionistiche, nel contesto delle condizioni contingenti del mercato del credito e del risparmio.
Il rimedio usuale di ovviare all’inadeguatezza dell’interesse legale, sommando a questo il tasso di svalutazione monetaria, equivale a procurare al creditore un lucro, nella misura in cui tale operazione supera l’interesse di mercato.
E viceversa, nella misura in cui essa resta ad un livello inferiore, apparirà indennizzo inadeguato.
In entrambe le ipotesi, come si vedrà oltre, trattasi di proposta di rimedio inesatto.

3.- Si è soliti classificare gli interessi in moratori e non moratori, a seconda che il differimento della prestazione pecuniaria avvenga o meno iniure da parte del debitore, per essere lo stesso costituito in mora ( per volontà della legge ex art. 1219, 2° comma, nn. 1 e 3 o per interpellazione del creditore ex art. 1219, 1° comma, c.c.) essi sono regolati dall’art. 1224 del nostro codice.
Gli interessi moratori riguardano un credito pecuniario liquido od illiquido e tuttavia già esigibile.
Gli interessi non moratori vengono a loro volta distinti, non senza contrasti terminologici, in corrispettivi e compensativi.
I primi sono regolati dall’art. 1282 c.c. e concernono il semplice ritardo del caso di un credito liquido ed esigibile.
L’interesse compensativo è codificato dall’art. 1499 c.c. e riguarda un credito liquido e non ancora esigibile.
Entrambi hanno per oggetto crediti pecuniari liquidi.

La dottrina e la giurisprudenza, attraverso una forzatura dell’art. 1499 c.c. hanno creato una categoria generale di interessi compensativi estendendo in via analogica la norma ai crediti illiquidi, come ad esempio quello al risarcimento del danno. E ciò pare francamente eccessivo.
A questo punto è opportuna una disgressione sul rapporto tra liquidità ed esigibilità del credito. È piuttosto diffusa l’opinione che un credito per essere esigibile, debba essere già liquidato. Essa si risolve nel porre a carico del creditore il tempo occorrente per la liquidazione, durante il quale non maturano gli interessi. Un tal modo di vedere, è accolto dal legislatore, per gli interessi non moratori. Un tempo esso riguardava anche gli interessi moratori e su tale fondamento si basava il principio in illiquidis non fit mora. In epoca a noi recente il legislatore, per non favorire immeritevolmente il debitore, a scapito del creditore, ha anticipato la esigibilità così che il tempo occorrente per la liquidazione del credito viene posto a carico del debitore, per scelta legislativa (art. 1219, 2° comma, n. 1 c.c.). Una tale deroga concerne tuttavia solo gli interessi moratori ed è giustificata dalla mora colpevole del debitore. L’ipotesi di cui all’art. 1499 c.c., e così l’interesse compensativo, esula da un tale ambito, perché riguarda un credito non solo liquido ma anche, per definizione di legge, non ancora esigibile. Si è detto sopra che l’interesse moratorio postula la costituzione in mora da parte del creditore, ove ciò non avvenga per legge. Da tale momento gli interessi moratori succedono a quelli corrispettivi, nel caso di un credito liquido, che così sono dagli stessi assorbiti. Tuttavia, con riguardo a questa fattispecie, tra interessi corrispettivi e moratori, vi è questa sensibile differenza e cioè che il recupero dello scarto tra saggio legale e saggio di mercato corrisponde ad un diritto di indennizzo, nel caso di mora, mentre a proposito degli interessi corrispettivi, trattasi di interesse, tutelato solo con l’azione restitutoria da arricchimento senza causa ex art. 1207, 2° comma, c.c.

Ed infine sia qui consentito un cenno sulla disciplina. Essa è comune a qualsiasi tipo di interesse, sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio. E così ad essi si applica l’art. 1283 c.c. che concerne il divieto di anatocismo e l’art. 2948, n. 4 c.c. che riguarda la precisazione quinquennale. Gli interessi sono assoggettate anche alle ordinarie imposte sul reddito.

4.- Passiamo ora a discorrere degli interessi con riguardo all’indennizzo.
Il problema di fondo del risarcimento del danno è l’attualizzazione dell’equivalente al momento della sua prestazione in concreto, che avviene in ritardo rispetto al verificarsi del danno. E così la copertura dello scarto temporale.
Si è detto sopra che l’interesse monetario svolge in genere tale funzione e che il saggio normale di attualizzazione è quello corrente di mercato.
Ciò dovrebbe condurre alla normale determinazione dell’indennizzo sulla base dei prezzi e valori al verificarsi del danno e quindi alla successiva aggiunta degli interessi correlati al ritardo con cui esso viene prestato.
Si è anche detto sopra che il recupero dello scarto tra il tasso legale e tasso di mercato è possibile, mediante il solo impiego di presunzioni, ex art. 1224, 2° coma, c.c. nel caso degli interessi corrispettivi. A questo punto il successivo discorso dovrebbe prendere le mosse dall’analisi di questa situazione e della natura di codesti interessi per andare oltre. Tale avviso, sostenuto dall’autore di queste righe, corrisponde alla situazione in cui il danneggiato si sarebbe dovuto trovare ove avesse riscosso a suo tempo l’indennizzo e lo avesse investito nelle forme di un normale risparmio. Il quadro delle opinioni dominanti nella dottrina e nella giurisprudenza, non solo italiana ma anche straniera, è -tuttavia- assolutamente diverso. In genere l’indennizzo viene invece determinato sulla base dei prezzi e valori al momento della decisone di secondo grado (tempus rei iudicandae) ovvero, quand’anche stimato con riguardo al verificarsi del danno, esso poi viene rivalutato al tempo della decisione di secondo grado ( credito di valore). All’ammontare così determinato secondo l’uno o l’altro criterio, vengono poi aggiunti sia da noi, che altrove gli interessi, che sono qualificati compensativi, in via analogica ex art. 1499 c.c. perché compenserebbero il danneggiato dell’uso che il danneggiante avrebbe fatto medio tempore del capitale a lui dovuto. Codesto modo di vedere finisce tuttavia per compensare due volte il differimento della prestazione dell’indennizzo e così duplica l’attualizzazione del danno in termini di prezzi e contemporaneamente di interessi, sicché una delle due è di troppo. Non pare ragionevole, infatti, supporre che il creditore avrebbe medio tempore investito il suo capitale, così da conseguire il capital – gain, ed insieme lo avrebbe conservato liquido, così da fruire gli interessi. O analogamente da chi accoglie la teoria dei crediti di valore, che il danneggiato avrebbe verosimilmente speso a suo tempo il capitale nel paniere di merci di consumo, sui cui prezzi è costruito l’indice statico, così da giustificare l’ipotesi del consumo costitutivo odierno ai prezzi ora correnti, e contemporaneamente lo avrebbe anche risparmiato, così da fruire degli interessi. Codesti interessi corrisponderebbero anzi al costo finanziario del supposto investimento invece che al suo frutto. Ognuno avverte che quivi è messa in discussione la giustificazione funzionale dell’interesse monetario. La quale ha senso – come si disse – solo come compenso per il ritardo con il quale è prestata quella quantità di denaro, in cui si concretizza l’indennizzo, determinato però sulla base dei prezzi e valori al verificarsi del danno. Opinare diversamente conduce ad escludere il calcolo degli interessi, come un mero sovrappiù. Ciò torna di tutta evidenza per chi considera ammissibile il riferimento al normale interesse di mercato e recuperabile ex art. 1224, 2° comma, e 1207, 2° comma, c.c. lo scarto tra saggio legale e quest’ultimo.

5.- Esaminiamo ora come si ponga il problema degli interessi con riguardo all’opinione dominante nel nostro paese che considera il credito di risarcimento, come un credito di valore e perciò lo rivaluta.
È opportuna qui una breve disgressione a proposito di codesta costruzione dogmatica imperniata sul così detto credito di valore. Questa non pare all’autore di queste righe in alcun modo accettabile e fondata. Il credito di qualsiasi danneggiato viene infatti indicizzato ai prezzi relativi a consumi essenziali di una famiglia lavoratrice, e di riflesso, al tenore di vita da essa conquistato, in epoca di grossi mutamenti sociali, senza che possa presumersi un tale impiego indistintamente da parte di chiunque. Questo poi concernendo beni a consumo istantaneo, non sembra neppure ipotizzabile sicché si finisce per immaginare un loro perenne rimpiazzo a nuovo, sulla base fissa dei prezzi del passato. Il quale investimento, a differenza di ogni altro, avverrebbe per giunta senza gli oneri finanziari ed i costi di conservazione postulati da qualsiasi trasferimento di beni nel tempo. Che si tratti di costruzione ispirata ad una logica penale, è data dal fatto che il danno viene stimato in un’immaginaria moneta di conto, dallo stabile potere d’acquisto, invece che nella moneta avente potere solutorio legale. Questo invero – come scrisse L. Einaudi - è il solo serbatoio del potere di acquisto dato che, come venne a suo tempo rilevato dal Marshall è non solo immutabile, ma impensabile misurare diversamente il potere di acquisto. Ciò è dimostrato dai nuovi studi sulla persistenza e sulla portata delle scorte e dei saldi monetari in epoca inflazionistica. La rivalutazione finisce poi per operare in via automatica, indipendente dalla mora e persino se ad essere in mora sia il creditore, come nel caso abbia rifiutato un’offerta di somma di denaro risulta alla fine congrua, sicché i principi sulla mora non sarebbero applicabili ai crediti di valore. E ciò appare non conciliabile con le regole di fondo del nostro ordinamento. Siffatta costruzione si rivela sotto un certo profilo forzata e sotto un’altra inadeguato, laddove conduce a rivalutare il danno di un estero residente secondo gli indice del costo della vita interni dove gli è interdetto detenere monete di conto interno. La caduta dell’inflazione a valori pari al saggio legale degli interessi la prospettiva che possa assumere addirittura una dimensione perfino negativa, con la conseguenza di un calcolo alla rovescia, mostra i limiti della base teorica di un tale credito. A codesta rivalutazione automatica sono poi comunemente aggiunti gli interessi monetari che vengono qualificati, come si disse, " compensativi" in quanto "fanno parte integrante del danno medesimo". Da un tale asserto viene derivato il corollario che essi a differenza di quelli moratori, possono essere liquidati d’ufficio anche senza domanda del danneggiato, ed in tal caso possono formarsi oggetto perfino le domande nuove ex art. 345 c.p.c. Essi vengono calcolati sul capitale rivalutato sul presupposto che "la rivalutazione costituisce una diversa espressione numeraria del medesimo danno originario". Codesto calcolo non viene ritenuto in contrasto con il divieto anatocistico, perché quest’ultimo avrebbe portata eccezionale e si limita ai crediti pecuniari cosicché non si applicherebbe a quelli di valore. Infine, a differenza di quelli moratori, gli interessi compensativi non sono stati ritenuti soggetti alle imposte sul reddito. Codeste proposizioni della giurisprudenza dominante ripetono sostanzialmente quelle correnti nei giudicati al tempo del codice civile del 1865, che a suo tempo le derivava da quella formatasi sul codice napoleonico.
Il carattere compensativo di codesti interessi, è ritenuto anche dalla dottrina e dalla giurisprudenza francese. Discorde è la valutazione della nostra dottrina sul carattere compensativo o moratorio dei suddetti interessi. È a chiedersi anzitutto se il credito di valore generi degli interessi e se quelli aventi le caratteristiche delineate dalla nostra giurisprudenza siano da considerare dei veri interessi. Sembra corretto dovere dare una risposta negativa a tale domanda. Invero una caratteristica fondamentale degli interessi – come rilevò ai suoi tempi il Messa - è che essi ineriscono ad una obbligazione pecuniaria e sono essi medesimi pecuniari. Si ricorda qui quanto si è scritto sopra a proposito della loro essenziale funzione tesa a esprimere e ovviare al minor valore di una prestazione differita di danaro rispetto a quella a pronti ed al premio di liquidità che è ad essi intrinseco.
Il credito di valore, dal momento che è un credito assolutamente diverso ed alternativo a quello pecuniario, non può pertanto generare interessi monetari. Si rileverà come manca, a questo riguardo, anche l’ulteriore requisito distintivo dell’omogeneità tra debito di valore per interessi, così da giustificare questi ultimi. I maggiori elementi di contrasto sono però offerti dall’anomala disciplina di codesti interessi, in materia di risarcimento del danno, come ritenuto dalla nostra giurisprudenza rispetto agli interessi ordinari. Si ha qui riguardo all’affermazione dominante che gli interessi farebbero parte del danno così da giustificare una loro liquidazione d’ufficio e senza che sia stata neppure proposto dal danneggiato il gravame contro la decisione che li abbia omessi o negati. Lo stesso è a dirsi dell’ulteriore affermazione corrente che essi, diversamente da quelli ordinari, non incontrerebbero i limiti del divieto anatocistico e neppure sarebbero soggetti alle imposte sul reddito, perché inerirebbero a dei crediti di valore invece che di valuta, e ciò costituirebbe un corollario della precedente affermazione intorno al loro carattere integrativo del risarcimento del danno. Viene qui negata l’altra caratteristica di fondo del debito per interessi, cioè la sua anatomia rispetto a quella del capitale. E con essa è anche negato il carattere accessorio degli interessi rispetto all’indennizzo. Devesi perciò ritenere che l’affermazione dominante che codesti interessi farebbero parte integrante del danno medesimo, e non darebbero ad essi accessori, conduce a negare, in definitiva, che essi siano dei veri e propri interessi. È quanto viene colto da quegli autori, i quali ritengono che gli interessi legali non siano in realtà tali, ma corrispondano ad un criterio forfetario di esperienza, per liquidare il danno. Codesto modo di vedere, notevolmente equivoco e generico, non può tuttavia essere accolto perché porta a duplicare in definitiva, l’indennizzo, senza essere autorizzato ed anzi in contrasto con l’art. 2056 c.c.
La duplicazione del risarcimento è stata colta dagli autori che l’hanno rilevata nel cumulo degli interessi e della rivalutazione monetaria.
È piuttosto trasparente, per quel che si disse sopra, che l’aggiungere gli interessi legali alla rivalutazione, porta a duplicare l’indennizzo per il ritardo, con cui è prestato l’equivalente. Ciò si traduce in ultima analisi, nel considerare dovuti, in modo arbitrario, degli interessi reali, degli interessi reali ex post, in misura pari a quelli legali, in modo difforme dal quod plerumque accidit. Il che è quanto procurare al danneggiato un lucro ingiustificato, in codeste proposizioni non sembra davvero, a lume di logica, potersi convenire.

6.- Si è sopra detto che la somma degli interessi all’indennizzo viene in genere giustificata sotto il profilo che si tratterebbe di "interessi compensativi". Che codesta qualificazione dogmatica sia una strada obbligata per chi considera il credito del danneggiato, un credito di valore, deriva dal rilievo sopra accennato che a questo tipo di credito viene considerato estraneo l’istituto della mora e perciò essa è priva di conseguenze. Sicché, una volta escluso il carattere moratorio degli interessi relativo ad un credito di valore, non resta che una loro giustificazione sulla base di una generica considerazione equitativa di compenso dovuto per l’uso del capitale altrui, e cioè come interessi compensativi. Ma codesto capitale di cui si discorre, in quanto riveste carattere monetario non sembra giustificare neppure sotto tale profilo, l’identificazione dei frutti del suo impiego, con quelli pecuniari. Sembra piuttosto che ciò sia costituito dalla sola rivalutazione monetaria, per chi accoglie tale categoria dei crediti di valore. Il carattere compensativo di codesti interessi, è poi da escludere per un altro ordine di ragioni. Essi vengono in genere giustificati con il richiamo analogico all’art. 1499 c.c. la cui legittimità è stata correttamente revocata in dubbio in passato dal Messa e da altri, dato il carattere tassativo della fattispecie e perciò non suscettibile di essere generalizzato. È però da escludersi che ricorrano gli estremi medesimi dell’analogia. Infatti l’interesse compensativo, per quanto si è detto sopra, è relativo ad un "credito liquido e non esigibile" quale è quello di cui all’art. 1499 c.c. Ciò non ricorre all’evidenza nel credito di risarcimento che è per sua natura illiquido e tuttavia è esigibile, ex art. 1219, 2° comma, n. 1 c.c. Non è perciò consentito ipotizzare in via analogica interessi compensativi per il credito illiquido ed esigibile di risarcimento del danno. A tal credito, per le sue caratteristiche di illiquidità e tuttavia di esigibilità non può tener dietro altro tipo di interessi che quelli moratori, che sono gli unici ipotizzabili per un tale tipo di credito. Nella qualificazione moratoria degli interessi afferenti il credito di risarcimento del danno, convengono molti autori dal Messa all’Ascarelli, dal Bianca al Giorganni ed al De Cupis. Il carattere moratorio è del resto colto dalla dominante giurisprudenza, laddove essa giustifica gli interessi che pur qualifica compensativi come "compenso per il ritardo con il quale è prestato l’equivalente". È quanto riconoscere ad essi qualità e fondamento moratorio. Il ricorso al profilo compensativo, del resto, trova la sua ragione d’essere al tempo del codice del 1865 e di quello napoleonico nella necessità di eludere il divieto in illiquidis non fit mora, che costituiva un ostacolo teorico al riconoscimento della loro qualità moratoria. Oggi, tuttavia, dopo l’abbandono di codesto principio con l’art. 1219, 2° comma, n. 1, c.c., non sussiste più alcuno ostacolo del genere. Questi interessi costituiscono infatti l’indennizzo dello specifico danno da ritardo ( per lo più colposo) nel prestare l’equivalente e non del danno originario, che deriva dall’illecito o dall’inadempienza (dolosa o colposa). L’opinione che li considera fare parte integrante del danno è frutto dell’equivoco perché considera erroneamente unico il danno dal suo verificarsi alla sua liquidazione. Che si tratti di due tipi di danno assolutamente diversi per qualità, natura e contenuto, è piuttosto evidente: l’uno – ripetesi – è quello che deriva dall’illecito o dalla inadempienza (dolosa o colposa) e va stimato sulla base dei valori correnti e l’altro riguarda invece quello dipendente dal ritardo con il quale è prestato l’equivalente e concerne il periodo successivo. Quest’ultimo è perciò quello moratorio nell’adempimento di quella obbligazione pecuniaria che ha per oggetto la somma di denaro, in cui si concreta l’equivalente. Questo tipo di obbligazione non si riduce a quella liquida, ma comprendere anche quella liquidanda: conta che il suo oggetto sia costituito da una somma di denaro. Il risarcimento di codesto danno moratorio segue la regola dell’art. 1224 c.c. Solo in tale modo è giustificabile l’aggiunta degli interessi, vale a dire di una prestazione pecuniaria, omogenea ed accessoria rispetto a quella differita dell’ammontare di denaro, che costituisce il capitale dovuto. Si è detto sopra che l’art. 1224, 2° comma, c.c. consente di recuperare lo scarto tra saggio legale normale, nel caso degli interessi moratori, e l’art. 1207, 2° comma, c.c., per quelli corrispettivi ed in via analogica per quelli compensativi. Con questa differenza tuttavia: ciò corrisponde ad un diritto del danneggiato, nel caso di quelli moratori, mentre per gli altri è possibile solo nell’ambito della minor tutela tesa ad evitare l’arricchimento del debitore. Anche sotto questo profilo, la qualifica moratoria di codesti interessi, protegge ben diversamente il danneggiato. Devesi a questo punto tirare la più importante conclusone pratica: codesti interessi moratori sono soggetti all’ordinaria disciplina che concerne ogni tipo di interesse.
E così devono essere domandati, e non possono essere liquidati di ufficio e sono soggetti alle comuni preclusioni, compresa quella ex art. 345 c.p.c. E parimenti essi incontrano il limite del divieto anatocistico di cui all’art. 1283 c.c.:; sono soggetti alla prescrizione di cui all’art. 2948, n. 4 c.c. ed alle ordinarie imposte sul reddito Né si cumulano con la rivalutazione monetaria in quanto accessori ad un’obbligazione pecuniaria, qual è quella di prestare l’indennizzo, e non al c.d. debito di valore.

7.- Passiamo ora all’altro discorso che concerne il momento dal quale gli interessi cominciamo a decorrere.

Il problema ha avuto diversa e contrastante soluzione nella storia del diritto e lo ha tuttora. Nel diritto romano ed in quello comune, in dipendenza del principio in liquidandis non fit mora, non venivano calcolati gli interessi sino alla decisione. Sotto l’impero dell’abrogato codice del 1865 mentre per il danno contrattuale venivano fatti decorrere dalla domanda, per quello extracontrattuale diedero luogo a grave controversia. L’opinione prevalente specie in giurisprudenza li reputava compensativi e li faceva decorrere dall’illecito, un’altra invece dalla domanda, ed infine una terza, peraltro autorevole, dalla liquidazione. Il nuovo legislatore, con l’art. 1219, 2° comma, n. 1 c.c., codificò il primo criterio che valeva a ritenere in mora ex re dall’illecito il danneggiante. Esso è anche quello accolto dalla dominante dottrina e giurisprudenza odierna che retrotrae perciò gli interessi all’illecito a differenza di quelli concernenti il danno contrattuale che decorerebbero dalla domanda. Questo partito dà indubbiamente luogo ad un eccesso di indennizzo alla decisione la rivalutazione o l’intervenuta lievitazione del prezzo del bene e gli interessi monetari. Ciò ha indotto un’autorevole opinione a riproporre la tesi che essi decorrerebbero solo dalla pronunzia. La corretta soluzione del problema mi pare implicita alla qualità moratoria riconosciuta a codesti interessi e comunque da essa deducibile. È di tutta evidenza che gli interessi mutarono dopo e non prima il momento in cui l’equivalenza avrebbe dovuto essere prestato e non lo è stato. Ciò è in linea con il carattere accessorio, proporzionale e periodico degli interessi. Questo postula che il momento di determinazione dell’indennizzo sia perciò anteriore e non posteriore a quello da cui cominciano a decorrere gli interessi. Apparirà così del tutto ovvio come non possa ipotizzarsi che gli interessi – come si ritiene – decorrano dall’illecito o dalla domanda, mentre l’indennizzo venga stimato alla successiva decisione o rivalutato a questa. Per contro apparirà del tutto ragionevole che il danno venga invece stimato con riferimento ai valori al suo verificarsi e gli interessi decorrano dopo di esso e cioè dal momento in cui il danneggiato è in mora dal prestare l’equivalente. È opinione dell’autore di queste righe che il problema della decorrenza degli interessi dipenda da quello in cui l’equivalente avrebbe dovuto essere prestato.
Ed in definitiva vada coordinato con il problema che concerne il tempo di riferimento nella stima del danno ed armonizzato con le controversie soluzioni, vale a dire al suo verificarsi (quanti ea res fuit), o alla domanda (quanti ea res est), o alla decisione (quanti ea res erit). Codesto nesso è stato colto in modo penetrante sotto l’impero dell’abrogato codice del 1865 dall’Albertario; dal Giorgi, dal Messa, e da altri, oltre che copiosa giurisprudenza a proposito del danno extra contrattuale.
La soluzione corretta per un complesso di ragioni, è – come dissi- quella di verificare il danno al suo verificarsi, e di far decorrere gli interessi dal sorgere della mora. E poiché il danneggiante è tenuto all’immediato indennizzo a sensi dell’art. 1219, 2° comma, n. 1 c.c., non pare dubbio che gli interessi moratori comincino a decorrere dall’illecito. Il problema deve essere posto in termini diversi ma analoghi, per quel che concerne il danno contrattuale. È opinio0ne corrente – come si è visto – che gli interessi decorrano dalla domanda giudiziaria.
Quale logica abbia un tale criterio, non è dato vedere. Esso non coincide con il sorgere della mora che ha rilievo per gli interessi moratori né con quello in cui la prestazione pecuniaria avrebbe dovuto essere compiuta per quelli corrispettivi. Esso non ha alcuna base normativa nel nostro sistema. Codesto criterio è probabilmente a noi derivato dalla tradizione culturale formatasi sul testo dell’art. 1153 c.c. napoleonico che recitava "ils ne sont dus que du jour de le demande". Esso è tuttavia meno comprensibile ai tempi nostri dato che lo stesso testo è stato modificato da quello "ils ne sont dus que du jour de la sommation de payer", così sostituendosi l’intimazione di pagamento alla domanda giudiziale.
Il criterio corretto anche per il danno contrattuale è quello di far decorrere gli interessi dal momento in cui il danneggiante versa in mora. L’individuazione di tale momento è una quaestio facti. La proposta avanzata di considerare l’obbligazione risarcitoria sempre "portable" ex art. 1182, 3° comma, c.c. e perciò il responsabile di tale danno contrattuale in mora sin dal suo sorgere ex art. 1219, 2° comma, n. 3 c.c., appare seducente e tuttavia schematica.

8.- resta a vedersi come gli interessi vadano calcolati.
Essi saranno computati sul capitale pecuniario in cui si concreta l’equivalente debendo, alla stregua di qualsiasi interesse moratorio.
L’obbligazione di indennizzo è pecuniaria e perciò soggetta al principio nominalistico, anche se l’esatto ammontare risulterà dalla determinazione giudiziale, come ogni obbligazione pecuniaria illiquida.
Il danneggiato ha diritto, come si è detto, a recuperare ai sensi dell’art. 1224, 2° comma, c.c. lo scarto tra il saggio legale e il maggior tasso corrente di mercato, che è poi il normale rendimento di ogni investimento finanziario non aleatorio del risparmio in cui possa presumersi che il normale dei prestiti bancari. Tutto ciò concreta la situazione in cui il danneggiato si sarebbe trovato secondo il quod plerumque accidit, se avesse ricevuto per tempo l’equivalente cui ha dritto. Esso costituisce anche il risarcimento corretto del maggior danno da mora ex art. 1224, 2° comma, c.c. secondo il più recente orientamento giurisprudenziale. L’opinione dominante che considera invece l’obbligazione risarcitoria come un debito di valore, calcola gli interessi sull’ammontare rivalutato. L’eccesso di indennizzo cui ciò da luogo, è sotto gli occhi di tutti. Esso si concreta nel supporre dovuto l’ammontare rivalutato nientemeno che dall’illecito o dalla domanda, invece che come risultato dalla quantificazione finale che ha luogo con la sentenza di secondo grado. Ciò appare contro ogni logica. Non diversamente da chi calcola gli interessi sul danno stimato in base ai valori correnti alla decisione che pure equivale a supporre un tale indennizzo dovuto fin dalla costituzione in mora di tale ammontare. Si deve aggiungere, in linea di principio, che il sommare gli interessi alla rivalutazione – come si rilevò – si traduce nel calcolare gli interessi reali ex post pari al 5%. Cioè neppure gli interessi reali ex antea in tale misura, come sarebbe più giustificato, dall’art. 1225 c.c., per il quale tasso di inflazione dovrebbe risarcire nel limite della sua prevedibilità. Ciò viene giustificato attraverso la forzatura inaccoglibile che la inadempienza moratoria sarebbe sempre dolosa e non colposa. Codesti calcoli imperniati sugli interessi reali, non hanno alcuna base normativa perché l’altezza del saggio legale concerne i soli interessi nominali che risultano così ingigantiti sovvertendosi il tasso stabilito dall’art. 1284 c.c. Non sembra parimenti accettabile, per le medesime ragioni, l’opinione più moderata che calcola gli interessi sul capitale via via rivalutato invece che su quello oggetto della rivalutazione ultima. Questo criterio a differenza di quello precedente si limitava a rispettare solo la caratteristica proporzionale. Anche questo metodo tuttavia viola il divieto di anatocismo, che è principio di fondo nel nostro ordinamento. A maggior ragione non si conviene nell’opinione che rivaluta gli interessi monetari.

 

D) In materia di criteri di liquidazione del danno in genere e di interessi monetari

(nota a sentenza Corte di Cassazione, Sez. I°, 18/07/1989 n. 3352)

Cominciamo dal danno. La sentenza in esame correttamente precisa, a questo proposito, che il danno non consiste nella distruzione di una cosa o nella perdita di un’utilità o di un godimento, ma in una effettiva diminuzione del patrimonio del danneggiato. Questo patrimonio – si aggiunge – in modo penetrante – non va valutato dal punto di vista giuridico, come un diritto o un insieme di diritti valutabili in danaro, ma da quello economico come complesso di beni e di utilità. La diminuzione patrimoniale, di cui si è detto, deve perciò individuarsi nella differenza tra il valore presente del patrimonio e quello che invece avrebbe avuto in una ricostruzione ideale, ove non fosse intervenuta l’inadempienza o l’illecito (id quod interest secondo il quod plerumque acidit, Differenzetheorie).
A corollario di codesta premessa, la Suprema corte liquida come inaccettabile la concezione reale del danno, basata sul valore di scambio della cosa distrutta o non prestata (quanti ea res fuit, est, erit). A questo riguardo viene sottolineato che "il legislatore, quando ha voluto adottare una concezione ancorata alla aestimatio rei, o al valore di scambio del bene, lo ha fatto espressamente e chiaramente (artt. 726, 995, 2798 c.c.; art. 39 legge 2359/1865)". La decisione afferma quindi, senza mezzi termini, che il risarcimento deve tendere a rimettere in pristino la situazione patrimoniale.

Passiamo ora a vedere a quale tempo ci si debba riferire per stimare il danno. È nota la grave controversia, sia nel diritto antico, sia in quello moderno, se debbano assumersi i valori correnti al verificarsi del danno, o alla domanda o alla decisione.
L’abbandono del criterio della aestimatio rei semplifica oltremodo la soluzione del problema. La Suprema corte ha affermato che occorre comunque avere riguardo "alla situazione esistente all’epoca del fatto illecito" (o dell’inadempienza), escludendo perciò sia il momento della domanda, sia quello della decisione. Essa anzi ha osservato in modo penetrante che "i mutamenti della situazione di mercato" rilevano esclusivamente attraverso la concezione patrimoniale del danno e viceversa. Viene così evitato il pericolo di procurare al danneggiato un lucro o una perdita ingiustificata a seconda che i prezzi della decisione siano in rialzo o in ribasso, rispetto a quelli del verificarsi del danno. L’erroneità di codesto metodo risulta del resto evidente – come ebbi ad osservare a suo tempo - laddove si ponga mente al fatto che esso suppone la conservazione dell’investimento nel bene di cui si tratta sino al realizzo ipotizzato, senza tenere conto alcuno dei costi di conservazione, di manutenzione e degli oneri finanziari. Si presuppone, cioè, una vendita fittizia in un momento arbitrariamente prescelto, dove il guadagno è addirittura al lordo dei costi, invece che al netto, come accade mediante l’impiego del metodo patrimoniale basato sulla Differenztheorie. La decisione esclude che possa ricorrersi alla simulazione di una vendita fittizia del genere. Resta a vedersi come la suprema Corte adegui poi il danno, così stimato, al diverso e posteriori momento della prestazione dell’indennizzo. A questo riguardo ebbi a suo tempo occasione che altro è il danno da illecito o da inadempienza, ed altro è il danno per il ritardo con il quale l’indennizzo viene prestato. Quest’ordine rileva esclusivamente come danno da mora dell’obbligazione che ha per oggetto l’equivalente (cioè, di carattere pecuniario). Il fatto che si tratti di un’obbligazione illiquida non toglie che essa abbia carattere pecuniario, e che ad essa tornino applicabili le norme sulla mora. È peraltro noto che al presente, a differenza del passato, opera il precetto in illiquidis non fit mora. Quest’ordine di conclusioni risulta sostanzialmente accolto dalla Suprema corte e ciò risulta oltremodo plausibile, dato che il caso di specie concerneva un danno da illecito extracontrattuale, per il quale l’art.1219, 2° comma, n.1, c.c. stabilisce la ricorrenza della mora ex re. La medesima regola deve affermarsi in linea generale anche con riguardo al danno da inadempienza contrattuale, con la differenza che quivi la mora opera dopo la richiesta di risarcimento da parte del danneggiato (mora ex persona, art. 1219, 1° comma, n. 3).
La Suprema corte ha qualificato correttamente gli interessi come "moratori e non compensativi". Essa ha testualmente affermato: "trattandosi di interessi sulle somme dovute a titolo di risarcimento danni per la responsabilità extracontrattuale o aquiliana, trova applicazione l’art. 1219, 2° comma, n. 1, c.c., secondo cui non occorre l’intimazione o una formale richiesta per iscritto (mora ex persona), decorrendo la mora ex re e quindi gli interessi moratori dal verificarsi del fatto dannoso". A suo tempo ebbi ad osservare l’erroneità di quell’opinione che qualifica gli interessi come compensativi, invece che come moratori. Infatti, i primi riguardano un credito liquido e non esigibile (arg. ex art. 1499 c.c.), mentre all’opposto il credito da risarcimento è illiquido ed esigibile e, in ultima analisi, gli interessi hanno carattere moratorio. Ovviamente questi ultimi compensano il lucro cessante dell’obbligazione pecuniaria illiquida di cui si è detto.

L’autore di queste righe non condivide invece quel passo della decisione dove si afferma che "l’ammontare, trattandosi di un debito di valore, andrà rivalutato, secondo gli indici ISTAT". Egli rinvia a questo proposito a quanto ebbe diffusamente a scrivere, a suo tempo in senso critico, di codesta costruzione artificiosa quanto illogica.
Dal ritenuto carattere moratorio degli interessi deriva, invece, l’ulteriore conclusione che va liquidato anche il maggior danno da mora ex art. 1224, 2° comma. Codesto maggior danno da mora va liquidato, sulla base dell’opinione dominante, nella misura dello scarto tra gli interessi legali ed il maggiore rendimento normale del denaro. Il danneggiato otterrà, in definitiva, il risarcimento del danno da illecito o da inadempienza sulla base della concezione patrimoniale con riguardo ai valori correnti al suo verificarsi ed a questo aggiungerà il pregiudizio per il ritardo con cui viene prestato in concreto l’indennizzo, sulla base del normale rendimento posteriore del denaro, per il periodo della mora. Ciò corrisponde alla situazione in cui il danneggiato si sarebbe trovato se avesse riscosso tempestivamente l’indennizzo e lo avesse poi impiegato in modo da trarne un normale rendimento non aleatorio.

 

E) A proposito del lucro del creditore nel risarcimento del danno in generale: sul tema degli interessi e della rivalutazione monetaria

1.- Qualche tempo fa, annotando da queste colonne la decisione di Cass. 14 gennaio 1988 n. 260, lamentavo, a proposito del risarcimento del danno in genere, che si andasse avanti a procurare un vistoso lucro al danneggiato con l’aggiungere gli "interessi compensativi" alla rivalutazione.

Ora, finalmente, questa pregevole decisione del Tribunale di Roma mette il dito sulla piaga ed osserva, a ragione, che non è possibile sommare rivalutazione ed interesse. Essa coglie nel segno laddove, rileva, sul piano dogmatico, come il calcolo degli interessi non sia giustificato da alcuna ragione plausibile.
In effetti, gli interessi ineriscono esclusivamente ad un’obbligazione pecuniaria e tale non può essere considerato il c.d. credito di valore, come elaborato dalla nostra giurisprudenza e dalla dottrina.
La classificazione degli interessi compensativi, oltre a non trovare giustificazione in genere, quale compenso di un capitale dovuto, perché questo o è monetario o non è, appare inaccoglibile sotto il medesimo profilo accolto. Infatti gli interessi compensativi – come l’autore di queste righe ebbe a rilevare altrove - ineriscono ad un credito liquido e non esigibile (arg. Ex art. 1499 c.c.). il credito di risarcimento del danno in genere è, all’opposto, illiquido ed esigibile (arg. ex art. 1219, 2°comma, n. 1 c.c.). Detti interessi non possono trovare giustificazione neppure sotto il diverso profilo di interessi moratori perché l’istituto della mora è estraneo ai crediti di valore, che postulano una rivalutazione automatica anche nell’ipotesi in cui il danneggiante non versi in mora o abbia addirittura fatto offerta reale al danneggiato dell’importo da lui ritenuto come dovuto.
Tanto meno sono dovuti sul capitale rivalutato perché attribuisce un lucro usurario al creditore. L’autore di queste righe lo ha calcolato in Foro it., 1988, I, 2320, cui rinvia, per il periodo 1973 – 1982, nella percentuale annua media del 37%. Esso è costituito per il 17% dal tasso annuo di rivalutazione monetaria e per l’ulteriore 20% annuo dagli interessi legali su un capitale quadruplicato, per via della rivalutazione complessiva del decennio. A questo punto resta a vedersi se il computo della sola rivalutazione annua – come fa questa decisione – sia sufficiente ad adeguare nel tempo il capitale dovuto per il risarcimento. Nei tempi di bassa inflazione, in cui stiamo vivendo, la sola rivalutazione monetaria (pari, sino a poco tempo fa, al 4,95%), appare sensibilmente al di sotto dei normali interessi di mercato aggirantisi intorno al 10%, mentre nel decennio di alta inflazione, prima considerato, era notevolmente al di sopra, perché ebbe a registrare un tasso medio del 17% contro un tasso di interessi pari all’11,6%. La rivalutazione si traduce ora in una sotto stima dell’adeguamento temporale, rispetto al quod plerumque accidit, come prima all’opposto la stima peccava per eccesso. Occorre perciò prendere sempre maggiore conoscenza di come la tendenza a rivalutare il credito di risarcimento sia uno strumento sempre più inadeguato ed inutilizzabile sul piano pratico. Ciò equivale ad abbandonare la medesima categoria dei crediti di valore, come contrapposta ai crediti pecuniari (dato che il c.d. equivalente è per definizione pecuniario). A proposito della controversa figura dei crediti di valore, l’autore di queste righe – per economia di spazio alle numerose critiche da lui mosse altrove sul medesimo piano dogmatico.
La decisione del Tribunale di Roma, lodevole sotto tanti aspetti, non riesce tuttavia a liberarsi dalle secche della concezione dominante e pur così tuttavia contraddittoria del credito di valore.
In ciò sta il suo limite. Lo scioglimento del nodo passa, a sommesso avviso di scrive, attraverso la proposta da lui formulata in una serie di lavori. Non si sarà mai insistito a sufficienza sul fatto che, in materia di risarcimento del danno in genere, occorre tenere nettamente distinto il danno da illecito e da inadempienza, che va liquidato sulla base dei valori e dei prezzi incorso al tempo del suo verificarsi, da quello successivo inerente al ritardo con cui l’indennizzo viene prestato. Quest’ultimo si riduce a quello proprio di un qualsiasi credito pecuniario, qual è per definizione il credito avente per oggetto l’equivalente pecuniario. Il ritardo nella prestazione dell’equivalente va infatti trattato e risarcito alla stregua della mora di ogni altra obbligazione pecuniaria e così va indennizzato in termini di interessi e di maggior danno da mora ex art. 1224 c.c. Ciò equivale al quod interest secondo il quod plerumque accidid di una obbligazione pecuniaria. Di ciò si avvede la decisione del Tribunale di Roma, laddove scrive in modo penetrante: "è in definitiva alla utilitas che il creditore avrebbe tratto dalla somma originariamente dovuta, se essa fosse stata tempestivamente corrisposta, che va correlata la conclusione alla sufficienza o meno della mera espressione in valore monetari attuali del debito". In cosa consista "il maggior danno" nelle obbligazioni pecuniarie, è proposizione che è stata messa a fuoco dalle numerose decisione giurisprudenziali e dalle ricerche di questi anni. L’autore di queste righe, fin dal 1980, lo ha individuato, sulla base del quod quod plerumque accidid, nello scarto tra il saggio legale ed il maggior lucro cessante, ottenibile da un normale investimento finanziario, non aleatorio. È quanto ricorrere all’interesse di mercato, il cui tasso medio, oggi giorno, è notevolmente al di sopra di quello della svalutazione monetaria, come si è detto. Sotto questo angolo di visuale, apparirà quanto mai erroneo l’odierno modo di considerare il danno moratorio di un credito pecuniario sotto il profilo di un ipotetico danno emergente da erosione del potere di acquisto (malgrado il principio nominalistico) e non invece, come deve essere, in termini di lucro cessante, vale a dire di interesse di mercato secondo il quod plerumque accidid.
Resta il fatto che il maggior ostacolo a considerare il credito avente per oggetto l’equivalente come un comune credito pecuniario è costituito dalla circostanza che esso non è liquido dall’origine. Un tal modo di intendere l’obbligazione pecuniaria, come ristretta a quella esclusivamente liquida dall’origine è eccessivamente riduttivo. Le norme di cui al libro IV, capo VII, sez. I, "delle obbligazione pecuniarie non si applicano, infatti solo a quelle liquide dall’origine ma a tutte le obbligazione pecuniarie in genere, comprese quelle che tali diverranno dopo la liquidazione.
In tal modo finisce per emergere come il vero ostacolo dio fondo ad un diverso, e più coerente, modo di vedere continua a rimanere l’abusato aforisma in illiquidis non fit mora, che sopravvive a livello di pregiudizio normativo (crittotipo). È fin troppo noto, come codesto fossile della nostra tradizione, quale fu a suo tempo definito, sia stato abbandonato dall’art. 1219, 2° coma. n°1 del nostro odierno codice. Sotto questo profilo non vi era alcun bisogno di un richiamo esplicito dell’art. 1224, c.c. da parte dell’art. 2056 c.c., come all’opposto ha scritto la decisione in esame.


F) Riflessioni sui c.d. crediti di valore, sui crediti di valuta e sui tassi di interesse

1.- La decisione annotata potrebbe sembrare, a prima vista, sorprendente, là dove afferma che non rilevano ex. art. 3 e 47 Cost. il divario tra l’interesse legale ed il maggior tasso inflazionistico nelle obbligazioni pecuniarie (dove non si procede a rivalutazione) ed il differenziale tra l’interesse legale ed il maggior interesse di mercato nelle obbligazioni extra-contrattuali (dove la nostra giurisprudenza vuole rivalutare il capitale).
La motivazione da un lato (nelle obbligazioni pecuniarie) è che il danno biologico non è un danno giuridicamente risarcibile, non essendo garantita la stabilità del potere di acquisto della moneta ex art. 1277 c.c., e dall’altro lato (nelle obbligazioni extracontrattuali) è che gli interessi sono dovuti solo a far tempo dalla sentenza che liquida il capitale dovuto in poi.
Non è lecito sommare la rivalutazione monetaria e gli interessi.
La corte recepisce per un verso, de iure condendo, la recente interpretazione dell’art. 1224, 2° comma, c.c., espressa dalle Sezioni Unite della Cassazione in linea con l’art. 1227, c.c., escludendo la risarcibiltà del c.d. danno inflazionistico. Per altro verso essa recepisce l’orientamento giurisprudenziale che, pur ammettendo l’aggiustamento del metro monetario nei c.d. crediti di valore, fa decorrere gli interessi dalla pronuncia di liquidazione. Chi scrive, pur non condividendo l’opinione circa la legittimità teorica e pratica della categoria dogmatica dei c.d. debiti di valore, e così dissentendo dall’aggiustamento del metro monetario, e pur reputando, nel caso delle obbligazioni monetarie, che il saggio legale lascia scoperto il maggior danno ex art. 1224, 2° comma, c.c., che è dato dal divario, non con il tasso inflazionistico, ma con il saggio di interesse di mercato, (c.d. "normale guadagno" riferito ad un normale impiego creditizio), stima tuttavia che questa decisione ha un notevole merito. Essa compie un rilevante passo avanti nella comprensione unitaria e penetrante della funzione dell’interesse monetario, che, ove colta nel suo intimo, consentirà di correggere certe idee, a mio avviso erronee, quando ci si trova di fronte alla necessità di stimare il danno nel tempo e così il relativo divario dei valori.

2.- La corte ha esattamente intuito che il sommare, per il medesimo periodo di tempo, la rivalutazione monetaria e gli interessi significa risarcire due volte il medesimo danno, e così procurare al creditore un lucro ingiustificato. Si misurerà l’ampiezza della novità solo a confrontare il senso di questa decisione con l’indirizzo in voga, che non solo cumula la rivalutazione monetaria e gli interessi, ma addirittura rivaluta gli interessi o calcola questi ultimi sul capitale rivalutato nei crediti di risarcimento e nei crediti di lavoro. Alla base di questo contratto, sia pure in modo non pienamente espresso, sta un opposto modo di intendere la funzione degli interessi, sul piano economico e poi su quello giuridico. Ognuno sa come questo dell’interesse monetario è stato un tema centrale nel progredire della scienza economica moderna.il percorso si misurerà nel valutare la lontananza che separa la remota teoria, onde il danaro produrrebbe ottimisticamente altre alla propria reintegrazione anche un frutto, che consisterebbe nell’interesse, e la teoria moderna basata sulla utilitas temporis. Quest’ultima, partendo dal presupposto che un bene futuro è deprezzato quando si scambia con il medesimo al presente, valuta correttamente gli interessi come l’aggio percentuale di apprezzamento del bene per consegna a pronti rispetto a quello per consegna differita. L’interesse (di mercato, s’intende, non è quello legale, che può considerarsi un acconto del primo) non è perciò un ammennicolo che si aggiunge al capitale al netto della sua reintegrazione, ma al contrario è chiamato a coprire il deprezzamento temporale. La mora, trasformando il credito in "credito forzato" e così inducendo un "risparmio forzoso", evidenzia un deprezzamento temporale che viene coperto dall’interesse monetario. La dottrina e la giurisprudenza correnti si rifanno alla più remota teoria, là dove che risarcire il danno equivalente a "reintegrare il patrimonio" ed a questo aggiungono gli "interessi" cioè un frutto , al di là della reintegrazione del patrimonio. A quest’ultima spiegazione viene ricondotta la medesima rivalutazione dell’interesse. Lo stesso è a dirsi dell’opinione dottrinale ancorata alla "normale produttività del denaro", cui ricollega gli interessi ,e a questa aggiunge il tasso inflazionistico come maggior danno. All’opposto si apprezzerà questa decisione come ispirata correttamente al moderno modo di intendere la funzione dell’interesse incentrata sulla utilitas temporis. Il passo centrale è quello in cui la sentenza esprime riserve sulla legittimità della tradizionale distinzione degli interessi in compensativi e moratori. Invero mettere in discussione l’esclusiva funzione "compensativa" significa mettere in discussione il modo d’intendere l’interesse come frutto in aggiunta alla reintegrazione del capitale. L’assioma della normale produttività è contraddetto dal fatto che il denaro tesaurizzato si deprezza e non rende nulla. La perdita del potere d’acquisto della moneta è in realtà un aspetto del suo deprezzamento latu sensu nel tempo, e ad esso è concettualmente correlato l’interesse. Si intenderà altresì come l’interesse non sia cumulabile con la rivalutazione del capitale e come non vi sia spazio per rivalutare gli interessi o calcolarli sul capitale rivalutato.

3.- L’interesse moratorio (qualunque ne sia il saggio, legale o di mercato) va riferito al danno da mora di un obbligazione monetaria, che non è espressa in un moneta immaginaria a stabile potere d’acquisto, ma nella nostra moneta quale circola fiduciariamente nel nostro paese e nel nostro tempo, retta perciò dal principio nominalistico e deprezzabile. Ogni moneta ha un suo saggio di interesse nominale reale negativo o positivo, che è poi la differenza tra quello nominale e l’aumento percentuale dei prezzi.Non si sa se "e quale interesse" potrebbe essere in teoria riferito ad una moneta immaginaria, a stabile potere d’acquisto: non certo il saggio legale del 5%, trasferito dalla nostra moneta deprezzabile a quella "teorica", così che avrebbe l’ulteriore pregio di un rendimento effettivo (c.d. saggio reale) senza alcun riscontro in qualsiasi paese. Il saggio di interesse di mercato a causa del c.d. effetto di liquidità è in genere, al giorno d’oggi, inferiore al tasso inflazionistico, e laddove la moneta è poco inflazionata sono stati introdotti interessi addirittura negativi. Il fatto che il saggio reale sia raramente positivo dimostra che l’interesse non è in genere teorizzabile, come lucro, al di sopra del tasso inflazionistico. La moneta pur svalutabile però soddisfa quella presenza di liquidità che non trova riscontro in nessun altro bene, e così l’interesse monetario ha un alto premio di liquidità , a differenza di ogni altro interesse. L’id quod plerumque accidit esclude che possa conseguirsi il cumulo del vantaggio di liquidità e dello stabile potere di acquisto. Ciò rappresenterebbe un lucro ingiustificato.

4.- L’obbligazione può essere pecuniaria dall’origine e diventare tale a seguito di conversione in denaro dell’oggetto di una obbligazione non pecuniaria (come quando si liquida il danno da illecito o da inadempienza contrattuale, con riferimento al suo prodursi). L’art. 1224 c.c. ( e così l’interesse) si applicherà al danno da mora non prima che un credito diventi pecuniario. Il problema si riduce a vedere a quale momento vada riferita la liquidazione: se cioè a quello del prodursi del danno o a quello della decisione. Questo argomento è uno di quelli che più hanno appassionato e diviso i giuristi.
La prevalente opinione individua tale momento in quello della decisione definitiva di liquidazione. Essa si fonda sull’argomento che, potendo il creditore scegliere la reintegrazione specifica rispetto a quella per equivalente usque ad ultimum diem, codesto equivalente, per essere tale, deve corrispondere ai valori correnti alla decisione.
Una variante riconducibile alla precedente è la teoria dottrinale e giurisprudenziale dei c.d. crediti di valore, che, distinguendo la aestimatio dalla taxatio, apprezza il danno alla stregua dei valori correnti al momento del suo prodursi (aestimatio) ma lo liquida con l’aggiustamento del metro monetario al tempo della decisone della (taxatio) , e cioè lo rivaluta. Questa opinione è quella corrente oggidì. E ad essa si è rifatta l’annotata sentenza della Corte costituzionale. La corte peraltro, pur convenendo nella rivalutazione, nega che possano aggiungersi gli interessi medio tempore maturati, come invece accade per i debiti di valuta.
Altri ha sostenuto e sostiene che il momento cui riferirsi sia quello del prodursi del danno e da questo momento l’obbligazione vada considerata pecuniaria, e così vadano aggiunti gli interessi ed il maggior danno ex art.1224, 2° comma, c.c. in relazione all’art. 1219, 2° comma, n 1 ( mora del debitore nel prestare l’equivalente). Il quadro delle opinioni può dirsi completo. Si tratta di vedere quale sia l’opinione preferibile.

5.- il partito che stima l’equivalente con la misura dei prezzi correnti alla decisione non pare, a mio sommesso avviso, accettabile. L’assunto si risolve in questa proposizione esemplificativa: non mi hai consegnato (o mi hai ucciso) un cavalo, ergo mi devi un cavallo ovvero "l’equivalente per comperarlo ora",. Sia il prezzo in rialzo od in ribasso rispetto al verificarsi del danno. Non sembra potersi convenire in questo "equivalente per comprarlo ora" per più argomenti:

  1. La condanna di un debitore alla aestimatio rei alla decisione, in caso di rialzo del prezzo, equivale a porgli a carico quel rialzo, quale maggiore danno derivato dalla durata del processo. In pratica quel debitore per il solo fatto di avere resistito giudizialmente dovrebbe risarcire il maggior danno (cioè il rialzo del prezzo) che è dovuto ex art. 96 c.p.c. solo dal litigante temerario; nel caso inverso di un ribasso del prezzo di quel cavallo, invece, il debitore non verrebbe neppure chiamato a risarcire il danno originario. Nel caso di parità di prezzo, poi, non sarebbe risarcito il danno da mora che è danno di durata mentre il prezzo è un dato istantaneo.
  2. Né pare che l’equivalente debba essere correlato al prezzo della cosa al momento della decisione per il motivo che in teoria il creditore potrebbe scegliere fino a quel momento la reintegrazione specifica. Invero il ristoro per equivalente del danno da inadempimento, nel caso della risoluzione del contratto, non può misurarsi col parametro di quel che varrebbe il bene in caso di adempimento, nel caso della risoluzione in poi, e comunque la risoluzione è pronunciata con effetto retroattivo ex art. 1458, 1° comma, c.c. Che senso avrebbe altrimenti codesta retroattività.? E parimenti gli artt. 1515, 1516, 1518 c.c., non ultima espressione dell’art.1227, c.c., dispongono che l’acquisto di ricopertura o la vendita libera per conto del debitore, vadano eseguiti senza ritardo. Come può conciliarsi con quel senza ritardo l’ipotizzare il controvalore di un acquisto ritardato fino alla decisone? Ciò postula un comportamento inerte e non sollecito del creditore. L’anteporre l’attesa della prestazione personale del debitore ad un procurarsi aliunde quel bene dimostra che l’id quod interest a disporre del bene non è superiore alla misura degli interessi monetari connessi al sacrificio di anticipare il danno occorrente. Ciò segna dunque il limite quantitativo del danno anche secondo la valutazione dell’id quod interest.
  3. Nel caso dell’inadempienza contrattuale "colposa" il danno è risarcibile ex art. 1225 c.c. nel limite del prevedibile. La tesi sopra riferita, nel variare medio tempore dei prezzi al rialzo ed al ribasso, equivale a dare per prevedibile il comportamento economico del creditore, e non si vede come, nel senso che ipotizza che egli avrebbe continuato ad osservare il bene in natura fino alla decisione, incurante dei prezzi. Ciò non sembra corrispondere al risultato di una ragionevole previsione, così come non pare prevedibile il momento in cui la causa sarà decisa e quale potrà essere, anche se in via approssimativa, il prezzo a quel momento del bene. Tutto ciò è solo possibile con il senno del poi, che contraddice quel giudizio prognostico, che è alla base del limite accolto dall’art. 1225.
  4. Neppure sembra che il partito qui avversato sia sostenibile per il danno extracontrattuale. La contraria opinione si basa sull’argomento che "il danneggiato attenderà l’indennità per riparare il danno". Ciò si risolve nel considerare normale il caso limite di un creditore privo di risparmio o di altro credito per poter riparare il danno senza attendere l’indennizzo, o nel codificare come comportamento di un creditore di media diligenza, altrimenti provvisto di credito, provvido del proprio e riguardoso dell’altrui (ex art. 2056, 1° comma, e 1227 c.c.) codesto anteporre la prestazione personale del debitore nel tempo al soddisfacimento aliunde del suo interesse. Il maggior prezzo di quel cavallo al momento della decisione comporta un lucro speculativo che frusta la liquidazione equitativa ex art. 2056, 2° comma, c.c., ed ove il cavallo avesse un prezzo ribassato non sembra che quel creditore potrebbe invocare il quanti plurimi se non a pena di frustare la medesima teoria del riferimento al tempo della decisone.

Il medesimo guardasigilli con il suo non prendere partito tra il momento del danno e quello della decisione non ha accreditato quest’ultimo siccome indiscutibile.

6.- Passiamo ad esaminare quella variante, o tutt’al più quella soluzione ibrida, che è data dalla costruzione dogmatica dei crediti di valore.
Anche questa proposta, a mio sommesso avviso, non pare accettabile. Il "credito di valore" si traduce in un credito del "valore teorico", quale consegue all’aggiustamento del metro monetario: una tale proposizione è tautologica. Sul piano economico il c.d. credito di valore è sostanzialmente un credito pecuniario (la aestimatio è infatti riferita al prodursi del danno) espresso in un moneta immaginaria a stabile potere d’acquisto . Un tale modo di intendere fa il paio, con quei tentativi di storici dell’economia, in auge all’epoca di Ascarelli, di ricorrere ad un metro non monetario (quale l’oro, l’argento) per comparare i valori monetari e così prezzi e salari di tempi e di luoghi diversi. L’artificiosità di questi strumenti è già stata dimostrata da Einaudi e da altri. Non si assume la moneta a misura dei prezzi, ma si prendono i prezzi per misurare la moneta. Sul piano giuridico non si ha riscontro legislativo.
Essa si risolve poi, secondo qualche autore, in una approssimazione analoga al quanti plurimi, abbandonata da tempo, laddove l’aggiustamento de metro monetario non esclude il riferimento ulteriore al maggior prezzo del bene al momento della decisione, rispetto all’indice di rivalutazione. La costruzione del credito di valore rileva una concezione penale verso il debitore ed è una soluzione solo al rialzo, che garantisce anche un’alea di una caduta del singolo prezzo. Essa non tiene conto altresì che il nostro tempo è caratterizzato dal procedere dell’inflazione in coppia con la recessine (stagflazione, slupflazione), onde i prezzi sono influenzati anche dalla caduta della domanda e dalla ragione di cambio, che sovente diverge dal differenziale inflazionistico e risente sempre più del differenziale fra gli interessi nominali.
Tornano dunque a proposito di questa teoria tutti i rilievi critici mossi al n. 5 sub a) b) c) d) all’opinione che fa riferimento al prezzo al tempo della decisione, escluse le ipotesi di ribasso o di parità del prezzo.
Ciò vale per il rilievo della imprevedibilità ex art. 1225 c.c. sia del comportamento economico del creditore fino alla decisione, sia del tasso di inflazione, onde il rivalutare è un giudizio "con il senno del poi" e non prognostico, nonché per l’ulteriore rilievo della sua inconciliabilità, a causa della rigidezza del parametro, con l’art. 1227, richiamato dall’art. 2056, 1° comma, e via dicendo.
Non è dato cogliere, a mio sommesso avviso, né un sicuro criterio diagnostico né un preciso confine dogmatico che legittimi la categoria del credito di valore. La giurisprudenza per lo più si basa su un criterio negativo, e cioè che non sarebbe credito di valuta quello avente ad oggetto cose diverse dal denaro. È stata però rimproverata a tale criterio una fondamentale ambiguità, perché non servirebbe a quei crediti di valore che abbiano invece per oggetto danaro, come quello da illecito, mentre i debiti di merci o di servizi non sarebbero sempre dei crediti di valore, talché si avrebbero debiti di danaro, di merci, di servizi accanto a debiti di danaro-valore, di merci-valore, di servizi-valore.è stato proposto come criterio diagnostico, quello di vedere se l’oggetto del credito sia in funzione di un astratto potere d’acquisto, non solo nel caso di una perdita di valore d’acquisto della moneta, ma anche in quello di una sua rivalutazione. E così sarebbe credito di valore quello che non è soggetto al principio del valore nominale. Un tale criterio dovrebbe essere spiegare; esso si risolve in una petizione di principio evidente in quanto si dà in tesi quel che dovrebbe essere dimostrato in ipotesi. Invero va dimostrato il criterio per cui il debito a differenza di quell’altro non va considerata soggetto al principio nominalistico o è determinato in funzione di un astratto potere di acquisto. La classificazione appare ispirata ad un pragmatismo "caso per caso", giustificato da un generico e non convincente richiamo all’equità. Per stare ad una normale compravendita, ad esempio, si conviene che, nel caso di risoluzione, il credito a riavere la merce è credito di valore e quello alla restituzione del prezzo sarebbe invece credito di valuta. E così pure la differenza di prezzo ex artt. 1515, 1516, 1518, c.c., sarebbe un credito di valuta. Una tale proposizione, porta a mio avviso, a disarticolare l’equilibrio del sinallagma contrattuale a danno del creditore di valuta ed a favore de creditore di valore, cosicché un contraente può prospettarsi uno squilibrio da sopraggiunta onerosità come premio ed incentivo a caducare i contratti ed a muovere eccezioni non di buona fede (art. 1460 c.c.). è stato però ritenuto, contraddittoriamente con tale opinione, che in sede di revisione del contratto, per ricondurre ad equità l’economia del rapporto "il prezzo precedentemente versato può calcolarsi per il maggior valore che aveva al momento del suo versamento". Ed è stato altresì ritenuto che il supplemento di prezzo ex art. 1450 c.c. è debito di valore e non di valuta. Non si deve pertanto, alla stregua di quel che si è riferito, con quale criterio diagnostico il prezzo monetario può stimarsi credito di valuta e non di valore o viceversa. E parimenti si conviene che la somma dell’oggetto dell’azione di restituzione dell’indebito configuri un indebito di valuta mentre quell’oggetto di arricchimento senza causa configurerebbe un debito di valore. Occorre rilevare ex art. 2039 c.c. che talora l’indebito è ripetibile nei limiti dell’arricchimento. In questo modo il medesimo credito sarebbe contraddittoriamente e al tempo stesso credito di valore e credito di valuta. Né si vede in base a quale fondamento si basa a quale fondamento razionale l’indennità di occupazione d’urgenza sarebbe credito di valore mentre quella da esproprio per pubblica utilità sarebbe credito di valuta.

7.- A mio parere il risarcimento del danno avviene mediante l’equivalente monetario al prezzo del tempo in cui si è verificata la diminuzione patrimoniale. Tutte le ragioni contrarie all’adozione del prezzo al tempo della decisione conducono, in positivo, a preferire il tempo in cui si è verificata la diminuzione patrimoniale. A queste ragioni se ne deve aggiungere un’altra, e forse la più importante. Solo un equivalente stimato al giungere un’altra, e forse la più importante. Solo un equivalente stimato al tempo del danno costituisce una reale alternativa di valore rispetto alla reintegrazione che si collocherà nel tempo della sua esecuzione. È noto che la reintegrazione specifica ha un grosso svantaggio, quello di non essere rapidamente monetizzabile, se non con uno scarto di prezzo talvolta rilevante, e comporta una ricerca della controparte interessata, non sempre a portata di mano quando più se ha bisogno. La liquidazione per equivalente monetario, per contro, ha il grande vantaggio dell’elevata liquidità. Il creditore, ove dovesse scegliere tra la reintegrazioni specifica e l’equivalente per il suo alto vantaggio di liquidità, e così la scelta, offerta dal al creditore, praticamente si ridurrebbe ad una sola e si tramuterebbe in quanti plurimi. Nel caso di rialzo del prezzo, poi, la scelta del medesimo tempo per l’una e per l’altra forma di reintegrazione imporrebbe al creditore un lucro e in caso di ribasso un sacrificio. La scelta non è cioè, tra due diversi tipi di riparazioni , in natura o per equivalente, al medesimo tempo, ma tra due valori, riferiti a tempi diversi. Il riferire il tempo dell’equivalente al prodursi del danno rende irrilevante l’alea di ribasso del prezzo per il creditore. E così il creditore in pratica sceglierà il risarcimento per equivalente, se preferirà il certo all’incerto, se non vorrà correre l’alea della ricerca di una controparte, quale quella dell’andamento dei prezzi, di laboriose trattative; e di un eventuale sacrificio di prezzo in ragione del suo bisogno di liquido. Questa sarà la scelta normale se il prezzo fosse ribassato. In caso diverso, egli sceglierà la reintegrazione specifica, ove fosse intervenuto medio tempore un rialzo di valore, tale da superare gli svantaggi di cui si è detto sopra. La controversa opinione che unifica i due tempi di riferimento risente dell’influenza della dottrina tedesca formatasi sui § 252, 290, 849 BGB, che hanno un contenuto diverso dalla normativa accolta dai nostri legislatori.

8.- Ma di quale equivalente si tratta?
Esso è quello- a mio avviso- espresso nella nostra moneta, che ha corso legale ed è retta dal principio nominalistico; non in una moneta immaginaria a stabile potere di acquisto. La nostra moneta, quale mezzo di scambio, è il metro legale di misura di ogni prezzo di mercato e di ogni valore nel tempo. Essi si trova al centro del sistema dei valori. Il principio nominalistico ex art. 1277 c.c. fa della moneta quello che a noi serve e cioè un metro di misura di ogni altro valore, rigido nel susseguirsi del tempo, mensura e non mensuratum. Con ciò si tocca un altro aspetto della moneta: essa è un accumulatore di potere di acquisto ma non a tenuta stagna, e specie in tempi di inflazione strutturale, come i nostri, essa è deprezzabile.
Non è garantita la conservazione del potere di acquisto della moneta, e perciò la perdita di esso non è utilizzabile mediante l’aggiustamento del metro monetario. La svalutazione della moneta si verifica col passare del tempo; essa non ha rilievo in sé, ma solo nell’ambito più vasto di quel deprezzamento temporale, onde noi preferiamo una utilità presente alla medesima in futuro (utilitas temporis, time preference). Il saggio percentuale di deprezzamento di una quantità di moneta "a termine" contro la medesima "a pronto" corrisponde inversamente all’aggio di maggior valore del "pronto contro termine", cioè all’interesse monetario.
Quest’ultimo costituisce l’unico aggiustamento ipotizzabile del valore della moneta nel tempo e quindi della componente monetaria dei prezzi . È certo merito della teoria del credito di valore di avere avuto riguardo alla variazione della componente monetaria dei prezzi anziché della componente non monetaria e perciò del prezzo nel suo insieme. Dove si dissente è nell’aggiustare il metro monetario all’indice dei prezzi nel suo insieme, mentre invece chi scrive sostiene che occorre ricorrere solo all’interesse monetaria, che è l’unico aggiustamento ipotizzabile nel tempo della componente monetaria dei prezzi. È certo che la moneta si trova al centro del sistema dei prezzi, e poiché l’interessi è l’elemento di raccordo del valore della moneta nel tempo, questo è il regolatore anche di quelli e comunque aggiorna l’equivalente monetario dei valori in tempi diversi.
Ciò sarà maglio inteso allorché si consideri che l’interesse è stato correttamente definito "il saggio di attualizzazione" di ogni equivalente monetario nel tempo ed è insieme il rimedio al danno emergente ed al lucro cessante di completa esso.
La funzione di saggio di attualizzazione trova applicazione allorché il danno futuro viene correntemente liquidato al presente mediante la detrazione del cumulo degli interessi tra i due tempi. Alla stessa stregua un danno passato sarà liquidato al presente mediante l’aggiunta della somma degli interessi che aggiornano l’equivalente monetario tra il passato ed il presente.
Si è detto sopra che l’interesse è il rimedio al danno emergente.
Ed al lucro cessante dell’equivalente pecuniario di un valore. Occorre spiegare però che l’interesse, quale che sia il saggio nell’ambito della sua misura, ripara il danno emergente e cioè il deprezzamento temporale (profilo risarcitorio) ed insieme è il corrispettivo del risparmio (profilo compensativo). Entrambi i profili funzionali, che sono poi due facce della medesima medaglia, ricorrono sia nell’interesse, ricorrono sia nell’interesse moratorio sia in quello corrispettivo.
In effetti nell’interesse moratorio si mette in luce la funzione riparatoria e si lascia in ombra quella di corrispettivo del risparmio forzato indotto dal credito forzoso e cioè moratorio; nell’altro si mette in luce quella di corrispettivo e si lascia in ombra quella riparatoria del deprezzamento temporale. Una duplice funzione è colta da quel passo della sentenza annota dove si legge: "a prescindere da ogni possibile riserva sul valore in rapporto alla identità o diversità della rispettiva funzione". È oltremodo significativo che per la Corte costituzionale i due profili funzionali siano due facce della stessa medaglia.

9.- L’interesse monetario offre una gamma di saggi, e così si ha quella di mercato, quello ufficiale di sconto e quello legale. Si fornirà qualche cenno discretivo a loro riguardo e poi si vedrà quale tra essi ha il ruolo di saggio di attualizzazione.