Natura e funzione del Trust


L'applicazione dell'istituto in Italia a seguito della ratifica
della Convenzione dell'Aja 01/07/85



1.  Premessa

Si stanno sviluppando, a seguito dell'entrata in vigore della Convenzione dell'Aja del l° luglio 1985, ratificata dall'Italia nel 1989 ed in vigore dal 1° gennaio 1992, una serie di riflessioni circa l'utilizzabilita' del trust anche nel nostro paese.
"Dapprima timidamente, poi con sempre maggiore attenzione ed approfondimento, il dibattito si e' incentrato su due temi: se cioe' la Convenzione abbia in qualche modo "introdotto" il trust nel nostro ordinamento e se sia consentito costituire trusts "domestici", ossia aventi riferimento ad elementi, compresi i soggetti, collegati interamente al nostro ordinamento, salvo la legge regolatrice, dal mo­mento che l'Italia non conosce una legge istitutiva del trust a differenza di altri Paesi di diritto civile"[1].
Prima della ratifica il trust rimaneva un istituto di diritto straniero, "rispetto al quale, per la sua singolarita' rispetto ai diritti continentali, in maniera ricorrente era sembrato naturale individuare somiglianze e rilevare differenze secondo il classico metodo del diritto comparato"[2]. Due sono le pronunzie giudiziali anteriori all'entrata in vigore della convenzione, non contando le sentenze pronunciate a cavallo fra i secoli XIX e XX. Si tratta delle note sentenze del Tribunale di Oristano e del Tribunale di Casale Monferrato in cui, pur con differenti motivazioni ed addirittura con argomentazioni parzialmente contraddittorie, si condivide, in ogni caso, l'essenziale ruolo della lex rei sitae nella disciplina e nel riconoscimento degli effetti del trust. "In entrambe le decisioni, trattandosi di beni siti in Italia, non si e' avuta esitazione, ai fini del riconoscimento degli effetti di un trust e della relativa disciplina al riguardo applicabile, a riferirsi alla lex rei sitae con le conseguenti difficolta' (in diverso modo e con diversi effetti affrontate dalle citate decisioni) di inquadrare e legittimare in tale ambito un istituto sconosciuto dall'ordinamento italiano e dagli effetti incompatibili con il principio di divieto di segregazione patrimoniale contenuto nell'art. 2740 c.c."[3].


La pronunzia del 13 aprile 1984: muta la prospettiva

Una cittadina inglese aveva istituito un trust for sale testamentario, nominando un trustee australiano per l'amministrazione e alienazione al momento opportuno dei beni del trust fund, tra i quali immobili ubicati in Italia. Dal disponente erano stati designati i figli quali beneficiari del reddito fino alla maggiore eta' e poi, una volta maggiorenni, quali beneficiari finali del ricavato. Il trustee, in sede di volontaria giurisdizione, richiese la autorizzazione per la vendita di un immobile sito in Italia ex artt. 703 c.c. e 747 c.p.c. .
Il giudice ritenne applicabili gli artt. 22 (competenza territoriale del giudice italiano) e 23 (successione mortis causa regolata dalla legge inglese) delle preleggi come nella decisione di Oristano.

Il Decreto del 1984 affermava la compatibilita' del trust con i principi del nostro ordinamento premesso che "l'executor trustee ha acquistato (...) la proprieta' di tutti i beni"[1] ed escludeva la necessita' dell'autorizzazione, poiche' il Tribunale "visto l'art.747, si dichiara[va] incompetente ad emanare provvedimenti autorizzativi a vendere, essendo ormai proprietario, dei beni immobili di cui al ricorso, l'executor trustee". La struttura del trust veniva ricondotta allo "schema di un negozio fiduciario[2], e precisamente quello della fiducia cum amico (si veda in proposito anche un'altra figura molto simile prevista dal nostro c.c.: art.627, fiducia testamentaria; nella fiducia cum amico vi e' una vera e propria obbligazione per l'amico, nel caso previsto dall'art.627 vi e' solo l'adempimento di una obbligazione naturale)".

Con la pronuncia di Casale si e' avuto, dunque, un riconoscimento a pieno titolo di un trust estero in Italia.


Il trust amorfo. La legge regolatrice del trust

L'aggettivo amorfo e' stato utilizzato[1] per quel modello di trust contenuto nella Convenzione, la quale non contiene disposizioni volte a dare una compiuta definizione dell'istituto. L'aggettivo e' idoneo a descrivere un trust sostanzialmente privo di contenuti sul piano teorico, cosi' da essere piu' facilmente inquadrabile ed adattabile sia negli ordinamenti di common law che di civil law. Infatti l'art.2 e' una formula definitoria assai generica, il trust ricorre in presenza di "rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente -con atto tra vivi o mortis causa- qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell'interesse di un beneficiario o per il perseguimento di un certo scopo".
Una dottrina minoritaria[2], invece, riconduce la configurazione dell'istituto ex art.2 al trust forgiato dall'equity. Altri Autori[3] si limitano ad esprimere dubbi sulla configurabilita' del trust amorfo. Optando per la tesi contraria al trust amorfo si dovrebbe dedurre l'inapplicabilita' della Convenzione ad istituti diversi dal trust inglese, ma dotati delle caratteristiche strutturali previste dall'art.2, sino a giungere ad una disciplina ingiustificatamente discriminatoria e in contraddizione con lo stesso tenore letterale dell'articolo.
Per Lupoi con l'omissione nella Convenzione di alcuna prescrizione circa la posizione dei creditori del disponente "si da' per scontato che il semplice il semplice trasferimento del controllo possa non essere accompagnato da trasferimento della posizione dominicale"[4].
La Convenzione si applica ai soli trusts costituiti per volonta' del disponente e comprovati per iscritto, dovendosi escludere i constructive trusts ed i resulting trusts, tuttavia ogni Stato e' libero di dichiarare che le disposizioni siano estese ai trusts costituiti in base ad una decisione giudiziaria (art.20). Una dottrina minoritaria sostiene che, "per quanto valido all'estero, e' escluso che possa essere riconosciuto in Italia un trust non scritto"[5], ma, non prevedendo l'art.3 una forma particolare, sarebbe sufficiente una semplice scrittura privata. Secondo altra parte della dottrina si dovrebbe[6], invece, utilizzare una concezione di prova scritta coincidente con quella inglese, per la quale sarebbe sufficiente l'esibizione di un documento anche proveniente dal trustee o da un terzo, da cui risulti la volonta' istitutiva del disponente.
In base all'art.4 e' estraneo all'ambito applicativo della Convenzione ogni profilo di validita' del negozio dispositivo. La capacita' negoziale del settlor ricade nell'ambito dell'art.4, mentre la capacita' del trustee rispetto all'ufficio e' disciplinata (ex art.8) dalla legge regolatrice del trust. Nel trust costituito per testamento si applichera' l'art.47 legge 218/1995 per la capacita' del settlor, per la validita' formale l'art.48, per la validita' sostanziale l'art.46; nel trust inter vivos[7] sono applicabili gli artt. 23 o 25 legge 218/1995 per la capacita' del settlor, mentre si discute[8] se sia applicabile l'art.56 relativo alle donazioni o l'art.58 relativo alle promesse unilaterali. E' anche prospettabile un trust avente fonte contrattuale, non ipotizzabile nel modello tradizionale inglese (dovrebbe in questo caso applicarsi[9] l'art.57 legge 218/1995, con conseguente rinvio alla Convenzione di Roma del 1980, pur in presenza del citato art.1 lettera g).

In base all'art.4, quindi, si evince se, rispetto ad un determinato profilo[10] del trust, debba applicarsi la Convenzione dell'Aja o meno.

 

Il problema del trust "interno" ed il divieto di sua costituzione

"Nessuno Stato e' tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge applicabile, del luogo di amministrazione o della residenza abituale del trustee, siano collegati piu' strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l'istituto del trust o la categoria del trust in questione", questo e' il testo definitivamente approvato dell'art.13 della Convenzione dell'Aja. Venne esaminata nel corso dei lavori preparatori un'altra versione la quale prevedeva che nessuno Stato sarebbe stato tenuto a riconoscere un trust in cui il settlor avesse scelto una legge regolatrice straniera, ovvero avesse designato un trustee straniero, nonostante che tutti gli altri elementi della fattispecie fossero ubicati in tale Stato[1]. Secondo quest'ultima versione, il trust privo di elementi di internazionalita' avrebbe dovuto essere necessariamente regolato dalla legge dello Stato cui gli elementi della fattispecie costitutiva risultassero collegati. Tenendo in considerazione il testo definitivo, "non si e' ritenuto di subordinare l'applicabilita' della Convenzione all'esistenza di requisiti di internazionalita' della fattispecie o della sua idoneita' a far sorgere conflitti di legge, come avviene per altre Convenzioni"[2].
Un primo problema e' quello dell'individuazione di quali siano gli "elementi importanti" ex art. 13. Una tesi collega l'art.13 all'art.7, escludendo dalla categoria degli elementi significativi rintracciati nell'art.7 i tre elementi della legge applicabile, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee: sarebbero elementi importanti il luogo in cui i beni sono ubicati, lo scopo del trust e il luogo in cui questo scopo deve essere perseguito[3]. Un altro orientamento[4] porta alla inclusione tra gli elementi significativi anche della cittadinanza e della residenza sia del settlor che del beneficiario: escluderebbe la natura interna del trust il fatto che il disponente o il beneficiario siano cittadini stranieri e residenti all'estero. Infatti l'art.7 prende in esame "solo fatti collegati all'oggetto del trust (...) ed al trustee (...), senza prendere in considerazione ne' fatti oggettivamente collegati al costituente ne' fatti collegati al beneficiario"[5]. Tuttavia il criterio della cittadinanza e residenza del beneficiario potrebbe considerarsi un "elemento importante" anche secondo la prima tesi, essendo riconducibile alla previsione dell'art.7 d) "degli obiettivi del trust e dei luoghi dove dovranno essere realizzati".

Comunque lo si interpreti, l'art.13 costituisce un limite alla liberta' di scelta della legge regolatrice per il settlor: l'articolo viene in questione quando si tratta di creare un trust la cui fattispecie, priva o meno di internazionalita', sia strettamente connessa con un ordinamento che, come quello italiano, non conosce il trust. Nonostante la scelta di una legge regolatrice straniera, "nessuno Stato e' tenuto a riconoscere" il trust. La dottrina si e' divisa sulla possibilita' di ravvisare un divieto di costituire trusts interni.

 

La tesi prevalente favorevole ai trusts interni. Un terzo orientamento

La maggioranza degli Autori si mostra favorevole rispetto alla figura del trust interno, in primo luogo criticando quella interpretazione dell'art.6 della Convenzione che porterebbe ad escludere l'ammissibilita' dei trusts domestici. Nell'art. 6 par. 2 viene fornita una precisa indicazione nel senso del favor validitatis del trust, tanto che in esso si precisa l'unico caso in cui la scelta della legge applicabile al trust deve essere disattesa. Nell'art.6 viene chiaramente indicata la rilevanza non solo di ogni "scelta espressa" operata in sede di costituzione del trust, ma anche di ogni possibile forma di "scelta implicita" ricavabile al riguardo dalle disposizioni dell'atto che costituisce il trust, oltre all'operativita' del c.d. de'peçage volontario[1] al fine di consentire differenti scelte di legge applicabile in funzione delle specifiche caratteristiche di alcuni elementi del trust suscettibili di essere isolati (art. 9)[2]. E' stato rilevato, inoltre, che il nostro ordinamento interno conosce anche una fattispecie nella quale e' consentito il rinvio ad una legge nazionale diversa da quella che regolerebbe il rapporto in base agli ordinari criteri di collegamento internazionalprivatistico: l'art.161 c.c. prevede, infatti, la possibilita' del rinvio per la disciplina del rapporto patrimoniale dei coniugi, enunciando in modo specifico il contenuto della regolamentazione[3].
L'orientamento favorevole al trust interno si fonda su di una interpretazione letterale dell'art.13 della Convenzione ed in particolare dell'espressione "nessuno Stato e' tenuto a riconoscere": la norma non sarebbe fonte di un divieto, ma si limiterebbe a precisare l'insussistenza di un obbligo di riconoscimento. In particolare "come emerge dai lavori preparatori della Convenzione, l'art.13 non sarebbe altro che una disposizione programmatica che ha voluto attribuire la liberta' e la discrezione ai legislatori dei singoli Stati di riconoscere o meno i trusts interni"[4]. In sede di ratifica lo Stato italiano non ha introdotto alcuna norma interna tesa a vietare il riconoscimento in questione, riproducendo il contenuto dell'art.13.

La dottrina in esame da' per avvenuta, con la ratifica del 1989, la valutazione degli effetti caratteristici del trust come compatibili con l'ordine pubblico interno. Tenuto in considerazione che la penetrazione del trust in un paese che non conosce tale istituto potrebbe suscitare dubbi sulla sua ammissibilita' per la violazione di principi fondamentali dell'ordinamento (tipicita' dei diritti reali e numero chiuso degli stessi), questi Autori affermano che "la ratifica della Convenzione da parte dei singoli Stati [ha] l'effetto di non rendere possibile il ricorso a tali principi"[5], poiche' la Convenzione e' capace di contribuire alla determinazione del contenuto dell'ordine pubblico dello Stato del foro[6].

 

La giurisprudenza favorevole ai trusts interni

Sembra emergere un orientamento della giurisprudenza favorevole alla legittimita' dei trusts in cui l'unico sostanziale elemento di estraneita' o di internazionalita' e' rappresentato dalla legge applicabile, mentre gli elementi soggettivi e oggettivi sono collocati prevalentemente nel nostro ordinamento.
E' discusso se sia pronunciato in tema di trusts interni il Tribunale di Lucca nel 1997[1]. La controversia riguardava un cittadino italiano, residente negli Stati Uniti, che aveva redatto un testamento con il quale aveva attribuito il suo patrimonio ad un trustee, affinche' questo lo gestisse attribuendo una rendita vitalizia alla figlia e ai di lei figli a titolo di sostegno e di mantenimento, fino a che l'ultimo dei figli non avesse raggiunto il venticinquesimo anno di eta', per poi dividere il patrimonio in parti uguali tra i nipoti ancora viventi. La figlia del testatore, che riteneva di aver subito una lesione delle proprie aspettative di erede legittimo, aveva impugnato il testamento per violazione del divieto di sostituzione fidecommissaria (art.692, ultimo comma c.c.), nonche' delle norme a tutela dei legittimari. I giudici ritennero che non ricorresse nella fattispecie un caso di sostituzione fidecommissaria, bensi' che si trattasse di un trust pienamente legittimo e riconoscibile in Italia ai sensi della Convenzione dell'Aja. La domanda di nullita' non fu pertanto accolta. Il dubbio se la pronuncia possa riferirsi ad un trust interno sorge sia dalla doppia cittadinanza del settlor (italiana e statunitense) che, soprattutto, dalla localizzazione del trust fund[2].
Nel caso del decreto[3] di omologazione emanato dal Tribunale di Milano nel dicembre del 1996, una societa' per azioni intendeva emettere un prestito obbligazionario. Al fine di agevolare il collocamento dei titoli tra i risparmiatori si rendeva opportuno rafforzare la posizione creditoria dei sottoscrittori, costituendo una garanzia reale su un immobile di proprieta' della societa' medesima, composto da appartamenti locati. La categoria delle obbligazioni assistite da garanzie personali o reali su beni della societa' o di terzi e' ben nota alla nostra esperienza giuridica; tale tipologia di obbligazioni risponde all'esigenza di rafforzare l'aspettativa di adempimento degli obblighi assunti dall'emittente. L'operazione posta in essere dalla societa' emittente puo' riassumersi nei seguenti passaggi: conferimento dell'immobile ad una societa' controllata avente sede all'estero; emissione di nuove azioni da parte della societa' conferitaria; istituzione di un trust regolato dalla legge di Jersey, Channel Islands, e nomina quale trustee di una societa' fiduciaria italiana; trasferimento al trustee delle azioni della societa' conferitaria. Il trust oggetto della decisione deve ritenersi interno: il trust fund constava di azioni di una societa' inglese, ma ubicate in Italia presso il trustee italiano ivi operante; inoltre l'oggetto sostanziale del trust (l'immobile) era sito in Italia. L'aspetto piu' interessante dell'intera operazione e' senz'altro contenuto nell'art. 4.6 del regolamento del prestito obbligazionario, che, richiamando l'atto istitutivo del trust, dispone che: "a) sopraggiunto il termine finale del trust, il trustee si accerta che il rimborso del prestito obbligazionario di cui all'art. 4 abbia avuto luogo e, in caso positivo, trasferisce i beni del trust al disponente; b) Qualora, invece, tale rimborso non abbia avuto luogo: 1) il trustee adotta, d'intesa con il tutore, le misure piu' opportune per rimborsare gli obbligazionisti, come per esempio l'alienazione dei beni del trust o del patrimonio della societa' controllata tramite di essi e comunque impiegando per questo fine ogni reddito e altro provento accumulato durante la vita del trust; 2) il trustee trasferisce al disponente quanto sia residuato dopo avere soddisfatto gli obbligazionisti"[4]. Il principale problema che si pone nel caso di costituzione di una garanzia in occasione dell'emissione di un prestito obbligazionario concerne non tanto la fase della costituzione, quanto quella della realizzazione della garanzia in caso di mancato rimborso del capitale e degli interessi. Ed infatti, nella fattispecie sottoposta al Tribunale di Milano, in caso di mancato rimborso del prestito, il trustee poteva adottare "le misure piu' opportune" nell'interesse degli obbligazionisti e sotto la vigilanza dell'enforcer: era lasciata aperta tanto la possibilita' di vendita dell'immobile o di alcuni appartamenti, quanto la possibilita' di alienare la partecipazione azionaria o, ancora, di impiegare i canoni di locazione.

 

Confusione dei beni del trust con i beni personali del trustee.
Indebita alienazione di un bene del trust

"Qualora la legge applicabile al trust lo richieda, o lo preveda, il riconoscimento implichera' in particolare che la rivendicazione dei beni del trust sia permessa qualora il trustee, in violazione degli obblighi derivanti dal trust, abbia confuso i beni del trust con i suoi e gli obblighi di un terzo possessore dei beni del trust rimangono soggetti alla legge fissata dalle regole di conflitto del foro" (art.11 lett.d). Il riferimento dell'articolo e' all'esigenza di attribuire al beneficiario, nei casi di breach of trust, una tutela reipersecutoria o comunque volta al mantenimento della integrita' dei diritti nei confronti del trustee o del terzo avente causa. Evidentemente il fulcro della tutela e' costituito dalla opponibilita' del vincolo di destinazione. La questione e' strettamente correlata all'art.12, ma l'aspetto della pubblicita' del vincolo di destinazione sara' oggetto di successiva trattazione. L'art.11 fa riferimento solo all'ipotesi di confusione, mentre deve essere ricondotta alla fattispecie anche l'ipotesi di indebita alienazione a terzi dei beni del trust fund[1]. Inoltre e' stato sottolineato dalla dottrina[2] come sia fuorviante l'espressione della traduzione italiana ufficiale "rivendicazione", che nel testo inglese invece e' "the trusts assets may be recovered". "Data la non identificabilita' dell'azione del tracing[3], che assiste i beneficiari [nei casi di breach of trust], e la rivendica, cosi' come noi la intendiamo, appare preferibile l'impiego dell'espressione azione restitutoria, in luogo di azione di rivendica"[4].
Nel caso di confusione da parte del trustee di beni fungibili l'obiettivo dell'azione esercitata dal beneficiario o da altro soggetto legittimato (come il protector) e' di ripristinare la corretta situazione di individuazione dei beni in trust.
Quando si tratta invece di beni infungibili si puo' avere confusione qualora il trustee li faccia apparire come propri: nel caso di beni soggetti a regimi di pubblicita', non manifestando la propria qualita'; negli altri casi creando un'apparenza idonea a trarre in inganno i terzi.
"La distinzione fra beni fungibili e infungibili comporta una distinzione fra i rimedi processuali. Nella prima ipotesi l'azione e' di inadempimento e il petitum e' una condanna pecuniaria, il cui importo sara' corrisposto a un nuovo trustee; nella seconda l'azione e' di accertamento e il petitum e' la consegna al nuovo trustee del bene non registrato o il compimento della formalita' pubblicitaria per ordine del giudice. Si noti che la condanna non e' mai in favore del beneficiario; cio' perche' l'inadempimento del trustee non pone fine al trust (la durata del quale fu determinata dal disponente), ma certo consente ai beneficiari e agli altri soggetti di ottenere la sostituzione del trustee (avvalendosi delle disposizioni dell'atto istitutivo o per il tramite del protector o in forza di provvedimento dell'autorita' giudiziaria che, a mio parere, ben puo' essere emesso dal giudice italiano, ricorrendone i presupposti giurisdizionali)"[5].

L'azione, quindi, comportera' o l'ingresso nel trust fund della somma oggetto della condanna al risarcimento o il ritorno nello stesso trust fund del bene.


Comparazione tra trust e negozi similari civilistici.
Conclusioni

Nel nostro sistema giuridico non mancano istituti che vengono frequentemente assimilati al trust o almeno con esso confrontati[1]. In effetti la dottrina ha aperto un dibattito se il trust trovi alcuna corrispondenza nel nostro diritto positivo e se, in considerazione delle molteplici finalita' che puo' assumere, sia dato rinvenire univocamente, nella ricerca di una corrispondenza causale, uno specifico istituto ad esso pienamente assimilabile. Numerosi sono gli strumenti giuridici di cui le parti possono avvalersi, nell'esercizio dell'autonomia negoziale loro riconosciuta, per perseguire finalita' analoghe a quelle che, nei sistemi di common law, inducono alla costituzione di un trust.

L'approfondimento delle caratteristiche proprie di tali atti negoziali, messe a confronto con quelle proprie del trust, non solo consentira' di apprezzare la validita' dei possibili itinerari interpretativi che si offrono al giudice italiano nel qualificare un rapporto che, nonostante la recente entrata in vigore della Convenzione, non e' appieno entrato nel nostro ordinamento, ma si rivelera' altresi' indagine assai utile, ai fini di poter meglio determinare l'ambito di applicazione della Convenzione nel nostro sistema giuridico.

Fra gli istituti che nel nostro ordinamento presentano maggiori affinita' con il trust vengono comunemente annoverati il negozio fiduciario, il contratto di mandato senza rappresentanza, il contratto a favore di terzi, la fondazione, la sostituzione fidecommissaria, le societa' di intermediazione mobiliare. La figura del trustee e' stata a sua volta equiparata a quella dell'usufruttuario o, ancora, a quella dell'esecutore testamentario.

di P. Fea - da: studiocelentano.it