Brevi note sulla natura giuridica dell'adempimento

(artt. 1176 ss. cod. civ.)


1.1 - Premessa.

La scarsa chiarezza che ha connotato innanzitutto la stessa opera di codificazione del Legislatore del '42 - che mostra ripetutamente di confondere i diversi termini di "adempimento" (vedansi gli artt. 1175-1184) e di "pagamento" (dal 1185 al 1200, ma salvi gli artt. 1197 e 1198) (1), ha prodotto inevitabili ripercussioni in ambito scientifico: difatti quello della natura giuridica dell'adempimento è un tema che da tempo divide la dottrina.

A prescindere da quell'isolata corrente che ritiene privo di senso anche solo il porsi un tale problema "perché non si tratta più di cercar questa o quella natura giuridica di un'entità individuata con nome di adempimento : in quanto l'entità stessa sfugge. Non esiste l'adempimento come entità (di fatto) suscettibile di predicato (giuridico)" bensì differenti attività corrispondenti all'attuazione di uno schema operativo programmato nell'obbligazione: "le attività saranno le più varie, ed avranno una loro qualificazione giuridica autonoma: fatti (il permanere di una situazione, risultato dell'astensione, dovuta nelle obbligazioni di non fare), atti (pagare una somma di denaro), negozio (concludere il contratto definitivo)" (2)

1.2 - Teoria negoziale.

La teoria dell'adempimento come negozio giuridico teneva il campo sotto la vigenza del precedente Codice, e fondava le proprie ragioni - oltre che sul portato della risalente concezione romanistica - sul dato normativo che considerava il pagamento come trasferimento della proprietà del denaro in capo al creditore (solvere est alienare) e sul conseguente carattere traslativo del pagamento (v. art. 1240 c.c. abrog.): di qui poi si sviluppavano le due teorie che ravvisavano nell'adempimento un negozio giuridico unilaterale fondato sull'animus solvendi del debitore oppure un contratto reale finalizzato all'estinzione del rapporto obbligatorio (3).

Anche la giurisprudenza sposava tale ricostruzione dogmatica [Cass. 8.7.46 n. 813, in Massimario giurisprudenza italiana, 1936, Pagamento, 35], che produceva l'effetto, finanche alle soglie degli anni '60, di far ritenere dalle corti di merito l'adempimento suscettibile di ripetizione "ove il pagamento sia stato frutto di una volizione viziata da errore nel suo determinarsi" [T. Firenze 24.11.59, in Giurisprudenza toscana, 1960,139].

2 - Teoria del fatto in senso stretto.

La teoria negoziale venne abbandonata dalla dottrina con l'entrata in vigore del nuovo codice, in base al quale "per il pagamento non è (più) richiesta (art. 1191 cod.civ.) la capacità che è necessaria al compimento dei negozi giuridici. (...). In difetto del requisito minimo e generalissimo della capacità di agire (...) manca pertanto ogni possibilità di ricondurre la produzione dell'effetto al meccanismo del negozio giuridico" : difatti, poiché oramai "è valido il pagamento compiuto per errore ostativo, o in condizione di incapacità naturale, o sotto l'azione della violenza assoluta di un terzo, o da un terzo con mezzi del debitore senza la sua volontà, sempre che sia prestato ciò che era dovuto" (4), l'art. 1191 del nuovo codice esprime una valenza tale da far ritenere superata la ricostruzione dell'adempimento sotto il profilo negoziale. Tali considerazioni verrebbero oltretutto rafforzate dall'irrilevanza dell'incapacità del debitore - che abbia ottenuto il bene dovuto - ai fini della perfezione dell'adempimento (art. 1190 c.c.).

Questa ricostruzione è stata però successivamente abbandonata dalla dottrina in quanto produttiva di un eccessivo svuotamento della posizione del solvens: si è difatti sostenuto che "una concezione dell'adempimento che garantisca la partecipazione del debitore è anche preferenza per una forma di tutela che colpisca atti di abuso del creditore. (...) Il richiamo, del resto, alle regole della buona fede e della correttezza (art. 1175) non può non significare divieto al creditore di ottenere il bene dovuto tout court" (5). Si deve peraltro rilevare come la giurisprudenza sia rimasta del tutto indifferente alla tesi dell'adempimento come mero fatto (6).

3 - Teoria dell'atto dovuto.

Da un lato le critiche rivolte alla teoria del mero fatto e, dall'altro, l'impossibilità di negare il realizzarsi dell'effetto estintivo dell'adempimento a prescindere dal contributo volitivo del solvens (art. 1191), hanno portato allo sviluppo della teoria dell'atto dovuto, per la quale l'adempimento altro non sarebbe che l'obiettiva attuazione del rapporto obbligatorio a prescindere dalla volontà del debitore ed anche dalla sua non consapevolezza di possedere tale qualifica (7): "il debitore si libera non perché egli ciò voglia o ciò pensi , ma perché e nella misura in cui egli attua il contenuto della obbligazione" (8). Tale impostazione, se da un lato ribadisce l'irrilevanza dell'animus solvendi (tanto nel solvens quanto nell'accipiens), nel riferimento all'art. 1911 c.c. sembra solamente rinnovare le già vedute perplessità in ordine ad una ricostruzione dell'adempimento in chiave negoziale: in realtà l'impossibilità di ricorrere agli strumenti di impugnazione propri del negozio giuridico non deve costituire il presupposto dell'indagine, ma può esserne bensì la conseguenza sul piano pratico (9).

Peraltro la teoria dell'atto dovuto ha ricevuto l'importante avallo del S.C., che ha fondato le proprie argomentazioni anzitutto su di un dato normativo: l'estensione al pagamento delle norme limitatrici in tema di prova testimoniale (art. 2726 c.c.) non avrebbe alcun senso ove l'adempimento dovesse essere considerato esso stesso quale contratto; "in conseguenza può ritenersi che il pagamento sia un atto giuridico unilaterale diretto all'attuazione del contenuto di un obbligo" [Cass. 14.3.62 n. 530 in Foro Padano, 1962, I, 602]: ne discende dunque anche l'inapplicabilità delle norme sull'annullamento del contratto.

4 - Una posizione intermedia: la c.d. variabilità.

Per un verso le critiche rivolte alla teoria del fatto in senso stretto e alla teoria dell'atto dovuto e, per altro verso, il superamento della concezione negoziale, hanno portato allo sviluppo di una più elastica teoria che tenesse conto dei molteplici atteggiamenti che può assumere l'adempimento, senza escludere in via di principio che la struttura del pagamento (da considerarsi comunque atto dovuto) possa coincidere con quella del negozio quando "dall'atto derivi, ed in quanto sia voluto dal debitore, un mutamento della realtà giuridica consistente nella costituzione, modificazione o estinzione di un particolare rapporto giuridico" (10). Infatti, considerata la variabilità della prestazione del debitore, "l'unico aspetto che distingue il pagamento - ovverossia l'attività materiale, l'atto giuridico o il negozio giuridico unilaterale o bilaterale, posti in essere come attuazione di un obbligo - è la sua causa, ovverossia la preesistenza dell'obbligo (causa solvendi)" (11).
Tale corrente di pensiero non ha peraltro avuto seguito nella giurisprudenza.

5 - I più recenti sviluppi.

Un autore ha recentemente sostenuto l'esistenza di una sorta di polimorfismo dell'adempimento il quale, al di là dei mutevoli modi di atteggiarsi della prestazione dovuta, presenterebbe "un nucleo strutturale fisso che caratterizza l'adempimento in qualunque forma esso si esprima. Tale elemento si identifica nei tratti propri dell'atto giuridico in senso stretto la cui presenza può ravvisarsi costantemente, qualunque sia il modo di espressione dell'attuazione dell'obbligazione. Da ciò consegue che alla disciplina dei vizi della volontà (del negozio) potrà ricorrersi soltanto quando l'attuazione del rapporto obbligatorio acquisterà le forme del negozio giuridico (uni o bilaterale)" (12). In sostanza, come nella teoria della c.d. variabilità, si individua "nella presenza di una causa solvendi il nucleo minimo essenziale del pagamento, senza tuttavia escludere che in talune vicende solutorie il comportamento dell'obbligato possa consistere nel compimento di un vero e proprio negozio giuridico" (13).

Secondo un'altra corrente, invece, non esisterebbe un vero e proprio problema di causa dell'adempimento "perché la funzione solutoria è assorbita e trova una propria giustificazione nell'esistenza dell'obbligazione, cosicché il problema nasce solo se l'obbligazione è negoziale e solo con riguardo appunto al negozio e non al successivo atto di esecuzione . (...) In sostanza, poiché nel nostro ordinamento non sono ammesse prestazioni astratte è necessaria la presenza di una causa solvendi al fine di giustificare l'adempimento e tale causa va ravvisata appunto nel fatto che esiste un'obbligazione, mancando invece la quale è possibile avvalersi delle norme in tema di ripetizione dell'indebito (oggettivo) (art. 2033)" (14), con ciò sostanzialmente riecheggiando la costruzione dell'adempimento come atto dovuto.

La S.C. ha di recente affermato che il pagamento di un debito altrui, eseguito dal solvens volontariamente, ma non spontaneamente (perché minacciato dal creditore), rientra nella disciplina dell'art. 2033 c.c. trattandosi di pagamento privo di causa debendi [Cass. 10.3.95 n. 2814 in Corriere giuridico, 1996, 3, 325] - con ciò escludendo l'applicabilità della disciplina sui vizi del consenso - e che lo spostamento patrimoniale (pagamento/adempimento) derivante dal contratto (rapporto obbligatorio) trova in quest'ultimo la sua giustificazione, così confermando chiaramente l'adesione alla concezione dell'atto solutorio come atto giuridico dovuto [Cass. 14.5.97 n. 4235 in Gius, 1997, 16, 1932].

Infine, in tema di doveri di collaborazione tra solvens ed accipiens in merito al pagamento (v. sub nota 5), la Corte regolatrice ha stabilito che deve ritenersi contrario a buona fede, e quindi inammissibile - in quanto illegittimo per abuso del diritto - il comportamento del creditore il quale, potendo chiedere l'adempimento coattivo dell'intera obbligazione, frazioni, senza alcuna ragione evidente, la richiesta di adempimento in tutta una pluralità di giudizi di cognizione davanti a giudici competenti per le singole parti [Cass. 23.7.97 n. 6900, sul sito Web della Corte, Servizio novità 30/97]: la S.C. sembra dunque suggerire una più ampia accezione di doverosità dell'adempimento - intesa come corrispondenza ad uno schema operativo già predisposto - impegnativa per entrambe le parti protagoniste della fattispecie solutoria, pur nelle peculiarità dei rispettivi ruoli.

NOTE:

[1] Sulle cui ragioni v., ampiamente, CHESSA, L'adempimento, Giuffré, 1996, p. 19 e ss.;

[2] CANNATA, L'adempimento in generale, Trattato di diritto privato Rescigno (dir.), Utet, 1984, 9, p. 63;

[3] Cfr. CHESSA, op. cit., p. 24;

[4] OPPO, Adempimento e liberalità, Giuffré, 1947, p. 385 e ss.;

[5] DI MAJO, Delle obbligazioni in generale, Artt. 1173-1176 nel Comm. del Cod. Civ. Scialoja- Branca, Zanichelli, 1988, pp. 384-385;

[6] CHESSA, op. cit., pp. 26-29;

[7] CHESSA, cit., pp. 29-30 (che peraltro esprime riserve sulla valenza dell'art. 1191: p. 30). Per una ulteriore ricostruzione v. MIRABELLI, L'atto non negoziale, Jovene, 1955 p. 242 e ss.;

[8] DI MAJO, Obbligazioni e contratti. L'adempimento dell'obbligazione, Zanichelli, 1993, p. 15 e ss.;

[9] Cfr. CHESSA, op. cit., pp. 30-32;

[10] NATOLI, L'attuazione del rapporto obbligatorio, Trattato dir. civ. e comm. Cicu-Messineo (dir.), Giuffré, 1974, p. 29 e ss.;

[11] GIORGIANNI, Natura del pagamento, in Foro padano, 1962, p. 720. Sostanzialmente conforme CHESSA, cit., pp. 37-38;

[12] CHESSA, op. cit., p. 41;

[13] CHESSA, op. cit., p. 38;

[14] GAZZONI, Manuale di diritto privato, Esi, 1996, p. 551;

Avv. Roberto Lozupone - tratto da www.studiogiuridico.it