AZIONE DI RESPONSABILITA' CONTRO GLI AMMINISTRATORI DI S.P.A. FALLITA E CRITERI DI DETERMINAZIONE DEL DANNO

(commento a Cassazione civile, sez. I°, 23/07/07  n. 16211)

 

Se la violazione del divieto di nuove operazioni, a fronte del capitale sociale assorbito dalle perdite, costituisce il fondamento della responsabilità degli amministratori della società fallita, non trova giustificazione la misura del danno nella differenza tra attivo e passivo fallimentare, non essendo l'intero passivo frutto del compimento di nuove operazioni, in parte dovendosi ascrivere alle perdite pregresse che avevano intaccato il capitale, dalla cui riduzione oltre i limiti previsti dall'art. 2447 c.c. era derivato lo scioglimento della società, cui erano poi seguite le operazioni in violazione del divieto suindicato (massima non ufficiale).

 

La Corte (omissis).

Denunzia il ricorrente vizio di motivazione della sentenza impugnata con riguardo alle censure mosse alle modalità operative e alla attendibilità delle conclusioni della consulenza tecnica; alla negata esistenza di una impresa a latore della fallita, personalmente esercitata da L.D.; al criterio di quantificazione del danno.

(omissis).

Quanto al terzo profilo, deduce che, sebbene esso ricorrente avesse ricoperto la carica sino al giugno 1993, la sentenza non abbia spiegato perché il danno debba essere liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo, né compiuto alcuna distinzione tra le posizioni degli amministratori, apoditticamente affermando che il dissesto era stato pari alla differenza tra attivo e passivo e che era derivato dall'illegittimo protrarsi dell'attività della società.

(omissis).

Va invece accolto il terzo aspetto della censura.

La corte di appello ha determinato la misura del risarcimento nella differenza tra attivo e passivo accertati in sede fallimentare, dal momento che il dissesto era derivato dall'illegittimo protrarsi della attività di impresa della società, nonostante quest'ultima avesse da tempo completamente perduto il capitale sociale.

In tal modo gli amministratori avevano, aggiunge la corte di merito, violando il divieto di procedere a nuove operazioni posto dall'art. 2449 c.c., determinato l'incremento dello stato di dissesto finanziario e quindi contribuito al formarsi della ingente massa passiva verificata nella procedura concorsuale (f. 9 sentenza).

Tale accertamento appare però contraddittorio con la conclusione raggiunta in ordine alla misura del risarcimento, poiché, al di là delle necessario differenziazioni in relazione alla incidenza sul danno della durata delle cariche - che la sentenza afferma essere cessata per l'A. nel giugno 1993 - e alle derivate conseguenze patrimoniali, la decisione non ha tenuto conto proprio della premessa, posta a base del giudizio di responsabilità, giacché se la violazione del divieto di nuove operazioni, a fronte del capitale sociale assorbito dalle perdite, costituisce il fondamento della responsabilità, non trova giustificazione la misura del danno nella predetta differenza, non essendo l'intero passivo frutto della intrapresa delle nuove operazioni, in parte dovendosi ascrivere alle perdite pregresse che avevano logorato il capitale, dalla cui riduzione oltre i limiti previsti dall'art. 2447 c.c., era derivato lo scioglimento della società, cui poi erano seguite le operazioni in violazione del divieto suindicato.

La sentenza va per tale aspetto cassata, con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese di cassazione.

(omissis).

 

IL COMMENTO (di Dario Finardi)

L'Autore si sofferma sulla rinnovata disciplina della responsabilità dell'organo amministrativo nelle società a responsabilità limitata con riferimento al fallimento ed alla problematica della conseguente individuazione dei criteri per la determinazione dell'ammontare del danno risarcibile.

Il fatto

La sentenza in commento si sofferma sul tema dell'azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento nei confronti degli amministratori di una società per azioni fallita. Nella specie, il curatore agiva ex artt. 2393 e 2394 c.c. sia nei confronti degli ex componenti del consiglio di amministrazione, sia dell'amministratore di fatto, poi divenuto amministratore unico.

L'operato degli amministratori veniva contestato in quanto, stante le ingenti perdite di esercizio protrattesi per tre anni ed occultate, gli stessi non avevano provveduto alla riduzione del capitale sociale secondo quanto stabilito dagli artt. 2446 e 2447 c.c.

All'esito del giudizio di primo grado, il Tribunale condannava i convenuti in solido tra loro, a pagare la somma corrispondente alla differenza tra attivo e passivo fallimentare, oltre accessori.

La sentenza veniva impugnata e riformata in parte dalla Corte d'Appello e, successivamente, si pronunciava la Corte di cassazione con la sentenza in commento.

 

Brevi cenni in merito alla disciplina dell'azione di responsabilità

La pronuncia della Suprema Corte, oggetto del presente lavoro, non mostra particolari profili di novità riguardo al tema della responsabilità degli amministratori di s.p.a., ciò nondimeno costituisce un valido spunto per compiere una breve analisi del tema de quo, soprattutto con riferimento alla misura del danno risarcibile.

La responsabilità degli organi sociali deputati alla gestione della società nonché la relativa azione di responsabilità ha subito, ad opera del D.Lgs. n. 6/2003, significative modificazioni [1].

Innanzitutto, occorre individuare tre tipologie di responsabilità a seconda dei soggetti verso i quali l'organo amministrativo è tenuto a rispondere: verso la società, per inadempimento dei doveri ad essi imposti dalla legge o dall'atto costitutivo (artt. 2392, 2393 e 2393 bis c.c.); verso i creditori, per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale (artt. 2394 e 2394 bis c.c.); verso i soci o i terzi, per i danni ad essi direttamente arrecati con atti colposi o dolosi (art. 2395. c.c.).

Per dottrina e giurisprudenza prevalente [2], l'azione sociale di responsabilità degli amministratori di cui all'art. 2392 c.c., ha natura contrattuale e di conseguenza, in quest'ottica, si dovrà accertare se gli amministratori abbiano adempiuto con diligenza agli obblighi ad essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo e se da tale inosservanza sia derivato un danno oggettivo alla società.

Trattandosi di responsabilità contrattuale, dovrà essere la società, quale soggetto che aspira al risarcimento del danno patito, a dare la prova degli elementi costitutivi della predetta responsabilità, quali l'inadempimento dei doveri imposti dalla legge o dall'atto costitutivo, il danno patrimoniale effettivamente subito, nonché il nesso eziologico tra condotta ed evento. In mancanza della prova anche di uno solo di questi tre elementi non potrà affermarsi alcuna responsabilità in capo agli amministratori.

Lo scopo avuto di mira dal legislatore della riforma è stato indubbiamente quello di "definire con chiarezza e precisione i compiti e le responsabilità " degli organi sociali [3], anche a fronte del variegato panorama giurisprudenziale delineatosi negli anni precedenti.

In tale contesto si è inserita la riforma del 2003. L'attuale testo dell'art. 2393 bis c.c. prevede che, ad esercitare l'azione, siano i soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale o la diversa misura indicata nello statuto, comunque non superiore al terzo.

La scelta del legislatore è stata nel senso di dare maggior peso alle minoranze, sulla scorta delle indicazioni fornite in tal senso dalla più attenta dottrina nel corso degli anni passati.

La norma assolve, comunque, ad una duplice funzione: da una parte, rappresenta uno strumento di rafforzata tutela delle minoranze; dall'altro "di consentire un funzionamento adeguato in una prospettiva di corporate governance del contrappeso al potere gestorio degli amministratori " [4].

Guardando nello specifico alla disciplina codicistica, le novità introdotte circa la responsabilità degli amministratori sociali sono sostanzialmente tre:

- la diligenza esigibile, che non è più quella del mandatario secondo il parametro di riferimento del bonus pater familias bensì quella richiesta dalla natura dell'incarico e dalle specifiche competenze;

- l'equiparazione delle deleghe atipiche a quelle formali;

- la delimitazione della culpa in vigilando con il richiamo all'art. 2381, comma 3, c.c.

 

La diligenza del buon amministratore

L'art. 2392 c.c., nella sua attuale formulazione, sembra richiamare quanto stabilito dall'art. 1176, comma 2, c.c. in merito alla diligenza richiesta al professionista, norma già richiamata dalla giurisprudenza in passato al fine di dare corretta interpretazione della diligenza del mandatario di cui alla definizione ante 2003 [5]. La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha affermato che "il grado di diligenza dell'amministratore non può semplicemente essere equiparato a quello tradizionale per il mandato, ma la diligenza deve valutarsi con riferimento all'attività esercitata e, quindi, nel caso di amministratore di società di capitali, essa deve essere riferita alla particolare aspettativa della società e dei soci di conseguire un risultato economico positivo, sicché l'amministratore è tenuto a curare con ogni attenzione che questo risultato venga raggiunto, ponendo in essere gli atti gestionali più opportuni ed utili " [6].

Il punto fondamentale, dunque, è dato dall'espresso riferimento normativo alla "natura dell'incarico esercitato ", in maniera tale che il giudizio sulla responsabilità diviene più flessibile ed adattabile al caso concreto. E' evidente, infatti, che tale riferimento consente di tener conto della tipologia di società amministrata, delle condizioni nelle quali si è svolta l'attività dell'amministratore e dei compiti allo stesso spettanti. Si è cercato, probabilmente, di evitare forme di responsabilità oggettiva ma, al contempo, si sono voluti evitare vuoti di tutela per tutti quei soggetti che fanno legittimo affidamento su una sana e prudente gestione [7]. In tal senso è illuminate quanto affermato da autorevole Autore [8]: "se da un lato non si può consentire agli amministratori di andare esenti da responsabilità per il solo fatto di aver gestito con la diligenza del buon padre di famiglia, dall'altro non ci si può spingere fino al punto di ritenere che sia fonte di responsabilità anche la mancanza di specifiche competenze in ognuno dei settori della gestione d'impresa. In sintesi, dagli amministratori si potrebbe esigere la diligenza professionale, ma non la perizia ".

Proprio con riferimento a tale ultimo aspetto, ancor prima della riforma del 2003, si era molto discusso circa la possibilità o meno di valutare la colpa degli amministratori avendo come criterio informatore, oltre che la diligenza e la prudenza, la perizia [9]. Quest'ultima, infatti, detta anche diligenza in senso oggettivo [10], viene definita come conoscenza ed attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte o professione [11].

Secondo alcuni, la riforma del 2003 e, nello specifico, la Relazione di accompagnamento, farebbe propendere per l'inserimento della perizia nei parametri di responsabilità di cui all'art. 2392 c.c., nella parte in cui all'inciso "dalla natura dell'incarico " aggiunge "e dalle loro specifiche competenze " [12].

Ad integrazione di quanto già detto, non si può non soffermarsi, seppur brevemente, sull'art. 2394 bis c.c., norma con la quale è stata inserita una disciplina generale della legittimazione attiva dell'azione di responsabilità verso gli amministratori con riferimento alle procedure concorsuali [13].

La previsione potrebbe giustificarsi in ragione del fatto che, in concreto, le procedure concorsuali e, soprattutto il fallimento, ha costituito il luogo di principale esercizio dell'azione di responsabilità. E' evidente, infatti, che la mala gestio degli amministratori sfocia molto spesso nel dissesto della società o, comunque, cagiona alla stessa peggiori condizioni economiche.

Alcuni Autori, quanto all'ambito di applicazione, considerano che la disposizione si riferisca non soltanto alle società per azioni ma anche alle s.r.l. [14].

L'articolo si sovrappone, comunque, all'art. 146 l.fall. In entrambe le norme, sia quella codicistica che quella fallimentare, infatti, tutte le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori confluiscono in una sola, di cui diviene titolare il curatore in via derivativa. Si ritiene che non si tratti di un tertium genus di azione ma che questa si configuri "inscindibile ed unitaria, in quanto assomma a sé i presupposti qualificanti le due possibili forme di tutela previste per la società ed i creditori " [15].

 

La misura del danno gravante sul cattivo amministratore

Aspetto significativo all'interno della pronuncia della Cassazione e, ancor prima, delle sentenze pronunciate in primo grado ed in appello, è quello riguardante la condanna degli amministratori al risarcimento del danno patito dalla società e quantificato, in appello, nella somma corrispondente alla "differenza tra attivo a passivo accertati in sede fallimentare, dal momento che il dissesto era derivato dall'illegittimo protrarsi dell'attività d'impresa della società, nonostante quest'ultima avesse da tempo completamente perduto il capitale sociale ".

La Suprema Corte ritiene che, per tale aspetto, la pronuncia della Corte d'Appello vada cassata, in quanto non ha tenuto conto del fatto che "se la violazione del divieto di nuove operazioni, a fronte del capitale assorbito dalle perdite, costituisce il fondamento della responsabilità, non trova giustificazione la misura del danno nella predetta differenza, non essendo l'intero passivo frutto della intrapresa delle nuove operazioni, in parte dovendosi ascrivere alle perdite pregresse che avevano logorato il capitale, dalla cui riduzione oltre i limiti previsti dall'art. 2447 c.c. era derivato lo scioglimento della società, cui erano poi seguite le operazioni in violazione del divieto suindicato ".

Con riferimento alla quantificazione del danno arrecato dagli amministratori con la propria mala gestio, è da registrare, infatti, un contrasto giurisprudenziale.

A fronte di un orientamento che ha ritenuto, in mancanza di altri parametri, la possibilità di identificare il danno risarcibile cagionato nel caso di violazione del divieto d'intraprendere nuove operazioni in presenza di una causa di scioglimento, nella differenza tra attivo e passivo fallimentare [16], altre pronunce, anche della giurisprudenza di legittimità, hanno sconfessato tale automatismo. In virtù della necessità di gravare gli amministratori del danno effettivamente ricollegabile ai loro comportamenti, nonché della necessità di rispettare il generale principio civilistico che impone all'attore di accertare tanto il danno subito quanto l'esistenza del nesso di causalità tra condotta e danno, la Cassazione ha introdotto o criteri equitativi o criteri volti a quantificare il danno avendo riguardo al caso concreto e alla lesione effettivamente prodotta nel patrimonio sociale da ciascuna violazione compiuta dagli amministratori [17].

Dunque, il contenuto dell'obbligazione risarcitoria in capo all'amministratore sociale, è solo quello riconducibile in via diretta ed immediata alla sua condotta dolosa o colposa. Entro tale limite esso comprende tanto il danno emergente quanto il lucro cessante, ovvero la misura del danno deve comprendere il "detrimento patrimoniale che non si sarebbe verificato se la condotta illecita dell'amministratore non fosse stata attuata " [18] .

In tale filone giurisprudenziale si inserisce anche la sentenza in commento, condivisibile, a mio avviso, sotto tale profilo. Altrimenti, si correrebbe il rischio di inserire una forma di responsabilità oggettiva, occultata dalla formulazione attuale delle norme codicistiche che, prescindendo dal concreto accertamento degli elementi costitutivi dell'illecito contrattuale, favorirebbe l'attore in merito all'onere della prova relativo alla dimostrazione dell'entità del danno subito.

 


Note:


1 - Per uno studio specifico relativo alle modifiche apportate alla materia dalla riforma del 2003, Zamperetti, sub artt. 2394 e 2394 bis, in Il nuovo diritto societario, commentario diretto da Cottino-Bonfante-Cagnasso-Montalenti, Bologna, 2004.
2 - De Nicola, sub art. 2392, in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti ed altri, Milano, 2006; Salafia, Profili di responsabilità degli amministratori di società di capitali, in questa Rivista, 2005, 1333; Sandulli, La riforma delle società, in Sandulli-Santoro (a cura di), La riforma delle società, Torino, 2003.
3 - Tali affermazioni si leggono nella legge delega ovvero, più precisamente, all'art. 2, lett. b), L. 3 ottobre 2001, n. 366.
4 - Toffoletto, Diritto societario - Manuale Breve, 2004, Milano, 224.
5 - Cass. 4 aprile 1998, n. 3483, in Giur. it., 1999, 324; Cass. 28 aprile 1997, n. 3652, in Giust. civ., 1997, 2780; Cass. 2 giugno 1989, n. 2887, in questa Rivista, 1989, 1034; Cass. 16 gennaio 1982, n. 280, in Fall., 1982, II, 664; Trib. Milano 2 marzo 1995, in Giur. it., 1995, I, 2, 1176; Trib. Milano 1 dicembre 1988, in questa Rivista, 1989, 173.
6  -  Cass. 25 settembre 1980, n. 5327, in Mass. giust. civ., 1980, 9; App. Milano 18 ottobre 1984, in Fall., 1985, 85; Trib. Milano 10 febbraio 2000, in Giur. comm., 2001, II, 326.
7  -  In realtà, comunque, il dettato del codice, seppur più completo rispetto alla formulazione previgente, rimane ancora destinato al prudente apprezzamento da parte del giudice.
8  -  Spiotta, sub art. 2392 c.c., in Il nuovo diritto societario, commentario diretto da Cottino-Bonfante-Cagnasso-Montalenti, Bologna, 2004, 765. Nello stesso senso, Ambrosini, Appunti in tema di amministrazione e controlli nella riforma delle società, in questa Rivista, 2003, 356.
9  -  Si ricordi, infatti, che si parla di comportamento colposo nel caso in cui questo sia stato posto in essere in violazione delle comuni regole di diligenza, perizia ed imprudenza (colpa generica) oltre che per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline (colpa specifica).
10  -  v.  Zaccaria, sub art. 1176 c.c., Commentario breve al codice civile, a cura di Cian-Trabucchi, Padova, 2007, 1214.
11  -  A fronte di un orientamento negativo circa la possibilità di sindacare la responsabilità degli amministratori sociali per comportamento non conforme a perizia, (Salvato, Responsabilità civile degli amministratori per violazione del dovere di diligenza, in questa Rivista, 2001, 20; Cottino, Diritto commerciale, I, 2, Le società, Padova, 1999, 432; Della Casa, Dalla diligenza alla perizia come parametri per sindacare l'attività di gestione degli amministratori, in Contr. e impr., 1999, 209; Franzoni, La responsabilità civile degli amministratori di società di capitali, in Galgano (diretto da), Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell'economia, XIX, Padova, 1994, 37. Per la giurisprudenza, Cass. 3 settembre 1999, n. 9278, in Mass. giust. civ., 1999, 1890; Cass. 11 maggio 1988, n. 3435, in Giust. civ., 1988, I, 2272; Trib. Milano 10 giugno 2004, in Giust. a Milano, 2004, 53 (s.m.); Trib. Milano 39 maggio 2004, in Giur. it., 2004, 2333), la posizione della dottrina e della giurisprudenza prevalente è orientata nell'escludere la perizia dal comportamento diligente richiesto agli amministratori (per tutti, Bonelli, La responsabilità degli amministratori di s.p.a., Milano, 1985, 61).
12  -  Montalenti, L'amministrazione sociale, Relazione al convegno Diritto societario: dai progetti alla riforma, Courmayeur, 27 - 28 settembre 2002; Sandulli, sub art. 2392, in Sandulli-Santoro (a cura di), La riforma delle società, Torino, 2003, 473.
13  -  Sul tema si veda Abete, La responsabilità degli organi di gestione, liquidazione e controllo nella riforma alla legge fallimentare, in Fall., 2006, 5.
14  -  Abriani, in AA. VV., Diritto delle società di capitali - Manuale breve, Milano, 2003, 225.
15  -  Così Trib. Milano 14 novembre 2006, in questa Rivista, 2007, 863.
16  -  Cass. 17 settembre 1997, n. 9252, in Foro it., 2000, I, 243. Da segnalare che la giurisprudenza accetta il criterio della determinazione della misura del danno nella differenza tra attivo e passivo fallimentare non in via assoluta ma solo nel caso in cui non possa provarsi un maggior pregiudizio.
17  -  Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538, in Giur. it., 2005, 1637; Cass. 8 febbraio 2000, n. 1375, in Dir. prat. soc., 2000, 20, 37; Trib. Napoli 27 novembre 1993, in Fall., 1994, 861; Trib. Milano 22 settembre 1988, in Dir. fall., II, 449.
18  -  Così Trib. Ivrea 29 gennaio 2004, in questa Rivista, 2004, 1564, con nota di Fabrizio.