L'azione di risoluzione e
l'azione di risarcimento del danno
in caso di vizi e difformità dell'opera appaltata

 

 

 

La disciplina dettata dall'art. 1668 cod. civ. in ordine ai difetti dell'opera realizzata a seguito della conclusione di un contratto di appalto, deroga quella generale vigente in tema di inadempimento contrattuale, concedendo al committente di fare ricorso alla domanda di risoluzione del contratto solo qualora i difetti siano tali da rendere l'opera del tutto inidonea alla sua destinazione. Negli altri casi, invece, il committente può agire alternativamente per l'eliminazione dei vizi o per ottenere la riduzione del prezzo in un'ottica di conservazione del contratto. Conseguentemente nel caso in cui il committente in correlazione alla domanda di risoluzione abbia agito anche per ottenere il risarcimento dei danni, ma i difetti non siano tali da giustificare lo scioglimento del contratto, la domanda di risarcimento non può essere accolta per difetto della causa petendi.

(Cass. civ., Sez. II, sentenza 20 aprile 2006 n. 9295)

 

 

Sommario:

1. Premessa

2. La correlazione tra azione di risoluzione del contratto per vizi e difetti tali da rendere inadatta l'opera e azione di risarcimento del danno subito

 

1. Premessa

 

Il contratto di appalto(1), è disciplinato nel nostro Codice civile al Capo VI del Titolo III del Libro IV. La definizione codicistica di tale contratto (art. 1655 c.c.) mette in evidenza gli aspetti che contraddistinguono la prestazione dell'appaltatore da quella di un prestatore d'opera. L'appaltatore, infatti, è una parte che «assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro». Siamo in presenza, quindi, di un contratto sinallagmatico: l'appaltatore assume, gestendo con mezzi propri e con rischio a suo carico, il compito di realizzare un'opera o compiere un servizio in favore di un committente, il quale sarà tenuto a pagare a sua volta un corrispettivo(2). Il compimento dell'opera o del servizio e il versamento del corrispettivo non sono contestuali(3): l'appaltatore esegue l'opera nel rispetto delle indicazioni fornite dal committente e solo dopo l'approvazione da parte di questi otterrà in cambio il corrispettivo pattuito. Il committente, infatti, potrebbe rifiutare l'opera eseguita(4), in quanto non corrispondente a quanto richiesto e ciò a seguito di verifica(5), collaudo, accettazione(6).

 

Le ragioni che possono indurre il committente a non accettare(7) l'opera sono o la difformità di questa rispetto a quanto rappresentato all'appaltatore in sede di stipula del contratto ovvero la sussistenza di vizi(8). Conseguentemente egli può azionare alcuni rimedi previsti dall'art. 1168 c.c.(9), ossia l'azione di risoluzione del contratto, l'azione volta all'eliminazione dei vizi e delle difformità(10) e l'azione di riduzione del prezzo pattuito(11).

 

La sentenza che in questa sede si commenta verte proprio sull'azione di risoluzione del contratto di appalto e sul diritto al risarcimento del danno subito dal committente a seguito dell'inadempimento contrattuale dell'appaltatore.

 

 

2. La correlazione tra azione di risoluzione del contratto per vizi e difetti tali da rendere inadatta l'opera e azione di risarcimento del danno subito

 

Estremamente interessante ed innovativa appare anche Cass., 20.4.2006, n. 9295, la quale presta attenzione, invece, al rapporto sussistente tra l'azione di risoluzione del contratto di appalto e la pretesa di risarcimento del danno derivante dalla inidoneità dell'opera realizzata rispetto alla destinazione concepita per essa.

 

Appare utile al fine di comprendere meglio le argomentazioni della S.C. chiarire il contenuto dell'azione di risoluzione, nonché gli apporti dottrinali e giurisprudenziali intervenuti nella subiecta materia.

 

Il committente ai sensi dell'art. 1668, 2° co., c.c., può chiedere la risoluzione del contratto di appalto in caso di vizi e difformità soltanto nell'ipotesi in cui l'opera, complessivamente valutata, sia del tutto inadatta alla sua destinazione. La differenza tra siffatta azione e i principi generali previsti in tema di inadempimento del contratto sussisterebbe, in primo luogo, proprio nella caratteristica residuale che essa assume nel contratto de quo, dal momento che nel caso in cui i difetti siano sanabili il committente deve fare ricorso alle azioni alternative di eliminazione dei vizi e riduzione del prezzo (in un'ottica di conservazione del contratto)(12). In secondo luogo, l'inadempimento tale da giustificare una demolizione del contratto stipulato anteriormente deve avere una certa importanza qualitativa(13). È stato osservato a riguardo da parte della dottrina(14) che risulta sicuramente difficile fornire un parametro valido in assoluto ai fini dell'individuazione in concreto dei casi di grave e rilevante inadempimento. Infatti, il riferimento alla destinazione del bene non implicherebbe sempre e soltanto una sua valutazione oggettiva, ma potrebbe fare riferimento anche ad una valutazione soggettiva relativa a particolari caratteristiche dell'opera volute dalle parti contraenti. L'unico criterio valido sarebbe, pertanto, quello della valutazione concreta del singolo caso.

 

Il caso di specie ha contribuito sia alla cristallizzazione delle suddette riflessioni, sia ad individuare una ipotesi concreta in cui non sussiste grave inadempimento. Veniva contestata, infatti, dal committente la presenza di vizi (tali addirittura da incidere sulla incolumità personale) a seguito della installazione di una insegna luminosa in un negozio e corrispondenti ad una perdita di corrente. La società appaltatrice, tuttavia, non poneva rimedio, favorendo in tal modo la proposizione del giudizio di primo grado, in occasione del quale venivano richiesti, rispettivamente, in via principale la risoluzione del contratto, in via subordinata la condanna della convenuta alla eliminazione dei vizi e/o alla riduzione del prezzo e comunque al risarcimento dei danni subiti. Il Giudice di Pace accoglieva le domande attoree, con una pronuncia che veniva subito gravata innanzi al Tribunale il quale capovolgeva la decisione emessa in prime cure. Seguiva la proposizione di ricorso innanzi alla Corte di Cassazione da parte del committente, il quale denunziava violazione ed errata applicazione dell'art. 1668 c.c., posto che, a suo dire, la dispersione di corrente originatasi dall'insegna luminosa risultava talmente grave da far sì che ne venisse ordinato lo spegnimento. Ciò avrebbe giustificato ex se il rimedio della risoluzione del contratto di appalto. La S.C., nonostante tali ragioni, si è mostrata restia all'accoglimento della doglianza ribadendo principi già ampiamente palesati anteriormente(15). Essa ha affermato, infatti, che: «Secondo i principi costantemente affermati da questa S.C., ai fini della risoluzione del contratto di appalto per i vizi dell'opera si richiede un inadempimento più grave di quello richiesto per la risoluzione della compravendita per i vizi della cosa, atteso che, mentre per l'art. 1668, 2° co., c.c., la risoluzione può essere dichiarata soltanto se i vizi dell'opera sono tali da renderla del tutto inidonea alla sua destinazione l'art. 1490 c.c. stabilisce che la risoluzione va pronunciata per i vizi che diminuiscono in modo apprezzabile il valore della cosa, in aderenza alla norma generale di cui all'art. 1455 c.c., secondo cui l'inadempimento non deve essere di scarsa importanza avuto riguardo all'interesse del creditore. Pertanto la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto di appalto è ammessa nella sola ipotesi in cui l'opera, considerata nella sua unicità e complessità, sia assolutamente inadatta alla destinazione sua propria in quanto affetta da vizi che incidano in misura notevole sulla struttura e funzionalità della medesima, sì da impedire che essa fornisca la sua normale utilità, mentre, se i vizi e le difformità sono facilmente e sicuramente eliminabili, il committente può solo richiedere, a sua scelta, uno dei provvedimenti previsti dal 1° co. dell'art. 1668 c.c., salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell'appaltatore».

 

Le dispersioni di corrente elettrica, pertanto, non sono state considerate vizi non eliminabili e tali da legittimare lo scioglimento del vincolo contrattuale.

 

La pronuncia in commento si segnala altresì sotto un altro profilo, dal momento che ha chiarito anche i rapporti tra l'azione di risoluzione e l'azione per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza del manifestarsi dei vizi o delle difformità. Il committente, infatti, aveva richiesto in via subordinata rispetto alla risoluzione del contratto, il risarcimento dei danni. La S.C., tuttavia, ha disatteso siffatta censura sulla base delle seguenti motivazioni. Quando si è in presenza di difetti gravi e non può aver luogo la risoluzione del contratto, l'azione di risarcimento può essere proposta solo se il committente abbia agito per ottenere l'eliminazione dei vizi o per la riduzione del prezzo pattuito, e quindi in un'ottica di conservazione degli effetti del vincolo contrattuale. Se invece, «il committente abbia domandato il risarcimento dei danni in correlazione con la domanda di risoluzione e i difetti non siano risultati tali da giustificare lo scioglimento del contratto, la domanda di risarcimento non può essere accolta per difetto della causa pretendi».

 

Lo scioglimento del vincolo si porrebbe, pertanto, in netto contrasto con la richiesta di un ristoro economico, dal momento che si è ignorata la possibilità di ottenere una reintegrazione in forma specifica, evidentemente considerata dal nostro Legislatore e dalla S.C. più satisfattiva e congeniale rispetto agli interessi della collettività dal momento che in tal modo sembra essere notevolmente compresso l'interesse del committente a che l'opera commissionata, recuperate le spese dell'appalto "infruttuoso", possa essere affidata ad altro professionista.

 

Autore: Giuseppe Gliatta - Fonte: Resp. civ., 2008, 03, 237

 

 

Note:

(1) Tra gli Autori che hanno dedicato attenzione alla materia si menzionano i seguenti: Russo e Criaco, L'appalto privato, Torino, 2005; M. Miglietta e A. Miglietta, L'appalto privato, Milanofiori Assago, 2006; Musolino, Il contratto di appalto, Rassegna di giurisprudenza commentata sull'appalto pubblico e privato, Santarcangelo di Romagna, 2002.

 

(2) In dottrina è stato evidenziato (Russo e Criaco, L'appalto privato, Torino, 2005, 2 ss.) come: «La nozione di appalto di cui all'art. 1655 c.c. indica i caratteri del fatto negoziale che può essere definito come appalto [...]. In tale nozione viene fatto rientrare sia il compimento di un'opera sia il compimento di un servizio. Sennonché esaminando la disciplina che emerge chiaramente che tale disciplina è esclusiva del compimento di un opus e non anche del compimento di un servizio (si pensi alle regole sulla fornitura della materia, sulle variazioni del progetto, sulla verifica, pagamento, difformità e vizi dell'opera, sull'impossibilità di esecuzione dell'opera o sul perimento della cosa). Il legislatore ha, quindi, posto una disciplina dell'istituto che non è corrispondente alla sua definizione».

 

(3) In tal senso v. M. Miglietta e A. Miglietta, L'appalto privato, Milanofiori Assago, op. cit., 4 ss.

 

(4) Per utili approfondimenti in merito al rapporto tra autonomia dell'appaltatore e sue responsabilità, nonché agli effetti dell'ingerenza del committente nei confronti della responsabilità dell'appaltatore v. Cappai, Autonomia e responsabilità contrattuale dell'appaltatore per i vizi dell'opera, in Resp. civ. e prev., 2005, 6, 1303 ss., il quale ha osservato, tra l'altro, quanto segue: da un lato «L'autonomia di cui il debitore dispone nell'adempimento dell'obbligazione esplica inevitabilmente la propria influenza sulla estensione dei profili di responsabilità ai quali il debitore si trova ad essere esposto nei confronti del creditore. Un simile fenomeno, per la sua congenialità rispetto alla fisionomia dell'appalto, trova in questo contratto un terreno d'indagine particolarmente favorevole, in considerazione della intensità dell'autonomia che connota la posizione debitoria dell'appaltatore». Dall'altro: «L'impatto che l'ingerenza del committente esplica sulla responsabilità dell'appaltatore è diversificato in ragione delle differenti modalità con cui l'autonomia di questo soggetto è suscettibile di essere compressa. Il committente può, infatti, limitarsi ad una descrizione sommaria dell'opera, oppure procedere alla elaborazione di un progetto analitico; nella fase di esecuzione dell'opera può attenersi ad impartire istruzioni di massima, oppure decidere di preporre alla direzione dei lavori un professionista tecnico». In merito alla responsabilità dell'appaltatore v. altresì Carnevali, Ancora sui rapporti tra l'art. 1669 c.c. e l'art. 2043 c.c., in Resp. civ. e prev., 1999, 4-5, 1054 ss., il quale approfondisce l'apporto della dottrina e della giurisprudenza nel collocare la responsabilità dell'appaltatore tra il novero delle responsabilità extracontrattuali. Cfr. altresì Gallo, Appalto, concorso tra responsabilità e danni puramente economici, in Giur. it., 1999, 11, 2057 ss.; Lapertosa, Casi e questioni in tema di responsabilità dell'appaltatore, in Resp. civ. e prev., 2000, 4-5, 887 ss.; Brunelli, Tutela giurisdizionale e arbitrato per i gravi difetti nell'appalto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1997, 2, 353 ss.

 

(5) Occorre evidenziare che il committente durante l'esecuzione dell'opera gode di un potere di verifica. Su tale specifico aspetto e sulla portata del potere di verifica si v. Musolino, I poteri di verifica del committente durante l'esecuzione del contratto di appalto, in Riv. giur. edil., 2002, 1, 81 ss. V. altresì Manna, Osservazioni in tema di risoluzione del contratto di appalto, in Giust. civ., 1997, 3, 779 ss., con riguardo all'azione di risoluzione del contratto in corso d'opera ai sensi dell'art. 1662 c.c.

 

(6) Per utili approfondimenti in merito a tali fasi dell'esecuzione del contratto di appalto v. M. Miglietta e A. Miglietta, L'appalto privato, Milanofiori Assago, op. cit., 141 ss.

 

(7) Tale caratteristica del contratto d'appalto ha portato la dottrina ad indagare sulla presunta natura aleatoria di esso. Si vedano per utili approfondimenti Russo e Criaco, L'appalto privato, Torino, 2005, 10 ss. Per quanto concerne l'accettazione v. Russo e Criaco, L'appalto privato, Torino, 2005, 391 ss., i quali hanno evidenziato quanto segue: «Riflettendo sul concetto di difformità e vizi dell'opera emerge che la disciplina legislativa non è affatto una disciplina che in generale regola la responsabilità dell'appaltatore, ma si riferisce ad una fattispecie molto specifica. Innanzi tutto, è necessario che l'opera sia stata completata e consegnata, e comunque, sottoposta alle verifiche del committente (artt. 1662, 1665, e 1666 c.c.). I vizi e le difformità costituiscono il risultato (negativo) delle verifiche e sono alla base del rifiuto di accettazione e collaudo. Fuoriescono, quindi, dall'ambito di applicazione della normativa tutte le ipotesi di ritardo nel compimento dell'opera, oppure di mancato compimento della stessa. L'opera deve essere eseguita e deve essere difforme o viziata».

 

(8) Per quanto concerne la portata dei termini "vizi" e "difformità" utilizzati dal nostro Legislatore, la dottrina ha cercato di specificarne il contenuto. V., in particolare, Lapertosa, La garanzia per vizi nella vendita e nell'appalto, in Giust. civ., 1998, 2, 45 ss., il quale, nell'operare un raffronto tra la garanzia per vizi dovuta nel contratto di vendita e quella richiamata per l'appalto, ha evidenziato quanto segue: «Innanzi tutto la garanzia riguarda i difetti dell'opera (art. 1668 c.c.), categoria nella quale sono ricompresi i vizi e le difformità (art. 1667 c.c.). Presupposto comune ai vizi e alle difformità è che l'opera sia stata interamente eseguita (giacché per la mancata ultimazione dell'opera o il ritardo nella sua consegna il committente può avvalersi degli ordinari strumenti di tutela). Secondo l'interpretazione prevalente i vizi (qualificati indifferentemente come difetti) consistono nella mancanza di modalità o di qualità di particolari che, seppure non siano stati espressamente pattuiti, devono tuttavia inerire all'opera secondo le regole dell'arte. Vi rientrano perciò anche quelle ipotesi che nella vendita vengono ricondotte alla mancanza di qualità essenziali. Le difformità, invece, sono le discordanze dalle prescrizioni contrattuali, le quali coincidono dunque con quelle ipotesi che nella vendita vengono ricondotte alla mancanza di qualità promesse. Peraltro, a differenza della vendita, il legislatore non enuncia il livello di rilevanza dei vizi e delle difformità che pertanto, seppur apprezzabili, potrebbero forse essere anche di entità inferiore a quella sancita nell'art. 1455 c.c. Tuttavia, ai fini della risoluzione, si richiede che i difetti siano tali da rendere l'opera del tutto inadatta alla sua destinazione, e dunque di gravità maggiore di quella ordinariamente richiesta per la risoluzione per inadempimento». V., altresì, Russo e Criaco, L'appalto privato, Torino, 2005, 392 ss., i quali hanno evidenziato come: «I due termini (difformità o vizio) hanno contenuto nettamente diverso perché alludono ai due diversi criteri attraverso i quali si determina l'oggetto del contratto di appalto, e cioè la previsione contrattuale e le regole dell'arte. La difformità dell'opera riguarda il discostarsi di essa dalle previsioni contrattuali. Anche se l'opera non è viziata ed è idonea all'uso cui è destinata, essa tuttavia può essere difforme da quanto stabilito in contratto. Nel concetto di difformità non entra l'idoneità della cosa secondo la comune esperienza, quanto piuttosto il mancato rispetto del risultato specificamente programmato. [...]. Il concetto di vizio dell'opera riguarda, invece, la violazione delle regole dell'arte e cioè dei criteri in base ai quali l'opera può ritenersi accettabile e idonea all'uso cui è destinata. L'opera può essere conforme alle previsioni contrattuali (con riguardo ai suoi caratteri esteriori o alla qualità dei materiali che la compongono) e tuttavia viziata in quanto, come si diceva, l'opera non rispetta le regole dell'arte e cioè quei caratteri di utilizzabilità, di durata e di qualità che la comune esperienza attribuisce ad opere dello stesso tipo».

 

(9) Si riportano per completezza gli articoli utili ai fini della nostra trattazione e disciplinanti le difformità e i vizi dell'opera (art. 1667 c.c.) e il contenuto della garanzia per i difetti (art. 1668 c.c.). Art. 1667 c.c.: «L'appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell'opera. La garanzia non è dovuta se il committente ha accettato l'opera e le difformità o i vizi erano da lui conosciuti o erano riconoscibili, purché, in questo caso, non siano stati in mala fede taciuti dall'appaltatore. Il committente deve, a pena di decadenza, denunziare all'appaltatore le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta. La denunzia non è necessaria se l'appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha occultati. L'azione contro l'appaltatore si prescrive in due anni dal giorno della consegna dell'opera. Il committente convenuto per il pagamento può sempre far valere la garanzia, purché le difformità o i vizi siano stati denunziati entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna». Art. 1668 c.c.: «Il committente può chiedere che le difformità o i vizi siano eliminati a spese dell'appaltatore, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell'appaltatore. Se però le difformità o i vizi dell'opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente può chiedere la risoluzione del contratto».

 

(10) Per utili approfondimenti in merito alla azione di condanna alla eliminazione dei vizi v. Lapertosa, Casi e questioni in tema di responsabilità dell'appaltatore, in Resp. civ. e prev., 2000, 4-5, 887 ss., il quale ha opportunamente evidenziato come siffatto rimedio non integri una garanzia vera e propria, bensì individui una forma di responsabilità contrattuale speciale che si verifica quando in un'opera siano riscontrati vizi o difformità. Ancora, per dirla con le sue parole: «[...] la maggior parte degli Autori riconduce l'azione di condanna alla eliminazione dei difetti nell'alveo dell'azione generale di condanna all'esatto adempimento della prestazione (art. 1453 c.c.). Attraverso di essa il committente dovrebbe riuscire ad ottenere quel risultato utile che un adempimento esatto avrebbe dovuto assicurargli, postulando dunque la condanna dell'appaltatore a un fare (eliminazione dei vizi) a propria cura e a proprie spese».

 

(11) Per quanto concerne la concreta esperibilità di tale azione appare particolarmente scettico Lapertosa, Casi e questioni in tema di responsabilità dell'appaltatore, in Resp. civ. e prev., 2000, 4-5, 887 ss. L'Autore, infatti, basandosi sulla propria esperienza giunge ad affermare quanto segue: «[...] chiunque frequenti aule di giustizia sa bene che di fronte ad un'opera difettosa la pretesa del committente, ormai deluso dalla incapacità tecnica dell'appaltatore e interessato ad una rapida riparazione, ha quasi sempre ad oggetto la domanda, non meglio qualificata, di condanna di questo al pagamento della somma occorrente per l'eliminazione dei vizi, molto spesso prospettata come richiesta di danni in aggiunta alla domanda di riduzione del prezzo».

 

(12) V., in tal senso, Cass., 29.11.2001, n. 15167, in Mass. Foro. it., 2001, 1211. V. altresì Lipari, La garanzia per i vizi e le difformità dell'opera appaltata: risoluzione del contratto, mancanza di qualità promesse e aliud pro alio, in Giust. civ., 1986, 2945 ss., il quale ha opportunamente evidenziato la differente operatività degli artt. 1455 e 1668 c.c.: «Infine, altri argomenti in favore della tesi che restringe l'ambito di operatività della risoluzione nell'appalto si ricavano dal coordinamento logico tra il 1° e il 2° co. dell'art. 1668 c.c. Laddove la prima parte di tale disposizione prevede strumenti di tutela largamente adeguati a realizzare le aspettative del committente (oltre all'eventuale risarcimento del danno, l'eliminazione del vizio, oppure, in alternativa, la proporzionale riduzione del prezzo), risulta evidente come la risoluzione del contratto venga concepita dal legislatore come estrema ratio, alla quale è possibile ricorrere solo in presenza di circostanze assai rigorose e tassative. Se dunque per l'art. 1455 c.c la risoluzione rappresenta la regola generale in caso di inadempimento contrattuale, nell'art. 1668 c.c. la risoluzione nell'appalto è considerata come un rimedio eccezionale rispetto agli altri strumenti predisposti dalla norma a tutela degli interessi del committente». Ancora «Probabilmente le ragioni decisive della scelta legislativa vanno ricercate nella complessa articolazione dell'art. 1668 c.c. La norma, infatti, prevede dei rimedi estremamente efficaci in favore del committente, che compongono in modo opportuno il potenziale conflitto con gli interessi dell'appaltatore. L'ampiezza dell'operatività di tali strumenti finisce con l'elidere notevolmente lo spazio applicativo della risoluzione». V. altresì Musumeci, Sui presupposti dell'azione di risoluzione nell'appalto e nella vendita, in Giur. it., 1991, I, sez. I, 1123 ss.

 

(13) In tali termini si è espresso Lipari, La garanzia per i vizi e le difformità dell'opera appaltata: risoluzione del contratto, mancanza di qualità promesse e aliud pro alio, in Giust. civ., 1986, 2938 ss., il quale, più nello specifico ha sostenuto quanto segue: «L'art. 1668 c.c. non si limita a ribadire, concretizzandolo e sviluppandolo, il principio codificato nell'art. 1455 c.c., ma richiede un elemento ulteriore e diverso, necessario per produrre l'effetto giuridico della risoluzione del contratto: non basta che l'inadempimento dell'appaltatore sia "di non scarsa importanza", ma occorre che esso sia addirittura tale "tale da rendere l'opera del tutto inadatta alla sua destinazione". La "destinazione" dell'opera costituisce il particolare parametro di riferimento della "importanza" dell'inadempimento nell'appalto. Sotto questo profilo, l'art. 1668 c.c. specifica, e in un certo senso cristallizza, la nozione più elastica contenuta nell'art. 1455 c.c. È infatti agevole osservare che, secondo l'id quod plerumque accidit, l'importanza dell'inadempimento dell'appaltatore, il relazione all'interesse del committente, vada commisurata proprio alla destinazione concreta assegnata all'opera contemplata in contratto».

 

(14) In tal senso, Vaglio, in Contr., 1997, 2, 161 ss.

 

(15) Ci si riferisce, in particolare, a Cass., sez II, 15.3.2004, n. 5250 (Giust. civ., 2005, I, 1366), attraverso la quale la S.C. aveva già ribadito i seguenti principi di diritto: 1) «La garanzia dell'appaltatore per le difformità e i vizi dell'opera si configura non come garanzia in senso tecnico, ma come esplicazione particolare della comune responsabilità per inadempimento, attuabile - a scelta del committente - con la riduzione proporzionale del prezzo o con l'eliminazione delle carenze a spese dell'appaltatore. Le due azioni non sono surrogabili l'una con l'altra, per cui se il committente non ha chiesto l'eliminazione dei vizi e delle difformità, può essere disposta soltanto la riduzione del prezzo pattuito. L'appaltatore, quindi, non può chiedere di eseguire spontaneamente le opere necessarie per l'eliminazione dei vizi se la relativa domanda non è stata proposta dal committente, mentre può procedere alla detta eliminazione, prima della sentenza, se il committente ha chiesto la condanna dell'appaltatore al pagamento della somma occorrente»; 2) «Ai fini della risoluzione del contratto di appalto per i vizi dell'opera si richiede un inadempimento più grave di quello richiesto per la risoluzione della compravendita per i vizi della cosa, atteso che, mentre per l'art 1668, 3° co., c.c., la risoluzione può essere dichiarata solo se i vizi dell'opera sono tali da renderla del tutto inidonea alla sua destinazione, l'art. 1490 c.c. stabilisce che la risoluzione va pronunciata per i vizi che diminuiscano in modo apprezzabile il valore della cosa, in aderenza alla norma generale di cui all'art. 1455 c.c., secondo cui l'inadempimento non deve essere di scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse del creditore. Pertanto la possibilità di richiedere la risoluzione del contratto di appalto è ammessa nella sola ipotesi in cui l'opera, considerata nella sua unicità e complessità, sia assolutamente inadatta alla destinazione sua propria in quanto affetta da vizi che incidono in misura notevole - sulla struttura e funzionalità della medesima - sì da impedire che essa fornisca la sua normale utilità, mentre se i vizi e le difformità sono facilmente e sicuramente eliminabili, il committente può solo chiedere, a sua scelta, uno dei provvedimenti previsti dal 1° co. dell'art. 1668 c.c., salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell'appaltatore. A tal fine, la valutazione delle difformità o dei vizi deve avvenire in base a criteri obiettivi, ossia considerando la destinazione che l'opera riceverebbe dalla generalità delle persone, mentre deve essere compiuta con criteri subiettivi quando la possibilità di un particolare impiego o di un determinato rendimento siano dedotti in contratto. E incombe al committente l'onere probatorio in ordine alla sussistenza dei vizi dedotti a fondamento della domanda di risoluzione del contratto di appalto, mentre compete all'appaltatore addurre l'esistenza di eventuali cause che impediscano al committente di far valere il suo diritto». Ad abundantiam, v., altresì, l'altra pronuncia richiamata testualmente, ovvero Cass., sez II, 29.11.2001, n. 15167 (in Giust. civ. mass., 2001, 2051), con la quale la S.C. si era già espressa in merito alla natura dell'azione di risoluzione del contratto nei seguenti termini: «In materia di appalto, la disciplina dettata dall'art. 1668 c.c. in tema di difetti dell'opera, in deroga a quella stabilita in via generale in tema di inadempimento del contratto, concede al committente la possibilità di domandare la risoluzione del contratto soltanto nel caso in cui i difetti dell'opera siano tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, mentre negli altri casi il committente può agire con le alternative azioni di eliminazione dei vizi o di riduzione del prezzo, soltanto nell'ottica del mantenimento del contratto. Pertanto, nel caso in cui il committente abbia domandato il risarcimento del danno in correlazione con la domanda di risoluzione e i difetti non siano risultati tali da giustificare lo scioglimento del contratto, la domanda di risarcimento non può essere accolta per difetto di "causa pretendi"».