Cassazione Civile, Sez. III°
13/11/2009  n. 24034



Svolgimento del processo

Con citazione avanti al Tribunale di Torino alcuni dipendenti della Fiat s.p.a. sopra indicati, chiedevano la condanna di R.C. e di M.F.P. nella loro qualità di amministratori del gruppo Fiat, al risarcimento dei danni loro cagionati in relazione ai fatti seguenti: con sentenza 15 luglio 1999 la Corte d'Appello di Torino aveva affermato la responsabilità penale dei convenuti in relazione ai reati di falso nei bilanci consolidati e nelle relazioni accompagnatorie della Fiat s.p.a., di finanziamento illecito dei partiti politici, nonchè per la violazione fiscale L. n. 516 del 1982, ex art. 4, lett. e); nella suddetta sentenza era altresì contenuta condanna di R. e M., in solido, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite - fra le quali rientravano gli attori, tutti dipendenti dal Gruppo Fiat - "danni da liquidarsi in separata sede"; con sentenza 19 ottobre 2000 la Corte di Cassazione aveva confermato a pronuncia della Corte d'Appello di Torino in ordine al diritto degli attori al risarcimento dei danni patrimoniali e morali, e, in particolare, dopo avere annullato la sentenza impugnata nei confronti di M.F. perchè il reato continuato ascrittogli era estinto per sopravvenuta prescrizione... e nei confronti di R.C. limitatamente alla imputazione di cui al capo B della rubrica, aveva rigettato il ricorso del R. nel resto e quello del M. agli effetti delle statuizioni civili.

Gli attori precisavano di avere subito, nella loro qualità di dipendenti di aziende del Gruppo Fiat, un danno patrimoniale, in quanto le voci falsificate in bilancio, artatamente impoverito, avevano inciso negativamente sull'indice generale su cui dipendeva, all'epoca dei fatti, il calcolo dei "Premio Performances di Gruppo (P.P.G.)"; un premio istituito con accordo sindacale del 4 luglio 1989, che collegava all'andamento del gruppo Fiat una quota della retribuzione percepita dagli attori.

Gli attori, pertanto, domandavano il ristoro del danno patrimoniale - corrispondente alla decurtazione, per gli anni 1988, 1989, 1990 e 1991, del suddetto premio, nonchè il ristoro del danno morale - da liquidarsi equitativamente - conseguente al comportamento penalmente rilevante tenuto dai convenuti.

Si costituivano in giudizio entrambi i convenuti, i quali, preliminarmente eccepivano l'incompetenza per valore del giudice adito, mentre nel merito, in via subordinata, contestavano la fondatezza delle domande avversarie, chiedendone il rigetto.

Con sentenza 31 dicembre 2002, il Tribunale di Torino, in accoglimento delle domande attrici, condannava il R. e il M. al pagamento in favore di ciascuno degli attori, della somma di Euro 1508,78, oltre interessi in misura legale dalla data di passaggio in giudicato della pronuncia penale al saldo effettivo, e spese processuali.

La Corte d'Appello di Torino, con sentenza del 19 maggio 2004, rigettava l'appello proposto da R.C. e da M. P., che condannava al pagamento delle spese del grado.

Propongono separati ricorsi per cassazione M.F.P. e R.C., con cinque motivi.

Resistono con controricorso i dipendenti.

Le parti ricorrenti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

I ricorsi, che hanno trattato le medesime censure, vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c., in quanto relativi alla medesima sentenza.

1. Con il primo motivo del ricorso proposto dai due ricorrenti M.F.P. e R.C., si denuncia la violazione delle norme sulla competenza (artt. 9, 10 e 14 c.p.c.) nonchè la incongrua e contraddittoria motivazione, in quanto la Corte d'Appello aveva disatteso la eccezione sollevata in relazione alla competenza per valore del giudice di pace.

Osserva la Corte che qualora insieme con una domanda di valore determinato ed inferiore al limite della competenza del giudice adito sia stata dall'attore proposta altra domanda senza precisazione della somma richiesta, il principio del cumulo, previsto dall'art. 10 c.p.c., con spostamento della competenza al giudice superiore, non opera solo ove l'attore dichiari, in modo non equivoco, di volere contenere il valore di tale seconda domanda entro il predetto limite, e ciò in misura pari alla differenza tra questo ed il valore espressamente determinato dall'altra domanda (Cass. 29 maggio 1998 n. 5343): nella specie le parti attrici hanno proposto la domanda di risarcimento del danno (patrimoniale e non patrimoniale) avanti al giudice superiore, con ciò intendendo implicitamente che il valore complessivo della richiesta non trovasse limiti nella competenza prevista per il giudice di pace. Il fatto che nelle precedenti fasi di merito sino stati riconosciuti importi di entità assai ridotta rispetto al limite previsto per la competenza del giudice di pace, non vale a giustificare lo spostamento della competenza, essendo previsto (art. 10 c.p.c., comma 1) il principio che la competenza è determinata dalla domanda e non già dalla decisione del giudice.

Ne consegue che qualora una domanda anche priva di supporti probatori o giuridicamente infondata sia stata strutturata dalla parte in modo tale rientrare anche solo potenzialmente nella competenza per valore del giudice superiore, deve essere conosciuta da quest'ultimo. L'art. 14 c.p.c., comma 2, stabilisce poi che a fronte della contestazione del convenuto circa il valore dichiarato o presunto della domanda, il giudice decide sulla base degli elementi agli atti, senza apposita istruzione: tale ipotesi opera però esclusivamente nei casi di controversie aventi ad oggetto cose mobili diverse dal denaro, mentre nessuna utile contestazione è ammessa relativamente alle cause aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro (nella specie, a titolo di risarcimento del danno: in tal senso: Cass. 4 novembre 2002 n. 15442). Ne consegue che, ove l'attore non indichi nella domanda la somma pretesa, la causa, nonostante la contestazione del convenuto, deve presumersi di competenza del giudice adito, ai sensi dell'art. 14 cod. proc. civ., comma 1.

Il motivo risulta quindi infondato.

2.1 Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 531, 651, 652 e 654 c.p.p. e art. 2697 c.c., poichè la sentenza impugnata aveva ritenuto vincolante per il giudice civile l'accertamento dei fatti contenuto nella sentenza penale, senza considerare che il processo si era concluso con sentenza di non doversi procedere per essere il reato estinto per prescrizione.

La sentenza impugnata dà atto che questa Corte, definendo il processo penale contro il M. con sentenza in data 19 ottobre 2000 (n. 191/2001), posta a fondamento delle domande proposte dai dipendenti, fece espressamente salve le statuizioni civili già assunte dalla Corte di Appello in relazione alla posizione del M., decidendo l'annullamento senza rinvio della condanna penale perchè il reato ascritto era estinto per prescrizione. Con D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, le ipotesi di reato contestate sono state depenalizzate, nel senso che i comportamenti contestati nei capi di imputazione non rivestono più carattere di illecito penale, in quanto con la novella legislativa è stata prevista una soglia di punibilità per la integrazione del reato. Tale soglia di punibilità è stata determinata all'art. 2621 c.c., comma 3, nella nuova formulazione, che prevede che "la punibilità è comunque esclusa se la falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5%, o una variazione del patrimonio netto non superiore all'1%". Nel caso concreto, in esito agli accertamenti peritali è risultato che gli scostamenti quantitativi dei dati risultanti dal bilancio ammontavano a circa L. 35 miliardi e quindi costituivano soltanto lo 0,08% del patrimonio netto. Si pone quindi il problema di verificare se, a seguito della abolitio criminis sopra rilevata, siano stati travolti anche gli effetti civili della pronunzia del giudice penale che, applicando la prescrizione del reato e, quindi una causa di proscioglimento diversa da quella introdotta dalla nuova legge, stabilì la conferma degli effetti civili della condanna, nei confronti del M..

La sentenza impugnata ha opportunamente richiamato, in relazione a tale questione, l'art. 2 c.p., comma 2, che nel disciplinare le conseguenze della abolitio criminis, prevede che con l'entrata in vigore della nuova norma, cessino la esecuzione e gli effetti penali della condanna, con la conseguente non modificabilità delle pronunzie di carattere civile, secondo il principio di cui all'art. 11 disp. gen., che esclude la retroattività della legge, salvi i casi espressamente previsti. Si deve quindi escludere l'irrilevanza, anche sul piano civile, del comportamento contestato al M. a seguito della normativa introdotta nel 2002: la contestazione del comportamento omissivo o inveritiero nella predisposizione dei dati risultanti dal bilancio, accertato in via definitiva dal giudice penale, integrava un fatto ingiusto potenzialmente idoneo a provocare una lesione di interessi rilevanti sul piano civilistico e quindi a dar luogo al conseguente risarcimento (art. 2043 c.c.) indipendentemente dalla rilevanza del medesimo comportamento sul piano penale.

2.2 Quanto alla posizione del ricorrente R., si denuncia la violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 651, 652, 654 e 673 c.p.p. e artt. 2043, 2059 e 2697 c.c., poichè la sentenza impugnata aveva ritenuto vincolante per il giudice civile l'accertamento dei fatti contenuto nella sentenza penale, senza considerare che la fattispecie penale contestata era stata depenalizzata.

Risulta che egli fu prosciolto con la sentenza della Corte di Cassazione penale (n. 191 del 2001) dalla sola imputazione di cui al capo B (L. n. 195 del 1974, art. 7) perchè "il fatto non èprevisto dalla legge come reato" a seguito della entrata in vigore della D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, mentre furono confermate le condanne per gli altri reati, nonchè per le statuizioni civili. Dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, il R. chiese ed ottenne la revoca della sentenza di condanna ai sensi dell'art. 637 c.p.. Si tratta quindi di stabilire se tale provvedimento abbia in qualche modo inciso sulle statuizioni civili di cui alla sentenza di condanna definitiva.

Questa Corte, decidendo su fattispecie penale, ha ritenuto che "nell'ipotesi di revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis la perdita del carattere di illecito penale del fatto non comporta altresì il venir meno della natura di illecito civile del fatto medesimo, conseguendone che non deve essere revocata la sentenza relativamente alle statuizioni civili derivanti dal reato, le quali continuano a dar vita ad obbligazioni pienamente efficaci nei confronti della parte danneggiata" (Cass. penale, 20 dicembre 2005 n. 4266/06); nè al giudice dell'esecuzione, chiamato a pronunziarsi sulla revoca della sentenza di condanna, per sopravvenuta "abolitio criminis" a norma dell'art. 673 cod. proc. pen., è consentito di ricostruire la vicenda per cui vi è stata condanna in termini diversi da quelli definiti con la sentenza irrevocabile, nè di valutare i fatti in modo difforme da quanto ritenuto dal giudice della cognizione (Cass. penale 20 maggio 2002 n. 23243).

Si deve quindi concludere per l'avvenuto accertamento dell'evento lesivo, potenzialmente idoneo a causare un pregiudizio alle parti attrici, tale da giustificare il risarcimento a loro favore, indipendentemente dalla sopravvenuta non punibilità dei comportamenti contestati, esclusivamente sul piano penale sia nei confronti di M.F.P. che di R.C..

3. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione di legge (art. 2043 c.c., art. 185 c.p., art. 2697 c.c.) nonchè la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione alla esistenza di un nesso tra le pretese irregolarità nel bilancio con il preteso danno patrimoniale che sarebbe stato subito dai lavoratori.

La sussistenza del nesso di causalità tra la non veritiera rappresentazione della situazione patrimoniale ed economica del gruppo e il pregiudizio subito dai lavoratori nella quantificazione del premio "P.P.G." previsto dal contratto, sono stati oggetto di ampia trattazione da parte della sentenza impugnata, avuto riguardo sia agli accertamenti peritali effettuati nella fase di merito, sostanzialmente non contraddetti con specifiche e puntuali censure da parte dei ricorrenti, sia alle valutazioni della stessa Corte territoriale che ha dato conto della rilevanza civile degli illeciti contestati con motivazione congrua ed adeguata. Sul punto è stata richiamata anche la sentenza della Corte di Cassazione che definì il processo penale: "la condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale non esige e non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando impregiudicato l'accertamento riservato al giudice della liquidazione dell'esistenza e dell'entità del danno, senza che ciò comporti alcuna violazione del giudizio formatosi sull'an; nel caso concreto, l'attitudine pregiudizievole dei fatti addebitati agli imputati è stata - come rilevasi dal complesso delle considerazioni sin qui esposte - ben posta in evidenza dalla sentenza impugnata, anche se - come dovevasi - al solo fine di stabilire in astratto l'obbligo del risarcimento.

Vanno pertanto disattesi i motivi di ricorso che riflettono questo punto, che appaiono per il vero piuttosto attinenti al giudizio civile di liquidazione".

I giudici del merito, chiamati a decidere sulla quantificazione del danno in sede civile, hanno dato conto dei conteggi effettuati per determinare l'incidenza delle non veritiere indicazioni contenute nei bilanci del gruppo sulla quantificazione del premio retributivo legato all'andamento dei risultati conseguiti sul piano economico e finanziario: le critiche mosse dai ricorrenti si limitano a richiamare "la consulenza d'ufficio penale e la sentenza di primo grado penale", che avrebbero chiarito i motivi tecnico-contabili per i quali le pretese delle parti attrici non avrebbero avuto alcun rilievo nella determinazione del danno, senza alcuna ulteriore precisazione. Il motivo risulta in tale contesto inammissibile per la violazione: del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in base al quale questo deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a individuare le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti estranee allo stesso ricorso e quindi ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito (Cass. 13 luglio 2004 n. 12912, Cass. 11 giugno 2004 n. 11133, Cass. 15 aprile 2004 n. 7178, tra le altre; da ultimo, vedi Cass. 24 maggio 2006 n. 12362, Cass. 4 aprile 2006 n. 7825; Cass. 17 luglio 2007 n. 15952).

4. Con il quarto motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059, 1226 e 2697 c.c. e art. 185 c.p.c., nonchè la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione alla ritenuta riconoscibilità del danno morale sia per la mancanza di un accertamento del fatto ritenuto come reato, sia per l'intervenuta depenalizzazione della ipotesi criminosa contestata.

Si richiama quanto sopra osservato in relazione alla pronunzia del giudice penale che ha accertato con precisione e puntualità la responsabilità dei ricorrenti in ordine ai fatti generatori del danno, pur in assenza di una condanna; quanto alla configurabilità del danno non patrimoniale nella ipotesi di "abolitio criminis" della condotta già contestata come ipotesi di reato, si richiama l'orientamento giurisprudenziale secondo cui l'art. 2059 cod. civ., esaminato con una lettura costituzionalmente orientata, non disciplina un'autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella prevista dall'art. 2043 cod. civ., ma "regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto dell'esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 cod. civ." (Cass. 9 aprile 2009 n. 8703).

Come è noto le SS.UU., con quattro contestuali sentenze di contenuto identico (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 in data 11 novembre 2008), hanno di recente ritenuto che la norma di cui all'art. 2059 c.c., contiene principi informatori del diritto, come tali vincolanti anche nel giudizio di equità, da leggersi come norma che regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto dell'esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c., e cioè: la condotta illecita, l'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso.

In tale prospettiva la peculiarità del danno non patrimoniale viene individuata nella sua tipicità, avuto riguardo alla natura dell'art. 2059 cit., quale norma di rinvio ai casi previsti dalla legge (e, quindi, ai fatti costituenti reato o agli altri fatti illeciti riconosciuti dal legislatore ordinario produttivi di tale tipo di danno) ovvero ai diritti costituzionali inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria, con la precisazione, in quest'ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l'interesse leso e non il pregiudizio consequenzialmente sofferto e che la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave (e, cioè, superi la soglia minima di tollerabilità, imposto dai doveri di solidarietà sociale) e che il danno non sia futile (vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi o sia addirittura meramente immaginario).

Ciò precisato, si osserva che, nella specie, la sentenza impugnata ha fatto riferimento alla volontà manifestata dall'impresa e dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori che una parte della retribuzione fosse ancorata all'andamento del bilancio aziendale, nel convincimento che questo corrispondesse alla reale situazione economica e patrimoniale esistente. Il venir meno del rapporto di fiducia posto alla base di tale accordo, accertato attraverso l'indagine del giudice penale, integra secondo i giudici dell'appello quel perturbamento della sfera psichica dei lavoratori che integra il diritto al risarcimento anche di tale voce del danno.

Questa Corte ha del resto ripetutamente affermato il principio che la determinazione di una retribuzione adeguata ai criteri di proporzionalità e sufficienza stabili i dall'art. 36 Cost., corrisponde a quella prevista in via generale dalla contrattazione collettiva (Cass. 12 aprile 2000 n. 4714), precisando che anche in caso di contestazione della applicabilità del contratto collettivo, il giudice ben può avvalersi dei parametri retributivi recepiti dal contratto collettivo nazionale di lavoro per il settore produttivo al quale il lavoratore appartiene, ai fini della individuazione della retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e in ogni caso sufficiente ad assicurare allo stesso ed alla famiglia una esistenza libera e dignitosa (Cass. 19 maggio 1993 n. 5655). Il diritto alla retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva integra quindi un interesse che trova tutela espressa nella Costituzione e, in quanto tale, merita la speciale protezione assicurata dall'art. 2059 c.c..

La valutazione della corte territoriale appare congrua e si sottrae ad ogni censura di qualche rilievo nel presente giudizio di legittimità. 5. Con il quinto motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1226 e 2697 c.c., nonchè la incongrua, irrazionale e contraddittoria motivazione in relazione ai criteri seguiti per la quantificazione del danno morale. Il motivo di ricorso è infondato: nel criticare le motivazioni recepite dai giudici dell'appello, in relazione alla quantificazione del danno non patrimoniale, i ricorrenti si limitano a formulare una critica della decisione senza individuare specifiche valutazioni erronee o incongrue applicazioni dei canoni della logica: la motivazione assunta nella sentenza impugnata supera quindi in modo limpido il vaglio di legittimità demandato a questa Corte: secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite il giudice di legittimità ha non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico- giuridico posto a base della decisione. (Cass. SS.UU. 27 dicembre 1997 n. 13045).

I ricorsi meritano quindi il rigetto: segue la condanna delle parti ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.


P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Terza Civile, riunisce i ricorsi e li rigetta; condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.200,00 dei quali Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 5 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2009