CONCORDATO PREVENTIVO:
SOGGETTI E PRESUPPOSTO OGGETTIVO

 

 

 

La procedura di concordato preventivo è riservata all'imprenditore commerciale non piccolo, ivi compreso l'imprenditore cessato o defunto e le società di persone irregolari ed a coloro che possono accedere alla procedura di amministrazione straordinaria. Non sono soggetti i soci illimitatamente responsabili di società di persone e non sono state considerate le imprese di gruppo. Le novità più significative riguardano il presupposto oggettivo della procedura e più precisamente lo stato di crisi, che comprende anche l'insolvenza, senza essere stato definito dal legislatore, sì che si pone l'interrogativo se esso possa identificarsi con l'insolvenza reversibile, come si era affermato in passato per la temporanea difficoltà dell'amministrazione controllata, determinando problemi di non poco conto in materia di consecuzione di procedure concorsuali e di prededucibilità nel successivo fallimento dei crediti sorti in pendenza del concordato.

 

1. Nel riformare la disciplina del concordato preventivo, il legislatore non è intervenuto direttamente sui presupposti soggettivi di ammissibilità alla procedura. L'art. 1, primo comma, l. fall. è rimasto immutato (1). Esso stabilisce che sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori.

 

Il legislatore pertanto, sia per il fallimento che per il concordato preventivo, ha mantenuto ferma la regola per cui la procedura di applica soltanto all'imprenditore commerciale non piccolo, rimanendone esclusi i piccoli imprenditori (2), gli imprenditori agricoli, le società semplici, gli enti pubblici, le associazioni non riconosciute, i consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi (3). A tale proposito va tuttavia osservato che in passato la giurisprudenza ha ritenuto assoggettabili a fallimento associazioni non riconosciute e fondazioni in quanto esercenti un'attività commerciale. L'attuale disciplina del concordato preventivo, che prescinde da ogni valutazione di meritevolezza, sembra pertanto consentire l'estensione della procedura alle fondazioni ed associazioni non riconosciute, nei casi in cui abbiano esercitato un'impresa commerciale (4).

 

Sono certamente legittimate a proporre la domanda di concordato le società commerciali, a prescindere dall'effettivo esercizio di attività commerciale (5), le società in liquidazione, gli incapaci autorizzati all'esercizio dell'impresa, l'imprenditore cessato o defunto, purché non sia decorso l'anno dalla cessazione o dalla morte.

 

A questo proposito va sottolineato che la nuova disciplina del concordato preventivo, se è diretta a consentire la ristrutturazione dell'impresa e la prosecuzione dell'attività, eventualmente in capo ad un nuovo imprenditore, non considera tale prosecuzione come un requisito di ammissibilità alla procedura. L'art. 160, primo comma, richiede soltanto che la proposta di concordato sia redatta in base ad un piano che preveda la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma ovvero la cessione delle attività delle imprese interessate dalla proposta ad un assuntore. Ne deriva che il concordato è compatibile con l'attività di liquidazione.

 

Vigente la vecchia disciplina si era discusso sull'ammissibilità del concordato dell'imprenditore cessato o defunto. Si era osservato che il mancato richiamo degli artt. 10 e 11 l. fall. era prova dell'inapplicabilità di quella disciplina speciale al di fuori del fallimento. Si era aggiunto per l'imprenditore defunto che questi non avrebbe potuto sottoscrivere la domanda e provvedere agli altri adempimenti formali richiesti dall'art. 161 l. fall. Il concordato poi costituiva un beneficio per l'imprenditore e dunque non poteva essere accordato ad un defunto, non potendo venir disgiunto dall'intuitus legato alla sua persona (6).

 

In senso contrario si è convincentemente osservato che gli artt. 10 e 11 L.F. che consentono il fallimento dell'imprenditore cessato o defunto sono espressione di un principio più generale: la cessazione dell'attività o la morte dell'imprenditore, entro un certo periodo di tempo, non costituiscono motivo per non far luogo ad una procedura concorsuale. Il legislatore ha confermato la regola (art. 11 l. fall.) per cui l'erede può chiedere il fallimento del defunto purché l'eredità non si sia già confusa con il suo patrimonio. Quindi non vi sono motivi per escludere che anche la domanda di concordato possa essere presentata dall'erede. Il concordato è un rimedio previsto dalla legge per evitare il ricorso al fallimento, nell'interesse non soltanto del debitore, ma anche dei creditori, sì che si giustifica l'interpretazione più liberale.

 

A queste considerazioni si può aggiungere che il concordato dell'imprenditore defunto o cessato non è in contrasto con la nuova disciplina della procedura che, come s'è detto, non richiede necessariamente la prosecuzione dell'attività d'impresa (7). Si può anzi osservare che a seguito della riforma ci si può domandare se la regola dell'anno, stabilita per il fallimento dell'imprenditore cessato o defunto, debba applicarsi necessariamente anche nel caso di concordato. La circostanza che il concordato non costituisce più un beneficio per l'imprenditore e che la disciplina dettata dagli artt. 10 e 11 non sia ripetuta per la procedura minore, porta a ritenere che, nella ricorrenza degli altri requisiti possa farsi luogo al concordato anche quando sia decorso l'anno dalla cessazione dell'attività o dalla morte dell'imprenditore (8).

 

Si devono ritenere legittimate a proporre la domanda di concordato le imprese soggette alla liquidazione coatta amministrativa, anche se escluse dal fallimento (9).

 

E sono legittimate anche le imprese soggette alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, secondo la duplice disciplina dettata dal D.Lgs. 270/1999 e dal D.L. 347/2003 e successive modificazioni.

 

In passato il dibattito sull'ammissibilità per le imprese soggette ad amministrazione straordinaria del concordato preventivo, ancora regolato dalla vecchia disciplina, è stato piuttosto acceso. Si è osservato, in sostanza, che la procedura di amministrazione straordinaria è diretta alla prosecuzione dell'impresa nelle diverse forme previste dai due indirizzi alternativi individuati dall'art. 27 del D.Lgs. 270/99. Il programma di ristrutturazione consente il ripristino della solvibilità mediante il risanamento dell'attività che prosegue in capo al medesimo imprenditore; il programma di cessione dei complessi aziendali prevede il soddisfacimento dei creditori tramite il trasferimento in blocco del complesso produttivo. L'impresa prosegue ma in capo al cessionario, per cui si conserva l'impresa, ma muta l'imprenditore. Il vecchio concordato preventivo era invece una procedura liquidatoria, diretta soltanto ad assicurare il soddisfacimento dei creditori senza assicurare la conservazione dell'impresa. Ne derivava che, secondo una parte della dottrina, l'ammissione della grande impresa insolvente al concordato preventivo sarebbe stata incompatibile con le finalità di conservazione assicurate dall'amministrazione straordinaria (10).

 

Tali conclusioni si prestavano a serrate critiche. Se è vero che amministrazione straordinaria e vecchio concordato preventivo avevano in comune il presupposto oggettivo, rappresentato dallo stato d'insolvenza, il concordato si distingueva dall'amministrazione straordinaria per essere una procedura che poteva essere instaurata soltanto su istanza del debitore (11) e con la finalità di evitare lo spossessamento totale del patrimonio, proprio della procedura concorsuale maggiore. L'amministrazione straordinaria, inoltre, prevedeva necessariamente, in caso di esito negativo del programma di ristrutturazione o di cessione dei complessi aziendali, la dichiarazione di fallimento, attuando comunque il concorso dei creditori sul patrimonio dell'imprenditore, togliendo a quest'ultimo ogni potere in ordine all'amministrazione dell'impresa.

 

Insomma, com'è stato efficacemente osservato (12), nell'amministrazione straordinaria «...l'autorità amministrativa tiene ben saldo il timone del comando a fianco dell'autorità giudiziaria in posizione di tutore dei diritti dei creditori e...le parti (debitore e creditori) non hanno spazio di espressione».

 

Nel concordato preventivo il debitore non viene espropriato dell'impresa, conserva il potere di gestione e di disposizione dei beni, sia pur sotto il controllo dell'autorità giudiziaria e con alcuni vincoli per il compimento degli atti di straordinaria amministrazione. Ne deriva che, pur nella ricorrenza del medesimo presupposto oggettivo, lo stato d'insolvenza, il debitore deve essere ammesso a proporre il concordato perché tale soluzione gli consente di comporre la situazione d'insolvenza attraverso un accordo con i creditori, senza perdere la disponibilità del proprio patrimonio ovvero perdendola ma soltanto per il tramite di atti volontari di disposizione di tale patrimonio.

 

Soltanto quando tale soluzione non sia in concreto possibile o in caso d'inattività del debitore, perdurando l'insolvenza, può procedersi alla gestione coattiva dell'impresa da parte di altri soggetti, nell'ambito di una procedura giudiziaria. L'imprenditore insolvente ha ormai perso la proprietà in senso sostanziale dell'impresa, perché questa in realtà è ormai riferibile ai creditori. Il diritto dei creditori di essere soddisfatti giustifica l'azione esecutiva concorsuale e consente di superare il limite previsto dall'art. 42 Cost. che vieta l'espropriazione senza indennizzo. Le dimensioni dell'impresa comportano poi che la tutela dei creditori debba attuarsi nelle forme dell'indirizzo di ristrutturazione o di cessione dei complessi aziendali, sole compatibili con il salvataggio dell'impresa stessa. La liquidazione concorsuale rappresenta ancora un'alternativa, ma soltanto nel caso di insuccesso dell'indirizzo prescelto, insuccesso cui fa seguito la dichiarazione di fallimento.

 

Ma la tutela del diritto di proprietà in capo all'imprenditore insolvente consente che questi sia messo in condizione di proporre un accordo con i creditori, prima che si faccia luogo alla liquidazione concorsuale. Una ragione concorrente è rappresentata dalla convinzione del legislatore che una composizione tramite accordi con i creditori sia sempre più vantaggiosa che un intervento dirigistico eterodiretto.

 

Queste le ragioni che convincono dell'esistenza di un principio di gradualità (13) delle procedure concorsuali in forza del quale il tribunale non può, in presenza di una domanda di concordato, pronunciare direttamente sulla concorrente domanda diretta all'apertura della procedura maggiore.

 

Nel caso del nuovo concordato a queste considerazioni occorre ancora aggiungere che il presupposto della procedura minore non è necessariamente lo stato d'insolvenza, potendosi accedere anche in presenza dello stato di crisi (14). Ne deriva che il tribunale dovrà necessariamente esaminare la domanda di concordato preventivo prima di poter pronunciare sull'eventuale ricorso diretto all'apertura della procedura di amministrazione straordinaria (15).

 

Ancora proseguendo nell'esame dei soggetti legittimati a proporre la domanda di concordato va osservato che l'abolizione del requisito formale dell'iscrizione nel registro delle imprese da almeno due anni o dall'inizio dell'impresa se di minor durata, consente la proposizione della domanda da parte degli imprenditori non iscritti nel registro delle imprese nonché delle c.d. società irregolari. Premesso che di società irregolari può parlarsi soltanto con riferimento alle società di persone, perché per le società di capitali l'iscrizione nel registro ha carattere costitutivo, va detto che in passato la tesi favorevole alla legittimazione a proporre la domanda delle società irregolari era stata sostenuta da coloro (16) che muovevano dalla constatazione che l'iscrizione ha carattere dichiarativo e non costitutivo e funzione di pubblicità-notizia. La giurisprudenza si era prevalentemente espressa in senso contrario (17).

 

Alcune questioni in tema di legittimazione già dibattute nel vigore della vecchia disciplina non trovano soluzioni diverse nel nuovo regime rispetto a quelle generalmente accolte in passato.

 

Così è a dire per l'ammissibilità alla procedura dei soci illimitatamente responsabili. La giurisprudenza della Cassazione, sia pur con alcune incertezze, ha affermato che i soci illimitatamente responsabili non sono legittimati a proporre il concordato per quel che riguarda il loro patrimonio personale, pur beneficiando dell'effetto esdebitatorio del concordato della società per quanto concerne le obbligazioni sociali ai sensi dell'art. 184 l. fall. (18). Dal combinato disposto degli artt. 1 e 160 legge fallimentare risulta che soltanto gli imprenditori possono essere ammessi al concordato preventivo. Il socio illimitatamente responsabile non è imprenditore e di conseguenza non può accedere alla procedura. In senso contrario non può essere invocato l'art. 184, secondo comma, perché tale norma sancisce soltanto l'efficacia remissoria del concordato sociale anche per i soci, relativamente ai soli debiti sociali. L'art. 147 legge fallimentare non può fondare una diversa interpretazione, perché si tratta di norma eccezionale limitata al fallimento. Anche a voler giungere a conclusioni diverse, resterebbe il fatto che il legislatore non ha previsto alcun coordinamento tra la procedura di concordato della società e quella dei singoli soci, sia relativamente agli organi, sia al concorso dei creditori sociali e personali, sia riguardo alla possibilità che le diverse procedure abbiano esito diverso e si possa quindi avere il fallimento del socio senza far luogo al fallimento sociale.

 

Ne deriva che non soltanto i soci illimitatamente responsabili non possono accedere alla procedura, ma anche che il loro patrimonio personale resta estraneo al concordato. D'altra parte se i creditori personali del socio sono estranei alla procedura - conclusione questa che discende pacificamente dall'affermazione che il socio in quanto non imprenditore non può accedervi - essi non possono ritenersi vincolati al divieto di procedure esecutive che segue ad un procedimento cui essi rimangono estranei e nel quale non sono chiamati ad esprimere il proprio voto.

 

Resta che il compimento da parte del socio di atti di disposizione dei beni, ovvero la concessione di garanzie a favore dei creditori particolari, ovvero ancora la possibilità di azioni esecutive individuali da parte dei creditori personali sono elementi che costituiscono un rischio per i creditori sociali e che possono compromettere l'adempimento del concordato. Di ciò debbono tenere conto gli organi della procedura ed i creditori in sede di votazione. Non si tratta, tuttavia, di elementi che da soli siano sufficienti, per i rischi che ne derivano per i creditori, a giustificare la tesi contraria e quindi la legittimazione dei soci a chiedere il concordato per quanto concerne il loro patrimonio personale.

 

Avevamo osservato (19) che de iure condendo non sembrava dovesse essere mantenuta l'esclusione dal concordato preventivo dei soci illimitatamente responsabili, ovviamente nella sola ipotesi in cui vi fosse sottoposta la società. L'assoggettamento dei soci al concordato avrebbe comportato il concorso dei creditori sociali e personali secondo la clausola esdebitatoria e tutti i creditori avrebbero votato nella procedura relativa al socio, secondo l'ammontare dei loro crediti, nello stesso modo in cui concorrono nel fallimento ai sensi dell'art. 147 legge fallimentare. Si sarebbe evitata in tal modo la possibilità di atti di disposizione di beni da parte del socio in pendenza di concordato o di azioni esecutive dei creditori personali.

 

Il legislatore non ha tuttavia ritenuto di modificare la disciplina, sì che anche dopo la riforma deve ritenersi che i soci illimitatamente responsabili siano esclusi dal concordato, eccezion fatta per quanto concerne gli effetti esdebitatori del concordato della società in relazione alla loro responsabilità personale.

 

Il legislatore della riforma non ha affrontato il tema della disciplina della crisi d'impresa con riferimento ai gruppi di società, anche se nel corso dei lavori preparatori non erano mancate proposte sull'argomento (20). Tale omissione si è ripercossa anche sulla disciplina del concordato preventivo.

 

In proposito mantiene dunque validità la ormai consolidata giurisprudenza della Cassazione secondo la quale l'accertamento dell'insolvenza di un'impresa appartenente ad un gruppo va effettuato con esclusivo riferimento alla sua situazione economico patrimoniale, in ragione del principio dell'autonomia e della distinta personalità giuridica delle singole società (21). Va del resto segnalato che la giurisprudenza, in genere di merito, che con isolate pronunce ha affermato in taluni casi la possibilità di far luogo ad un'unica procedura riferibile a più società, non ha, in genere, messo in discussione il principio dell'autonomia giuridica e patrimoniale delle singole società e la necessità di procedere ad una separata liquidazione con riferimento a ciascuna massa attiva e passiva, sottolineando invece l'esigenza, indubbiamente reale, di un coordinamento dei procedimenti relativi ad ogni società del gruppo sia per quanto concerne l'identità degli organi ad essi preposti sia le esigenze di una comune gestione (22).

 

2. Il presupposto oggettivo per l'ammissione al concordato preventivo è mutato. Mentre in passato l'art. 160 l.fall. individuava tale presupposto nello stato d'insolvenza, ora il nuovo testo fa riferimento allo stato di crisi. Il secondo comma della norma, aggiunto dall'art. 36 del D.L. 30 dicembre 2005, n. 273, il c.d. decreto «milleproroghe», precisa che ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato d'insolvenza (23). Va sottolineato che, mentre il D.L. 35/2005 con cui è stata attuata la prima parte della riforma fallimentare ed è stata introdotta la nuova disciplina del concordato preventivo, manteneva la procedura di amministrazione controllata, il successivo D.Lgs. 5/2006 che ha completato l'intervento riformatore in attuazione della delega contenuta nella legge 80/2005, ha abrogato tale procedura. Scompare pertanto dal nostro ordinamento la nozione di temporanea difficoltà di adempiere contenuta nel vecchio testo dell'art. 187 l. fall.

 

Il riferimento allo stato di crisi anziché allo stato d'insolvenza muove dalla volontà del legislatore di anticipare le possibilità per l'imprenditore di porre rimedio alla situazione di difficoltà in cui versa l'impresa. È nozione di comune esperienza, mutuata dalle esperienze straniere, in particolare da quella americana, che ogni speranza di soluzione della crisi presuppone che non si attenda di essere di fronte ad una situazione di insolvenza irreversibile. Le operazioni di ristrutturazione presuppongono l'emersione tempestiva della crisi, quando ancora l'impresa è viva e vitale, prima cioè che sia venuto meno il credito, che i fornitori si siano rifiutati di mantenere ulteriori rapporti con l'imprenditore, che i dipendenti più qualificati abbiano cominciato a cercare un nuovo posto di lavoro.

 

Le analogie con la reorganisation americana spiegano bene perché si è fatto riferimento alla nozione di crisi. Nel Chapter 11 americano lo scopo è di «conservare il valore di una società a beneficio dei creditori», mantenendone il valore operativo inteso come differenza tra il valore dell'impresa come going concern e come impresa liquidata. L'impresa per essere riorganizzata richiede un apporto di denaro fresco, che non può venire dal debitore. In genere proviene dalle banche o dai creditori, almeno da quelli principali. Lo strumento è rappresentato dall'accordo con i creditori. Ma la reorganisation non è un istituto cui far ricorso in ultima istanza, dal debitore per risolvere i suoi problemi evitando il fallimento o dai creditori per ottenere il pagamento del dovuto. Si tratta invece di un dispositivo di pianificazione aziendale «perché dà ai creditori la possibilità, quando si trovano in situazioni di insolvenza finanziaria, di avviare la procedura...e usar[la] come modalità per risolvere [i] problemi operativi e finanziari» (24).

 

Nel diritto americano lo stato di crisi non è definito, perché non è molto importante stabilire a quali condizioni l'imprenditore può accedere alla procedura, posto che l'accesso è previsto nel suo stesso interesse. La situazione è diversa nel nostro ordinamento anche perché il concordato preventivo, pur avendo nelle finalità che il legislatore intendeva perseguire lo scopo di assicurare la prosecuzione dell'impresa tramite la sua ristrutturazione o la cessione a terzi, non esclude che l'accordo con i creditori abbia il più limitato fine di porre rimedio all'insolvenza, anche attraverso una semplice attività liquidatoria.

 

Per questo motivo il legislatore ha ritenuto di chiarire che lo stato di crisi e lo stato d'insolvenza non sono concetti incompatibili e che il primo ricomprende anche il secondo.

 

Tuttavia il legislatore, con una scelta molto discutibile, non ha ritenuto di definire in che cosa consista lo stato di crisi. Il testo c.d. di maggioranza elaborato dalla Commissione Trevisanato, a suo tempo istituita presso il Ministero della Giustizia, per elaborare un progetto di legge delega per la riforma delle procedure fallimentari, nel prevedere una procedura di crisi con caratteristiche non molto diverse, ancorché meglio definite, rispetto alla soluzione prescelta dal decreto legge 35/2005, definiva la crisi come la situazione patrimoniale, economica o finanziaria in cui si trova l'impresa, tale da determinare il rischio di insolvenza. Dal punto di vista del governo dell'economia può essere irrilevante o addirittura utile non definire la crisi, perché, come s'è detto, è improbabile che un imprenditore che non si trovi in difficoltà intenda accedere ad una soluzione di questo tipo per provvedere al pagamento dei suoi debiti (25). Potrebbe essere opportuno evitare che l'imprenditore possa essere ostacolato nell'accesso alla procedura dal fatto di non versare in una situazione sufficientemente compromessa, alla luce del parametro legislativo adottato. In tale ipotesi si rischierebbe di compromettere uno degli scopi della riforma: l'emersione anticipata delle situazioni di difficoltà, in un momento in cui le condizioni dell'impresa non sono irrimediabilmente alterate.

 

Tuttavia i principi costituzionali sanciti dagli artt. 42 e ss. Cost. comportano che in tanto il creditore dissenziente può essere assoggettato alla falcidia concordataria, con una sostanziale riduzione del suo credito, in quanto il presupposto che consente di derogare alla legge del contratto sia chiaramente definito. Ancora l'omessa definizione della crisi può comportare difficoltà per quanto concerne gli effetti della consecuzione delle procedure concorsuali, vicenda che, com'è noto, non era disciplinata dalla legge fallimentare prima della riforma (26) e che era stata ricostruita in via interpretativa dalla giurisprudenza sulla premessa dell'identità del presupposto oggettivo del fallimento e del concordato preventivo secondo la vecchia disciplina e sull'affermazione che la temporanea difficoltà di adempiere, che ai sensi dell'art. 187 l. fall. costituiva il presupposto dell'amministrazione controllata, non differisse ontologicamente dall'insolvenza e costituisse soltanto un diverso e minor grado del medesimo fenomeno.

 

Vi è di più. Il legislatore non ha coordinato la disciplina penale concorsuale con la riforma. Il testo della legge di conversione del D.L. 35/2005 originariamente approvato dal Senato conteneva, a dire il vero, nell'ambito della delega la riscrittura della disciplina penale, ma tale parte della riforma è stata successivamente soppressa dalla Camera perché riduceva eccessivamente le pene e con esse i termini di prescrizione, mettendo in pericolo l'effettiva punibilità dei reati concorsuali. L'art. 236 l. fall. estende la punibilità per i fatti di bancarotta fraudolenta agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società nel caso di concordato preventivo o di amministrazione controllata. La norma è stata oggetto di molte critiche in dottrina perché analogo trattamento sanzionatorio non è previsto per l'imprenditore individuale. A tali critiche si potrebbe aggiungere il rilievo che l'equiparazione del trattamento sanzionatorio in caso di fallimento e di concordato preventivo sarebbe ingiustificato ove il presupposto oggettivo di questa seconda procedura non fosse definito. Il problema sino ad oggi non si poneva per il concordato, fondandosi esso sul medesimo stato d'insolvenza che costituisce il presupposto del fallimento, e si poneva sicuramente in termini attenuati per l'amministrazione controllata, attesa la nota interpretazione giurisprudenziale cui già s'è fatto riferimento, che vedeva la temporanea difficoltà d'adempiere come un diverso grado del medesimo fenomeno, cioè dell'insolvenza.

 

La nozione di crisi è una nozione empirica, che trae spunto dalle discipline aziendalistiche. Essa, come s'è detto, comprende l'insolvenza secondo la nozione tradizionale offerta dall'art. 5 l. fall. rimasta immutata. Non si risolve, tuttavia, nell'insolvenza e si estende a situazioni di difficoltà di vario tipo, di carattere organizzativo o finanziario che rendono necessari interventi straordinari caratterizzati da un lato dall'accordo con i creditori, assistito in genere dall'apporto di finanza nuova, e dall'altro dallo «ombrello» rappresentato dal divieto di azioni esecutive. Si è detto, efficacemente, che con il termine crisi si individua quella situazione in cui l'imprenditore, pur facendo ancora fronte alle proprie obbligazioni, per cui non vi sono sintomi di insolvenza, sta tuttavia incontrando difficoltà, che possono essere ancora superabili attraverso un accordo con i creditori (27). Si è ricordata la definizione offerta dagli economisti per i quali la crisi è definita come «quel processo degenerativo che rende la gestione aziendale non più in grado di seguire condizioni di economicità a causa di fenomeni di squilibrio o di inefficienza, di origine interna o esterna, che determinano appunto la produzione di perdite, di varia entità che, a loro volta, possono determinare l'insolvenza che costituisce, più che la causa, l'effetto, la manifestazione ultima del dissesto (28). Insomma la crisi è un «fenomeno economico a fattori variabili» (29). Il legislatore ha mantenuto la scelta, già operata dal legislatore del 1942, di riferire la crisi, come già l'insolvenza, all'imprenditore e non all'impresa, consentendo quindi di configurare una procedura che può avere finalità conservative dell'impresa, anche a prezzo del suo trasferimento in capo ad un nuovo imprenditore e quindi con sacrificio del vecchio imprenditore, ovvero finalità anche soltanto liquidatorie.

 

Si può pertanto comprendere da un lato la difficoltà dell'interprete di offrire una definizione adeguata della nozione di crisi, per i casi che non si esauriscono nell'insolvenza, e dall'altro le prime risposte della giurisprudenza che offrono soluzioni di carattere descrittivo, che risentono delle peculiarità del caso concreto oggetto d'esame.

 

Secondo il Tribunale di Milano (30) lo stato di crisi, è una «condizione che solo eventualmente coincide con lo stato di dissesto, potendo al contrario limitarsi ad integrare la diversa situazione di difficoltà finanziaria non necessariamente prodromica allo stato di insolvenza». In un provvedimento di ammissione il Tribunale di Salerno (31) osserva invece che: «... la ricorrente è in un profondo ed irreversibile stato di crisi economica perché non è più in grado di realizzare il suo oggetto sociale, ma ha ancora un considerevole patrimonio ... ed ... ha dimostrato l'insussistenza dei sintomi tipici dell'insolvenza ...».

 

E il Tribunale di Roma (32), provvedendo dopo che il legislatore aveva precisato che lo stato di crisi comprende lo stato d'insolvenza, ha affermato che «Il presupposto della crisi ... è riconducibile ex art. 36 del D.L. 30 dicembre 2005, n. 273 ad un concetto d'ampiezza maggiore rispetto all'insolvenza, comprendente, a differenza di questa, tanto l'insolvenza irreversibile - vera e propria - quanto l'insolvenza reversibile.

 

Da queste pronunce giurisprudenziali emerge la difficoltà dell'interprete nell'individuare una nozione che il legislatore non definisce con chiarezza. Il punto di riferimento finisce sempre con l'essere lo stato d'insolvenza, in considerazione del fatto che lo stato di crisi, pur comprendendo in sé anche l'insolvenza, non si esaurisce in essa. Quest'ultimo si contrappone da un lato alla situazione di buona salute dell'impresa e dall'altro allo stato d'insolvenza inteso come incapacità di far fronte alle proprie obbligazioni con mezzi ordinari. Certamente lo stato di crisi non richiede l'esteriorizzazione, postulata invece dall'art. 5, secondo comma, l. fall. e si traduce in un novero non definito di situazioni di difficoltà che possono avere le origini più diverse, di carattere patrimoniale o gestionale o ancora esclusivamente finanziario.

 

Ci pare allora ragionevole la definizione proposta da autorevole dottrina, secondo la quale lo stato di crisi è «verosimilmente comprensivo tanto dell'insolvenza vera e propria quanto di situazioni ad essa prodromiche o finitime, ma che insolvenza ancora non sono e che, verosimilmente, dovrebbero distinguersi sul piano di un loro possibile superamento, sia pure attraverso provvedimenti straordinari di riorganizzazione e ristrutturazione del debito» (33). Altri (34) ha osservato che la crisi non è definita dal legislatore che ha preso a prestito una nozione di carattere aziendale e che di conseguenza «crisi può essere qualsiasi situazione di disagio, di difficoltà che necessiti di misure. È sempre uno stato ...del quale non si analizzano le cause, perché sono irrilevanti, e le componenti ...lo stato di crisi può essere stato d'insolvenza, crisi di liquidità, crisi economica. Pare lecito pensare che tale vaghezza voglia consentire l'utilizzo della procedura a imprese che si trovino in situazioni differenti di crisi, più o meno radicate, più o meno gravi, sicuramente a varia tipologia... crisi non sarebbe identificabile né con lo stato d'insolvenza né con temporanea difficoltà, perché essa comprende tali stati, ma non si esaurisce con essi.»

 

Non sembra, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale di Roma nel provvedimento prima citato, che lo stato di crisi possa essere assimilato all'insolvenza reversibile, secondo le linee seguite dalla giurisprudenza e dalla dottrina nell'interpretazione della nozione di temporanea difficoltà prevista dall'art. 187 l. fall. vecchio testo, quale presupposto dell'ormai abrogata procedura di amministrazione controllata. La distinzione tra insolvenza reversibile ed irreversibile poggiava infatti sul rilievo che l'imprenditore in temporanea difficoltà di adempiere è comunque incapace di adempiere e che le sue condizioni si distinguono da quelle dell'imprenditore insolvente perché si tratta di situazione transeunte, destinata a trovare rimedio attraverso un intervento di risanamento che la vecchia disciplina collocava nell'ambito della procedura di amministrazione controllata.

 

Ora, se è vero che l'insolvenza reversibile non è altro che un grado diverso di un fenomeno, l'insolvenza, ontologicamente unico e che, nel caso di fallimento successivo all'amministrazione controllata, la consecuzione delle procedure concorsuali e la retrodatazione degli effetti oltre che la prededuzione nel successivo fallimento dei crediti sorti in pendenza e per effetto della prima procedura, trovano fondamento nella constatazione che l'esito negativo della procedura minore dimostra che quella che in origine era considerata insolvenza reversibile era in realtà irreversibile, tale conclusione non pare giustificarsi nel caso dello stato di crisi.

 

Se infatti tale stato riguarda un vasto coacervo di situazioni, di varia genesi e gravità, accomunate soltanto dal fatto di richiedere un intervento straordinario che poggia sul consenso dei creditori e sulla sospensione delle azioni esecutive, sembra evidente che esso comprenderà anche casi in cui difettano comunque le condizioni dell'insolvenza reversibile. Si pensi all'ipotesi in cui l'imprenditore, che può comunque porre rimedio alle difficoltà cedendo l'azienda ad un concorrente, preferisca tentare la strada del concordato per conservare la titolarità dell'impresa.

 

Va poi sottolineato che il venir meno dell'unicità del presupposto oggettivo del fallimento e del concordato preventivo esclude che il tribunale, in caso di esito negativo del concordato, possa far luogo in via automatica al fallimento, secondo la previsione dell'art. 173 l. fall. Non è soltanto questione del fatto che con la riforma è venuto meno il potere d'iniziativa d'ufficio del giudice per la dichiarazione di fallimento, ma che l'esito negativo del concordato non significa necessariamente che si configuri uno stato d'insolvenza vero e proprio o, in altri termini, una crisi irreversibile.

 

Il venir meno dell'unicità del presupposto oggettivo del fallimento e del concordato preventivo comporta che diviene difficile (35) considerare unitariamente le due procedure ed affermare, così come sino ad oggi sostenuto dalla giurisprudenza (36) nel caso di successione tra amministrazione controllata e fallimento, che la seconda procedura condivide della prima gli elementi imprescindibili, quello soggettivo e, soprattutto, quello oggettivo, rappresentato dall'impossibilità dell'imprenditore di far fronte con puntualità alle sue obbligazioni, elemento che in primo momento è stato valutato erroneamente come fatto solo temporaneo, con un giudizio che si è invece rivelato errato (37).

 

È vero peraltro che la giurisprudenza sarà tentata di applicare il principio post hoc, ergo propter hoc affermando che quella che in origine era stata qualificata come semplice crisi, in realtà aveva tutte le stigmate dell'insolvenza irreversibile, tant'è che al concordato ha fatto seguito il fallimento. Sul piano generale, tuttavia, occorre osservare che alla luce dei parametri attualmente seguiti dalla giurisprudenza l'interprete dovrà verificare se il presupposto di ammissione al concordato preventivo, costituito dallo stato di crisi, integri gli estremi dell'insolvenza.

 

Non pare invece che possa costituire ostacolo al riconoscimento della prededuzione e della consecuzione delle procedure la giurisprudenza che sino ad oggi ha negato tali effetti nel caso di successione del fallimento al concordato preventivo in ragione del carattere liquidatorio di tale procedura (38). Anche se, come s'è detto, il nuovo concordato non prevede come requisito indispensabile che la proposta sia diretta ad assicurare la prosecuzione dell'attività d'impresa, resta che tale sarà normalmente l'ipotesi ricorrente e già oggi la giurisprudenza ammette la consecuzione quando la prosecuzione dell'attività costituisce un tassello essenziale della proposta concordataria (39).

 

Va peraltro osservato che questi rilievi si fondano sulla giurisprudenza formatasi prima dell'entrata in vigore della riforma. Per quel che concerne la prededuzione nel successivo fallimento dei crediti maturati in pendenza del concordato occorre ora tener conto di quanto stabilito dal secondo comma dell'art. 111 l. fall., introdotto dalla riforma, che definisce come prededucibili «i crediti sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge», oltre che quelli espressamente qualificati come tali dalla legge.

 

Sembra quindi, sia pur con tutte le precauzioni che impone l'interpretazione di una norma nuova, sulla quale non esiste ancora giurisprudenza, che la nozione di prededuzione accolta dal legislatore sia più ampia di quella cui ha fatto riferimento in passato la giurisprudenza. La nozione di occasionalità e funzionalità della causa genetica del credito con una delle procedure concorsuali previste dalla legge fallimentare sembra prescindere, nel caso di successione di procedure, dall'unicità del presupposto oggettivo. Sembra sufficiente che il credito sia sorto non soltanto in funzione della procedura preesistente (ad esempio le spese di procedura), ma addirittura in un rapporto di occasionalità che può identificarsi con una mera contestualità cronologica.

 

Ciò che rileva, in altri termini, è che per effetto della sospensione delle azioni esecutive e del divieto di pagamenti per debiti anteriori oltre che dello spossessamento attenuato da cui è colpito il debitore per effetto dell'ammissione alla procedura minore, si determina un vincolo di conservazione sul patrimonio dell'imprenditore che non può che tornare a vantaggio dei creditori nel successivo fallimento, pur nel parziale mutamento del presupposto oggettivo del concordato rispetto al fallimento. Il carattere concorsuale della procedura rappresenta l'elemento unitario che consente di affermare che anche le spese ed i debiti contratti nel corso della prima procedura sono stati sostenuti nell'interesse dei creditori e meritano pertanto di essere soddisfatti in via prioritaria, alla pari di quelli sorti in occasione o in funzione del fallimento.

 

3. Un ultimo ordine di considerazioni riguarda gli effetti della modifica del presupposto oggettivo del concordato preventivo per quanto concerne la disciplina concorsuale comunitaria.

 

Il Regolamento comunitario 1346/2000 in materia di insolvenza transfrontaliera prevede una procedura concorsuale principale con efficacia in tutti i Paesi membri della comunità che si apre nel Paese in cui si trova il centro degli interessi principali del debitore e procedure secondarie che possono essere aperte nei Paesi in cui il debitore possiede una dipendenza, intesa come «qualsiasi luogo di operazioni in cui il debitore esercita in maniera non transitoria un'attività economica con mezzi umani e con beni» (art. 2, lett. h). Gli effetti di tale ultima procedura sono limitati ai beni del debitore che si trovano nel territorio dello Stato in cui è aperta la procedura secondaria.

 

L'art. 1 del Regolamento ne circoscrive l'applicazione «alle procedure concorsuali fondate sull'insolvenza del debitore che comportano lo spossessamento parziale o totale del debitore stesso e la designazione di un curatore». L'art. 2, lett. a) precisa che per procedura d'insolvenza s'intendono «... le procedure concorsuali di cui all'articolo 1» ed aggiunge che l'elenco di tali procedure figura nell'allegato A al regolamento.

 

L'allegato A comprende tra le procedure d'insolvenza per l'Italia il fallimento, il concordato preventivo, la liquidazione coatta amministrativa, l'amministrazione straordinaria, l'amministrazione controllata.

 

È stato osservato che poiché, a seguito della riforma, è mutato il presupposto oggettivo del concordato preventivo, questa procedura potrebbe essere contestata come procedura principale, in quanto non sarebbe più fondata sull'insolvenza (40). Tale conclusione, in realtà, non pare condivisibile alla luce della disciplina attuale perché non pare che il giudice straniero abbia il potere di sindacare il contenuto e la portata della pronuncia del giudice che apre la procedura principale, dovendosi limitare a verificare che essa rientri nella previsione del regolamento. L'art. 16, primo e secondo comma, del Regolamento stabilisce infatti che la decisione di apertura della procedura di insolvenza da parte di un giudice di uno Stato membro, competente in virtù dell'articolo 3, è riconosciuta in tutti gli altri Stati membri non appena essa produce effetto nello Stato in cui la procedura è aperta. Tale disposizione si applica anche quando il debitore, per la sua qualità, non può essere assoggettato a una procedura di insolvenza negli altri Stati membri.

 

Nella recente decisione sul caso Eurofood (41) la Corte di Giustizia europea ha sottolineato che la disciplina dettata dall'art. 3, primo comma, del regolamento, comporta che la competenza del giudice di uno Stato membro ad aprire la procedura d'insolvenza principale possa essere verificata soltanto da questo giudice, secondo il criterio della fiducia reciproca, per cui i giudici degli altri Stati membri debbono riconoscere la decisione di apertura di una procedura di insolvenza principale, senza poter controllare la valutazione effettuata dal primo giudice relativamente alla propria competenza. Gli unici mezzi di impugnazione contro la decisione che una parte assuma errata sono dati dal diritto nazionale dello Stato cui appartiene il giudice che ha pronunciato la decisione contestata.

 

L'art. 26 del Regolamento prevede che uno Stato membro possa rifiutarsi di riconoscere una procedura di insolvenza aperta in un altro Stato membro qualora tale riconoscimento possa produrre effetti palesemente contrari al suo ordine pubblico, in particolare ai suoi principi fondamentali o ai diritti e alle libertà personali sanciti dalla sua Costituzione.

 

Ne deriva che sino a quando il concordato preventivo rientra nell'ambito delle procedure previste dall'allegato A al Regolamento, il giudice di uno Stato membro dell'Unione europea non dovrebbe poter rifiutare il riconoscimento quale procedura principale del concordato preventivo aperto in Italia, ciò quantomeno sino a quando non intervenga la revisione delle procedure contemplate nell'allegato, nelle forme previste dall'art. 46 del Regolamento, vale a dire con deliberazione del Consiglio dell'Unione Europea, su proposta di uno Stato membro o della Commissione.

 

Va poi aggiunto che l'art. 1 del Regolamento prevede che esso si applichi alle procedure concorsuali fondate sull'insolvenza, ma che l'Allegato A comprende tra le procedure principali anche l'amministrazione controllata, oggi abrogata. Ne deriva che la nozione d'insolvenza non può essere desunta dal diritto interno italiano ed in particolare dall'art. 5 l. fall., tant'è che l'Allegato prevede anche l'amministrazione controllata che si fondava non sull'insolvenza in senso proprio, ma sulla temporanea difficoltà di adempiere, assimilata dalla giurisprudenza italiana all'insolvenza (sia pur reversibile) soltanto sul piano interpretativo.

 

Si è visto che la nozione di crisi, oggi posta a fondamento del nuovo concordato preventivo, comprende l'insolvenza e situazioni che, in molti casi anche se non in tutti, possono rientrare nell'ambito della nozione di insolvenza reversibile. Sembra quindi estremamente difficile che il giudice di uno Stato membro possa sindacare il contenuto della decisione del giudice italiano al punto di verificare se nel caso concreto effettivamente sussista lo stato d'insolvenza.

 

Autore: Luciano Panzani - Fonte: Fallimento, 2006, 9, 1009

 

Note:

 

(1) L'art. 160, primo comma, l. fall. fa genericamente riferimento allo «imprenditore che si trova in stato di crisi». La norma peraltro riproduce per questa parte il vecchio testo dell'art. 160 che parlava di «imprenditore che si trova in stato d'insolvenza». In realtà, come è detto nel testo, il presupposto soggettivo della procedura è definito dall'art. 1 della legge fallimentare e non dall'art. 160. In questo senso cfr. anche S. Pacchi, Il nuovo concordato preventivo, Milano, 2006, 26.

 

(2) Non è questa la sede per un commento alla nuova nozione di piccolo imprenditore offerta dall'art. 1 legge fall. nel testo novellato dal D.Lgs. 5/2006. I problemi che la nuova definizione di piccolo imprenditore offre sono infatti i medesimi sia in caso di concordato che di fallimento, sì che giova rinviare alle trattazioni specifiche riferite a tale ultima fattispecie. Sull'argomento si vedano: G. Cavalli, La dichiarazione di fallimento: presupposti e procedimento, in La riforma della legge fallimentare a cura di S.Ambrosini, Bologna, 2006, 7; U. De Crescienzo - E. Mattei - L. Panzani, La riforma organica delle procedure concorsuali, Milano, 2006; G. Fauceglia, Sull'estensione dei soggetti esonerati, in questa Rivista, 2005, 990.

 

(3) G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2002, 159 ed ivi ulteriori citazioni di dottrina.

 

(4) Cfr. in giurisprudenza per l'assoggettabilità a fallimento Trib. Napoli 17 luglio 1995, in questa Rivista, 1996, 297. Cfr. anche Trib. Roma 6 aprile 1995, in Dir. fall., 1995, II, 719; Trib. Treviso 25 marzo 1994, ivi, 1995, II, 719. Per quanto concerne il fallimento di una fondazione cfr. Trib. Milano 16 luglio 1998, in questa Rivista, 1999, 449 con nota di L.A. Russo, Può fallire una fondazione (impresa)?

 

Per il fallimento dei consorzi con attività esterna cfr. Trib. Saluzzo 3 giugno 2002, in questa Rivista, 2003, 209 con nota di Scicolone.

 

(5) Cfr. G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, cit. In giurisprudenza cfr. Cass. 22 febbraio 1999, n. 1479, in questa Rivista, 1999, 1021.

 

(6) Lo Cascio, Il concordato preventivo, cit. 162 ed ivi ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza.

 

(7) In senso opposto si è espresso con riferimento alla nuova disciplina Trib. Pescara 20 ottobre 2005, in questa Rivista, 2006, 56. In sintesi il Trib. Pescara osserva che: a) per le società la cancellazione dal registro delle imprese comporta l'impossibilità di presentare la domanda di concordato per il venir meno dei loro organi; b) la nuova disciplina del concordato presupporrebbe l'attualità dell'attività d'impresa; c) gli artt. 10 e 11 l.fall. avrebbero natura eccezionale e non sarebbero suscettibili di applicazione analogica al concordato preventivo, in ragione del diverso presupposto oggettivo di tale procedura rispetto al fallimento.

 

(8) In senso contrario, nel vigore della vecchia disciplina, cfr. Cass. 25 ottobre 1979, n. 5592, in questa Rivista, 1980, 478.

 

(9) G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, cit. 159 ed ivi ulteriori riferimenti dottrinali.

 

(10) Tale tesi era stata sostenuta soprattutto con riferimento alla vecchia amministrazione straordinaria regolata dalla legge Prodi (legge 95/1979). Tale impostazione sembrava ormai superata con il nuovo sistema introdotto dal D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270. Infatti, argomentando dall'art. 3, secondo comma, del decreto legislativo, si poteva affermare che non sussistevano motivi di incompatibilità, dato che tale norma disponeva che il tribunale dichiara lo stato d'insolvenza anche quando si dovrebbe procedere «alla dichiarazione di fallimento di un'impresa ammessa alla procedura di concordato preventivo o d'amministrazione controllata». L'avanzare sempre più deciso della c.d. interpretazione evolutiva del concordato preventivo, che in una visione più attuale dell'istituto consentiva di reputare il medesimo come uno strumento che può assolvere a finalità conservative essendo compatibile con esso la prosecuzione dell'attività d'impresa, faceva ritenere, in questa ottica, che il concordato non fosse inconciliabile con l'apertura dell'amministrazione straordinaria e che fosse, quindi, ammissibile il passaggio dall'una, all'altro. In questo senso E. Frascaroli Santi, Brevi note sull'evoluzione interpretativa del concordato preventivo, in questa Rivista, 2003, 121. Nello stesso senso G. Alessi, La riforma dell'amministrazione straordinaria, ivi, 1998, 113.

 

(11) A dire il vero anche l'amministrazione straordinaria nelle forme regolate dal D.L. 347/03 e successive modificazioni è accessibile soltanto su istanza del debitore. Rimangono tuttavia rispetto al concordato preventivo gli altri caratteri distintivi indicati nel testo.

 

(12) S. Pacchi, Il nuovo concordato preventivo, Milano, cit., 32.

 

(13) S. Pacchi, Il nuovo concordato preventivo, Milano, cit. 32.

 

(14) Su tale nozione cfr. infra.

 

(15) Quanto sin qui osservato non considera che l'art. 2 del D.L. 347/03 prevede che «L'impresa che si trovi nelle condizioni di cui all'articolo 1 può richiedere al Ministro delle attività produttive, con istanza motivata e corredata di adeguata documentazione, presentando contestuale ricorso per la dichiarazione dello stato di insolvenza al tribunale del luogo in cui ha la sede principale, l'ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria, tramite la ristrutturazione economica e finanziaria di cui all'articolo 1». Ne deriva che il Ministro pronuncia sull'istanza di amministrazione straordinaria senza sapere se è pendente ricorso per l'ammissione al concordato preventivo e senza che quest'ultimo possa prevalere, posto che sulle due domande sono chiamati a provvedere nell'un caso il Ministro e nell'altro il tribunale.

 

Poiché però entrambe le istanze promanano dal debitore, le possibilità di contrasto effettivo sono minime.

 

(16) Cfr. G. Marasà - C. Ibba, Il registro delle imprese, Torino, 1997, 239.

 

(17) Cass. 6 ottobre 2000, n. 13322, in questa Rivista, 2001, 73 con nota di M. Ferro; Cass. 6 marzo 1993, n. 2747, in Giust. civ., 1993, I, 1819 con nota di G. Lo Cascio.

 

(18) In questo senso da ultimo Cass. 30 agosto 2001, n. 11343, in questa Rivista, con nota di L. Panzani, Ammissibilità al concordato preventivo dei soci illimitatamente responsabili. In precedenza la Cassazione aveva sostenuto la tesi contraria affermando che potevano essere ammessi al concordato i soci che ne facessero richiesta. Ciò in base alla considerazione che se i soci erano soggetti a fallimento senza essere imprenditori commerciali, da tale situazione non poteva loro derivare un trattamento deteriore in caso di concordato. Ed aveva ravvisato tale trattamento deteriore nel fatto che pendente il concordato, essi sarebbero rimasti soggetti alle azioni esecutive dei creditori individuali, con conseguente difficoltà od impossibilità di far fronte con il loro patrimonio alle obbligazioni concordatarie della società. Da tale situazione sarebbe potuto derivare il fallimento della società e loro personale. Cfr. Cass. 15 dicembre 1970, n. 2681, in Dir. fall., 1971, II, 167; Cass. 17 dicembre 1981, n. 6677, in questa Rivista, 1982, 243. Si veda anche Trib. Macerata 7 gennaio 1986, ivi, 1986, 897.

 

In seguito peraltro la Cassazione aveva mutato opinione, giungendo a conclusioni sostanzialmente conformi a quelle poi sostenute da Cass. 11343/01: Cass. 1° luglio 1992, n. 8097, in questa Rivista, 1993, 27. Cfr. anche in precedenza Cass. 3 aprile 1987, n. 3229, in Giust. civ., 1988, I, 751 con nota di Lo Cascio, Concordato preventivo e soci illimitatamente responsabili.

 

Ancora una volta peraltro la Cassazione aveva mutato orientamento nel 1995, ma non completamente. Essa infatti aveva escluso che i soci potessero essere ammessi alla procedura di concordato preventivo, affermando nel contempo che nel concordato con cessione dei beni l'ammissione della società comportava l'obbligo di vincolare il patrimonio personale al soddisfacimento dei creditori sociali. Cfr. Cass. 29 novembre 1995, n. 12405, in Giust. civ., 1996, I, 1361 con nota contraria di Lo Cascio; in questa Rivista 1996, 541 con nota di Naldini, Responsabilità diretta di soci nel concordato con cessione dei beni.

 

(19) L. Panzani, Ammissibilità al concordato preventivo dei soci illimitatamente responsabili, cit.

 

(20) Sul punto rimandiamo alle osservazioni di F. Guerrera, Il fallimento delle società nella riforma. Prime osservazioni, in http://dottrinaediritto. ipsoa.it/home.jsp.

 

(21) Cass. 11 novembre 1992, n. 12114, in questa Rivista, 1993, 367; Cass. 16 luglio 1992, n. 8656, ivi, 1993, 247; Cass. 7 luglio 1992, n. 8271, ivi, 1993, 33; Cass. 14 aprile 1992, n. 4550, ivi, 1992, 811. Sull'argomento si vedano per il passato F. Abate, I gruppi d'impresa: problemi di diritto sostanziale e concorsuale, Atti del seminario di studi di diritto commerciale del Consiglio Superiore della Magistratura, Frascati, 14-18 marzo 1994; U. Apice, La disciplina dell'insolvenza nel gruppo di imprese, in Impresa, 1996, 238; M. Fabiani, Il gruppo di imprese nella sentenza di omologazione del concordato preventivo, in questa Rivista, 1998, 292; Id., Il gruppo di imprese nel fallimento e nelle procedure concorsuali minori, ivi, 1995, 493; Panzani, Insolvenza e gruppi di società, Atti del convegno di Treviso 10-12 giugno 1994 sul tema: Imprenditore indagato e società insolventi, in questa Rivista, 1995, 565.

 

(22) Sul punto si vedano gli esempi riportati da G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2002, 175.

 

(23) Sono quindi superate le tesi dottrinali e giurisprudenziali che sostenevano che lo stato di crisi non comprendesse lo stato d'insolvenza. Trib. Modena, decreto di omologazione 14 ottobre 2005, inedito, citato da G. Jachia, Rassegna di giurisprudenza sul nuovo concordato preventivo, in questa Rivista, 2006, 838, che riteneva, prima della modifica normativa, che la soglia minima per accedere alla procedura di concordato preventivo dovesse essere individuata nella «insolvenza non irreversibile», nel presupposto che aveva un tempo l'amministrazione controllata. Nel senso dell'esclusione dal nuovo concordato preventivo dell'imprenditore insolvente Trib. Treviso 15 luglio 2005, decr., ivi, 2006, 63.

 

Sul punto si vedano i rilievi di A. Patti, I diritti dei creditori nel nuovo concordato preventivo, in La tutela dei diritti nella riforma fallimentare - Scritti in onore di G. Lo Cascio a cura di Fabiani e Patti, Milano, 2006, 276. Cfr. anche G. Bozza, Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato, in questa Rivista, 2005, 954.

 

(24) C.G. Case, Crisi dell'impresa e risanamento: la soluzione americana, in U. De Crescienzo - L. Panzani, Il nuovo diritto fallimentare, Milano, 2005, 124.

 

(25) Vi potrebbe essere un margine per tentativi fraudolenti in danno dei creditori da parte di un imprenditore in bonis che in realtà è perfettamente in grado di far fronte ai suoi debiti, ma è da ritenere che i controlli affidati agli organi della procedura dovrebbero rendere poco probabili casi di questo genere.

 

(26) L'art. 111, secondo comma, nuovo testo l. fall. dispone ora che sono considerati crediti prededucibili quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge.

 

(27) G. Bozza, Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato, cit., 955.

 

(28) Guatri, Crisi e risanamento d'impresa, Milano, 1986, 39, citato da G. Bozza, Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato, cit., 955.

 

(29) Ancora G. Bozza, Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato, cit., 955.

 

(30) Trib. Milano decreto n. 12/05, 27 ottobre 2005, rinvenibile in http://joomla.portaleaste.info/file/convegno2005/TMilanoFormulasport7.11.05. pdf, citato da G. Jachia, Rassegna di giurisprudenza sul nuovo concordato preventivo, cit.

 

(31) Trib. Salerno 1 giugno 2005, decr., in questa Rivista, 2005, 129.

 

(32) Trib. Roma decreto 2 febbraio 2006, R. G. n. 80635/2005, citato da G. Jachia, Rassegna di giurisprudenza sul nuovo concordato preventivo, cit.

 

(33) G. Cavalli, La dichiarazione di fallimento: presupposti e procedimento, cit., 31.

 

(34) S. Pacchi, Il nuovo concordato preventivo, cit., 62.

 

(35) In questo senso S. Pacchi, Il nuovo concordato preventivo, cit., 62. Sul punto si vedano anche le osservazioni di S. Bonfatti, La disciplina dell'azione revocatoria, Milano, 2005, 189. Per G. Bozza, Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato, in questa Rivista, 2005, 960, la differenza tra la nozione di crisi e quella d'insolvenza imporrebbe al tribunale, al momento della dichiarazione di fallimento che faccia seguito al concordato, di accertare se lo stato di crisi preesistente avesse i caratteri dell'insolvenza irreversibile. Tale verifica è peraltro impossibile perché il legislatore non ha ripreso il sistema di retrodatazione dei pagamenti previsto dal codice di commercio. Né può sostenersi la retrodatazione del periodo sospetto in base alla distinzione tra insolvenza reversibile ed irreversibile cui si è fatto ricorso per ammettere la consecuzione tra amministrazione controllata e fallimento, perché tra crisi ed insolvenza non sussiste lo stesso rapporto di identità concettuale che corre tra momentanea difficoltà di adempiere ed insolvenza irreversibile.

 

(36) La Suprema Corte riconosce ai debiti regolarmente contratti durante l'amministrazione controllata cui segue il fallimento, la prededucibilità basandosi essenzialmente sul presupposto che sono stati posti in essere per la continuazione dell'attività e l'eliminazione del dissesto (Cass. 28 luglio 1999, n. 8164, in questa Rivista, 2000, 862; Cass. 17 giugno 1995, n. 6852, ivi, 1996, 48).

 

(37) Così testualmente per quanto concerne la successione tra amministrazione controllata e fallimento Cass. 16 aprile 2003, n. 6019, in tema di retrodatazione del periodo sospetto ai fini dell'azione revocatoria.

 

(38) La Cassazione ha escluso per lungo tempo la prededucibilità nel successivo fallimento dei crediti sorti in pendenza di concordato preventivo: cfr. Cass. 14 luglio 1997, n. 6352, in questa Rivista, 1998, 177. Di recente si è invece ammessa la prededucibilità almeno nelle ipotesi in cui la prosecuzione della attività d'impresa sia considerata un tassello essenziale della proposta concordataria. Cfr. Cass. 5.8.1996, n. 7140, in questa Rivista, 1997, 269 con nota di M. Fabiani, Somministrazione e prededuzione: chiusura con spiragli nel concordato preventivo;; Cass. 12 marzo 1999, n. 2192, ivi, 2000, 370 con nota di G. Rago, Prededucibilità nel fallimento dei debiti contratti durante il C.P.

 

(39) Si veda la giurisprudenza citata alla nota precedente.

 

(40) In questo senso, in senso dubitativo, M. Ferro, I nuovi strumenti di regolazione negoziale dell'insolvenza e la tutela giudiziaria delle intese fra debitore e creditori: storia italiana della timidezza competitiva, in questa Rivista, 2005, 587 e ss. Si veda anche S. Pacchi, Il nuovo concordato preventivo, Milano, 2006, 63.

 

(41) Corte Giustizia 2 maggio 2006 in causa C-341/04, Eurofood IFSC Ltd.