DILIGENZA E COLPA
NELL’ESECUZIONE DEL CONTRATTO DI APPALTO


SOMMARIO:

1. Il tipo contrattuale "appalto" quale contratto ad esecuzione "critica".
2. La garanzia dell’appaltatore e le "modifiche" del rapporto per vizi e difetti cosiddetti lievi.
3. L’azione del committente per vizi e difetti cosiddetti lievi. Denuncia e riconoscimento degli stessi.
4. Correzione dei vizi progettuali e diligenza professionale dell’appaltatore.
5. Vizi e difetti dell’opera immobiliare. La norma dell’art. 1669 c.c. ed i suoi riscontri in Francia e Germania.
6. Il fondamento e la natura della responsabilità dell’appaltatore ex art. 1669 cod. civ.
7. Le figure del venditore/ costruttore, del committente/gestore e della cooperativa edilizia.
8. La nozione e la portata dei "gravi difetti" ex art. 1669 cod. civ.
9. L’esclusione della responsabilità dell’appaltatore.

 


1. Il tipo contrattuale "appalto", quale contratto a esecuzione "critica".

Nel contratto di appalto – con cui, ad esempio, un’impresa edile s’impegna a realizzare una costruzione civile o un’impresa impiantistica a compiere un apparato elettrico o di climatizzazione – il prodotto finale non è dato e presupposto.

Ciò accade (normalmente) nella vendita, ma non nell’appalto; contratto avente particolare proiezione nel futuro, per quanto prossimo, e ad esecuzione materialmente distesa nel tempo.

Certo tutti i contratti, in quanto tali, devono essere eseguiti; ma mentre in altri – pensiamo alla vendita, alla locazione o anche al mutuo – l’esecuzione si risolve generalmente in una dazione o consegna della cosa, che preesisteva all’accordo tra gli interessati, nell’appalto la "cosa", al momento dell’accordo, non c’è.

Solo attraverso la progettualità umana, da una parte, l’operosità, la diligenza e la tensione di un costruttore o impiantista dall’altra parte, giustamente amministrata e distesa nel tempo, la cosa verrà, alla fine, ad esistenza; ma all’inizio non c’è, e mezzo indispensabile per la sua realizzazione è l’energia costruttiva dell’appaltatore, la sua attività professionale orientata ad un risultato.

Dunque, propriamente, l’oggetto del contratto non è una cosa, ma un’attività mirante ad un risultato costruttivo (opus); risultato che dev’essere conforme al progetto o comunque a quanto stabilito con esattezza e precisione dalle parti; realizzato a regola d’arte; immune da vizi o difetti che lo rendano, in senso strutturale o funzionale, inidoneo all’uso cui è destinato (opus perfectum).

Come si sa, il rischio – organizzativo ed economico – del raggiungimento del risultato è, per regola, a carico dell’appaltatore, come, sin da subito, ci rende avvertiti la stessa nozione di base contenuta nel codice civile (art. 1655): "L’appalto è un contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro".

Ciò non toglie che, sindacando il risultato – e cioè la natura e la consistenza dell’opus concretamente fornito – si valuti la stessa diligenza e perizia dell’appaltatore, nell’organizzazione e conduzione dei lavori.

In realtà tutto ruota intorno ai lavori; i quali possono essere vagliati dal committente, come generalmente lo sono, anche "cammin facendo", e cioè in corso d’opera "Il committente ha diritto di controllare lo svolgimento dei lavori e di verificarne a proprie spese lo stato. Quando, nel corso dell’opera, si accerta che la sua esecuzione non procede secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola d’arte, il committente può fissare un congruo termine entro il quale l’appaltatore si deve conformare a tali condizioni; trascorso inutilmente il termine stabilito, il contratto è risolto, salvo il diritto del committente al risarcimento del danno" (art. 1662 cod. civ.).

Ciò costituisce sicura prova che, attraverso la parte di opera compiuta, si vuole sindacare, come si diceva, la diligenza e perizia dell’imprenditore e, come per ogni debitore, la sua tensione in concreto al risultato finale.

Una considerazione in termini assoluti ed oggettivistici del solo risultato, in sé e per sé, non ha, nel nostro diritto, una solida base; e confliggerebbe con l’attuale tendenza degli interpreti ad una considerazione della valenza "personalistica" dell’obbligazione di costruire; considerazione più attenta, pure con riguardo alle obbligazioni cosiddette di risultato, al comportamento tenuto dal debitore (1).

Del resto, affermare che quella assunta dall’appaltatore appartiene alla categoria delle obbligazioni di risultato significa solo sottolineare la caratteristica di diligenza professionale, adeguata all’attività esercitata, che il legislatore, sin dalla normativa più risalente, ha sempre richiesto al prestatore d’opera qualificato. In questo senso sta già una sentenza non recente della Corte di cassazione, per cui l’obbligazione dell’appaltatore "avendo per oggetto non la mera prestazione di energie lavorative, ma il risultato concreto del lavoro e la sua rispondenza allo scopo per cui venne commissionato, implica il dovere per esso di garantire non la sola mera esecuzione materiale dell’opera (sulla base del progetto), ma anche la conformità della medesima alle buone regole dell’arte, della tecnica e dell’esperienza" (2).

In altre parole, in materia di appalto, mentre la definizione del progetto è questione del committente e del professionista da lui incaricato, il compimento dell’opera riposa interamente sulla perizia e sull’impulso realizzativo dell’appaltatore.

Si può dunque dire che il contratto in questione, a differenza di altri, non solo è a esecuzione materialmente distesa nel tempo, ma è, per così dire, "ad esecuzione critica". Se l’appaltatore non inizia la sua opera, o non la completa, o non si conforma alla (fondata) diffida del committente, nel caso previsto dall’art. 1662 c.c., incorre nelle conseguenze generali previste per l’inadempimento dei contratti a prestazioni corrispettive; condanna ad adempiere o risoluzione del contratto stesso (ex art. 1453 c.c.), salva in ogni caso la sua responsabilità per i danni (ex art. 1218).

In altre parole l’inadempimento vero e proprio del prestatore d’opera qualificato travolge e trasforma tutto il rapporto.

 

2. La garanzia dell’appaltatore e le "modifiche" del rapporto per vizi e difetti cosiddetti lievi.

Ma se l’appaltatore conduce a termine il contratto e tale esecuzione, ad esempio in sede di collaudo, o comunque ad una verifica finale del committente, si rivela in parte carente – ad esempio, sotto qualche aspetto, difforme dal progetto o dalle regole dell’arte o mancante di qualità pattuite – il rapporto semplicemente si modifica, previa tempestiva ed esatta iniziativa del committente. "L’appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell’opera. La garanzia non è dovuta se il committente ha accettato l’opera e le difformità o i vizi erano da lui conosciuti o erano riconoscibili, purché, in questo caso, non siano stati in mala fede taciuti dall’appaltatore.
Il committente deve, a pena, di decadenza, denunziare all’appaltatore le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta. La denunzia non è necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha occultati. L’azione contro l’appaltatore si prescrive entro due anni dal giorno della consegna dell’opera.
Il committente convenuto per il pagamento può sempre far valere la garanzia, purché le difformità o i vizi siano stati denunziati entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna" (art. 1667 cod. civ.).

Va segnalato, peraltro, che la giurisprudenza non è troppo esigente né nel senso di pretendere, per la denuncia, una descrizione dei difetti analitica e tecnicamente esatta, né nel senso di pretendere un rispetto rigorosamente formale del termine decadenziale per essa previsto. "In tema di appalto, ai fini di cui all’art. 1667 cod. civ., non è necessaria una denuncia specifica ed analitica delle difformità e dei vizi dell’opera, tale, cioè, da consentire l’individuazione di ogni anomalia di quest’ultima, essendo, per converso, sufficiente ad impedire la decadenza del committente dalla garanzia cui è tenuto l’appaltatore, una sia pur sintetica indicazione delle difformità (nella specie, attraverso la spedizione di un telegramma), suscettibile di conservare l’azione di garanzia anche con riferimento a quei difetti accertabili, nella loro reale sussistenza, solo in un momento successivo" (3).

"Non è ravvisabile un comportamento concludente di accettazione senza riserve dell’opera appaltata, con conseguente rinunzia alla verifica di essa, nella non rimozione da parte del committente di un impedimento – nella specie segatura sparsa su un pavimento di marmo per proteggerlo dai lavori in corso per la ristrutturazione dell’edificio – frapposto dall’appaltatore, pur se con il suo consenso, e idoneo a coprire i vizi del bene – avvallamenti, spaccature, difetti di lucidatura e stuccatura, affioramento del salso –; sicché il termine per denunciarli decorre, ai fini della decadenza, dall’eliminazione dell’impedimento" (4).

Il contenuto della "garanzia", come detto, non è tale da travolgere l’intero rapporto, ma solo da ridimensionarlo o nel senso di un (ulteriore) fare professionale o in termini monetari. "Il committente può chiedere che le difformità o i vizi siano eliminati a spese dell’appaltatore, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell’appaltatore.

Se però le difformità o i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente può chiedere la risoluzione del contratto" (art. 1668 cod. civ.).

Di norma, dunque, si tratterà di difetti, vizi o difformità parziali; come tali suscettibili di incidere sul prezzo, ma di lasciar sopravvivere il rapporto nei suoi termini generali; ad esempio, in una costruzione civile, singole parti non eseguite, finestre o porte spostate, impianti tecnici monchi o modificati.

Se invece il difetto induce la disfunzionalità dell’intera opera, il rapporto non può certo sopravvivere, pur amputato di una sua parte; e, come si è visto (art. 1668, ult. comma, cod. civ.), il committente può addirittura chiederne la risoluzione.

D’altronde, vizi e difformità, nella loro rilevanza parziale, è sufficiente che sussistano a prescindere da un particolare grado di gravità; come si esige invece per far valere la responsabilità postuma decennale, esclusivamente in materia immobiliare (art. 1669 cod.civ.) nelle ipotesi tassative ed esplicite di "rovina", di "pericolo di rovina" o, appunto, di "gravi difetti".

Comunemente, quindi, nel caso disciplinato dagli artt. 1667 e 1668, comma 1, cod. civ., si parla di difetti "lievi"; nel senso che anche un vizio non particolarmente grave e, in specifico, una difformità dal progetto o dal capitolato del tipo che si è sopra esemplificato, o una mancanza di qualità pattuita, può indurre una condanna dell’appaltatore a provvedere a sue spese a ovviare all’inconveniente; o, in alternativa, comportare una diminuzione del prezzo (che, se già pagato, dovrà essere in parte restituito).

In tal senso si pronuncia una recente sentenza della Cassazione (5), che riprende il filone tradizionale; per esso le disposizioni contenute nell’art. 1669 tendono a disciplinare le conseguenze dannose dei vizi costruttivi che gravano sugli elementi essenziali della struttura e della funzionalità dell’opera, incidendo sulla sua solidità, efficienza e durata; mentre si ha azione di garanzia per vizi e difformità a norma dell’art. 1667 cod. civ. quando la costruzione (senza correre tale pericolo) non corrisponde alle caratteristiche del progetto e del contratto di appalto ovvero sia carente delle qualità promesse o essenziali oppure sia stata eseguita senza il rispetto delle regole della tecnica.

 

3. L’azione del committente per vizi e difetti cosiddetti lievi. Denuncia e riconoscimento degli stessi

È dunque peculiare la responsabilità dell’appaltatore per vizi e difetti dell’opera: quando essi, in sostanza, debbano intendersi come inadempimenti parziali, e quindi sottoposti non tanto alle regole generali sull’inadempimento, ma a quelle, più restrittive per il committente, dell’art. 1667, cod. civ.

Questa norma, nel ribadire la responsabilità anche per vizi e difetti lievi (cosiddetta "garanzia"), comporta, comunque, la prescrizione dell’azione del committente entro due anni dalla consegna; e la decadenza dalla medesima azione se non sia fatta denuncia dei vizi e difetti entro sessanta giorni dalla scoperta.

L’importanza della denuncia e la sua tempestività sono affermate tradizionalmente e ribadite anche di recente dalla giurisprudenza.

"L’onere della prova della tempestività della denuncia dei vizi dell’opera nell’ambito del contratto di appalto incombe – a fronte della relativa eccezione da parte dell’appaltatore – sul committente, poiché la denuncia costituisce una condizione necessaria per l’esercizio dell’azione di garanzia. In tema di appalto, ai fini dell’ammissibilità della domanda di garanzia, con riferimento ai vizi e alle difformità presenti nell’opera, la denuncia è necessaria sia con riguardo a vizi e ad altre difformità palesi (ai quali vanno parificati quelli facilmente riconoscibili) sia con riferimento ai vizi occulti, con l’unica differenza che il termine di decadenza di 60 giorni (per la denuncia) decorre, in un caso, dalla consegna, nell’altro, dalla scoperta" (6).

All’opposto, la mancanza di una tempestiva denunzia – che spesso viene eccepita dall’appaltatore per limitare la sua responsabilità – può essere supplita da un (espresso) riconoscimento dei vizi, da parte sua.

È interessante notare, al proposito, come sia sufficiente un riconoscimento empirico del vizio, anche disgiunto da un’assunzione di responsabilità. "Il riconoscimento dei vizi e delle difformità dell’opera da parte dell’appaltatore, che ai sensi dell’art. 1667 c.c., importa la superfluità della tempestiva denuncia da parte del committente, non deve accompagnarsi alla confessione stragiudiziale della sua responsabilità e pertanto è sussistente anche se l’appaltatore, ammessa l’esistenza del vizio, contesti o neghi in qualsiasi modo o per qualsiasi ragione di doverne rispondere" (7).

Nella fattispecie decisa si trattava della pavimentazione di un immobile con calcestruzzo, di cui il committente aveva determinato lo spessore in misura insufficiente (per intuibili ragioni economiche, peraltro non conciliabili con quelle tecniche).

Tuttavia l’appaltatore viene ritenuto in colpa per avere eseguito "supinamente" ed acriticamente le istruzioni dell’appaltante in contrasto col suo dovere di diligenza professionale. Egli, infatti, "essendo tenuto alla realizzazione di un’opera tecnicamente idonea a soddisfare le esigenze del committente risultanti dal contratto, ha il conseguente dovere di rendere edotto il committente medesimo di eventuali obiettive situazioni o carenze del progetto, rilevate o rilevabili con la normale diligenza, ostative all’utilizzazione dell’opera ai fini pattuiti".

E una volta riconosciuto il difetto – in sé e per sé – anche se ne attribuisce la "responsabilità" alla controparte (e alla sua avarizia!), l’appaltatore è tenuto a risponderne.

Meglio non riconoscere nulla, verrebbe da pensare! Specie se si tiene conto che la restrittiva disciplina decadenziale prevista per la denuncia da parte del committente (60 giorni), non vale per lo (spontaneo) riconoscimento del vizio da parte dell’appaltatore. "In tema di riconoscimento dei vizi dell’opera da parte dell’appaltatore, l’art. 1667 cod. civ. (applicabile anche nel caso dei gravi difetti di cui all’art. 1669 cod. civ.) equipara, alla denuncia, il riconoscimento del vizio, pur se successivo al termine di decadenza stabilito per la denuncia stessa da parte dell’appaltante, con la conseguenza che quest’ultimo non perde il diritto alla garanzia, non essendo normativamente prescritto che l’uno debba avvenire entro il termine stabilito per l’altra" (8).

Naturalmente la situazione è da valutare nel caso concreto, tenuto conto dell’interesse dell’appaltatore al cliente, dei costi mediati, anche verso altri clienti, in termini di buona fama, e quindi delle esigenze più generali dell’etica degli affari (9).

 

4. Correzione dei vizi progettuali e diligenza professionale dell’appaltatore

Certo, in termini strettamente legali, ove manchi la tempestiva denuncia dei vizi e difetti da parte del committente, nessuno può costringere l’appaltatore a riconoscerli.

Piuttosto deve sottolinearsi (come già accennato nella pronuncia prima esaminata) che la diligenza di quest’ultimo deve spingersi a correggere – preventivamente – anche i difetti progettuali, naturalmente nei limiti della propria competenza tecnica.

A tal fine l’appaltatore deve segnalarli con chiarezza alla controparte; la quale, se vorrà insistere nell’esecuzione del progetto allo stato, ma non a regola d’arte – così riducendo il ruolo professionale di chi esegue l’opera –, lo farà a proprio rischio.

"L’appaltatore, anche quando realizzi un progetto altrui sotto il controllo e la vigilanza di un tecnico incaricato dal committente, ma conservando una propria autonomia, ha l’obbligo di controllare e correggere gli eventuali errori di progetto in quanto è tenuto ad eseguire l’opera secondo le regole dell’arte e ad assicurare un risultato tecnico conforme alle esigenze del committente; conseguentemente è responsabile per i vizi imputabili al progetto fornito dal committente salvo che abbia operato come nudus minister, in con- dizione di completa subordinazione alle direttive da quello impartite anche a mezzo del direttore dei lavori" (10).

"In tema di appalto gli errori del progetto fornito dal committente ricadono su quest’ultimo ed escludono la responsabilità dell’appaltatore solo quando questi si ponga, rispetto a quello, per espressa previsione contrattuale, come nudus minister, come passivo strumento nelle mani del committente, direttamente e totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza nessuna possibilità di iniziativa e vaglio critico, laddove in ogni caso la prestazione dovuta dall’appaltatore implica anche il controllo e la correzione degli eventuali errori del progetto fornitogli " (11).

Anche la giurisprudenza di merito è incline a schierarsi sulla stessa linea; sempreché, da una parte, ci sia chiara segnalazione dei difetti progettuali e, dall’altra, vi sia "insistenza" o addirittura "ordine" di eseguire l’opera tal quale risulta dal progetto; anche questo "ordine", tuttavia, non scusa l’appaltatore per eventuali danni a terzi, diversi dal committente. "Posto che l’appaltatore, quale imprenditore edile dotato di competenza nel settore in cui si esplica la sua attività, ha l’obbligo di rilevare gli eventuali errori di progettazione non restando immune da colpa nel caso in cui dia esecuzione alle opere senza avvisare il committente di detti errori, tuttavia, una volta che lo stesso abbia avvisato tempestivamente e chiaramente il committente ed abbia sospeso temporaneamente i relativi lavori, non gli può essere mosso alcun rimprovero se successivamente abbia eseguito l’opera, come da progetto, dietro insistenze del committente. Né quest’ultimo potrà accampare responsabilità per danni " (12).

"In materia di appalto, anche ove esista un progetto minuzioso e dettagliato, la cui esecuzione il committente segua attraverso il direttore dei lavori, l’appaltatore opera in autonomia e, perciò, dato l’obbligo di esatta prestazione su di lui gravante, egli è tenuto a rilevare, nei limiti in cui ciò rientra nelle sue capacità tecniche, gli eventuali difetti, sia del progetto, che delle istruzioni del direttore dei lavori ed è tenuto a fare presenti tali difetti al committente. Ne deriva che l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei terzi danneggiati ove per sua colpa non rilevi tali difetti ovvero ometta di farne denuncia mentre, nei riguardi del solo committente, deve escludersi la sua responsabilità qualora, a seguito della denuncia dei vizi, egli riceva dal committente l’ordine di eseguire egualmente l’opera, perché, in tal caso, le prescrizioni contrattuali prevalgono sulle regole dell’arte" (13).

In definitiva, il "risultato" contrattuale è sempre complesso – abbiamo suggerito la qualificazione dell’appalto come contratto "ad esecuzione critica" –; ebbene, a quel risultato, devono cooperare entrambe le parti del rapporto ed i loro ausiliari tecnici; come, ad esempio, il direttore dei lavori. Benché di eventuali errori ed insufficienze del progetto risponda anzitutto chi lo ha redatto – una precisa indicazione in tal senso, se ve ne fosse bisogno, è data dall’art.25, comma 1, lett. d, comma 2 e comma 5 bis della legge-quadro sui lavori pubblici, cosiddetta Merloni, (L. 109/1994 e successive modificazioni) –, tuttavia nessuno può supinamente adagiarsi sul progetto come su di una tavola di salvezza; non l’appaltatore, ma nemmeno il direttore dei lavori la cui responsabilità può concorrere, o, a seconda dei casi, sostituire quella del primo. "L’obbligazione del direttore dei lavori è un’obbligazione di mezzi; tuttavia ciò non significa che il suo incarico debba ritenersi limitato al riscontro della conformità dell’opera al progetto, giacché il direttore dei lavori, come l’appaltatore (e a maggior titolo, attesa la sua preparazione tecnica), è tenuto all’individuazione e alla correzione di eventuali carenze progettuali che impediscono quella ‘buona riuscità del lavoro per la quale egli è tenuto ad adoperarsi" (14).

Nella specie, la Suprema Corte ha confermato, sul punto, la sentenza di merito che aveva ritenuto la responsabilità del direttore dei lavori per la mancata coibentazione dei pilastri di un edificio, con conseguente condensazione di umidità all’interno degli appartamenti, benché tale accorgimento non fosse previsto dal progetto.

Più in generale, poi, in materia di edifici ed altri immobili di lunga durata, che, per l’imperfetta esecuzione dell’opera, siano affetti da rovina, pericolo di rovina, o altri "gravi" difetti, le cose si complicano e la responsabilità dell’appaltatore si aggrava.

 

5. Vizi e difetti dell’opera immobiliare. La norma dell’art. 1669 c.c. ed i suoi riscontri in Francia e Germania

Se il committente ordina all’appaltatore non la realizzazione di una cosa mobile o di un impianto, ma la costruzione di un intero edificio – o, ciò che ai fini della responsabilità contrattuale è lo stesso, la costruzione di un porzione o parte di edificio, ad esempio un appartamento, una mansarda, un balcone, una scala, o la sua ristrutturazione, o la manutenzione straordinaria di esso o, infine, di un impianto che ne costi- tuisce stabile completamento o inscindibile pertinenza –; ebbene, in tal caso, le aspettative del committente sulla bontà e perfezione dell’opera, destinata a durare nel tempo, sono maggiori e sono quindi più intensamente protette dalla legge.

Recita infatti l’art. 1669 cod. civ.: "Quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta. Il diritto del committente si prescrive in un anno dalla denunzia".

È una norma tradizionale, che ha già un suo antecedente nel codice civile del 1865, art. 1639, ove essa è formulata col caratteristico linguaggio del tempo: "Se nel corso di dieci anni dal giorno in cui fu compiuta la fabbricazione di un edifizio o di altra opera notabile, l’uno o l’altra rovina in tutto o in parte, o presenta evidente pericolo di rovina per difetto di costruzione o per vizio del suolo, l’architetto e l’imprenditore ne sono risponsabili. L’azione per l’indennità deve essere promossa entro due anni dal giorno in cui si è verificato uno dei casi sopra enunciati".

Ma, naturalmente, una norma analoga è prevista anche dal codice civile francese, il quale anzi ha costituito il paradigma originario. In quel codice, l’art. 1792 (fino a un ventennio fa) suonava: "Se l’edificio perisce in tutto o in parte per difetto della costruzione, anche qui (cagionato) da vizio del suolo, gli architetti, imprenditori e altre persone (architectes, entrepreneurs et autres personnes) legate al committente dell’opera (maître de l’ouvrages) da un contratto d’appalto (louage d’ouvrage, lett.: locazione d’opera, sicché ciascuna delle persone di cui sopra è locateur d’ouvrage) ne sono responsabili per dieci anni".

Nel 1978 la norma francese è stata ammodernata e integrata, pur senza radicali novità. Oggi suona: "Ognuno che ha partecipato alla costruzione (tout constructeur) di un’opera (edilizia) è responsabile "de plein droit" – cioè in via generale e presuntiva, per il solo fatto di essere costruttore; lett. di pieno diritto – verso il committente o l’acquirente dell’opera dei danni (dommages), anche determinati da vizio del suolo, che compromettono la solidità dell’opera, o che, inficiando uno dei suoi elementi costitutivi (éléments constitutifs) o uno dei suoi elementi integrativi (éléments d’équipement), la rendono inadatta alla sua destinazione. La responsabilità non sussiste se il conduttore prova che i danni provengono da una causa estranea" (15).

Si chiarisce, poi (art. 1792-1), che, ai fini della responsabilità, si intende per costruttore (nel senso lato che sopra è stato accennato):
a) l’architetto, l’imprenditore, il tecnico o altra persona legata al committente da un contratto di appalto (o d’opera),
b) colui che vende (dopo averne acquistato il suolo) un’opera che lui stesso ha costruito o fatto costruire (il venditore/costruttore);
c) colui che, benché agisca (formalmente) quale mandatario del proprietario dell’opera (del suolo), svolge una prestazione assimilabile a quella dell’appaltatore.

E si conclude, anche adesso (art. 2270, códe civile), che il perdurare della responsabilità è limitato a dieci anni da quando il committente ha ricevuto in consegna l’opera (réception des travaux). Dopo la responsabilità è prescritta.

Del resto, concludendo questa rapida rassegna, anche nel codice civile tedesco (Bürgerlichy Gesetze-Buch, BGB), le cose, in materia di contratto di appalto (Werkervertrag: § 631), sono regolate in modo simile. Ma la prescrizione della responsabilità dell’appaltatore (Unternehmer, lett.: imprenditore) verso il committente (Besteller), nel caso di un’opera edilizia (Bauwerk) si compie in cinque anni; il termine di prescrizione, tuttavia, può essere contrattualmente allungato (par. 638).

 

6. Il fondamento e la natura della responsabilità dell’appaltatore ex art. 1669 cod. civ.

Ma torniamo all’Italia e analizziamo la norma dell’art. 1669 cod. civ.. Essa è ampiamente applicata e valorizzata dalla giurisprudenza che vi ravvisa, giustamente, anche un rilievo pubblico (di sicurezza) e quindi, sulla base della diligenza professionale dell’appaltatore, una sua responsabilità aggravata (sotto il profilo probatorio).

Tale "responsabilità è riconducibile alla violazione di primarie regole (di diritto pubblico) dettate per assicurare la sicurezza dell’attività costruttiva, sì da potersi considerare una sua attrazione nella responsabilità extracontrattuale" (16). In altre parole, chi svolge l’attività costruttiva normalmente su incarico altrui, e cioè per "contratto", deve rispettare non solo e non tanto le clausole, il capitolato, il progetto, e cioè "adempiere", ma altresì deve farlo in modo "sicuro" ed a regola d’arte.

Le norme, anche tecniche, di sicurezza e le regole dell’arte normalmente integrano il contratto; ma, eccezionalmente, quante volte fossero in contrasto con i suoi strumenti, certamente prevalgono su di essi. In termini di sicurezza, allora, una costruzione perfetta e a regola d’arte costituisce, insieme, adempimento contrattuale e rispetto di precetti più generali, preesistenti e svincolati dal contratto; precetti che nell’insieme costituiscono il caratteristico obbligo del neminem laedere. Non si deve recar danno a nessuno, sia esso la controparte contrattuale (committente), sia esso un avente causa dalla controparte contrattuale, in ipotesi l’acquirente delle unità immobiliari finite, o lo stesso condominio (fin qui, espressamente, l’art. 1669 cod. civ.), sia esso, al limite, un terzo del tutto estraneo, coinvolto, ad es., nella rovina per un semplice caso (ma, in questa ipotesi, la norma va coordinata con quella dell’art. 2053, che, per la rovina di edificio e i danni a terzi, responsabilizza primariamente il proprietario; salvo sua rivalsa presso il costruttore nei tempi e nei termini dell’art. 1669, se ancora utili).

Resta che la costruzione, imperfetta e insicura, che sia fonte di danni, fa sorgere, insieme, una responsabilità contrattuale ed una extracontrattuale, come ritiene la giurisprudenza; la quale, anzi, come si è visto, opta per una responsabilità esclusivamente di questa seconda natura, considerando in sostanza il contratto di appalto non come la causa, ma come la semplice "occasione" del rispetto – o della violazione – delle regole edilizie ed impiantistiche, giuridiche e tecniche.

Ciò viene (giustamente) criticato dalla dottrina, la quale ritiene che il costruttore risponda bensì, a titolo di responsabilità extracontrattuale, anche verso i terzi, ma non in base all’art. 1669 cod. civ.; egli ne risponde in forza di altre norme diverse e più ampie (art. 2043, clausola generale di responsabilità civile, art. 2050, responsabilità aggravata, cioè presunta, per attività pericolose, quale in principio deve ritenersi quella edilizia) tipiche del fatto illecito dannoso, appunto in materia extracontrattuale; norme che, tra l’altro, non presentano le strettoie – di tempo, di modalità e di termini, oltre che di tipologia di danno (solo quello derivante dalla rovina o da un grave e primario difetto) – dell’art. 1669 cod. civ. (17).

Comunque anche la giurisprudenza è consapevole che l’art. 1669 cod. civ. regola anzitutto ed essenzialmente i rapporti particolari committente/appaltatore; e che, in tale ambito, costituendo norma di responsabilità aggravata, cioè presunta, consente tuttavia al costruttore la prova contraria – individuare una causa dei danni estranea all’attività costruttiva –. Su questa causa estranea (caso fortuito, forza maggiore, errore del progettista, fatto del terzo non imputabile al costruttore) spesso si concentra l’attività probatoria in giudizio.

Nel caso che permanga incertezza, opera la presunzione ed è l’appaltatore/costruttore che, per il principio del rischio, deve rispondere.

Così, ad esempio, la Corte di cassazione (18) ha annullato la precedente sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità dell’impresa, "per il crollo di una controsoffittatura avvenuto in un ospedale", sul presupposto che, essendo emerse varie concause nella dinamica produttiva del crollo – verosimilmente anche vetustà, opera viziata (preesistente) di terzi, forse difetto di manutenzione – delle quali una sola era ascrivibile all’appaltatore (difetto di costruzione), il committente aveva omesso di colmare la lacuna probatoria.

La decisione appare giusta. E infatti, verificatosi un danno ricollegabile alla costruzione appaltata, ex art. 1669, cod. civ., è l’appaltatore che deve (esaurientemente) scolparsi, e non il committente che deve (specificamente) dimostrare la sua colpa; e ciò appunto per il meccanismo della "responsabilità aggravata" (beninteso limitatamente al campo civile e patrimoniale).

 

7. Le figure del venditore/costruttore, del committente/gestore e della cooperativa edilizia

Dato il suo rilievo ai fini della sicurezza la responsabilità in questione si applica pure alla figura del cosiddetto venditore/costruttore, cioè al venditore di un immobile che sia costruttore abituale e che, comunque, abbia costruito l’edificio – che poi ha venduto – con propria gestione diretta.

In questo caso, pertanto, benché si tratti di vendita e non di appalto, non si applica la disciplina meno rigorosa della vendita – in cui la garanzia, com’è noto, è limitata a un anno (art. 1495 cod. civ.) – ma quella più rigorosa dell’appalto e, in specifico, dell’art. 1669 (cosiddetta garanzia postuma decennale).

La giurisprudenza anzi applica un’estensione della responsabilità con una certa ampiezza, includendo, oltre al venditore/ costruttore, anche il venditore/committente che tuttavia ha ridotto l’appaltatore al ruolo di nudus minister; come pure l’impresa che, abitualmente, svolga affari nel campo delle costruzioni; quale, ad esempio, una cooperativa edilizia.

"La responsabilità per gravi difetti di cui all’art. 1669, cod. civ., dettata in materia di appalto e applicabile nei confronti del costruttore, in considerazione della sua natura extracontrattuale e delle ragioni in genere di pubblico interesse per cui è prevista, è invocabile nei confronti del venditore soltanto nell’ipotesi in cui questi abbia provveduto alla costruzione dell’immobile con propria gestione diretta, ovvero abbia progettato l’opera e diretto i lavori, oppure abbia nominato un direttore dei lavori o sorvegliato personalmente l’esecuzione dell’opera impartendo precise e continue disposizioni all’appaltatore sui materiali da adoperare, sul modo di procedere e sulle tecniche operative per i singoli elementi edilizi, sì da rendere l’appaltatore un nudus minister" (19).

"La cooperativa edilizia che assegna immobili a titolo definitivo ai propri soci è tenuta a rispondere ai sensi dell’art. 1669 cod. civ. dei danni conseguenti all’esistenza di gravi vizi e difetti dell’opera realizzata, nel caso in cui la cooperativa medesima, quale centro di interesse autonomo e diverso dalle persone dei singoli soci, riveste la qualità di committente della costruzione degli immobili su cui insistono i gravi difetti" (20).

D’altronde, e per l’accennato rilievo pubblicistico della responsabilità in questione, e per il suo asserito carattere extracontrattuale – tale quindi da trasportarla anche oltre lo stretto rapporto committente/ appaltatore –, essa si estende, dal lato passivo, pure al di là della figura dell’imprenditore, per investire, sempre che siano in colpa, lo stesso progettista, il direttore dei lavori e addirittura il committente (che, come si è visto, abbia ridotto l’appaltatore al ruolo di nudus minister). In buona sostanza la norma dell’art. 1669 cod.civ., specie negli ultimi decenni (21), viene letta dalla Cassazione come se essa fosse quella, più ampia, dettata dall’art. 1639, cod. civ. 1865, o dall’art. 1792 del códe civile fr. Significativa in proposito la seguente massima, in un caso che ha visto come committente un piccolo comune sardo, Calangianus: "La disciplina dell’art. 1669 cod. civ., relativa anche ai gravi difetti dell’opera ed applicabile anche negli appalti pubblici, si applica non solo nei confronti dell’appaltatore, ma anche nei riguardi del progettista, del direttore dei lavori e dello stesso committente che si sia avvalso di detti ausiliari e la relativa responsabilità esula dai limiti del rapporto contrattuale corso tra le parti, per assumere la configurazione della responsabilità da fatto illecito" (22).

 

8. La nozione e la portata dei "gravi difetti" ex art. 1669 cod. civ.

Dunque la responsabilità dell’appaltatore, nel caso di edifici o di altre opere fisse destinati per loro natura a lunga durata (beni immobili), si presume sussistere in ogni ipotesi di "rovina" (totale o parziale), di "evidente pericolo di rovina", o anche di "gravi difetti" (art. 1669, cod. civ.).

Mentre le ipotesi di rovina (crolli e distacchi, ecc.) o anche di pericolo di rovina (normalmente preannunciata da crepe, lesioni, impanciamenti di muri, cedimenti del terreno, ecc.) sono più evidenti – nel caso di pericolo di rovina imminente il committente o i suoi aventi causa potranno agire contro l’appaltatore anche ex art. 700 c.p.c., per avere subito dal giudice "i provvedimenti d’urgenza che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della (futura e necessariamente lenta) decisione di merito" –, i gravi difetti richiedono qualche considerazione valutativa e qualche richiamo di precedenti.

La giurisprudenza ne ha una concezione piuttosto lata e, per così dire, "funzionalista". Di certo vi rientrano quelli attinenti alle strutture portanti o alle fondazioni, ma non solo. Così "i gravi difetti, che a norma dell’art. 1669 cod. civ. possono dare luogo all’azione di responsabilità del committente nei confronti dell’appaltatore, non si identificano soltanto con i fenomeni che incidono sulla stabilità dell’edificio ma possono consistere in alterazioni che, pur riguardando direttamente una parte dell’opera, incidono in modo globale sulla sua struttura e funzionalità e ne menomano apprezzabilmente il godimento. Rientrano, pertanto, tra i gravi difetti di costruzione sotto il profilo considerato quelli che interessano i tetti ed i lastrici solari, determinando infiltrazioni di acque piovane negli appartamenti sottostanti" (23).

Più in specifico possono costituire grave difetto anche difformità e vizi degl’impianti che, come sopra, diminuiscono in modo notevole la "funzione" di godimento e di abitazione del fabbricato (e così alterano, appunto in senso funzionale, la "causa" del contratto di appalto) "Il ‘difetto di costruzionè che, a norma dell’art. 1669 cod. civ., legittima il committente all’azione di responsabilità extracontrattuale nei confronti dell’appaltatore può consistere in una qualsiasi alterazione, conseguente ad una insoddisfacente realizzazione dell’opera, che, pur non riguardando parti essenziali della stessa (e perciò non determinandone la ‘rovinà o il ‘pericolo di rovinà), bensì quegli elementi accessori o secondari che ne consentono l’impiego duraturo cui è destinata (quali, ad esempio, le condutture di adduzione idrica, i rivestimenti, l’impianto di riscaldamento, la canna fumaria), incide negativamente e in modo considerevole sul godimento dell’immobile medesimo, mentre i vizi (o le difformità dell’opera dalle previsioni progettuali o dal contratto di appalto), legittimanti l’azione di responsabilità contrattuale ai sensi dell’art. 1667 cod. civ., non devono necessariamente incidere in misura rilevante sull’efficienza e la durata dell’opera" (24).

Sotto questo profilo, anzi – quello dell’idoneità funzionale dell’opera nel suo complesso –, può esservi concorso di responsabilità (generalmente solidale) tra l’impresa edilizia (che, comunque, ben difficilmente ne sarà totalmente esonerata) e le imprese esecutrici degl’impianti , o anche, ad esempio, dei rivestimenti. "La responsabilità extracontrattuale dell’appaltatore per gravi difetti riscontrati nell’opera, ancorché possa concorrere con quella di altri soggetti (nella specie opere di pavimentazione e impiantistica effettuate da ditte scelte dal committente), si estende a quanto costituisce il risultato finale dell’opera stessa, quando i difetti denunciati ne compromettano il godimento e la funzione" (25).

Resta, naturalmente, un’attenzione primaria per le strutture portanti dell’edificio, a cominciare da quelle si cui poggia la (nuova) costruzione.

In proposito, sempre in omaggio ad una concezione "funzionalista" dell’opera, e quindi della diligenza e della responsabilità dell’appaltatore, la giurisprudenza gli fa carico di accertarsi anche dell’idoneità delle preesistenze. "L’appaltatore o il prestatore d’opera incaricato della realizzazione di opere edilizie da eseguire su strutture o basamenti preparati dal committente o da terzi, viola il dovere di diligenza stabilito dall’art. 1175, cod. civ. se non si accerta, nei limiti delle comuni regole dell’arte, dell’idoneità delle anzidette strutture a reggere l’ulteriore opera commessagli e ad assicurare la buona riuscita della medesima e viola altresì i doveri di adempiere alla obbligazione con correttezza e buona fede se, avendo accertato l’inidoneità di tali strutture, procede egualmente all’esecuzione dell’opera" (26).

La sentenza appare giusta, naturalmente nei limiti della competenza tecnica del costruttore e sempre che non emerga, in misura assorbente, un errore di terzi, ad esempio, del progettista, il quale possa determinare da solo il difetto della costruzione.

 

9. L’esclusione della responsabilità dell’appaltatore

Veniamo così, in conclusione, alle ipotesi di esclusione della cosiddetta "garanzia", e quindi della responsabilità del costruttore e/o dell’impiantista, che assumono un contratto di appalto:

a) il vizio progettuale;
b) le errate istruzioni del committente e/o del direttore dei lavori;
c) il caso fortuito;
d) la colpa del committente.

a) il vizio progettuale. Occorre precisare (v., supra, § 4) che l’appaltatore, per regola e nei limiti delle sue competenze tecniche, deve "verificare" il progetto e non attenervisi pedissequamente; al contrario, per quanto è possibile, egli deve "dialogare" con i tecnici. Tuttavia, se il progetto viene fornito dal committente, l’imprenditore ha sì il dovere di rilevare e denunziarne i vizi al committente stesso, ma non è tenuto a verificare la validità del lavoro svolto dal progettista con riferimento alla complessiva funzionalità dell’opera eseguita (27).

b) le errate istruzioni del committente e/o del direttore dei lavori. E' tradizionale l’orientamento della giurisprudenza che esonera l’appaltatore, ma solo se questi, avendone competenza tecnica, ha denunciato al committente i vizi progettuali e quest’ultimo ha insistito per l’esecuzione del progetto tal quale. In proposito, oltre alle sentenze recenti, per la verità più severe, ve ne sono anche di più datate, improntate ad una maggiore larghezza. "Già in ripetuti precedenti questa Suprema Corte ha deciso che la responsabilità dell’appaltatore deve essere esclusa quando i vizi dell’opera non possano ricollegarsi ad un suo comportamento doloso o colposo, ma derivino da errore del progetto fornito dal committente con ordine di attuarlo, o siano una conseguenza dell’avere l’appaltatore agito per disposizioni impartite dal committente" (28).

c) il caso fortuito. Si fa applicazione delle regole generali sulla responsabilità. Come, ad esempio, una irrimediabile "sorpresa idro-geologica", o un vizio del suolo assolutamente imprevedibile, possono modificare il contratto nel corso della sua esecuzione, determinandone uno scioglimento per impossibilità sopravvenuta, salvo l’obbligo del committente di pagare la parte di opera già eseguita (art. 1672 cod. civ.), così possono mandare esente da responsabilità l’appaltatore, se si verifcano dopo il compimento dell’opera.

d) la colpa del committente. E' interessante ricordare un precedente non recente, e per la verità nemmeno concernente la materia immobiliare, tuttavia estremanente significativo e calzante, e quindi di certo estrapolabile dal suo ristretto ambito. "Deve escludersi la responsabilità dell’appaltatore ex art. 1667 cod. civ., per la inidoneità dell’opera in relazione alla sua destinazione, da parte del committente, ad un uso eccedente rispetto a quello previsto dal contratto (nella specie i telai per motocicletta costruiti dall’appaltatore erano risultati inidonei a sostenere un motore, installatovi dal committente, più pesante e potente di quello previsto dal contratto)" (29).

 

(di MAURO BERNARDINI - Pubblicato in Rivista trimestrale degli appalti, n. 4/2001)

Note:

(1) Cfr. A. PERULLI, Il lavoro autonomo, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da A. CICU e F. MESSINEO, continuato da MENGONI, XXVII, 1, Milano, 1996, p. 301; G. MUSOLINO, La responsabilità civile nell’appalto, nella collana Enciclopedia diretta da CENDON, Padova, 2001, p. 330.
(2) Cass., 31 gennaio 1947, n. 119, in Giur. it., 1947, I, c. 354.
(3) Cass., 23 gennaio 1999, n. 644, in Rep. Giur. it., 1999, voce "Appalto privato", n. 51.
(4) Cass., 22 ottobre 1998, n. 10476, in Rep. Giur. it., 1998, voce "Appalto privato", n. 25.
(5) Cass., 1° marzo 2001, n. 3002, in Mass. Foro it., 2001, c. 236.
(6) Così, di recente, Cass., 17 maggio 2001, n. 6774, in Mass. Foro it., 2001, c. 587.
(7) Cass., 9 novembre 2000, n. 14598, in Rep. Giur. it., 2000, voce "Appalto privato", n. 55.
(8) Cass., 23 maggio 2000, n. 6682, in Rep. Giur. it., 2000, voce "Appalto privato", n. 51.
(9) Giustamente si nota in dottrina che il limite del "buon costume", oltre il quale il contratto assume una causa illecita (art. 1343, cod. civ.) non riguarda solo la sfera sessuale, "ma viene in considerazione anche il costume politico, il costume sportivo, il costume degli affari". Così, ad esempio, F. GALGANO, Diritto privato, 9a ed., Padova, 2001, p. 268.
(10) Cass., 22 febbraio 2000, n. 1965, in Rep. Giur. it., 2000, voce "Appalto privato", n. 76.
(11) Cass., 12 maggio 2000, n. 6088, in Contratti, 2000, p. 1133, con nota di SODDU.
(12) App. Milano, 26 marzo 1999, in Rep. Giur. it., 2000, voce "Appalto privato", n. 79.
(13) Trib. Lecco, 12 luglio 1999, in Rep. Giur. it., 2000, voce "Appalto privato", n. 80.
(14) Cass., 30 maggio 2000, n. 7180, in Rep. Giur. it., 2000, voce "Appalto privato", n. 59.
(15) La riforma è stata realizzata con la l. 4 gennaio 1978, n. 78-12. Su di essa v., ad esempio, il commento, di carattere generale, di MALINVAUD e JESTAZ, in Juris Classeur.Per., 1978, I, p. 2900. Per qualche profilo più specifico v., tra altri, BOUBLI, La responsabilité contractuelle de droit commun des constructeurs après la réception des travaux, in Revue droit immob., 1982, p. 1.
(16) Da ultimo, Cass., 6 dicembre 2000, n. 15488, in Rep. Giur. it., 2000, voce "Appalto privato", n. 100.
(17) In tal senso, di recente, G. MUSOLINO, La responsabilità civile nell’appalto, cit., p. 132 ss.; più indietro EROLI, La responsabilità del costruttore e del progettista per la rovina e i difetti dell’opera, in Giur. it., 1987, I, 1, c. 643; G. ALPA, Responsabilità decennale del costruttore e garanzia assicurativa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, p.414; P. TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, p. 11.
(18) Con la stessa sentenza 6 dicembre 2000, n. 15488 (v., supra, nt. 16).
(19) Cass., 2 ottobre 2000, n. 13003, in Urbanistica e appalti, 2000, p. 1305.
(20) Trib. Pescara, 13 settembre 1999, in Rep. Giur. it., 2000, voce "Appalto privato", n. 102.
(21) Esattamente da Cass., 14 aprile 1984, n. 2415, in Riv. giur. Enel, 1984, p.647.
(22) Cass., 11 agosto 2000, n. 10719, in Mass. Foro it., 2000, c. 1010.
(23) Cass., 12 maggio 1999, n. 4692, in Mass. Giur. it., 1999, c. 554.
(24) Cass., 19 gennaio 1999, n. 456, in Mass. Giur. it., 1999, c. 48.
(25) Cass., 14 febbraio 2000, n. 1608, in Rep. Giur. it., 2000, voce "Appalto privato", n. 75.
(26) Cass., 9 febbraio 2000, n. 1449, in Rep. Giur. it., 2000, voce "Appalto privato", n. 74.
(27) Così, ad esempio, Trib. Ravenna, 19 febbraio 1994, in Rep. Giust. civ., voce "Appalto", n. 37.
(28) Così Cass., 22 novembre 1968, n. 3809, in Giur. it., 1969, I, c. 1098, che richiama diversi precedenti, tra cui: Cass., 5 maggio 1965, n. 820, in Mass. Giur. it., 1965, c. 294; Cass., 6 giugno 1961, n. 1309, in Giust. civ., 1961, I, p. 1126; Cass., 28 maggio 1958, n. 1781, in Mass. Giur. it., 1958, c. 404.