Imprenditori individuali e societa’ di persone.
I lineamenti generali della disciplina (*)

Sommario: Imprenditori e attività di impresa. Libertà di iniziativa economica, libertà di concorrenza. – 2.1. Imprenditori e imprese I principi generali del sistema. I fenomeni dell’ illecito di impresa.La responsabilità sociale di impresa --.2.2 Imprenditori privati e imprenditorialità pubblica.Le dimensioni di impresa e i «piccoli imprenditori».La natura e l’oggetto delle attività . Impresa agricola, impresa artigiana. – 3. Lo statuto giuridico dell’imprenditore commerciale.La disciplina dell’agire in suo nome. Il registro delle imprese, la tenuta delle scritture contabili, le procedure concorsuali. – 4.. La nozione di «società» e lo scenario di insieme.Il contratto e le altre fonti costitutive. L’autonomia patrimoniale. Oggetto e scopo delle attività. Società commerciali, società non commerciali. Scopo lucrativo, scopo mutualistico, scopo consortile. – 5. Le società di persone. Società semplice, società in nome collettivo, società in accomandita semplice. Società «di fatto», società «apparenti», società «occulte». Il caso delle società «irregolari».-6. La crisi economica di imprese e società. Insolvenza dell’imprenditore commerciale   e procedure concorsuali.


1. Imprenditori e attività di impresa. Libertà di iniziativa economica, libertà di concorrenza.

       Gli studiosi di economia insegnano che è «imprenditore» chi organizza fattori di produzione, perciò risorse di capitale e forza lavoro per svolgere una attività, la attività di impresa che dall’impiego di capitale e lavoro deriva beni e servizi offerti al mercato. L’imprenditore opera a suo rischio e secondo principio di economicità. Il rischio è che i ricavi della attività non riescano a compensare i suoi costi. E principio di economicità significa organizzare l’impresa in modo tale da scongiurare quel rischio, spingendo i ricavi ad una soglia così elevata da remunerare sia i fattori di produzione sia lo stesso imprenditore, con un suo margine di profitto a premio della attività svolta. Nel caso dell’imprenditore pubblico o di altri imprenditori che non perseguano finalità di profitto a premiare la attività di impresa sarà comunque il risultato di un attivo o di un pareggio di bilancio a riprova del positivo andamento delle attività di impresa. Attività che sono comunque e sempre  iniziativa economica regolata dall’art. 41 Cost.

         La norma costituzionale regola l’iniziativa economica secondo principio di libertà ma al tempo stesso prefigura limiti, programmi e controlli. L’«iniziativa economica privata è libera». Alle libertà di «iniziativa economica privata» tuttavia segnano limiti valori costituzionali ancora più forti, essendo stabilito che «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». E «a fini sociali» la norma costituzionale segnala al legislatore ordinario strumenti di politica del diritto. Se occorre «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica» sia privata o pubblica «possa essere indirizzata e coordinata» appunto «a fini sociali». E nell’art. 43 sono ancora «fini di utilità generale» e il «preminente interesse generale» a motivare originarie riserve o successivi trasferimenti al settore pubblico di «determinate imprese» o di «categorie di imprese» che si riferiscano «a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio».

     Limiti, programmi, controlli e riserve di attività tuttavia non sono spazio aperto alla pura e semplice decisione politica. Possono operare soltanto nella misura indicata da norme di costituzione economica che sono al tempo stesso norme di garanzia delle libertà dei privati. Garanzia di libertà di iniziativa in una economia di mercato dove competere secondo regole di concorrenza tra imprenditori e imprese. Le norme costituzionali ignorano il mercato ma il principio della libertà di concorrenza a veder bene è già contenuto nella garanzia di libertà dell’iniziativa economica. Se posizioni dominanti o intese restrittive della concorrenza o concentrazioni di poteri non consentono ad altri l’accesso al mercato o spingono fuori del mercato, «libertà di concorrenza» tuttavia è soltanto insieme di parole senza un significato utile. Da ciò il grande rilievo della l. 10 ottobre 1990 n. 287 che finalmente guarda al mercato e al principio di concorrenza attivando la necessaria disciplina di garanzia.Occorreva infatti assegnare al principio di concorrenza un valore sconosciuto alle norme del codice civile.

      L’art. 2595 avverte che la concorrenza deve svolgersi «nei limiti stabiliti dalla legge». L’art. 2596 cirscoscrive l’oggetto e l’orizzonte temporale degli accordi contrattuali di non concorrenza. L’art. 2597 obbliga «a contrattare con chiunque» e a «parità di trattamento» l’imprenditore che operi in regime di monopolio legale. E alla concorrenza le norme del codice civile (sono le norme degli artt. 2598 a 2601) ancora guardano per la dovuta prevenzione e sanzione degli atti di concorrenza sleale. Ad esse si dovevano aggiungere discipline di settore certamente utili. E in questo senso si devono segnalare le norme (del d.lgs. 25 gennaio 1992 n. 74) di prevenzione e di sanzione della pubblicità ingannevole. Ma una cosa sono frammentate disposizioni che pretendono lealtà nelle relazioni di mercato tra imprese, vincolano l’imprenditore monopolista ad un corretto agire di mercato e segnano un limite ai poteri negoziali dei singoli imprenditori, derivando da ciò in modo indiretto e comunque molto limitato risultati di miglior andamento delle attività di mercato e di tutela dei consumatori. Tutt’altra cosa una organica disciplina di garanzia a misura dei principi di costituzione economica.

   Quanto al mercato internazionale una disciplina di garanzia era già assicurata dalle norme del diritto comunitario. La legge del 1990 finalmente provvede a regolare il mercato nazionale assegnando al principio di concorrenza un valore sconosciuto alle norme del codice civile e a singole normative di settore. Opera una autorità amministrativa indipendente che ha consistenti poteri di intervento, per l’appunto una Autorità garante della concorrenza e del mercato che le norme della legge del 1990 impegnano a decisive funzioni di vigilanza. Finalmente si reagisce agli abusi di posizione dominante che in vario modo (più precisamente nei modi indicati dall’art. 3 della legge) violano il principio di libera concorrenza con inevitabile «danno dei consumatori». Abusi che la legge del 1990 colpisce con norme che ingiungono la «eliminazione delle infrazioni» e in caso di «infrazioni gravi» applicano non lievi sanzioni amministrative di genere pecuniario.

     Sono vietate e comunque «nulle ad ogni effetto» le intese tra imprese che «abbiano per oggetto» o per risultato l’«impedire, restringere o falsare» e l’art. 2 della legge precisa «in maniera consistente» il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte «rilevante». E si tratti di fusione di imprese, di controllo di imprese o di costituzione di nuove imprese, se si configurano le fattispecie indicate dall’art. 16 della legge le operazioni di concentrazione imprenditoriale devono essere comunicate alla Autorità garante, che valuterà se esse comportano «la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante» tale da «eliminare o ridurre» le possibilità di concorrenza «in modo sostanziale e durevole». Se è così all’Autorità garante competono poteri di sospensione e di divieto. E naturalmente garantire libertà di concorrenza una volta di più significa promuovere una competizione tra imprese che in punto di qualità e di prezzi assicuri migliori opportunità ai consumatori dei beni e dei servizi che sul mercato si offrono. In ogni caso una «economia di mercato aperta e in libera concorrenza» è quanto il Trattato di Maastricht indica come modello obbligato per ogni paese dell’Unione Europea.

 

2.1. Imprenditori e imprese. I principi generali del sistema. I fenomeni di illecito.Diritto penale di imprese e società.

 

       Per l’art. 2082 c.c. è imprenditore chiunque eserciti professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. «Professionalmente» e perciò in modo sistematico e non occasionale, dovendosi tuttavia considerare che il requisito della professionalità esiste anche se l’attività d’impresa si aggiunge ad altre e non si svolge con carattere di continuità. Deve tuttavia trattarsi di una attività economica organizzata «al fine della produzione e dello scambio». In assenza di una organizzazione che operi con finalità di produzione e scambio si tratterà di attività di altro genere. Comunque non di impresa perché l’attività di impresa si identifica con l’organizzazione di risorse finanziarie, di attrezzature e di lavoro per un mercato dove offrire beni e servizi (e sarà il caso di leggere quanto precisa l’art. 2238 per le professioni intellettuali).

        Non è invece requisito necessario dell’imprenditorialità lo scopo di lucro che infatti l’art. 2082 non richiama. Naturalmente nel gran numero dei casi si è imprenditori per scopo di lucro. Ma le imprese esercitate da enti pubblici dell’art. 2093 non perseguono finalità di profitto. L’impresa cooperativa dell’art. 2511 non ha principalmente  scopo lucrativo. Svolgono attività che sono sicuramente attività di impresa anche associazioni o fondazioni sul modello del primo libro del codice civile che tuttavia non sono in alcun senso organizzazioni costituite a scopo di profitto. Perciò non il fine di lucro ma la natura della attività e la spedita del nome  identificano l’imprenditore (cosa tuttavia talvolta non facile: si pensi al caso tra breve considerato  dell’imprenditore < occulto> che svolge la attività di impresa senza spendere il suo nome: esercita la attività ma all’esterno compare soltanto un prestanome: il regime di fattispecie di questo genere è a tutt’oggi materia di contrastanti opinioni).

       Con l’avvio delle attività di organizzazione (ritengono alcuni) o con l’avvio delle attività operative (ritengono altri) si ha inizio dell’impresa. Diventano così applicabili le norme che disegnano lo statuto giuridico dell’imprenditore a cominciare da una serie di disposizioni a carattere generale. Talvolta si tratta di norme che (come ad esempio gli artt. 1330, 1368, 1722 e 1824) riguardano i contratti dell’imprenditore o (come l’art. 2598) le regole della concorrenza, altra volta di norme che disciplinano il complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa (e sono le norme degli artt. 2555 a 2562) e comunque si tratta di norme che (come ad esempio gli artt. 2084 e 2087 o ancora l’art. 2094) in linea di principio valgono per ogni e qualsiasi imprenditore. Le norme di statuto giuridico condivise dalla generalità degli imprenditori tuttavia costituiscono soltanto una prima approssimazione alla disciplina che li regola.

        Come si preciserà più avanti distinzioni si impongono occorrendo infatti  distinguere tra impresa e impresa a seconda del soggetto imprenditore, della dimensione e della posizione di mercato dell’impresa, della sua organizzazione su base individuale o collettiva e dell’oggetto della attività esercitata. Occorre quindi seguire una lunga linea di percorso che deve riguardare sia la complessa trama delle norme sia i problemi che ne restano insoluti. Problemi numerosi e talvolta di grande rilievo dovendosi poi considerare in che misura possono darsi fenomeni devianti e gravi punti di caduta del sistema. Ne è significativo esempio l’intera serie delle situazioni che si determinano quando l’esercizio dell’impresa si sottrae alle regole che valgono in materia di rischio finanziario e responsabilità patrimoniale dell’imprenditore.

      In linea generale  e per principio  a identificare l’imprenditore provvede la spendita del nome. E gli atti giuridici che riguardano l’impresa sono imputati al soggetto che per l’appunto «spende» e impegna il suo nome come imprenditore, quale che sia la realtà delle cose riguardo a provvista di mezzi, organizzazione dell’impresa, operazioni di mercato, guadagni di capitale o altro ancora. Sia pure in assenza di una norma che così stabilisca, questo è quanto deriva da un principio che per orientamento fortemente consolidato si deve a tutt’oggi considerare regola costitutiva del sistema. Ma si tratta di regola messa a dura prova da fattispecie di abuso tradizionalmente consegnate all’immagine dell’imprenditore occulto che opera senza spendere il suo nome. Provvede ai mezzi necessari per lo svolgimento della attività, assume le decisioni imprenditoriali e ne acquisisce i risultati economici. Esercita l’attività di impresa ma all’esterno non compare.

      È un imprenditore «occulto» che per gli atti giuridicamente impegnativi si avvale di un «prestanome» oppure di una società «di comodo», egualmente utile allo scopo di sottrarsi a personali obbligazioni nei confronti dei «terzi» entrati in rapporto di affari con l’impresa o suoi prestatori di lavoro. E se così accade senza che la posizione dell’imprenditore occulto giuridicamente rilevi, sarà chiaro che cosa ne deriva in punto di allocazione del rischio finanziario e di tutela giuridica dei suoi creditori. Opera un imprenditore che allontana da sé ogni forma di responsabilità patrimoniale. In questo modo l’imprenditore irresponsabile naturalmente agisce in danno dei terzi, che a garanzia del loro credito trovano soltanto un prestanome, verosimilmente sprovvisto delle risorse finanziarie che occorrono per fare fronte agli impegni assunti. Ma la situazione non è diversa nel caso della società di comodo.

      Società costituita con capitale irrisorio di modo che anche in tal caso l’imprenditore occulto trasferisce il rischio di impresa e delle sue inadempienze sui terzi creditori per il lavoro prestato o altro ancora. Da ciò ulteriori situazioni con caratteri di criticità e l’argomentare di quanti ritengono che numerose norme del codice civile consentano di affermare un principio di necessaria continuità tra esercizio di poteri e assunzioni di responsabilità. Si elaborano complesse teorie e si richiamano le norme degli artt. 2267, 2291 e 2318 (e ancora gli artt. 2320 e 2362). Dal loro insieme si deriva l’assunto che anche un imprenditore occulto dovrebbe perciò rispondere delle obbligazioni conseguenti alle attività di impresa. Richiamando l’art. 147 della legge fallimentare altri ritengono che in caso di insolvenza anche l’imprenditore occulto dovrebbe essere assoggettato al fallimento. Ma i riferimenti normativi lasciano residuare forti perplessità e comunque a tutt’oggi prevale il diverso orientamento che si è  segnalato.

         Inderogabile regola di sistema sembra essere che per decidere «chi» è imprenditore (e ne deriva tutte le responsabilità) vale il criterio formale della spendita del nome, e non invece il criterio sostanziale dell’esercizio dell’impresa in senso economico, del potere di direzione o altro ancora. L’opinione prevalente ha consistenti motivazioni che non sono soltanto di genere normativo e formale. Si osserva infatti che entrando in rapporto con l’impresa i terzi non potevano mettere in conto la responsabilità patrimoniale di un «imprenditore» rimasto «occulto», perciò non esistendo in allora affidamenti che possano poi essere presi in considerazione. Ma è pur vero che l’imprenditore occulto si avvale di «prestanome» e «società di comodo» per esercitare attività di impresa con modalità gravemente devianti. Per parte sua la giurisprudenza si sforza di elaborare strumenti di reazione agli abusi. Si configura come attività di una impresa a sé l’attività dell’imprenditore «occulto» che movimenta risorse finanziarie, appresta mezzi e gestisce l’impresa «palese». E per quanto possibile se ne derivano le conseguenti responsabilità.Altro poi lo scenario dei fenomeni che con terminologia anglosassone si indicano come shadow economy per segnalare la serie delle attività di impresa in vario modo caratterizzate da irregolarità che configurano illegalità o peggio attività criminali.

       In seguito saranno considerate talune  fattispecie di genere deviante ma non i complessi problemi che si devono al caso della attività di impresa che in sé configuri un illecito per essere contraria a norme imperative, ordine pubblico e buon costume. Il caso della impresa illecita appartiene infatti a materia diversa da quella considerata in queste pagine. Si deve tuttavia almeno avvertire che attività di impresa di tal genere non sono fenomeno di carattere marginale. E l’esperienza degli anni recenti insegna che anche alla scala sovranazionale shadow  economy  e la criminalità economica attrezzata nella forma delle attività di impresa hanno  crescenti grandezze e attraversano con effetti tavolta devastanti  numerosi settori dell’economia reale così come i diversi comparti dell’economia finanziaria. Da ciò la comprensibile e forte domanda di nuove normative capaci di operare in prevenzione dell’illecito essendo comunque escluso che le norme di statuto dell’imprenditore possano in qualche modo andare a beneficio di una impresa illecita.

     Si avverte con urgenza sempre maggiore l’esigenza delle normative necessarie per identificare usi perversi della forma giuridica «impresa» messi in atto da soggetti che operando nella shadow economy  spesso si avvalgono di una tecnica giuridica molto sofisticata. E occorre elaborare nuovi strumenti di prevenzione dell’illecito  così come strumenti di reazione punitiva, essendo poi necessario garantire efficace operatività alla sanzione delle violazioni di norme volta a volta accertate. Al tempo stesso si rendono indispensabili normative anche in altro senso ben congegnate, perché sarà tuttavia pur sempre da considerare la posizione dei terzi entrati in rapporto con l’impresa senza per questo essere parte dell’illecito,  che perciò meritano tutela e certamente non invece un qualche pregiudizio. A veder bene impresa illecita in ogni caso è soltanto una formula di prima approssimazione ad un argomento che non consente discorsi di superficie. La materia ha forti caratteri di specialità a tutt’oggi non ancora interamente esplorati. Una volta di più si deve comunque distinguere tra fattispecie quanto mai lontane tra loro.

       Una cosa è infatti l’illecito costituito dalla violazione di norme che non consentono di svolgere una attività di impresa (e per esempio la attività bancaria) in assenza di particolari autorizzazioni. Altra cosa è la sistematica violazione delle norme che regolano nei contenuti lo svolgimento della attività di impresa (e per esempio le norme sulle modalità di sollecitazione del pubblico risparmio). Infine tutt’altra cosa ancora è organizzare in forma di impresa le attività che si sono indicate come possibili forme di criminalità economica (e per esempio il <riciclaggio > di < denaro sporco > oggi così spesso movimentato per via informatica). Come si capisce ne deriva ampio spazio per una riflessione da svolgere in una prospettiva di analisi che in queste pagine non sarà tuttavia considerata. E soltanto mediante sommarie indicazioni di rinvio si riferiscono  le stesse norme di disciplina penale dell’impresa che pur nel contesto di una attività perfettamente legittima per taluni suoi singoli atti integri fattispecie di reato.

      Non sarà tuttavia necessario insistere nel segnalare il grande rilievo   delle disposizioni che assoggettano le imprese ad un controllo di legalità con lo strumento forte della norma penale perchè  davvero non si conosce il diritto di imprese e società senza conoscere ciò che è loro disciplina di   questo genere. Sia pure in via di prima approssimazione è  perciò sicuramente utile  richiamare  i  fattori  distintivi di un insieme normativo di carattere  molto particolare. Prevalgono infatti le disposizioni di legge speciale che si sono succedute senza una sufficiente organicità di complessivo disegno del diritto penale dell’impresa ,che  in consistente misura è ormai anche disciplina di prevenzione e di sanzione del delitto informatico.In linea di principio si possono comunque indicare come interessi protetti dalla norma incriminatrice i valori sociali che negli artt. 41  e 47 o in altre disposizioni costituzionali segnano limiti alla iniziativa economica.

       Ogni singola norma incriminatrice  ha naturalmente  una sua particolare ratio legis che occorrerà di volta in volta precisare. Ancor prima occorre tuttavia distinguere tra le diverse norme incriminatrici in considerazione del loro diverso ambito di operatività.E va considerato quanto è difficile congegnare disposizioni a misura dei fenomeni di <delitto > consumato mediante strumenti di tecnologia informatica (in materia di cyber crime meritando grande  attenzione il progetto di trattato internazionale che per la criminalità informatica è in corso di elaborazione presso l' European Committee on Crime Problems del Consiglio d'Europa ).  Parte del sistema sono comunque fattispecie di reato che possono configurarsi per qualsiasi attività di impresa e per qualsiasi società «soggetta a registrazione». Altre disposizioni dove si prefigurano fattispecie di reato sono invece norme incriminatrici che si riferiscono in via esclusiva alle società di capitali. Altre ancora stabiliscono infine speciale disciplina delle società azionarie con azioni quotate e del mercato finanziario.

    L’universo delle fattispecie che costituiscono «delitto» o «contravvenzione», e che perciò comportano sanzioni penali di comportamenti devianti ha quindi   la ulteriore e crescente  complessità che si può bene immaginare. Normative a sé valgono per singole categorie di soggetti (e ad esempio per le società di revisione contabile), così come per singoli settori di industria (e ad esempio per il settore bancario) e per i fenomeni di insolvenza delle imprese con caratteri di rilevanza penale (configurandosi allora le diverse ipotesi di reati fallimentari). A tutto questo si aggiunga la nuova disciplina penale delle attività imprenditoriali di intermediazione in valori mobiliari. Ne risulterà con chiarezza la estensione di campo di normative di prevenzione e sanzione dell’illecito di impresa che in queste pagine si segnalano soltanto per i possibili approfondimenti. Sarà bene tuttavia quanto meno rilevare fino da ora un elemento distintivo dell’intera disciplina che al tempo stesso ne costituisce grave punto di caduta.

      Configurando il regime penale di imprese e  società  molto spesso  si  è infatti  privilegiata una tecnica legislativa che definisce la fattispecie criminosa mediante rinvio ad altre disposizioni. E si tratta di tecnica legislativa che naturalmente  non si sottrae ad una motivata critica. La norma penale stabilisce la sanzione ma gli elementi costitutivi della fattispecie di reato si devono derivare da altre norme. E molto spesso si tratta di norme di diritto privato o di diritto amministrativo, di per sé incapaci di una descrizione di comportamenti così puntuale quanto richiede il principio di stretta legalità che è invece per tutti garanzia costituzionalmente stabilita. Da ciò una serie di norme penali in bianco che comportano un elevato rischio di discutibili applicazioni.

        Ragionando in termini di politica del diritto sarà infine chiaro che l’impiego della norma penale esige misura. È pur sempre necessario quando occorre agire in prevenzione e a sanzione di comportamenti con caratteri di particolare gravità. Anche in materia di imprese e società  (ma a veder bene sempre) il ricorso allo strumento forte della norma penale si giustifica tuttavia soltanto nella misura resa indispensabile dalla provata mancanza di altri e meno afflittivi mezzi di reazione all’illecito.In ogni caso occorrono  discipline capaci di scongiurare  tutti i pericoli delle  norme penali  a contenuto  indeterminato. E in questo senso sono del maggior rilievo( meritano ampio consenso ) le innovazioni di sistema operate  dal decreto legislativo che a marzo del 2002 ha riformato il regime degli <illeciti  penali > di <società e consorzi >, sia sostituendo intearmente l’undicesimo titolo del quinto libro del codice civile sia prefigurando nuove fattispecie di reato con una tecnica normativa finalmente lontana dal modello delle norme penali <in bianco> .

      A quanto sia  analisi di stretto diritto positivo sia pure in via breve altro poi occorre aggiungere dovendosi considerare che se massimamente rilevano  il sistema delle norme  con carattere di imperatività  e il loro regime sanzionatorio  tuttavia non esauriscono l’universo delle regole che devono governare lo svolgimento delle attività di impresa .Si pensi al tema della responsabilità sociale dell ‘impresa ,e perciò a quanto sempre più spesso si discute con riguardo  al non financial report  costituito dal bilancio <sociale >dell’impresa oggi sempre più al centro di numerose iniziative e di così ampio dibattito.Si teorizza ( e talvolta  si comincia a praticare) la responsabilità sociale dell’impresa quale <rendicontazione > del suo operare  agli stakeholders  e alla generalità dei soggetti  interessati <alla vita dell’azienda >. E  precisando i contenuti  del bilancio <sociale > dell’impresa rappresentativo   della sua  corporate social responsability, si avverte  che   non deve trattarsi semplicemente di un documento in più da allegare ai documenti  di bilancio  prescritti dal diritto contabile di imprese e società. Rilevano <grandezze di natura sociale e ambientale > e gli altri< valori collettivi >variamente indicati nella parte  propositiva del  modello a suo tempo  elaborato dall’Istituto europeo per il bilancio sociale .

       Pensato in  puntuale correlazione con il bilancio di esercizio dell’impresa secondo   precisa  logica di sistema , il non financial report elaborato dall’Istituto europeo è modello condiviso dal Social and Ethical Auditing and Accounting Network . Muove da una <premessa metodologica  > e consiste di più parti che variamente riguardano <identità aziendale >,<rendiconto > di impresa ,criteri di selezione e di  di rilevazione dei fattori significativi, <attestazioni> procedurali e altro ancora,trattandosi comunque di documentare il punto di incontro e il grado di compatibilità  tra  <quantità economiche > e <qualità di relazione > tra agire con scopo di profitto  ,decisioni imprenditoriali,  ,posizioni di interesse collettivo  e < valori>  della collettività sociale di riferimento.Da ciò i termini fondamentali  delle discussioni in tema di responsabilità sociale dell’impresa così ricorrenti  nel mondo anglosassone ma finalmente  avviate anche nel caso italiano.

     Nel mondo anglosassone è da tempo consolidato l’assunto (talvolta espressamente condiviso anche da posizioni ufficiali delle  autorità di governo )  che  <va respinta> e non corrisponde a realtà   l’ <idea erronea  secondo la quale > agire di impresa e <obiettivi sociali> inevitabilmente <si trovano> in obbligato <conflitto> , aggiungendosi   che comunque le imprese <devono essere  <socialmente responsabili> con un forte impegno nelle <comunità> di loro appartenenza. In estrema sintesi si domanda di coniugare  <il bene dell’impresa > con < il bene della più ampia comunità sociale > ,e si domanda di considerare in qual ( rilevante ) misura  le iniziative orientate in questa direzione <socialmente utile>  al tempo stesso  portano con sé rilevanti <benefici > di impresa ,perché dell’impresa accrescono la <reputazione > sociale  , valorizzano segni  distintivi  e <marchio>  societario, incrementano i processi di <fidelizzazione della clientela> essendo ormai diffuso un sentire collettivo che privilegia appunto  le imprese socialmente responsabili.

     Il problema di politica del diritto  oggi dominante rinvia poi all’interrogativo se  <la virtù > imprenditoriale  possa  <essere imposta >,e perciò se in materia di attività di impresa <socialmente responsabili> occorra codificare regole giuridicamente vincolanti o se  occorra invece riconoscere <natura volontaria > a quanto su questo fronte è possibile conquistare . E la posizione preferibile sembra rappresentata da quanti avvertono che sono impensabili (e comunque non utili )normative con carattere di imperatività là dove occorre lasciare spazio alla autonomia e alle libertà di impresa. .Ma se è vero che in questa materia  deve considerarsi  esclusa una inimmaginabile policy di segno dirigista sarà chiaro che  possono pur sempre utilmente  congegnarsi  normative di incentivo in una prospettiva di analisi economica del diritto da valutare con il metodo di analisi  già variamente elaborato da numerosi studiosi esperti di law and economics .

    E  se a tutt’oggi prevalgono le valutazioni e le dichiarazioni di intenti nelle forme della  moral suasion ,con ogni evidenza  acquistano campo anche le progettazioni  di puntuali disposizioni e di  basic rules  pensate come regole del genere soft law ma   pur sempre costitutive di un impegno di  imprenditori e imprese a  <tener conto dell’impatto economico,sociale e ambientale > che il loro operare ha  <sulle comunità>  che ne sono <interessate>.Un <impatto >  e un <impegno> di responsabilità sociale  talvolta indicati come fattore da considerare necessariamente <condizionante >le strategie di impresa.Anche nel caso italiano   le  più evolute strategie di governo del welfare state  comunque  ormai  sempre più spesso guardano appunto  ai temi di responsabilità sociale dell’impresa adesso significativamente indicati  come una delle <priorità del semestre di presidenza italiana> del.Ma di questo si dirà con maggior precisione quando saranno all’esame società di capitali e <gruppi > di società per loro essendo in particolare evidenza i problemi di corporate social responsability.

 

2.2  Imprenditori privati e imprenditorialità pubblica.Le dimensioni di impresa e i «piccoli imprenditori .» La natura e.l’oggetto  delle  attività.Impresa agricola, impresa artigiana.

         Come si è già avvertito distinzioni si impongono occorrendo distinguere tra impresa e impresa a seconda del soggetto imprenditore, della dimensione dell’impresa, della sua organizzazione su base individuale o collettiva e dell’oggetto della attività esercitata. Quanto al soggetto «imprenditore» occorre in primo luogo distinguere tra privati imprenditori e impresa pubblica. E occorre ancora distinguere tra il caso dell’ente pubblico «imprenditore» che in via diretta esercita attività di impresa (operando il regime degli artt. 2201 e 2221) e il caso della partecipazione di un ente pubblico al capitale sociale di una impresa che tuttavia continua pur sempre ad essere impresa privata (operando perciò l’ordinario regime dell’impresa privata ma anche le norme degli artt. 2449 e 2450). In tempi di progressiva privatizzazione del settore pubblico dell’economia, una complessa legislazione a carattere speciale delinea nuovi scenari di regime dell’impresa, già sufficientemente esemplificati dalle norme della legge 359 dell’  agosto 1992  che ha disposto la trasformazione di enti pubblici di primario rilievo in imprese di diritto privato La qualità di imprenditore in ogni caso si acquisisce con l’avvio della attività di impresa

.    L’intenzione di operare per il mercato di per sé non ne integra lo status. Occorre tuttavia avvertire che se così sicuramente è nel caso dell’imprenditore individuale  assai discusso  è invece il caso dell’imprenditore <società > , da parte di molti ritenendosi  che la società acquisti identità imprenditoriale già  dal momento della sua costituzione e perciò in momento che temporalmente precede  l’avvio della attività di mercato  . Va  comunque considerato il rilievo delle attività per così dire <preliminari > intese come tali  le operazioni organizzative  sempre indispensabili per  attrezzare l’impresa alla sua offerta di beni o servizi.E  secondo una opinione da condividere  atti di organizzazione dell’impresa    significativamente  coordinati in funzione  dell’avvio delle iniziative di mercato sono quanto occorre per documentare l ‘avvenuto <inizio> della operatività imprenditoriale.Quanto alla <fine > dell’impresa vale ancora una volta il principio di effettività. L’impresa cessa( e la qualità di imprenditore si estingue )con a cessazione dell’impresa anche se molto occorrerà precisare per l’imprenditore che sia < società >.

        Con riguardo  alle dimensioni dell’impresa si deve attentamente considerare la particolare posizione e il regime giuridico del piccolo imprenditore, che anche quando sia imprenditore commerciale non è obbligato alla tenuta di scritture contabili, si deve iscrivere in una speciale sezione del registro delle imprese e non è assoggettato al fallimento e alle altre procedure concorsuali. Per l’art. 2083 sono piccoli imprenditori sia i coltivatori diretti del fondo, sia gli artigiani sia «i piccoli commercianti» e comunque in linea generale  «coloro i quali esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia». La prevalenza del fattore «lavoro» e del lavoro familiare è perciò l’elemento distintivo dell’art. 2083.

         È quindi evidente che non si ritrova impresa del «piccolo imprenditore» là dove sull’impiego di forza lavoro prevalga l’impiego di ingenti capitali o là dove invece dell’organizzazione familiare delle attività si riscontri il più complesso assetto organizzativo delle imprese di genere societario. Per l’impresa artigiana opera nel senso che si preciserà  una speciale disciplina di settore. All’impresa familiare  si riferisce l’art. 230 bis che tutela quanti in famiglia offrono prestazioni di lavoro al coniuge o al parente «imprenditore». Ai membri della famiglia che in modo continuato paretcipano alle attività di impresa si riconoscono sia diritti patrimoniali che diritti amministrativi. L’impresa familiare non è necessariamente  piccolo imprenditore  e le disposizioni dell’art. 230 bis meritano la più attenta lettura. In passato ( e fino alla riforma della disciplina  del diritto di famiglia del 1975 ), il lavoro prestato in famiglia  si considerava infatti prestazione < a titolo gratuito > con tutte le evidenti possibilità di abuso.  Sarà precisato più avanti in che senso alla dimensione della impresa comprensibilmente  guardano norme di legislazione speciale a misura dei fenomeni di crisi di imprese a grande dimensione.

      Quanto poi all’organizzazione di impresa e alla distinzione tra impresa individuale e impresa collettiva, sarà chiaro che una cosa è l’impresa esercitata da un singolo imprenditore, altra cosa la società costituita sul modello dell’art. 2247 da «due o più persone» per «l’esercizio in comune di una attività economica», mediante conferimenti di «beni» o «servizi» che alla attività di impresa consentono di operare con strumenti e ad una scala semplicemente impensabile per l’impresa organizzata a misura delle forze del singolo imprenditore individuale.E’ vero che possono adesso  darsi anche società ( a responsabilità limitata o società azionarie ) unipersonali ma in linea generale  imprese individuali e società appartengono a mondi diversi e  separati da una distanza che già le norme del codice civile misurano per intero. Si deve infine considerare la diversificazione tra imprese e regimi di imprese che si deve all’oggetto della attività imprenditoriale che è naturalmente multiforme.

       Nella sua originaria formulazione l’art. 2135 del codice civile definiva l’impresa agricola e più precisamente l’imprenditore agricolo, inteso come tale «chi esercita un’attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame» e «attività connesse». E ancora l’art. 2135 avvertiva poi che «si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli» ma soltanto se e in quanto si tratti di attività «che rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura». Da ciò la qualificazione di attività connessa all’esercizio dell’impresa agricola variamente estesa a tutta una serie di trasformazioni del prodotto della attività (e per esempio la trasformazione dell’uva in vino), così come all’offerta dei prodotti della coltivazione del fondo (e per esempio esposti al pubblico per una diretta vendita a chi passa), non essendo tuttavia più esercizio normale dell’agricoltura una attività industriale di trasformazione dei prodotti o l’organizzazione di una rete di vendita sul modello del grande commercio.

      Alla originaria formulazione dell’art. 2135 del codice civile si sono adesso apportate significative integrazioni con le norme del decreto legislativo 228 del 18 maggio 2001. Coltivazione del fondo e comunque attività di impresa agricola sono considerate anche le attività «dirette» alla cura e allo sviluppo di un «ciclo biologico» o di «una sua fase» mediante l’utilizzo del fondo o delle altre risorse indicate dalle norme del decreto legislativo, che in misura molto consistente ampliano poi l’ambito delle attività da ritenersi normalmente connesse all’operare dell’impresa agricola.Per la nuova formulazione del secondo comma dell’art. 2135 strutturalmente connesse alla attività principale dell’imprenditore agricolo sono infatti le attività di «conservazione» e «trasformazione» ma anche di «commercializzazione» e «valorizzazione» dei «prodotti» derivati dal fare impresa agricola.

        Allo stesso modo lo sono le attività relative alla «fornitura di beni e servizi» mediante l’utilizzo «prevalente» di attrezzature o risorse dell’impresa normalmente impiegate nello svolgimento dell’impresa, non escluse quante consistono in valorizzazioni del territorio e del patrimonio «rurale e forestale» (o ancora in prestazioni di «ricezione» e «ospitalità» che con ogni evidenza si riferiscono al rilevante comparto dell’agriturismo). La nuova formulazione dell’art. 2135 avverte poi che imprenditore agricolo può anche essere una «cooperativa» di agricoltori o un loro consorzio se per la attività si impiegano in misura prevalente risorse prodotte dai soci o se con essa ai soci si offrono «beni» e «servizi» per la cura e lo sviluppo di un ciclo biologico E «l’iscrizione degli imprenditori agricoli» ma anche «delle società semplici esercenti attività agricola» nella sezione speciale del registro delle imprese «oltre alle funzioni di certificazione anagrafica ed a quelle previste dalle leggi speciali» ha «l’efficacia di cui all’articolo 2193 del codice civile».Altro in via breve occorre infine segnalare.

           Con il decreto legislativo 228 si sono infatti stabilite nuove discipline per l’«esercizio» dell’attività di vendita «diretta» e «al dettaglio» dei «prodotti provenienti in misura prevalente» dall’impresa agricola. E l’art. 10 del decreto legislativo stabilisce quali requisiti «società di persone» e «società di capitali» devono presentare per essere imprenditore agricolo «a titolo principale» Si stabiliscono precisi contenuti delle discipline statutarie volta a volta diversi a seconda del singolo tipo di società. Con un riferimento «percentuale» che quanto alle società in accomandita si riferisce ai soli soci accomandatari,per le società di persone è disposto che almeno la metà dei soci deve essere in possesso della qualifica di imprenditore agricolo «a titolo principale». Nel caso della società di capitali una quota maggiore del cinquanta per cento del capitale sociale deve essere sottoscritta da imprenditori agricoli anch’essi «a titolo principale». Qualifica ancora richiesta per un numero di soci almeno pari alla metà nel caso della società cooperativa che dovrà comunque avvalersi di «prodotti» conferiti da soggetti «soci».Va infine ricordato che con il decreto legislativo 226 del 18 maggio 2001 si è opportunamente riformato il regime del settore delle attività di pesca mediante l’equiparazione dell’imprenditore ittico a quello «agricolo» a «titolo principale».

      Anche da ciò significative innovazioni di disciplina in settori dell’economia che comunque conservano una loro particolare specialità di ordinamento. Fino a che l’attività svolta dall’impresa appartiene all’ambito delle attività che per le norme di legge sono fare impresa «agricola», il suo regime si caratterizza infatti per una speciale disciplina che in grande misura significa esclusione delle prescrizioni che valgono per l’imprenditore commerciale. Non operano le disposizioni intese a regolare l’agire negoziale dei dipendenti che agiscono in rappresentanza dell’imprenditore commerciale. Non operano le disposizioni che per l’imprenditore commerciale stabiliscono stringenti vincoli in materia contabile. E in caso di insolvenza l’imprenditore agricolo non è assoggettato alle procedure concorsuali. Ne consegue uno statuto giuridico dell’imprenditore agricolo che costituisce oggetto di motivate perplessità. E già in linea di principio è ormai molto discutibile la stessa distinzione di regime tra impresa agricola e impresa commerciale.

        Si tratti di «coltivazione del fondo», di attività «connesse» o di quant’altro è attività indicata dalle disposizioni dell’art. 2135 (e dalle norme che con esse fanno sistema), anche in agricoltura sono ormai assolutamente prevalenti modalità d’uso delle risorse e tecnologie produttive davvero lontane da ciò che un tempo segnava la loro distanza dalle imprese di genere industriale. Va poi rilevato che per un mondo di agricoltura «industrializzata» il ricorso al credito e al mercato dei capitali è fenomeno a grandi dimensioni. Con frequenza sempre maggiore mancano perciò le ragioni costitutive di una speciale disciplina. Anche se utilmente riformate le norme di regolazione del settore in questo senso continuano ad essere uno statuto giuridico di attività di impresa che in ampia misura ancora guarda al passato (e in ampia misura da ripensare: ma questa è materia complessa e coinvolge valutazioni di politica e di analisi economica del diritto che in queste pagine non possono davvero trovare spazio).

       All’universo normativo delle imprese e imprese commerciali  appartiene poi con una presenza di grande rilievo anche l’impresa artigiana. Si deve ricordare che molti non sono di questo avviso. Ma se è vero che chi è artigiano non svolge attività «industriale» nell’accezione dell’art. 2195  sarà chiaro che l’impresa artigiana svolge pur sempre una attività «diretta alla produzione di beni e servizi». E  il sistema del codice civile non conosce imprese diverse dall’impresa commerciale se non nel caso dell’impresa agricola che naturalmente è tutt’altra cosa. Semmai si deve avvertire che il discorso da fare sull’impresa artigiana è molto complesso già guardando alle grandi linee del sistema. Va  intanto considerato il disegno delle norme costituzionali, e perciò il secondo comma dell’art. 45 Cost. dove si prefigurano interventi con finalità di «tutela» e di «sviluppo» dell’artigianato (così come lo spazio a suo tempo già aperto dalla norma dell’art. 117 a possibili interventi del legislatore regionale).

       Occorre poi considerare la disposizione del codice civile che (all’art. 2083) guarda all’artigiano come figura di «piccolo imprenditore». Occorre infine valutare il particolare rilievo delle norme della «legge quadro» per l’artigianato, le norme della legge 443 dell’8 agosto 1985 che stabiliscono misure di incentivazione e sostegno di questo importante comparto dell’economia.Al tempo stesso l’intervento legislativo che si è operato con la legge «quadro» del 1985 ha provveduto a significative disposizioni di principio. Per indicazione delle norme della legge dell’agosto 1985 è possibile oggetto dell’impresa artigiana qualsiasi «produzione di beni» o qualsiasi «produzione di servizi». Sono esclusi soltanto taluni settori di attività enumerati dal primo comma dell’art. 3 (e tra questi comunque quanti appartengono all’ambito di operatività dell’impresa agricola).     

          Imprenditore artigiano è chi «esercita personalmente» e «professionalmente» in qualità di «titolare» la attività di impresa. Ne deriva «piena responsabilità» per «oneri» e «rischi» conseguenti alla «direzione e gestione» della attività. Ma al tempo stesso chi è «artigiano» alla attività assicura il suo contributo svolgendo «in misura prevalente» il «proprio lavoro, anche manuale» nel «processo produttivo» che caratterizza l’impresa. Non è invece stabilito un principio di prevalenza del lavoro suo (e di membri della famiglia) sul lavoro altrui e sul capitale investito nell’impresa, essendo stabiliti soltanto limiti di soglia al numero dei dipendenti «estranei alla famiglia dell’imprenditore».Norma del codice civile e norme di legge speciale offrono ampia materia a contrastanti orientamenti.

       Secondo una opinione assai accreditata , le diverse norme coesistono dovendosi provvedere ad una loro (non facile) organizzazione in sistema unitario. Secondo altra opinione, le norme di legge speciale sono invece ormai la nuova disciplina di statuto dell’imprenditore artigiano, operando in sostituzione di quanto si possa derivare dall’art. 2083 del codice civile, che per altri invece si deve ancora ritenere norma costitutiva della nozione di impresa artigiana per ciò che non sia legislazione di «incentivazione» e «sostegno» del settore. Comunque è certo che l’artigiano appartiene al numero degli imprenditori commerciali ma non necessariamente al numero dei «piccoli imprenditori». In caso di insolvenza sarà quindi soggetto al regime delle procedure concorsuali ogni volta che non si tratti di piccola impresa artigiana. E non è «piccola impresa» l’impresa artigiana che si costituisca in forma di società, volta a volta società in nome collettivo, in accomandita semplice o ancora società a responsabilità limitata «unipersonale», non essendo poi da escludere il ricorso alla forma giuridica della società cooperativa.

       Va infine segnalata la innovazione disposta dalle norme della legge delche amplia il numero delle possibili fattispecie di configurazione dell’impresa artigiana come società di capitali secondo il tipo della società a responsabilità limitata. A integrazione del regime già stabilito per l’impresa «unipersonale», le norme della nuova legge consentono anche alla società artigiana di costituirsi come «società a responsabilità limitata» se «nel processo produttivo» più  di un socio «in prevalenza» svolge «lavoro personale», e se la maggioranza dei soci «attivi» nel «processo produttivo» detiene la maggioranza del capitale sociale. Anche a non considerare i possibili benefici di carattere fiscale, una normativa che costituisce porta aperta all’ingresso di un grande numero di imprese artigiane nel comparto delle società a responsabilità limitata è innovazione di consistente rilievo. Permette infatti alle imprese di acquisire le maggiori risorse finanziarie così necessarie per l’innovazione tecnologica e per una presenza di mercato davvero competitiva.

      

    3. Lo statuto giuridico dell’imprenditore commerciale.La disciplina dell’agire in suo nome. Il  registro delle imprese, la tenuta delle scritture contabili, le procedure concorsuali.

     Lo statuto giuridico dell’imprenditore commerciale consiste di norme che presentano caratteri di particolare rilievo. Norme che non si applicano all’imprenditore agricolo e stabiliscono invece per l’imprenditore commerciale che non sia piccolo imprenditore una disciplina quanto mai rigorosa. Se non è piccolo imprenditore lo obbligano infatti alla iscrizione nel registro delle imprese con i rilevanti effetti che si preciseranno Allo stesso modo lo obbligano alla tenuta delle scritture contabili secondo la impegnativa disciplina degli artt. 2188 a 2202. E se non è piccolo imprenditore in caso di crisi dell’impresa e di insolvenza lo assoggettano al fallimento e alle altre procedure concorsuali. Ma al riguardo sarà necessario  un separato discorso che distinguendo tra fallimento, amministrazione controllata dell’impresa, forme di concordato e altre procedure concorsuali consenta di valutare in che misura imprenditori e società commerciali sono oggetto di una speciale disciplina di settore, espressamente intesa a garantire tutela dei creditori e generali interessi di ogni economia di mercato anche mediante gli strumenti del diritto penale.

      Gli artt. 2203 a 2213 regolano  la posizione di quanti come institori, procuratori o commessi operano in rappresentanza dell’imprenditore commerciale. Con la frequenza e la estensione di campo che è facile immaginare(da sempre e sempre più spesso) per fare contratti è attività di impresa  l’imprenditore si avvale di altri che agiscono in suo nome e per suo conto. E una volta di più si riscontrano precise distinzioni di regime. Se si tratta di collaborazioni prestate da quanti non sono dipendenti dell’impresa operano le norme di disciplina generale della rappresentanza. Quando invece l’imprenditore sia commerciale e si avvalga di dipendenti dell’impresa si applica la particolare disciplina stabilita per «institori», «procuratori» e «commessi» appunto dalle norme degli artt. 2203 a 2213. Sempre che l’imprenditore non decida di limitare le attribuzioni dei suoi dipendenti, lo svolgimento di mansioni professionali porta  con sé i poteri di rappresentanza normalmente commisurati alla mansioni svolte, cosa che naturalmente tutela i terzi entrati in rapporto con l’impresa ben sicuri di trattare con qualcuno che ha legittimazione a contrarre.

      Institori sono i dipendenti al vertice dell’impresa o di una sua «sede secondaria» o ancora di un suo singolo «ramo», che sia pure entro i limiti segnati dall’art. 2204 possono «compiere tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa» e per quanto sia materia di «preposizione institoria» possono «stare in giudizio in nome» dell’imprenditore che li ha designati. Sono procuratori, e per essi vale la norma dell’art. 2209 i dipendenti che svolgono attività in posizione dirigente anche se non al vertice dell’organizzazione, non essendo «preposti» all’esercizio dell’impresa (come ad esempio nel caso di un direttore del personale). E i commessi svolgono mansioni esecutive (come nel caso del cameriere al ristorante), con riguardo alla loro attività essendo stabilita la circostanziata disciplina degli artt. 2210 a 2213. Per tutti è regola che delle obbligazioni contratte operando per l’impresa risponderà l’imprenditore «rappresentato». Ma quanto alle possibili limitazioni dei poteri di institori e procuratori si leggano con attenzione gli artt. 2204 a 2207 (e si legga che cosa l’art. 2208 dispone in punto di loro personale responsabilità).

      Già ne risulta un insieme di norme  dovute ad una precisa necessità di stabilire garanzie per il mercato e comunque per chi intrattenga rapporti con l’impresa.  E in modo particolare  è forte  l’esigenza di apprestare garanzie di tutela dei creditori dell’imprenditore integrate da più generali garanzie di certezza e di trasparenza delle sue attività. Risultati che in ampia misura si conseguono  mediante documentazioni e atti di certificazione. Anche in questo senso quanto più efficiente è il loro sistema di garanzie tanto più economia e mercati accrescono la loro soglia di razionale operatività. Sarà perciò di immediata evidenza il grande rilievo della prevista istituzione di un registro delle imprese configurandosi un obbligo di iscrizione nel registro con tutta la estensione di campo indicata dall’art. 2195.  Per una economia di mercato l’informazione su soggetti e attività è valore primario. Deficit di trasparenza e asimmetrie informative si considerano (intollerabili e sono) una anomalia da rimuovere, informazione e trasparenza essendo dovunque indicate come un bene pubblico assolutamente irrinunciabile.

          Si provvede perciò con disposizioni di obbligo che hanno inderogabile carattere di imperatività. Obbligo in materia societaria dall’art. 2200 del codice civile esteso alle società cooperative, e comunque alla generalità delle imprese che pur non esercitando attività commerciale scelgano la forma giuridica delle società commerciali. In taluni casi l’iscrizione nel registro svolge funzioni di pubblicità costitutiva nel senso che soltanto l’adempimento pubblicitario «costituisce» e fa esistere l’effetto giuridico. Operano norme che riguardano società di capitali, società cooperative così come le operazioni di fusione e scissione di società e altro ancora. Appunto in tema di pubblicità costitutiva tra le tante sarà bene segnalare fino da adesso la disposizione dell’art. 2331. La società per azioni acquista la personalità giuridica soltanto con la iscrizione nel registro, per le operazioni compiute «in nome della società» prima di allora essendo «illimitatamente e solidalmente responsabili» verso i terzi «coloro che hanno agito».

      Medesimo regime vale per le altre società di capitali e per le imprese cooperative. Ma  ha efficacia costitutiva anche l’iscrizione nel registro di importanti operazioni di assetto imprenditoriale e finanziario . E se è vero che esistono ed operano anche in assenza dei dovuti adempimenti, in caso di mancata iscrizione nel registro società in nome collettivo e società in accomandita semplice sono società irregolari, per disposizione degli artt. 2297 e 2317 dà ciò derivando le rilevanti variazioni di regime che saranno precisate più avanti. In un grande numero di casi l’iscrizione svolge invece funzioni di pubblicità dichiarativa.  Regola perciò le condizioni di opponibilità ai terzi degli atti registrati secondo il regime stabilito dall’art. 2193. E se si guarda all’intera serie delle norme che prescrivono iscrizioni (ma già se si guarda alla disposizione dell’art. 2196) si rileva con chiarezza in che misura   l’operare del   registro è   struttura portante del sistema e  necessaria garanzia di   documentazione di   ciò che  al mercato occorre conoscere .

       Più precisamente finalità del registro è  documentare   sia gli elementi distintivi dell’impresa variamente costituiti dall’identità dell’imprenditore, dalla sua sede, dall’oggetto dell’attività (e altro ancora) sia le vicende, gli atti e i fatti che nello svolgimento della attività di impresa configurano la complessa trama dei suoi rapporti con il mercato e con i creditori. L’art. 2193 stabilisce il regime dei «fatti» da iscrivere nel registro mediante disposizioni che sono naturalmente di primaria importanza per l’intera serie dei possibili rapporti tra impresa e terzi entrati con essa in relazioni d’affari. Una volta iscritti i «fatti» si considerano a conoscenza dei terzi che perciò non possono invocare una loro «ignoranza». Ma «se non sono stati iscritti» non possono essere «opposti ai terzi» da «chi» era obbligato all’iscrizione «a meno che questi provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza».

      Così prefigurata nei suoi effetti già dalle norme del codice civile la istituzione di un registro delle imprese doveva costituire per decenni un progetto incompiuto. In mancanza del necessario decreto di sua esecuzione, per cinquant’anni si è infatti operato nel regime transitorio stabilito da talune disposizioni di attuazione del codice civile. E alla attivazione del registro delle imprese si è pervenuti soltanto con l’art. 8 della legge 580 del  dicembre 1993. Le sue regole hanno variato in consistente misura l’originario progetto del codice, delineando la disciplina poi completata dal d.p.r. 581 del 7 dicembre 1995 e successivamente modificata con le prescrizioni  del d.p.r. 559 del 16 settembre 1997. Appunto l’art. 7 del decreto del dicembre 1995 provvede ad elencare le imprese destinatarie della iscrizione nel registro adesso  organizzato con tecnologia  informatica finalmente evoluta  presso la Camera di commercio .

        Nella sua attuale configurazione il registro delle imprese si presenta nelle forme di un apparato documentale a carattere complesso. Accoglie nella sua sezione ordinaria e con effetti di pubblicità legale le informazioni relative agli imprenditori commerciali ( che non siano piccoli imprenditori ) e alle società comunque costituite in forma di società commerciale(anche se non svolgono attività commerciale ). Alla medesima sezione si iscrivono consorzi e società consortili, «gruppi europei di interesse economico» con sede nel nostro paese , le imprese «ente pubblico» che hanno per oggetto l’attività commerciale  e società estere (se nel nostro paese hanno sede amministrativa o l’oggetto primario della loro attività). E per le «sedi secondarie» si deve domandare iscrizione all’ufficio del registro delle imprese «dove è la sede principale dell’impresa».       

      Sezioni speciali del registro accolgono le informazioni che riguardano piccoli imprenditori, imprese artigiane, imprenditori agricoli e società semplici.  Ancora una volta si opera con finalità di trasparenza ma su scala minore. Dalla iscrizione in queste speciali sezioni del registro di regola  deriva infatti soltanto l’effetto di pubblicità notizia che consegue alla conoscibilità di quanto ne risulta.Ma di regola  l’iscrizione dell’atto o del fatto di per sé non ha l’effetto di renderlo opponibile ai terzi essendo materia di prova   la loro conoscenza  di atti o fatti rilevanti. Ma un regime particolare vale per  la società semplice che esercita l’impresa agricola e comunque per la generalità degli imprenditori agricoli , considerato che secondo la    disposizione dell’art. 2 del decreto legislativo 228 del con riguardo ad essi l’iscrizione nel registro produce invece effetti di pubblicità legale.

        Grande rilievo ha poi la documentazione contabile delle attività di impresa. Per il piccolo imprenditore anche se imprenditore commerciale vale la disposizione di esonero del terzo comma dell’art. 2214. Ma per ogni altro imprenditore commerciale esiste un obbligo di tenere scritture contabili. E ( con esclusione della società semplice )obbligo di tenuta di scritture contabili  esiste per le società costituite in forma di società commerciale anche quando la attività svolta non sia attività commerciale .Si  tratta di adempimenti che contestualmente svolgono diverse ma egualmente importanti funzioni. Una corretta tenuta della contabilità è indispensabile già all’imprenditore per le necessarie valutazioni degli andamenti di impresa secondo criteri di loro razionale apprezzamento. Occorre ai terzi per derivarne le informazioni che servono a quanti entrano con l’impresa in rapporti di affari. E nell’eventualità di una situazione di insolvenza dell’imprenditore saranno appunto le scritture contabili a consentire di accertare e misurare la sua esposizione debitoria.

       Il libro giornale deve indicare «giorno per giorno» le operazioni relative all’esercizio dell’impresa. Il libro degli inventari deve contenere «indicazione» e «valutazione» delle attività e delle passività relative all’impresa secondo le modalità e con le finalità stabilite dall’art. 2217. L’inventario deve redigersi «all’inizio dell’esercizio dell’impresa» e successivamente ogni anno. Deve contenere indicazione e valutazione delle attività e delle passività relative all’impresa «nonché delle attività e delle passività dell’imprenditore estranee alla medesima». E si deve chiudere con il bilancio e il conto dei profitti e delle perdite «il quale deve» dimostrare «con evidenza e verità» gli utili conseguiti o le perdite subite (ma per i documenti di bilancio a suo tempo sarà necessario più ampio e separato discorso con particolare riguardo al diritto contabile delle società di capitali).

      Sono infine obbligatorie le ulteriori scritture contabili richieste «dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa», che saranno volta a volta il libro mastro, il libro magazzino o altri ancora. Occorre al tempo stesso «conservare ordinatamente» le documentazioni enumerate dal secondo comma dell’art. 2214. Le prescrizioni da osservare per la regolarità delle scritture contabili sono indicate dagli artt. 2215, 2216, 2217 e 2219. Ne risultano stabilite le modalità di «tenuta» e di «conservazione» di una «ordinata contabilità» con puntuale determinazione di tempi e configurazione degli adempimenti dovuti. E va ricordato che una omessa o irregolare tenuta delle scritture espone anche al rischio di sanzioni disposte dalla legislazione fiscale (e al rischio di sanzioni penali quando ne risulti configurata la fattispecie del reato di bancarotta documentale).

       Sarà bene avvertire che la materia è complessa e multiforme. Per taluni settori di impresa (e ad esempio nel caso delle imprese bancarie o assicurative e delle imprese di <cartolarizzazione > dei crediti) valgono infatti speciali regole di scritturazione e contabilità che ne qualificano in misura determinante il regime normativo. E si preciserà in seguito quanto riguarda la disciplina delle imprese comunque costituite in forma di società di capitali. A determinare il valore delle scritture contabili come mezzo di prova a favore dell’imprenditore o contro l’imprenditore (e l’argomento è importante) provvedono comunque gli artt. 2709 e 2710. Operano disposizioni nel segno della necessaria chiarezza. I libri e le altre scritture contabili delle imprese «soggette a registrazione» per la norma dell’art. 2709 «fanno prova contro l’imprenditore». Ma va considerato che «chi vuol trarne vantaggio non può scinderne il contenuto». E ha particolare rilievo la norma dell’art. 2710.

       Questa disposizione stabilisce infatti che «quando sono regolarmente tenuti» i libri contabili possono comunque fare prova «tra imprenditori» per «i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa». Si tratti poi di loro «comunicazione integrale» o di una singola «esibizione» di documenti, a regolare l’impiego processuale di libri, scritture contabili e corrispondenza di impresa servono le disposizioni dell’art. 2711. Dal giudice la comunicazione integrale può essere ordinata soltanto in materia di controversie che riguardano scioglimento di società, comunione di beni e successioni per causa di morte. In casi diversi da questi «anche d’ufficio» il giudice tuttavia può pur sempre ordinare che i libri si esibiscano «per estrarne le registrazioni concernenti la controversia in corso» (e può anche ordinare l’esibizione di «singole scritture contabili», fatture e ancora altre documentazioni se «concernenti la controversia» in atto).

 

4. La nozione di «società» e lo scenario di insieme. Il contratto e le altre fonti costitutive. L’autonomia patrimoniale. Oggetto e scopo delle attività. Società commerciali, società non commerciali. Scopo lucrativo, scopo mutualistico, scopo consortile

       È società l’organizzazione che consente a più soggetti di svolgere in comune una attività economica. Si uniscono le forze quanto a risorse di capitale e talvolta anche quanto a capacità operative. Si condividono e perciò si rendono meno gravosi i fattori di rischio. E già per questi motivi la società costituisce lo strumento privilegiato per avviare iniziative imprenditoriali di rilievo. Operano norme di legge molto numerose che talvolta   vincolano fortemente  i contenuti dell’atto costitutivo e dello statuto della società, residuando tuttavia pur sempre  ampio spazio per l’autonomia di valutazione che compete a quanti assumono iniziative societarie. Da norme di legge e disciplina statutaria saranno regolati gli obblighi dei soci e i loro diritti che configurano una complessa posizione giuridica del socio  comprensiva di diritti patrimoniali, diritti amministrativi di partecipazione all’attività sociale e diritti di controllo sulla gestione della società. Saranno ancora norme di legge  ma anche autonomia di disciplina statutaria a definire l’assetto organizzativo della società. E  molto rilevano  le norme del decreto legislativo del marzo 2002 che ha sostituito le disposizioni dell’undicesimo titolo del quinto libro del codice civile formulando nuove disposizioni per la disciplina penale della materia societaria .  

       Come risulta con ogni evidenza già da una sommaria ricognizione di campo che ne consideri soltanto l’oggetto e il regime patrimoniale, la materia societaria  comprende in sé fenomeni e fattispecie del più diverso genere.Quanto all’oggetto delle attività il criterio primario di distinzione è tra società non commerciali che appunto non possono svolgere attività commerciale, come è il caso della società semplice e società invece commerciali che svolgeranno perciò attività di imprenditore commerciale, e saranno volta a volta società di persone  in nome collettivo o in accomandita semplice oppure società di capitali ,e perciò  società per azioni, società in accomandita per azioni e società a responsabilità limitata per esse dovendosi considerare la radicale riforma di sistema operata a gennaio del 2003. E per le società azionarie l’art. 2325 bis provvede ad una identificazione delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio ,le società con azioni quotate in mercati regolamentati o comunque diffuse tra il pubblico in misura  rilevante assoggette poi ad una loro speciale disciplina.

        .Lo scenario di insieme è davvero multiforme e complesso dovendosi tener presente che che la forma giuridica di una delle società commerciali può essere scelta anche per svolgere una attività non commerciale, senza tuttavia che questo comporti applicazione alla società delle norme di regime degli imprenditori commerciali. Quanto al regime patrimoniale delle società occorre distinguere tra le  società di persone che hanno autonomia patrimoniale imperfetta e perciò non sono «persona giuridica», come è il caso della società semplice, della società in nome collettivo e della società in accomandità semplice mentre sono invece società  <persona giuridica > che opera in regime di perfetta autonomia patrimoniale la società per azioni, la società in accomandita per azioni e la società a responsabilità limitata. Esistono infine società a scopo di lucro e società non lucrative dovendosi considerare in modo particolare  il regime giuridico della società cooperativa (anche quando  non  sia società a mutualità prevalente sul modello   dell’art. 2512 ).

         Nel disegno delle norme del codice civile «fonte costitutiva» di una società è in linea di principio il contratto, per l’appunto il contratto di società che l’art. 2247 definisce con concisa chiarezza. Con il contratto di società «due o più persone conferiscono beni e servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili». Come si preciserà più avanti esistono tuttavia norme di legge che per singole fattispecie consentono la costituzione di società per atto unilaterale. Società a responsabilità limitata e società per azioni già in linea di principio  possono comunque  essere costituite anche con atto unilaterale. E fattispecie di costituzione di società con atto unilaterale si ritrovano in leggi speciali che riguardano processi di trasformazione in società di enti creditizi, dismissioni di partecipazioni azionarie dello Stato (e di altri enti pubblici) e ancora la «trasformazione» in «società» di aziende degli enti locali. Guardando ai recenti fenomeni di privatizzazione di importanti comparti del settore pubblico, va poi considerato con la dovuta attenzione anche il caso delle società legali, intese come tali sia le società costituite in via diretta da una norma di legge sia le società che una norma di legge impone di costituire. Ma si tratta pur sempre di fattispecie particolari.

      Nella generalità dei casi opera infatti la regola dell’art. 2247 e la società origina da un contratto di società che appartiene all’ambito dei contratti associativi e con comunione di scopo. Il contratto di società è per sua natura potenzialmente «plurilaterale», è contratto di organizzazione di attività e ad esso si applicano gli artt. 1420, 1446, 1459 e 1466. E naturalmente si applicano le norme di disciplina generale dei contratti se compatibili con le norme di speciale disciplina dei singoli tipi di società indicati dall’art. 2249. Questa disposizione configura un sistema normativo che tuttavia stabilisce il principio del numero chiuso dei tipi di società. Alle parti del contratto perciò è consentito scegliere tra tipo e tipo di società e non è esclusa la possibilità di integrarne il regime con particolari e «atipiche» clausole negoziali essendo assai indicativa la nuova disciplina delle società a responsabilità limita. Ma non è consentito costituire società non appartenenti ad un tipo legale.

      La necessaria conformità di ogni società ad un tipo legale in decisiva misura ne precostituisce il regime che sarà volta a volta diverso a seconda del tipo prescelto dai contraenti. Esistono tuttavia pur sempre regole di carattere generale già in grande evidenza se si considerano le disposizioni in materia di conferimenti, la disciplina dell’«esercizio in comune» dell’attività di impresa e lo «scopo di dividerne gli utili». Si tratti di beni materiali o di beni immateriali, di crediti o di servizi prestati (o più semplicemente di denaro) in ogni società i conferimenti dei soci confluiscono in un patrimonio sociale, che di tempo in tempo varierà a seconda degli andamenti della gestione che determinano la soglia dell’attivo e del passivo sociale. Ma l’atto costitutivo della società deve stabilire e indicare il valore degli iniziali conferimenti dei soci in quanto capitale sociale, inteso come tale il valore in denaro dei conferimenti che così considerati svolgono necessarie funzioni di garanzia e altre ancora.

        Funzioni di garanzia (efficacemente esemplificate da norme come l’art. 2303 o l’art. 2447) perché le norme vincolano la società a conservare quel valore (che diventa perciò indisponibile) a garanzia di tutela dei terzi entrati rapporti di affari con la società, che sulla consistenza economica del capitale sociale possono in ogni caso fare conto per la riscossione dei loro eventuali crediti. Altre e rilevanti funzioni l’entità numerica del capitale sociale svolge poi quanto alle valutazioni di bilancio. Ogni società deve periodicamente valutare il suo andamento di gestione mediante un bilancio di esercizio che serve ad accertare se la gestione ha conseguito un utile o registrato invece perdite. E naturalmente un utile esiste soltanto se l’attivo di bilancio supera le passività aumentate dell’importo del capitale sociale, che per la sua stessa funzione di garanzia dei creditori va considerato un debito verso terzi (e perciò va segnato al passivo del bilancio societario). Si dirà più avanti della speciale disciplina della società cooperativa che opera in regime di capitale variabile.

        Ad indicare ulteriori requisiti del contratto di società l’art. 2247 poi provvede indicando come elemento distintivo di ogni e qualsiasi società l’esercizio in comune di una attività economica. E tale sarà naturalmente anche  il caso di società che come la società di engineering o la società di revisione contabile pure esercitano in prevalenza attività di elaborazione concettuale di problemi tecnici. Considerato che nell’art. 2247 «attività» significa comunque serie di atti coordinati secondo una logica di programma, sarà chiaro che non è invece «società» l’iniziativa avviata da operatori economici semplicemente interessati a fare insieme una singola operazione di mercato che a veder bene non comporta alcuna organizzazione di attività (e per esempio una vendita congiunta di merci che vendute insieme consentono di conseguire un maggior prezzo).

    L’art. 2247 tuttavia non richiama il requisito della professionalità invece dall’art. 2082  ritenuto necessario perché esista impresa. Perciò non esiste impresa ma esiste pur sempre società nel caso delle società occasionali, costituite per lo svolgimento di una operazione di mercato a carattere complesso, che esige organizzazione di una serie di atti coordinati secondo logica di programma, anche se l’attività svolta non avrà il carattere durevole    delle attività professionali (e la società sarà sciolta una volta venduti gli immobili costruiti in esecuzione del progetto di insediamento abitativo). Altra (molto discussa  e molto rilevante ) fattispecie di società senza impresa sembra configurare il caso della società tra professionisti (ma la problematica è complessa e la disciplina della fattispecie ancora in via di definizione).

       Sempre in tema di regime delle attività l’art. 2248 distingue con sufficiente chiarezza tra società e comunione a scopo di godimento, disponendo che nel caso di una comunione costituita o mantenuta «al solo scopo del godimento di una o più cose» non si applicano le norme in materia di società. In tal caso manca infatti il genere di attività che ne giustifica il regime, essendo evidente che una cosa è la attività di genere imprenditoriale e altra cosa l’attività di pura e semplice cura di beni con finalità di un loro miglior godimento. Perciò l’art. 2248 stabilisce che a tale fattispecie si applicano le norme che il terzo libro del codice civile prescrive appunto per la comunione di beni. E in questo senso si devono considerare vietate le società di mero godimento (ma naturalmente non lo sono società che impiegano beni in comproprietà nel contesto di una organizzazione di impresa: si pensi al caso della società che non si limita alla locazione di immobili, impiegando invece immobili nella attività di gestione di un complesso apparato di servizi residenziali).

        Ancora l’art. 2247 avverte poi che non esiste società senza esercizio «in comune» di una attività. E società non esiste nel caso della associazione in partecipazione che si concreta quando si assicurano apporti finanziari all’altrui attività di impresa, senza che tuttavia ne consegua alcuna forma di concorso alla sua gestione né alcun «esercizio in comune» di attività imprenditoriali. Il contratto può anche prevedere modalità di controllo (e comporta diritti di rendiconto) secondo quanto stabilisce l’art. 2552. Ma non è contratto di società ed è invece puro e semplice contratto di scambio sul modello dell’art. 2549, che prefigura appunto contratti mediante i quali un imprenditore «associante» attribuisce ad un soggetto «associato» una partecipazione agli utili della sua impresa» o di uno o più affari «verso il corrispettivo di un determinato apporto». L’art. 2553 precisa che «salvo patto contrario» l’associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili. Ma le perdite che colpiscono l’associato non possono superare il valore del suo apporto. In ogni caso la gestione dell’impresa o dell’affare compete in via esclusiva all’associante (e gli compete in via esclusiva anche nel caso dei contratti di cointeressenza prefigurati dall’art. 2554).

       Quanto allo scopo di lucro occorre intanto distinguere tra società e altre organizzazioni collettive che pure possono svolgere attività di impresa. Va infatti considerato che per l’art. 2082 l’attività di impresa non ha necessariamente scopo di lucro. E attività di impresa possono svolgere anche organizzazioni collettive che non sono società. Si pensi al caso di una associazione del libro primo del codice civile che a integrazione delle sue iniziative di genere culturale nel settore dell’arte contemporanea per statuto preveda anche lo svolgimento di attività di impresa. Attività che l’associazione svolgerà senza scopo di lucro e soltanto al fine di promuovere ulteriori attività associative. Si venderanno libri e opere d’arte, si organizzeranno viaggi e molto altro. E tutto questo sarà attività di impresa di una associazione «imprenditore commerciale» diverso dall’imprenditore «società», come diversi dall’imprenditore «società» sono enti pubblici che svolgano anch’essi attività di impresa senza scopo lucrativo. Altro invece lo scenario delineato dalle norme che regolano le attività di impresa svolte in forma societaria.

        L’art. 2247 segnala infine come finalità tipica del contratto di società lo scopo di divisione degli utili. Occorre tuttavia precisare che per questa sua parte l’art. 2247 riguarda soltanto le società lucrative, che saranno volta a volta società semplici, società in nome collettivo, società in accomandita, società per azioni o società a responsabilità limitata costituite appunto a scopo di lucro.Ma si consideri che le società consortili possono non avere come scopo la divisione di utili e si deve avvertire che spesso norme di leggi speciali configurano particolari fattispecie di società (e di regola società per azioni) che se hanno forma giuridica di società lucrativa tuttavia istituzionalmente escludono qualsiasi scopo di divisione di utili (il lucro in senso soggettivo), e talvolta esclusa è la stessa finalità di conseguire un utile di impresa (il lucro in senso oggettivo). Ma si tratta di norme che operano in via di eccezione. Per i tipi di società che si sono indicati è infatti pur sempre principio generale che il contratto di società ha causa lucrativa.

        Tipi di società che non hanno scopo lucrativo indicano invece gli artt. 2511 e 2615 ter. In misura talvolta  assolutamente prevalente non hanno scopo lucrativo e hanno invece uno scopo mutualistico le società cooperative dell’art. 2511 che si sono già segnalate . E come già si sa non hanno necessariamente scopo lucrativo le società indicate dall’art. 2615 che «come oggetto sociale» possono assumere lo scopo consortile dell’art. 2602. Si tratterà allora di contratti di società che costituiscono un consorzio tra imprenditori, configurandosi così una organizzazione comune istituzionalmente chiamata a regolare o a svolgere «determinate fasi» della attività degli imprenditori consorziati. La società consortile potrà anche essere consorzio con attività esterna sul modello dell’art. 2612 e perciò svolgere «un’attività con i terzi», perseguendo comunque risultati di contenimento dei costi imprenditoriali e di incremento dei profitti di impresa senza per questo perseguire in senso tecnico uno scopo lucrativo. E società non lucrative possono essere anche le associazioni di impresa e  joint ventures se la società che si costituisce per integrare le forze di due o più imprenditori persegue finalità diverse dalla produzione immediata di utili da dividere tra i soci.

 

5. Le società di persone. Società semplice, società in nome collettivo, società in accomandita semplice. Società «di fatto», società «apparenti», società «occulte». Il caso delle società «irregolari»

      Sono società di persone la società semplice, la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice. La società semplice può esercitare soltanto attività non commerciale. La società in nome collettivo che pure è società commerciale può esercitare sia attività commerciale che attività non commerciale. E lo stesso vale per la società in accomandita semplice. Per maggior chiarezza sarà il caso di leggere la disposizione dell’art. 2249. Le società «che hanno per oggetto» l’esercizio di una attività diversa dalla attività commerciale «sono regolate dalle disposizioni sulla società semplice». Perciò la società semplice è il tipo di società naturalmente  destinato alle attività dell’impresa agricola. Al secondo comma l’art. 2249 tuttavia non esclude che i soci di una impresa pure non commerciale possano invece scegliere di «costituire la società secondo uno degli altri tipi di società». Da  ciò il caso dell’impresa non commerciale organizzata nella forma giuridica della società in nome collettivo o di altro tipo di società commerciale fosse anche un tipo di società di capitali. Per espresso divieto dell’art. 2249 non possono invece darsi imprese commerciali in forma di società semplice.

        Se questo è il complessivo disegno delle norme del codice civile (ormai da tempo, e da più parti ) si è segnalata l'esigenza di una loro riforma, occorrendo un intervento legislativo che alle società di persone assegni un regime in linea con la domanda di un adeguamento delle normative agli attuali assetti dell’economia. E muovendo in questa direzione lo «schema» di disegno di legge approvato a febbraio del 2001 prefigurava  «revisione» delle disposizioni generali in materia societaria e riforma della disciplina delle società di persone, progettando la «soppressione» del tipo sociale «società semplice». Contestualmente si indicava nella società in nome collettivo il modello di organizzazione societaria da privilegiare per la generalità delle società personali, sia commerciale oppure di diverso genere la attività svolta da imprese che non assumono la forma e il regime delle società di capitali. E una riforma orientata in questa direzione ha precise motivazioni.

        Si deve infatti considerare che all’atto pratico il tipo della società semplice non ha trovato occasioni di frequente impiego. Il rilevante interesse delle disposizioni che la regolano si deve perciò in decisiva misura alle disposizioni degli artt. 2293 e 2315, che come si preciserà ne utilizzano ampiamente i contenuti per  dare  disciplina a società in nome collettivo e società in accomandita. E già da esse si derivano gli elementi distintivi delle società di persone. «Di persone» perché nel loro regime l’elemento personale rileva in modo assolutamente particolare. Si guardi al regime di responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali, dei poteri di amministrazione della società e del trasferimento della qualità di socio. Ne risulterà con ogni evidenza che le norme da considerare sono numerose, comportano numerose varianti di regime e talune disposizioni non si uniformano ai principi generali. Ma i principi generali sono di segno assolutamente univoco.

        Le società di persone non configurano una «persona giuridica» con un suo patrimonio interamente separato anche se va considerata la loro possibile trasformazione in società aventi personalità giuridica secondo la previsione  dell’art. 2498,occorrendo leggere quanto l’art. 2500 ter  dispone in ordine  alle deliberazioni che si devono assumere (  ma anche  quanto stabiliscono  l’art. 2500 quater  s in tema di assegnazione di partecipazioni sociali e l’art. 2500 quinquies  in tema di responsabilità patrimoniale ). In queste pagine  tuttavia è  possibile considerare i lineamenti generali della disciplina ,e anch’essi soltanto in via di di prima approssimazione  all’analisi di un regime con notevoli caratteri di complessità.

       In linea generale   per le obbligazioni sociali  vale la regola della illimitata e solidale responsabilità di tutti i soci :Regola tuttavia  esclusa ( soltanto) per la categoria dei soci accomandanti della società in accomandita. E ancora in linea di principio la qualità di socio in linea di principio assicura ad ognuno un accesso ai poteri di amministrazione della società. Sempre  in linea di principio la qualità di socio non si trasferisce a terzi senza il consenso degli altri soci. Da ciò il particolare rilievo del fattore personale che indica tal genere di società come modello normativo certamente preferibile quando si tratta di iniziative imprenditoriali dove più contano le qualità soggettive dei soci e il rapporto fiduciario che li lega, non occorrendo invece la ingente raccolta di risorse finanziarie consentita soltanto a società di capitali.

        Quanto alla basic rule della illimitata responsabilità per le obbligazioni sociali si dovranno considerare disposizioni (dell’art. 2267) che consentono un diverso accordo societario o disposizioni (dell’art. 2313) che per la accomandita configurano una categoria di soci accomandanti a responsabilità limitata. Ma il principio generale è pur sempre nel senso che di regola il socio delle società di persone nell’attività di impresa impegna e mette a rischio tutto il suo patrimonio. Un rischio tanto maggiore se si considera che la sua illimitata responsabilità è al tempo stesso responsabilità solidale dell’art. 1292, di modo che dal creditore della società ogni singolo socio potrebbe «essere costretto all’adempimento per la totalità» dell’obbligazione. Ma se la posizione del socio della società «di persone» comporta così pesanti responsabilità ben si spiega quanto l’art. 2257 stabilisce in materia di poteri di amministrazione.

       Ancora una volta fa eccezione il caso del socio accomandante. Ma in linea generale e «salvo diversa pattuizione» l’amministrazione della società «spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri». E se poteri di amministrazione competono «a ciascuno dei soci» illimitatamente responsabili «ciascun socio amministratore ha diritto di opporsi all’operazione che un altro voglia compiere». È vero che la «diversa pattuizione» regolata dall’art. 2258 può assegnare soltanto a taluni soci i poteri di amministrazione della società e poteri da esercitare «congiuntamente». Ma in nessun caso per gli altri la posizione di socio diventa pura e semplice partecipazione finanziaria all’attività dell’impresa. Da ciò ancora una volta il particolare rilievo del fattore personale che trova puntuale conferma nella disciplina del trasferimento a terzi della qualità di socio. Per esso occorre il consenso degli altri soci (e l’art. 2284 avverte che nel caso della morte di un socio soltanto il consenso degli altri consentirà ai suoi eredi l’accesso alle attività sociali, essendo ancora una volta eccezione alla regola quanto per l’accomandante dispone l’art. 2322).

        Va infine considerato che società di persone possono operare anche in assenza di un atto scritto che le costituisca. Può perciò darsi il caso di rapporti contrattuali e società di fatto, inteso come tale il caso   dell’attività   di impresa che si esercita in comune senza che tuttavia esista alcun formale contratto, esistendo appunto soltanto e in via di fatto condivisione di risorse, di iniziative e di guadagni o perdite. A seconda che si tratti oppur no di attività commerciale si applicherà la disciplina della società in nome collettivo o quella della   società semplice.  E qualora  si tratti di società che svolge attività commerciale la sua insolvenza  comporterà fallimento ( della   società di fatto e di tutti suoi soci ). Altra la fattispecie della società apparente che si presenta quando all’apparenza di in vincolo societario non corrisponde la realtà delle cose  esistendo per l’appunto soltanto le apparenze di un esercizio in comune di attività societarie. Ma per diritto giurisprudenziale  l’affidamento ingenerato dalle apparenze non sarà senza conseguenze configurandosi una responsabilità di tutti gli apparenti  «soci»  nei confronti dei terzi entrati con loro in relazioni d’affari.

       Altre   ancora le  fattispecie  della società palese   che  ha soci occulti (anch’essi assoggettati alle dovute responsabilità ) e infine la fattispecie   della società essa stessa occulta. La società esiste ma per accordo tra i soci la sua esistenza non si manifesta  perchè  nelle relazioni d’affari con i terzi  sl’attività di impresa si presenta come  l’agire di un  imprenditore individuale dissimulandosi  l’esistere di  di una società e di  soci  che per l’appunto si occultano . E naturalmente tutto questo al perverso fine di limitare le responsabilità patrimoniali verso terzi  al (solo e verosimilmente contenuto) patrimonio di chi  spende il suo nome come se fosse imprenditore individuale.Ma ancora una volta opera un  diritto giurisprudenziale (assai discusso  ma comunque) tale da configurare regole di  responsabilità verso i terzi estese a società occulta e soci occulti ,tutte le   volte che ai terzi riesca di provare  l’esistenza di un accordo sociale  e che gli atti  messi in essere da chi appare (imprenditore individuale ) sono in realtà  atti da riferire alla società occultata.E si pensi alla eventuale     insolvenza che concreti i presupposti della procedura  fallimentare.

     Quanto all’ ordinario regime delle  società  di persone  non sarà cosa difficile fare chiarezza già per ciò che riguarda   i lineamenti  generali della disciplina  della società semplice. Per la costituzione della società semplice non esistono requisiti di forma. Più precisamente l’art. 225 stabilisce che «il contratto» sociale «non è soggetto a forme speciali, salvo quelle richieste dalla natura dei beni conferiti». E se non ci sarà scrittura ricorrerà il caso della società di fatto. L’iscrizione della società nella sezione speciale del registro delle imprese vale  con gli effetti che si sono già indicati. Quanto all’amministrazione opera il già indicato modello di amministrazione disgiuntiva dell’art. 2257  dove è espressamente previsto che <salvo diversa pattuizione> la amministrazione della società <spetta> appunto <a ciascun socio disgiuntamente dagli altri >. E qualora si operi invece in regime di amministrazione congiuntiva devono osservarsi le prescrizioni dell’art. 2258.

      Per la rappresentanza della società dispone l’art. 2266 avvertendo che in mancanza  di diversa disposizione del contratto sociale <la rappresentanza spetta a ciascun socio amministratore>essendo estesa  a tutti gli atti che< rientrano nell’oggetto sociale > . E l’art. 2266  regola contestualmente  anche la legittimazione a stare in giudizio . In tema di responsabilità per le obbligazioni sociali, i creditori «possono far valere i loro diritti sul patrimonio sociale «ma come precisa l’art. 2267 «rispondono inoltre personalmente e solidarmente» i soci che hanno agito «in nome e per conto della societa’». E rispondono anche «gli altri soci» salvo «patto contrario». Ma un patto di questo genere deve «essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei» perché in mancanza di ciò la limitazione della responsabilità o la esclusione della solidarietà non sono opponibili «a coloro che non ne hanno avuto conoscenza». Al socio richiesto del pagamento l’art. 2268 assicura il beneficio della preventiva escussione del patrimonio sociale.

             La società in nome collettivo configura il tipo di società commerciale maggiormente diffuso. In caso di attività commerciale se gli accordi tra i soci non comportano più complesso regime la società sarà infatti società in nome collettivo. E sarà società disciplinata dalle norme degli artt. 2291 a 2312. Ma in osservanza della  disposizione dell’art. 2293 alla società in nome collettivo si applicano anche le norme che regolano la società semplice per tutto quanto non sia diversamente stabilito.Rilevano in modo particolare le prescrizioni che adesso si segnalano. Per la società in nome collettivo l’art. 2295 prescrive precisi  e circostanziati contenuti dell’atto costitutivo. E l’art. 2296   prescrive requisiti di forma, l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata che tuttavia non sono condizioni di esistenza della società ma soltanto presupposti della sua regolarità. L’atto pubblico o la scrittura privata occorrono per la iscrizione nel registro delle imprese. In sua mancanza la società pur sempre esiste ed opera essendo tuttavia società in nome collettivo irregolare, assoggettata alla previsione dell’art. 2297 dove si stabilisce che «ferma restando la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci» fino a quando «la società non è iscritta (…) i rapporti tra la società e i terzi (…) sono regolati dalle disposizioni relative alla società semplice».

        Rilevano poi in modo particolare le norme in materia di conferimenti dei soci  dovendosi leggere quanto  l’art. 2253 stabilisce con riguardo   al <conseguimento dell’oggetto  sociale > (ma sarà bene leggere con attenzione anche le successive disposizioni che con l’art. 2253 fanno sistema ). E il valore  attribuito ai conferimenti  dei soci  secondo la previsione dell’art. 2295 consentirà di  determinare l’ammontare del capitale sociale. .All’amministrazione della società  si provvederà in osservanza della regola  che ogni socio è amministratore  sempre che la disciplina statutaria  non riservi soltanto ad alcui la fuizione amministrativa originandosi allora la distinzione tra amministratori e soci che non sono amministratori. In ogni caso e come già si sa  è regola il principio di amministrazione disgiuntiva dell’art. 2257 ma l’alternativa prudenziale dell’amministrazione congiunta è offerta dall’art. 2258. Il bilancio di esercizio  a suo tempo  consentirà di    stimare utili e perdite in funzione  delle eventuali assegnazioni di utili secondo la previsione dell’art. 2262 

     Massimamente rilevano infine le norme   di speciale disciplina del regime di responsabilità per le obbligazioni sociali. L’art. 2291 stabilisce infatti che nel caso della società in nome collettivo tutti i soci «rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali». È vero che non diversamente    da quanto è previsto per la società semplice è possibile un «patto contrario». Ma occorre  chiarezza quanto alla  assoluta diversificazione di regime perché  nel caso della società semplice   la limitazione di responsabilità stabilita   a favore di taluni soci è opponibile ai terzi se portata a loro  conoscenza     <con mezzi idonei». Mentre invece   l’art. 2291 avverte che nel caso della società in nome collettivo tale   patto  non ha effetto nei confronti dei terzi. E questo significa che i creditori della società trovano adeguate garanzie     di tutela del loro credito sia nel patrimonio sociale sia in quello personale di ogni singolo socio.

      A vantaggio dei soci opera invece la regola che l’art. 2304 stabilisce in punto di autonomia patrimoniale della società. I creditori sociali infatti non possono pretendere il pagamento dei debiti sociali dai singoli soci se non dopo la escussione del patrimonio sociale. Nel loro interesse opera perciò una disposizione più favorevole di quanto non sia l’art. 2268 per i soci della società semplice, che sono invece tenuti a domandare la preventiva escussione della società dovendo poi indicare «i beni sui quali il creditore possa agevolmente soddisfarsi». Si consideri poi  che se al creditore particolare di un socio di società semplice è consentito domandare la liquidazione della quota del socio debitore, «finché dura la società» questo non è consentito al creditore particolare di un socio di società in nome collettivo. Per il caso di trasformazione della società operano le  prescrizioni   che si sono  segnalate.

     Quanto alla società in accomandita semplice  l’art. 2315 stabilisce che ad essa si applicano le disposizioni relative alla società in nome collettivo se «compatibili con le norme» di speciale regime degli artt. 2313 a 2324. La società in accomandita come già si diceva ha il suo elemento distintivo nella presenza di due diverse categorie di soci. Presenza necessaria perché come avverte l’art. 2323 «quando rimangono soltanto soci» di una delle due categorie si determina una causa di scioglimento della società. Sono accomandatari i soci che amministrano la società e portano su di sé illimitata e solidale responsabilità per le obbligazioni sociali. Accomandanti sono i soci che invece di esse rispondono limitatamente alla quota conferita e per disposizione dell’art. 2320 non possono compiere atti di amministrazione né trattare o concludere affari in nome della società «se non in forza di procura speciale per singoli affari». Sull’amministrazione della società i soci accomandanti hanno poteri di controllo assicurati dal secondo comma dell’art. 2320, dove si stabilisce che «in ogni caso» essi «hanno diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite» e diritto di «controllarne l’esattezza, consultando i libri e gli altri documenti della società».

    Va poi considerato che «sotto la direzione» dei soci accomandatari e «amministratori» della società i soci accomandanti «possono tuttavia prestare la loro opera»  non essendo escluso che l’atto costitutivo della società «per determinate operazioni» preveda una loro autorizzazione o un loro parere. Ma si tratta pur sempre di soci per così dire «capitalisti» che in previsione di un utile finanziano attività di impresa amministrate da altri, i soci accomandatari e imprenditori che nell’esercizio delle attività di impresa si devono uniformare alla già segnalata disposizione dell’art. 2315, là dove si stabilisce che alla società in accomandita semplice « in quanto (…) compatibili» si applicano le norme che valgono per la società in nome collettivo. Particolarità di disciplina non mancano se ad esempio si considera che la quota di di partecipazione del socio accomandante è «trasmissibile per causa di morte». Ma prevalgono le uniformità di regime dovendosi tuttavia considerare che cosa stabilisce l’art. 2317 quanto al caso della società in accomandita irregolare per il caso di mancata iscrizione nel registro delle imprese. Per il caso della trasformazione in società di capitali con gli effetti dell’art. 2498  si devono ancora una volta leggere  le norme che già si conoscono

 

6. La crisi economica di imprese e società. Insolvenza dell’imprenditore commerciale e procedure concorsuali.

       Situazioni di crisi dell’impresa e  stato di insolvenza possonono riguardare qualsiasi imprenditore ma   nel caso dell’imprenditore commerciale si configurano fattispecie che con ogni evidenza  sono del massimo rilievo e della maggior gravità.  L’imprenditore si trova in stato di insolvenza quando non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Il loro inadempimento ne è un possibile segnale ma stato di insolvenza esiste anche se alle obbligazioni assunte si provvede con anomale modalità che tendono a dissimulare il dissesto dell’impresa. E se si tratta di una impresa commerciale che non sia piccolo imprenditore né ente pubblico a tutela dei suoi creditori opera la disciplina del fallimento stabilita con le norme della fallimentare 267 del. marzo 1942   che si segnalano anche per la configurazione di tutta una serie di fattispecie di reato.

   Ne risulta un regime della materia fallimentare sempre più esposta a motivate obiezioni di assoluta inadeguatezza  essendo ormai verosimilmente non lontani i tempi di approvazione della normativa riformatrice già ampiamente discussa nelle sedi parlamentari (e si consideri quanto stabilisce il regolamento comunitario del maggio 2000 adesso finalmente operante). Finalità principale della procedura concorsuale  è garantire il soddisfacimento dei creditori dell’impresa secondo principio di parità di trattamento. Come si legge nell’art. 52 della legge fallimentare, la dichiarazione di fallimento «apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito». I creditori diventano creditori concorsuali e non sono più consentite azioni esecutive individuali, al loro soddisfacimento dovendosi provvedere mediante la procedura che si avvia con la dichiarazione di fallimento.  E più avanti  si dovranno considerare anche le procedure concorsuali diverse dal fallimento ma per intanto  occorre fare chiarezza sulla  già segnalata urgenza di  una organica riforma dell’intera materia delle insolvenze di impresa. 

             In presenza di normative del diritto europeo che privilegiano policies assai diverse tra loro ma talvolta esposte al rischio di  determinare  <liquidazioni> di imprese ancora <risanabili> per un eccesso di tutela dei creditori, e altra volta invece al contrario esposte al rischio di  favorire una <conservazione >di imprese non più capaci di una gestione utile, una intera letteratura di comparazione giuridica ne indica i punti di caduta al tempo stesso   indicando con precisione   in qual direzione orientare una evoluta politica del diritto. E sono  comunque ben visibili e gravi le  carenze  di una  normativa che nel caso italiano  non consente di affrontare in modo adeguato  problemi che sono con ogni evidenza del maggior rilievo.Cosa che da più parti (e ancora di recente in sedi istituzionali assai accreditate)si è segnalata quale <passività sociale > del <sistema paese>  rilevante anche alla scala macroeconomica.

      Anche a non considerare  (come invece si deve )  i costi  delle procedure  e la loro durata  che è anch’essa pesante fattore di costo , le normative in vigore  non consentono infatti di  identificare un giusto punto di equilibrio tra difesa dei valori di impresa e tutela dei creditori .E guardando allo scenario internazionale gli esperti di materia spesso indicano come modello di  razionale policy il Bankruptcy Act nord-americano del 1978 che ha provatamente agevolato  una razionale e  più efficiente amministrazione delle crisi di impresa. Una volta stabilito che in linea di principio  occorre assicurare tutela all’<interesse dei creditori > al tempo stesso  le  norme  del Bankruptcy Act utilmente distinguono  tra procedure di liquidazione  e procedure  di <riorganizzazione >    dell’impresa,privilegiando le opportune  modalità di  reorganization   quando esista modo di attivarne   una  new financial structure   in funzione  di  un  possibile e naturalmente desiderabile  <rilancio> dell’iniziativa imprenditoriale.

       Da ciò la motivata insistenza per interventi legislativi anche nel caso italiano davvero capaci di distinguere  tra situazioni di temporaneo deficit di liquidità  e stato di insolvenza che invece   già prefigura  crisi di impresa  senza ritorno dovendosi apprestare discipline diversificate a seconda delle particolarità della singola fattispecie .Occorrono comunque  norme di diritto sostanziale e disposizioni di procedura che come già si diceva pervengano ad un giusto punto di equilibrio , così da regolare  la singola fattispecie nel modo che  occorre per  <massimizzare > e non  distruggere < il valore dell’impresa> contestualmente  assicurando  alla massa dei creditori insieme con una corretta valutazione delle  <priorità>  creditorie   una  <soddisfazione> patrimoniale che per quanto possibile sia  la più elevata .

       Sarà allora chiaro in qual misura  si rende necessaria una politica legislativa   da praticare con il metodo dell’analisi economica del diritto .E perciò  una politica legislativa che guardi alla crisi di insolvenza dell’impresa come ad un caso di market failure da valutare in termini di costi e benefici delle possibili normative .Quanto poi alla preferenza per  procedure di reorganization ( da organizzare sul modello nord americano del  Bankruptcy Act  )non sarà necessario aggiungere ulteriori considerazioni, essendo di immediata evidenza  che in punto di  law and economics l’impresa è un valore sempre maggiore del valore dei singoli bene che ne sono parte , di modo che ( se talvolta sono obbligate per l’assenza di alternative praticabili ) le misure diverse  dal <risanamento> e dalla  <riorganizzazione> dell’impresa per un suo < rilancio> imprenditoriale  inevitabilmente portano con sé una grave perdita di valore (segue ).

 

(*) Autore: Mario Bessone - tratto dal sito: www.diritto.it
Queste pagine  sono una prima  parte della esposizione elementare  della disciplina di materia che sarà compresa in un capitolo della quarta edizione del volume collettaneo A.A.VV., Lineamenti di diritto privato in corso di pubblicazione presso la casa editrice Giappichelli