Il Pacs in Europa ed in Italia:
luci ed ombre

 

1.

Come la recente campagna elettorale dei vari partiti ha dimostrato, il tema di un possibile intervento legislativo nel campo della famiglia di fatto, etero ed omosessuale, ha assunto rinnovato vigore anche in Italia, dopo che in quasi tutta Europa si sono diffuse nuove figure giuridiche concepite per le coppie omosessuali (e talora anche quelle eterosessuali). Del resto, negli ultimi anni la Camera dei Deputati aveva già cominciato ad interessarsi della questione, visto che in Commissione Giustizia si era cominciata la discussione su una delle proposte di legge relative al Pacs (Patto civile di solidarietà) e si è portata a termine una preziosa indagine conoscitiva. Questo articolo costituisce dunque l'occasione per passare in rassegna i caratteri principali delle riforme adottate all'estero nonché i termini dell'attuale dibattito nel nostro Paese.

2.

Ad un primo sguardo, la maggioranza delle nuove figure adottate all'estero si propone di consentire a ciascuno di organizzare giuridicamente le proprie relazioni familiari anche (talora necessariamente) al di fuori del modello matrimoniale consegnato dalla tradizione. Nel contesto comunitario, ove è possibile cogliere sempre più evidenti punti di emersione di un processo di armonizzazione in ambito familiare, va tuttavia rilevato che resta per il momento sostanzialmente legittima la differenziazione nazionale relativamente all'adozione di istituti di nuovo conio; in tal senso si esprime anche l'art. 9 della Carta di Nizza, ora II-69 della Costituzione europea, che fa rinvio, nella disciplina dell'esercizio del diritto a sposarsi ed a formare una famiglia, alle legislazioni di ciascuno Stato membro. Forse qualche apertura è possibile cogliere laddove entri in gioco la libertà di circolazione e soggiorno dei cittadini dell'Unione, ma le nuove regole (come la direttiva 2004/38/CE) sono formulate in modo molto attento a non urtare le sensibilità nazionali. Oggi, comunque, in almeno tre Stati membri (Olanda, Belgio e Spagna) le coppie di persone dello stesso sesso possono contrarre matrimonio, sicché il processo di integrazione europea potrà tenere conto anche di questi recenti sviluppi (Bonini Baraldi 2005).

3.

Il modello della registered partnership, diffuso specialmente nel Nord-Europa, si fonda su quello che può essere definito un principio generale di identità tra l'unione registrata ed il matrimonio ed ha la funzione di consentire la formalizzazione dell'unione da parte di quanti non possono sposarsi, stabilendo così una quasi assoluta parità di diritti. Tale rilievo ha indotto alcuni a parlare di una forma di quasi-matrimonio (oggi presente, per quanto concerne l'Europa, in Danimarca, Norvegia, Svezia, Islanda, Finlandia, Olanda e, con alcune differenze, anche in Germania, Regno Unito, Svizzera), per differenziarla da figure meno pregnanti, definite come forme di semi-matrimonio. La quasi perfetta coincidenza tra registered partnership e matrimonio è prontamente riscontrabile: basti rileggere l'art. 2 della legge danese o di quella norvegese, così come l'art. 5 della legge islandese o l'art. 8 della legge finlandese. L'adozione di un istituto giuridico equivalente al matrimonio comporta che al rapporto suggellato da registered partnership si applichino le medesime norme che governano i rapporti fra coniugi, dalla celebrazione, ai rapporti personali e patrimoniali, fino allo scioglimento, alle successioni, agli effetti extra-familiari. Tale equiparazione non è, tuttavia, completa; sono infatti previste alcune eccezioni, concernenti principalmente la mancanza di effetti relativamente all'instaurazione di rapporti di filiazione e, talvolta, le modalità di scioglimento. Dal modello istituzionale emerge una tendenziale relazione di equipollenza tra coppie 'registrate' e coppie unite in matrimonio, sicché la registered partnership è retta quasi interamente dalle medesime regole che vigono per quest'ultimo.

4.

Accanto ad un'opzione siffatta, si collocano gli esempi forniti da altri Stati, che hanno assunto posizioni ibride, quali ad esempio Francia, Belgio, Lussemburgo, comunità autonome spagnole (come la Catalogna). La registrazione 'leggera' può essere definita tale alla luce di almeno due criteri: i rapporti fra conviventi sono retti da una disciplina diversa rispetto a quella che governa il matrimonio, specificamente concepita per la registrazione, oppure sono lasciati all'autonomia dei conviventi; inoltre, gli effetti (specie quelli successori o di rilievo pubblicistico) che discendono dalla registrazione sono assenti o non rilevanti tanto quanto quelli derivanti dal matrimonio. La natura e la funzione delle registrazioni 'leggere' - fra cui spicca l'esperienza francese - non sono immediatamente intuibili né facilmente definibili. Il dato che si impone con maggior evidenza consiste nella diversa combinazione degli elementi riconducibili all'autonomia privata o alla disciplina legale. La registrazione di un contratto di convivenza non modifica tuttavia lo stato civile degli interessati: il pacte civil de solidarité (Pacs) francese - lo afferma l'articolo di apertura della legge che lo contempla - è pertanto inteso come un contratto, un contratto tipico la cui causa è l'organizzazione della vie commune. Se questa è la sua funzione principale, è significativo rilevare che esso non può essere concluso qualora esistano legami di parentela che osterebbero alla celebrazione del matrimonio. La legge non ha specificato che la relazione di convivenza debba essere di tipo coniugale, ma tale requisito è stato ritenuto necessario da parte del Conseil constitutionnel. Alla 'dichiarazione' del patto presso il Tribunale, la legge riconosce una serie tassativa di effetti di natura pubblicistica, come avviene per il matrimonio; il quale, tuttavia, prevede tutta una serie di disposizioni volte a dare una forma ed una disciplina al rapporto fra i coniugi, mentre nel Pacs regna incontrastata, sotto questo aspetto, l'autonomia delle parti. Se il Pacs francese e le altre registrazioni 'leggere' possano essere considerate come un paradigma del diritto di famiglia del futuro, sempre meno informato ad una visione 'istituzionale' della famiglia e sempre più attento alla sfera degli affetti, sarà anche l'evoluzione sociale a dirlo.

5.

All'estremo opposto rispetto al modello della registered partnership si collocano le normative definite di tipo 'interpretativo', che ampliano la portata del termine 'coniuge' (spouse) al fine di equiparare il trattamento riservato ai conviventi dello stesso sesso rispetto a quello riservato ai conviventi di sesso opposto. Il presupposto implicito di tale modello è duplice. Da un lato, si tratta di esempi di convivenza non registrata o informale; dall'altro, esso si fonda sull'esistenza di un robusto corpus di regole ispirate al riconoscimento della famiglia di fatto (eterosessuale). Sebbene non esista un sistema di registrazione, le conseguenze sostanziali sono comunque di tutto rilievo, poiché il diritto - in presenza di determinate caratteristiche dell'unione - ascrive alla coppia i medesimi diritti ed obblighi che regolerebbero il rapporto se i partners avessero contratto matrimonio. Oltre a non identificare alcun nuovo istituto di diritto di famiglia, gli interventi di tipo interpretativo sono, dunque, di applicazione automatica, non subordinati ad alcuna celebrazione. Infatti, sia nel caso di famiglia di fatto tradizionale, che nel caso di coppie formate da persone dello stesso sesso, l'applicazione della regola è condizionata unicamente all'esistenza di una relazione di un certo tipo e di una certa durata. Il modello interpretativo è per lo più informato al principio della parità di trattamento tra famiglia di fatto e famiglia unita in matrimonio, sviluppatosi nel corso degli anni principalmente in alcuni Paesi anglosassoni (Canada, Australia, Nuova Zelanda) ed in alcuni Paesi europei. Tuttavia, solo di recente - spesso in seguito alle sollecitazioni provenienti dalla giurisprudenza - le varie disposizioni che equiparavano il convivente more uxorio al coniuge sono state interpretate (o modificate) nel senso che i termini ivi prescelti (spouse, de facto relationship, common law partner, ecc.) sono suscettibili di comprendere anche il partner dello stesso sesso. Si tratta di disposizioni che riguardano principalmente la regolazione degli aspetti patrimoniali conseguenti alla separazione o alla cessazione della convivenza e che talvolta si rinvengono anche al di fuori dell'esperienza di common law. In Francia, la legge sul Pacs (art. 3) ha aggiunto al titolo XII del codice civile un capitolo II, "Du concubinage", ove si rinviene una definizione della convivenza more uxorio informata all'irrilevanza della diversità di sesso, ancorché le conseguenze della convivenza informale non siano regolate sotto il profilo sostanziale.

6.

Per quanto concerne la situazione italiana in una recente pronuncia del Tribunale di Latina si è stabilito, conformemente agli orientamenti della dottrina, che "la diversità di sesso dei nubendi costituisce elemento essenziale per l'identificazione, nel nostro ordinamento, della fattispecie naturalistica posta alla base dell'istituto matrimoniale, secondo una concezione, che prima ancora che nella legge, trova il suo fondamento nel sentimento, nella cultura, nella storia della nostra comunità nazionale". (Trib. Latina, decr. 10.6.2005, FD, 2005, 411, e NGCC, 2006, I, 86; Bilotta 2006, 91; Bonini Baraldi 2005a, 233; Bonini Baraldi 2005b, 418; Schlesinger 2005, 415). Proprio riguardo il rapporto tra famiglia e matrimonio, in un brillante saggio pubblicato nel 2000 Roberto Bin osservava, dal punto di vista del costituzionalista, come l'ossimoro espresso dall'art. 29 della Costituzione inviti risposte concepite in chiave essenzialmente 'culturale', che scorgono nell'idea di 'società naturale' proprio "quel concetto di famiglia che ci deriva dal passato, di cui è intrisa la nostra cultura, a cui certo non sono affatto estranei i valori della religione cattolica" (Bin 2000, 1067). In chiave culturale si riapre, allora, il problema delle definizioni, dell'ubi consistam del fenomeno familiare e, con esso, quello dei rapporti di potere tra chi le definizioni le ha sempre (im)poste e chi le ha sempre subite. Come quello, oggi più attuale, della distinzione della famiglia dai rapporti di mera solidarietà, ad esempio, o quello del valore da attribuire al criterio dell'autorappresentazione, che restituisce nelle mani degli stessi interessati il potere di parlare da sé di sé. Se questi problemi vengono tuttora affrontati muovendo da ipotesi riduzioniste è perché si confida che la questione dell'eguaglianza nel matrimonio se ne vada da sola (Wolfson 2004, 16). Gli argomenti oggi proposti per sostenere il valore delle "tradizioni culturali" - l'unità del nucleo familiare, la perpetuazione della specie, il benessere dei minori, il vantaggio della collettività, ed altri simili - celano spesso la traduzione normativa di una determinata morale e rafforzano ancora oggi situazioni di esclusione sociale e di limitazione delle prerogative individuali. Ancorché sia evidente che in passato essi hanno irreggimentato l'individuo entro vesti non proprio ritagliate su misura della persona costretta ad indossarle, specie se donna, bambino, disabile, od omosessuale, essi presentano un importanza notevole per quanti si richiamino al pensiero conservatore. Questa importanza non va affatto ignorata, perché è vero che il mutamento delle regole presenta ripercussioni che possono essere vissute come un vulnus sia alle tradizioni che alla morale (Zanetti 2003, 149). Tuttavia, posto che la costruzione della famiglia legittima come modello ideale, imperniata sul matrimonio fra persone di sesso diverso ed orientata alla riproduzione, trae alimento da tradizioni culturali legate alla storia, e non certo da un'inafferrabile idea di natura, essa necessita di essere argomentata sul piano dei principi. Ogni esclusione "deve spiegarsi, argomentarsi: deve produrre un argomento che la giustifichi" (Zanetti 2003, 159) se non vuole essere percepita come "quella cuoca francese che, rimproverata per la crudeltà con la quale spellava vive le anguille, rispose che "ci sono abituate": lo faceva da trent'anni" (Zanetti 2003, 159).

7.

La cultura giuridica del nostro tempo, è innegabile, concepisce il matrimonio prevalentemente come una prerogativa dell'individuo, una libera scelta che rispecchia un disegno di vita immaginato, costruito, conquistato per celebrare i propri affetti ed i propri progetti, per superare le mille difficoltà che una vita insieme sempre comporta, all'interno ed all'esterno della coppia. Un rapido sguardo al passato dovrebbe ricordarci che, spesso, il diritto di famiglia ha costituito il mezzo per veicolare precise scelte di valore, come è stato per il caso dei penetranti controlli sul matrimonio del cittadino con lo straniero o fra persone di classe sociale o razza diversa, o per il modello informato alla subordinazione ed alla gerarchia fra i sessi. Ne consegue che le norme che regolano la capacità matrimoniale ed i rapporti fra membri della famiglia rispecchiano, come tutte le norme, determinate politiche, una determinata cultura giuridica (Sesta 2005, 4). Si tratta di norme che si prestano davvero male ad un'osservazione che prescinda dall'analisi delle conseguenze che sortiscono sulla libertà individuale e l'identità personale. Come si è osservato, il diniego di accesso al matrimonio alle persone gay e lesbiche coinvolge certamente profili attinenti all'autonomia ed al libero sviluppo della personalità, se non altro perché la possibilità di contrarre matrimonio e la scelta della persona con cui contrarlo costituiscono elementari manifestazioni della libertà individuale. Il rispetto di questa libertà, non costituisce una 'rottura con le tradizioni fondanti delle società europee', come alcuno ha affermato (Levinet 2002, 156). Negli Stati Uniti, un tribunale aveva sostenuto proprio questa posizione: "la questione rilevante non è se il matrimonio fra persone dello stesso sesso sia tanto radicato nelle nostre tradizioni da essere un diritto fondamentale, ma se la libertà di scegliere il proprio life partner sia tanto radicata nelle nostre tradizioni" (Alaska Superior Court, Brause c. Bureau of Vital Statistics, 3AN-95-6552 CI (1998)). Così, anche la Corte Suprema del Massachusetts ha dichiarato che "il diritto di libertà che consiste nella scelta attinente al se e chi sposare sarebbe privo di significato se il Commonwealth potesse, senza sufficiente giustificazione, escludere un individuo dall'esercizio di una libera scelta circa la persona con cui condividere un impegno esclusivo all'interno di un'istituzione unica quale il matrimonio civile" (Goodridge c. Department of Public Health, 18.11.2003, SJC-08860). Il matrimonio civile è dunque una delle molte, infinite espressioni della libertà, manifestazione della eguaglianza tra donne e uomini, almeno sulla carta, e della solidarietà fra esseri umani. Il tema delle unioni fra persone dello stesso sesso, ed i problemi che esso pone, attiene proprio a questi due principi e sommi valori: all'eguaglianza e all'autonomia, alla parità di trattamento ed al rispetto per le scelte fondamentali dell'individuo, al divieto di discriminazioni ed al libero sviluppo della personalità e dell'identità personale.

8.

Oltre all'argomento di libertà, la dottrina che si è occupata dell'eguaglianza è pervenuta ad evidenziare, pur riconoscendo validità all'insegnamento secondo cui essa esige tendenzialmente leggi astratte ed universali, che la realtà odierna è costituita da leggi che riguardano cerchie di cittadini individuate per la loro appartenenza all'uno o all'altro gruppo sociale (Barbera, Cocozza, Corso 1997, 315; Paladin 1984, 258; Pizzorusso 1983, 44). Ciò non determina la restaurazione di situazioni di antico privilegio; l'esistenza di una società frammentata e pluralista, insieme composito di differenze individuali e di gruppo, ha, infatti, ispirato letture della Costituzione informate all'ideale "mite" dell'integrazione e del riconoscimento della differenza (Zagrebelsky 1992, 11 ss.). Inclusione - o integrazione o "coesistenza dei contenuti" - quale pratica politica e metodo di convivenza, dunque, ma anche quale unico principio rigido e resistente in un mondo giuridico caratterizzato dalla "liquidità", intesa come possibilità di infinite combinazioni delle categorie giuridiche di riferimento; specchio, del resto, della attuale fase storica (Bauman 2002). Perviene allora ad una più decisa maturazione l'idea che l'eguaglianza sostanziale non costituisce un obiettivo di politica del diritto ipoteticamente antinomico rispetto all'uniformità di trattamento per tutti, bensì - sotto forma del criterio dell'inclusione - un criterio analitico capace di indicare l'atteggiamento da adottare nei confronti delle differenze di quanti, soggetti percepiti come 'non simili', rimarrebbero altrimenti esclusi perfino da quel trattamento neutro ed uniforme che il primo comma dell'art. 3 esige. Affermare solennemente l'eguaglianza è non solo un fine, ma anche strumento volto a presidiare i valori autonomamente espressi dall'individuo e dalle comunità intermedie di cui fa parte. Il principio di inclusione, affermatosi in contesti culturali pluralisti e differenzialisti, esprime un profondo ideale, che diviene anche un preciso obbligo giuridico: lo Stato deve operare, anche in maniera attiva, per il beneficio della collettività nella sua interezza, nel senso di assicurare benefits e tutela a tutti e non a vantaggio di persone che "sono solo una parte di quella collettività", come affermato in Baker (Corte Suprema del Vermont, Baker c. State of Vermont, 20.12.1999, n. 98-032, 744 A.2d, 864 (Vt. 1999). Questo obbligo ha carattere positivo; lo Stato non solo non può "negare" la parità di trattamento, ma deve vigilare ed attivamente operare affinché la protezione conferita per il tramite delle sue leggi operi a vantaggio dell'intera compagine sociale. Tale carattere positivo è fatto proprio anche dall'ampia espressione dell'art. 3 della Costituzione italiana: il principio di inclusione si avvicina certamente al concetto di eguaglianza sostanziale contenuto nel suo secondo comma, tanto pregnante da essere stato definito "un botoletto dotato di mostruosa vitalità, che è bene lasciare fuori dell'uscio, sonnecchiante e al guinzaglio" (Romagnoli 1975, 172), oppure la "supernorma dell'intero testo costituzionale" (Pizzorusso 1983, 49). Sicché si può convenire che il matrimonio, nella sua attuale struttura, può anche promuovere, incoraggiare e nutrire degli obiettivi ipoteticamente validi. Allo stesso tempo, tuttavia, l'esclusione delle coppie omosessuali da ogni orizzonte giuridico delude la promessa di eguaglianza contenuta nella Costituzione perché rafforza il pregiudizio e lo stereotipo che stigmatizza le persone gay e lesbiche come meno meritevoli di considerazione e rispetto, violando l'essenziale dignità umana sottesa al principio di eguaglianza sostanziale. Tale considerazione emerge con maggiore chiarezza qualora si relativizzi l'apparente universalità e neutralità delle esistenti regole sulla capacità a contrarre matrimonio, analizzandole invece muovendo dalla prospettiva dei soggetti esclusi; operazione degna di riguardo nel quadro del pluralismo che fa propria l'inclusione e rifiuta il sacrificio di porzioni dell'individuo che non rientrano nel contesto dei valori dominanti.

9.

Così inquadrati i termini della questione, si potrebbe procedere sulla strada della possibile incostituzionalità dell'attuale assetto, ma sembra preferibile pervenire a qualche cenno conclusivo riguardante le opzioni sul tappeto oggi in Italia. Ci si potrebbe, pertanto, interrogare su quale tipo di giuridificazione possa essere opportuno, se l'apertura del matrimonio, la creazione di un istituto molto simile al matrimonio, di un patto di solidarietà, o di un contratto di convivenza con alcuni effetti pubblicistici. Alcune questioni poste sono state affrontate anche dai civilisti (Moscati, Zoppini 2002) e riguardano, ad esempio i) i soggetti legittimati a concludere un contratto di convivenza solidale o un Pacs (solo i conviventi di sesso diverso, solo quelli dello stesso sesso o entrambe le formazioni? coloro che sono legati da vincoli di parentela?); ii) il tipo di formalizzazione dell'atto; iii) le sue conseguenze giuridiche (conseguenze identiche, molto simili o marcatamente inferiori rispetto a quelle che discendono dal matrimonio?); iv) la definizione legale del contenuto del patto (regolazione anche degli aspetti personali, o solo di quelli patrimoniali? Riservare alle un'ampia libertà nella disciplina del rapporto?). Da alcune parti ci si interroga anche se si dovrebbe abbandonare l'idea di una registrazione alternativa al matrimonio ed adottare un corpus di regole che si applicano automaticamente dopo un certo periodo di convivenza. In questo caso, sorgono alcune questioni riguardanti se un'eventuale normativa dovrebbe essere modellata su quella che regge oggi il matrimonio o la convivenza fra persone di sesso diverso, o se dovrebbe essere concepita specificamente per le coppie omosessuali. Inoltre, andrebbe definito il periodo di convivenza necessario ad 'innescare' l'applicazione automatica della disciplina, nonché la possibilità di opting out attraverso una manifestazione di volontà in tal senso. Ancora, sarebbe necessario valutare se lo scioglimento del patto dovrebbe essere assistita da garanzie giudiziali simili allo scioglimento del matrimonio o se potrebbe essere sufficiente il mutuo consenso delle parti o finanche un recesso unilaterale. Le proposte di legge sul tappeto hanno già parzialmente affrontato molti degli aspetti ora richiamati, compiendo precise scelte, ma la loro sorte nella prossima legislatura è ancora difficile da prevedere. In ogni caso, se la sfera degli affetti deve essere lasciata alla libera determinazione degli individui e l'intervento del diritto si giustifica come strumento di risoluzione dei conflitti o di tutela del soggetto debole, se cioè si tende verso un 'diritto minimo' della famiglia e degli affetti, ciò non può essere perché esso rappresenta il 'male minore'. Ogni discussione su una futura legge di riforma (riguardante Pacs, unione civile, contratto di convivenza solidale, ecc.) che si muova nella direzione di approntare una regolazione minima dei rapporti diversi dalla famiglia tradizione potrebbe essere letta come un'effettiva modernizzazione solo laddove ogni opzione esistente sia effettivamente disponibile ed accessibile ai cittadini senza alcuna distinzione fondata su caratteristiche personali protette. Altrimenti, rischierebbe di risolversi nella costruzione di ghetti, irrazionali ed inefficienti. Fra quanti sono nettamente avversi alla politica del 'separato ma (più o meno) uguale' ci si è infatti chiesti: "why should we have two lines at the clerks office, two sets of rules, two separate and unequal solutions? Why should we say to some kids and couples, "Your families have to come in through the back door"? Or simply put, why do we need another word?" (Wolfson 2004, 144).

Autore: Dott. Matteo Bonini Baraldi - tratto da: Quotidiano Giuridico n. 02/05/2006