Accertamento e liquidazione del danno

Dott. Marco Rossetti - Magistrato in Roma

Corso di formazione per Magistrati amministrativi su "Il risarcimento del danno, con particolare riferimento alle tecniche di liquidazione" - Roma, 01/12/03

Sommario:

1. L’ “anarchia del dopo-principio”
2. Quali danni?
3. A quale giudice?
3.1. E la Costituzione?
3.2. La pregiudiziale amministrativa
3.3. Le posizioni della dottrina
3.4. Le posizioni della giurisprudenza
4. Le regole della liquidazione
5. Il nesso causale
6. La liquidazione del danno
6.1. Danni passati e rivalutazione
6.2. Danni futuri e sconto
6.3. Capitalizzazione
6.4. Il ritardato adempimento
7. Fatto illecito della p.a. e “caducazione” del contratto
7.1. Gli obblighi di restituzione
7.2. Il sinallagma tra le reciproche obbligazioni restitutorie
8. Il danno da perdita di chance.

 

1. L’ “anarchia del dopo principio”.

Non è azzardato affermare che due atti normativi ed una sentenza hanno avuto, sull’assetto del contenzioso tra cittadini e pubblica amministrazione[1], e con particolare riferimento al risarcimento del danno, la stessa rivoluzionaria incidenza che il fuoco, la ruota e l’alfabeto hanno avuto nella storia dell’umanità. Sto parlando, come si intende, del d. lgs. 31.3.1998 n. 80, della l. 21.7.2000 n. 205, e della sentenza Cass., sez. un., 22-07-1999, n. 500[2]

Il “combinato disposto” di questi atti normativi e giudiziari ha determinato il passaggio da un sistema nel quale:

(a) la lesione di interessi legittimi era irrisarcibile[3];
(b) la giurisdizione sulle domande risarcitorie di diritti soggettivi lesi dalla p.a. spettava al giudice ordinario (salve le ben circoscritte ipotesi di giurisdizione esclusiva);

ad un nuovo sistema, nel quale per contro:

(a) la lesione di interessi legittimi è risarcibile;
(b) la giurisdizione sulle domande risarcitorie proposte nei confronti della p.a. è concentrata quasi interamente dinanzi al giudice amministrativo.

Il ribaltamento del sistema non è stato tuttavia indolore[4]: abbandonati i vecchi princìpi, sia sul piano processuale (riparto di giurisdizione), sia su quello sostanziale (accertamento e liquidazione del danno), l’impressione è che, da un lato, le riforme legislative non siano state del tutto coerenti con i fini divisati, e non siano riuscite a sostituire al vecchio sistema un quadro organico e coerente, determinando così l’insorgere di una serqua di problemi interpretativi e contrasti giurisprudenziali; dall’altro lato, che l’attribuzione al giudice amministrativo della aestimatio e della taxatio del danno abbia comportato, per una sorta di forza inerziale, l’applicazione alla materia in questione di princìpi, orientamenti e prassi messi a punto con riferimento al diverso giudizio di annullamento.

Tutto ciò ha comportato due ordini di conseguenze nocive.

Da un lato, l’oggettiva ambiguità del dato normativo ha determinato il formarsi, sulle medesime questioni (ad esempio, la pregiudizialità o meno dell’annullamento dell’atto amministrativo rispetto alla domanda risarcitoria), non già di due, ma talora di una mezza dozzina di orientamenti diversi, ovviamente favorendo il moltiplicarsi delle liti.

D’altro canto, il polarizzarsi dell’attenzione su questioni oggettivamente rilevanti (come la richiamata “questione della pregiudizialità amministrativa”), ha fatto sì che altre questioni, forse meno centrali ma altrettanto rilevanti per la tutela del danneggiato, siano state trascurate dalla “nuova” giurisprudenza amministrativa in materia risarcitoria e dalla dottrina amministrativista: penso al computo del danno da ritardato adempimento dell’obbligazione risarcitoria, al rapporto tra onere della prova e facoltà del giudice di disporre una consulenza tecnica d’ufficio, all’accertamento del nesso causale tra omissione e danno ed al relativo giudizio controfattuale.

Insomma, le riforme del 1998-2000, introducendo il nuovo principio del riparto di giurisdizione “per materie”, ed affidando al giudice amministrativo la cognizione delle domande risarcitorie, tanto nell’ambito giurisdizione esclusiva, quanto nell'ambito della giurisdizione di legittimità, hanno per ciò solo ingenerato quella che un illustre autore, con riferimento ad altra vicenda, definì l’ “anarchia del dopo-principio”[5]: cioè la frammentazione delle opinioni della giurisprudenza che, chiamata a maneggiare un nuovo assetto normativo, tende in qualche caso a forgiare nuovi strumenti operativi, e talaltra ad applicare al nuovo quadro vecchie concezioni. Mi sembra particolarmente icastico, per definire l’atteggiamento della giurisprudenza amministrativa in tema di risarcimento del danno, un aforisma di Henri Bergson, secondo cui l’uomo “non riesce a comprendere il nuovo se non dopo che ha tutto tentato per riportarlo all'antico”[6]

Il presente scritto, ben lungi dal proporre soluzioni o ricostruzioni, si propone più semplicemente una ricognizione del diritto vivente, con stretto riferimento al tema della liquidazione del danno da fatto illecito, allorché autore del danno sia stata la pubblica amministrazione. La ricognizione ruoterà attorno a tre interrogativi: quando, dinanzi a quale giudice, e come debba liquidarsi il danno causato dalla p.a.

 

2. Quali danni?

La pubblica amministrazione, vuoi attraverso la propria attività provvedimentale, vuoi attraverso comportamenti materiali, può recare danni alla sfera giuridica dei privati, persone fisiche o giuridiche. Non esistono tipologie di danni che siano ontologicamente inconcepibili rispetto all’attività della p.a.: così, l’imperita condotta di guida di un pubblico impiegato, la quale causi un sinistro stradale con danni alle persone, obbligherà la p.a. a risarcire un danno biologico; l’illegittima occupazione di un fondo privato, seguita dalla sua irreversibile trasformazione, obbligherà la p.a. a risarcire un danno patrimoniale; la negligente condotta del medico dipendente di un ospedale pubblico, la quale determini la morte di un paziente, obbligherà la p.a. a risarcire un danno morale ai congiunti della vittima.

Queste osservazioni, apparentemente banali, mi occorrono per introdurre un concetto assai meno banale, e dalla cui condivisione o meno discendono a cascata conseguenze assai diverse tra loro.

Il concetto è il seguente: i “tipi” di danno risarcibile, ovvero i fenotipi di pregiudizio, possono essere classificati unicamente in base agli effetti, non in base alla causa. E’ la “materia” su cui il pregiudizio incide che ne influenza la risarcibilità, e seleziona le regole da applicare per la aestimatio. Ha dunque un senso distinguere tra danno biologico, danno morale, danno patrimoniale, in quanto ciascuno di essi ubbidirà a regole risarcitorie diverse. Non ha senso, ai fini del risarcimento, distinguere tra danno da lesione di un diritto soggettivo e danno da lesione di un interesse legittimo, così come non ha senso distinguere tra danno da lesione di un diritto relativo e danno da lesione di un diritto assoluto. Gli uni e gli altri in tanto obbligheranno l’offensore a risarcire la vittima, in quanto il primo abbia arrecato alla seconda un pregiudizio il quale, ontologicamente, non può che incidere o sull’integrità psicofisica, o sull’integrità patrimoniale, ovvero sulla tranquillità morale di quest’ultima: altri ambiti dell’umana esistenza non vi sono, nei quali una condotta non iure possa riverberare conseguenze pregiudizievoli.

Questa tesi, in verità, non è unanimemente condivisa: soprattutto negli ultimi anni, infatti, si è venuto sviluppando un nutrito orientamento sia dottrinario, sia giurisprudenziale, secondo il quale esisterebbero danni in re ipsa, ovvero pregiudizi risarcibili sulla base della sola dimostrazione della lesione dell’interesse protetto, a prescindere da qualsiasi prova circa le conseguenze pregiudizievoli della lesione. E’, quella in esame, la tesi del c.d. danno-evento, il quale - al contrario del danno-conseguenza - si identifica col vulnus alla situazione giuridica protetta, e non richiede per essere liquidato altra prova che quella dell’esistenza della lesione[7]. Chi condivide questa tesi ritiene, in particolare, che sia configurabile un danno risarcibile ex se ogni qual volta la condotta illecita abbia inciso su un diritto costituzionalmente protetto[8]. La tesi del danno-evento, consistente nella lesione di un diritto costituzionalmente protetto, risarcibile ex se anche in assenza di prova del pregiudizio, in quanto quest’ultimo sarebbe in re ipsa e si identificherebbe con la lesione del diritto, si sovrappone parzialmente, ma non coincide del tutto, con la tesi (di matrice dottrinaria) che propugna la risarcibilità del danno da modificazione in peius della qualità della vita, o danno esistenziale[9]. E l’una e l’altra vengono sovente invocate proprio nei confronti della p.a., al fine di pretendere compensazioni in denaro a fronte di atti amministrativi che, pur non avendo nuociuto alla sfera patrimoniale del destinatario, l’hanno costretto ad una attività indesiderata altrimenti evitabile (presentazione di istanze o ricorsi, attese nei pubblici uffici, e via dicendo[10]).

Alla tesi del danno in re ipsa, benché talora sontuosamente argomentata, possono tuttavia muoversi numerose eccezioni, tra le quali due difficilmente superabili:
(a) i pregiudizi “esistenziali”, non avendo alcun contenuto patrimoniale, in nulla si distinguono dal danno morale vero e proprio, sicché la tesi che ne sostiene la risarcibilità perviene ad una vera e propria interpretatio abrogans dell’art. 2059 c.c., operazione certamente non consentita all’interprete;
(b) la tesi in esame ingenera una palese iniquità: nei casi in cui il pregiudizio “esistenziale” scaturisce da una condotta che costituisce reato, la vittima percepisce due risarcimenti per lo stesso pregiudizio (uno a titolo di danno morale, l’altro a titolo di danno “da lesione del diritto costituzionalmente protetto”, ovvero a titolo di danno esistenziale)[11].

Del resto, nella stessa giurisprudenza di legittimità è dato cogliere un evidente iato tra le affermazioni di principio, relative alla immediata risarcibilità del danno-evento consistito nella lesione d’un diritto costituzionalmente protetto, e l’accertamento in concreto del pregiudizio. Tale iato è particolarmente evidente nella motivazione di Cass., sez. lav., 03-07-2001, n. 9009, in Lavoro e prev. oggi, 2001, 1396, nella quale da un lato si afferma - in astratto - la risarcibilità dei pregiudizi “esistenziali”. anche al d fuori del limite di cui all’art. 2059 c.c., qualora derivino da lesione di diritti costituzionalmente protetti; dall’altro, però, si afferma che il risarcimento del danno in esame esige sempre l’allegazione e la prova del “pregiudizio concreto subito”[12]

Dalla condivisione di quanto sin qui esposto, e cioè che l’eziologia del danno può essere la più varia, ma la sua fenomenologia non sfugge alla tripartizione tra danni biologici, patrimoniali e morali, discendono tre rilevanti conseguenza in tema di tutela risarcitoria nei confronti della p.a.

(A) La prima conseguenza è che, ai fini della quantificazione del risarcimento, nulla rileva se il pregiudizio discenda dalla lesione di un diritto soggettivo, ovvero da quella di un interesse legittimo. La diversa eziologia del pregiudizio lamentato dal danneggiato può rilevare a molteplici fini, come ad esempio l’accertamento della colpa o quello della sussistenza di cause di giustificazione, ma non già ai fini della quantificazione del risarcimento. Quest’ultimo andrà sempre liquidato iuxta alligata et probata, ovvero misurando, per usare le parole della Corte costituzionale, “la diminuzione o privazione di un valore [patrimoniale o] personale (...) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato”[13].
(B) La seconda conseguenza è che il danno, derivi esso da una lesione di diritti soggettivi o di interessi legittimi, non può mai ritenersi in re ipsa. E ciò non soltanto nel caso di lesione di interessi pretensivi[14], ma anche nell’ipotesi di lesione di interessi oppositivi: l’accertata illiceità della condotta della p.a. non comporta, di per sé, l’esistenza di un danno da risarcire, il quale vi sarà soltanto ove il titolare dell’interesse leso deduca e dimostri - anche attraverso presunzioni semplici - una effettiva deminutio patrimonii [15]. Conclusione, quest’ultima, la quale consente tra l’altro di superare le incertezze correlate alla esatta qualificazione come “pretensivo” od “oppositivo” dell’interesse leso, posto che in ambedue i casi il danneggiato dovrà allegare e provare il pregiudizio patito.
(C) La terza conseguenza è che il diritto al risarcimento, quale che sia il mezzo col quale sia stato arrecato il danno, e quale che sia la situazione giuridica (diritto o interesse) incisa da tale condotta, rappresenta l’oggetto di una obbligazione civile, della quale il danneggiato è creditore, e debitore il danneggiante: costituisce, dunque, un vero e proprio diritto soggettivo perfetto.

Su tale questione, in verità, si registra il dissenso di parte della dottrina (amministrativista), la quale ritiene che il diritto al risarcimento del danno, causato dalla lesione di un interesse legittimo, non sia un vero e proprio diritto sostanziale, ma rappresenti un mero “diritto strumentale”, cioè una potestà di azione consequenziale alla lesione di un interesse legittimo, e vòlta a garantire una adeguata tutela di quest’ultimo[16]. Da tale ricostruzione si fa discendere l’ovvia conseguenza che la giurisdizione a conoscere del danno da lesione di interessi legittimi spetti al giudice amministrativo.

Questa tesi -tuttavia- non appare condivisibile.
Essa, infatti - tutta volta alla soluzione del problema del riparto di giurisdizione - oblitera alcuni princìpi fondamentalissimi del diritto civile, nell’elaborazione datane dalla S.C.
E’ opportuno ricordare, a questo riguardo, che nel nostro ordinamento, pur dopo le riforme del 1998-2000, nessuna norma prevede espressamente la risarcibilità della lesione di interessi legittimi. Se questa è possibile, lo si deve unicamente alla lettura che dell’art. 2043 c.c. ha dato la Corte di cassazione. Secondo questa interpretazione, è “danno ingiusto”, ex art. 2043 c.c., qualsiasi lesione di interessi che siano rilevanti per l’ordinamento, in quanto “l’art. 2043 c.c. non limita, nemmeno in senso letterale, la nascita dell’obbligazione risarcitoria alle sole posizioni di diritto soggettivo: la norma prevede solo la necessità che il danno sia ingiusto, locuzione da intendere (...) nel senso più ampio, in consonanza al principio solidaristico. Anche la lesione dell’interesse legittimo dà luogo ad un pregiudizio rientrante nella clausola generale di ingiustizia del danno, salvo verificarne la risarcibilità in concreto”[17]
Non saprei dire se la risarcibilità degli interessi legittimi poteva essere affermata percorrendo altre strade, ma un fatto è certo: una volta scelto di garantire la risarcibilità degli interessi attraverso la (re)interpretazione dell’art. 2043 c.c., al danno da lesione degli interessi legittimi dovrà essere applicato per intero lo “statuto” previsto da tale norma[18], e quindi concludere che:
(a) la lesione dell’interesse legittimo, nel concorso degli altri requisiti previsti dalla legge, costituisce un fatto illecito;
(b) da tale fatto illecito, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1173 e 2043 c.c., scaturisce una obbligazione civile;
(c) tale obbligazione ha ad oggetto un vero e proprio diritto (il diritto al risarcimento), il quale ha contenuto patrimoniale e può essere ceduto, permutato, opposto in compensazione, donato, trasferito o legato iure successionis.

Un interesse legittimo, per contro, è inconcepibile che possa essere donato o trasferito od opposto in compensazione: e già tale osservazione dà la misura della distanza che separa la pretesa risarcitoria dalla situazione sostanziale lesa.

La tesi qui in contestazione, insomma, di fatto finisce per non tenere in conto alcuno il disposto degli artt. 1173 e 2043 c.c.: oblitera, cioè, lo stesso fondamento logico della risarcibilità della lesione di interessi legittimi[19].

 

3. A quale giudice?

Allorché da una condotta illegittima o illecita della p.a. derivi un pregiudizio per il cittadino, la pretesa risarcitoria di quest’ultimo potrà essere azionata dinanzi a giudici diversi, a seconda delle ipotesi. Il quadro normativo che disciplina il riparto di tali ipotesi risulta:
(a) dai commi 3 e 4 dell’art. 7 l. 6.12.1971 n. 1034, come modificati dall’art. 7, comma 1, lettera c, l. 21.7.2000 n. 205, secondo cui “il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. Restano riservate all'autorità giudiziaria ordinaria le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacità dei privati individui, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio, e la risoluzione dell'incidente di falso”;
(b) dall’art. 35, comma 1, d. lgs. 31.3.1998 n. 80, il quale stabilisce che “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”.

Queste disposizioni, tuttavia, hanno sollevato molti dubbi in dottrina. La giurisdizione in tema di risarcimento del danno, infatti, è stata dal legislatore “agganciata” alla giurisdizione del giudice amministrativo, sia essa di legittimità od esclusiva[20]. Ciò vuol dire che, stando alla lettera della norma, in tutti i casi in cui si afferma che il danno è stato causato o concausato da un amministrativo, la giurisdizione spetterà al giudice amministrativo. La giurisdizione spetterà al g.a. anche nei casi in cui il danno sia arrecato da una mera condotta materiale, se questa pertiene alla materia urbanistica o edilizia (art. 34, comma 1, d. lgs. 80/98).

Se, invece, il danno è stato arrecato da una condotta materiale imputabile alla p.a., e non è causalmente connesso ad alcun provvedimento amministrativo, la giurisdizione spetterà al giudice ordinario, quand’anche la condotta fonte di danno pertenga alla materia dei servizi pubblici (così dovendosi intendere la proposizione con cui si chiude la lettera (e) del comma 2 dell’art. 33 d. lgs. 80/98, secondo cui restano affidata alle giurisdizione del giudice ordinario “le controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cose”[21]).

In sintesi, dunque, il giudice competente a conoscere dei danni causati dalla p.a. sarà il giudice amministrativo nei seguenti casi:
(a) danno arrecato da un provvedimento amministrativo (tanto nelle ipotesi in cui l’atto pertenga ad una materia riservata alla giurisdizione esclusiva del g.a., quanto nelle ipotesi in cui pertenga ad una materia soggetta alla giurisdizione di mera legittimità);
(b) danno arrecato da un comportamento materiale, se questo pertiene ad una materia per la quale sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, e salve le eccezioni di cui si dirà sub (c).

Dei danni causati dalla p.a. conoscerà, invece, il giudice ordinario nei seguenti casi:
(c) danno arrecato da un comportamento materiale, relativo ad una materia per la quale non sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo;
(d) danno arrecato da un comportamento materiale, quand’anche pertinente alla materia dei pubblici servizi (materia per la quale sussista la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), se la controversia è “meramente risarcitoria”, vale a dire relativa ad un danno non causato da un atto amministrativo.

In quest’ultima categoria, peraltro, qualche autore ha ritenuto ricompresa la controversia avente ad oggetto il danno causato dal ritardo col quale la p.a. ha provveduto (legittimamente) su un’istanza del privato[22].

3.1. E la Costituzione?

E’ dunque evidente che, nel sistema sopra riassunto, tutte le pretese risarcitorie scaturenti dall’attività provvedimentale della p.a. sono state concentrate dinanzi al giudice amministrativo, anche quando questi non sia dotato di giurisdizione esclusiva.

Questo assetto della materia, tuttavia, è stato ritenuto di dubbia legittimità costituzionale, con riferimento all’art. 103 cost.. Si è osservato, infatti, che quest’ultimo precetto individua nel giudice ordinario il giudice dei diritti, e consente che questi possano essere esaminati dal giudice amministrativo solo “in particolari materie” (art. 103, comma primo, cost.): di qui, si afferma, l’illegittimità di una norma che, per contro, trasferisce in blocco al giudice amministrativo tutte le controversie risarcitorie (e cioè, per quanto si è detto, controversie su diritti) scaturenti dall’attività provvedimentale della p.a.[23].

Sebbene l’art. 7 L. 1034/71, per questo motivo, non sia stato sinora formalmente oggetto di dubbi di legittimità costituzionale, la questione è stata ripetutamente sollevata, proprio con riferimento al profilo segnalato dalla dottrina e sopra ricordato[24], in relazione all’art. 33 d. lgs. 80/’98, cit., e pertanto - ove venisse accolta - la sentenza del giudice delle leggi non potrebbe non riverberare effetti anche sull’art. 7 l. 1034/71. Tale questione, in particolare, già sollevata dal tribunale di Roma e dichiarata manifestamente inammissibile dalla Corte costituzionale[25], è stata di recente riproposta dallo stesso tribunale, ed è tuttora sub iudice. Secondo il giudice rimettente, il legislatore costituente avrebbe concepito, con l’art. 103 cost., un sistema nel quale la regola è che il giudice amministrativo conosca dei soli interessi legittimi, mentre l’eccezione è che a lui sia devoluta la cognizione di diritti soggettivi, in poche e ben circoscritte materie. Ne consegue che, avendo il legislatore (sia col d. lgs. 80/’98, cit., sia con la l. 205/’00, cit.) completamente capovolto tale sistema, e trasformato il g.a. in un vero e proprio giudice esclusivo della p.a., anche nei casi in cui questa abbia agito more privatorum, non è manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3, 24, 25, 100, 102, 103, 111 e 113 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 33, commi 1 e 2, lett. (b) ed (e), d. lgs. 31.3.1998 n. 80, come modificato dall’art. 7 l. 21.7.2000 n. 205, nella parte in cui ha devoluto al giudice amministrativo, nella materia dei servizi pubblici, la giurisdizione su diritti soggettivi[26].

Per cercare di salvare sia gli artt. 33 e 34 d. lgs. 80/98, sia l’art. 7 l. 1034/71, da tali dubbi di legittimità costituzionale, la dottrina ha seguito varie strade.
(A) Secondo un primo orientamento, la pretesa al risarcimento del danno da lesione di un interesse legittimo non avrebbe ad oggetto un diritto soggettivo. Essa non sarebbe, come già detto al § precedente, che un “diritto strumentale” rispetto alla tutela dell’interesse legittimo. Sicché non sarebbe affatto vero che al giudice amministrativo sarebbe stata trasferita per intero la giurisdizione in tema di diritto soggettivi a contenuto risarcitorio, e l’art. 103 cost. resterebbe inviolato[27]. Tale argomento è stato già esaminato in precedenza, e basterà qui richiamare le obiezioni sopra riassunte.
(B) Per un secondo orientamento, il trasferimento al giudice amministrativo di qualsiasi controversia risarcitoria scaturente dalla lesione di interessi legittimi non violerebbe l’art. 103 cost., in quanto attraverso l’art. 7, comma 3, l. 1034/71, il legislatore avrebbe introdotto una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva[28]. A questo orientamento, tuttavia, è stato agevole replicare che l’art. 103 cost. prevede la possibilità di attribuire al giudice amministrativo la cognizione di diritti soggettivi in “particolari materie”, ma il risarcimento del danno non è una “materia” in senso proprio: l’obbligo risarcitorio può infatti scaturire da atti e fatti diversissimi, da un eccesso di velocità ad un provvedimento amministrativo concessorio[29].
(C) Un terzo orientamento, poi, esclude qualsiasi profilo di illegittimità costituzionale dell’art. 7 L. 1034/71, interpretando restrittivamente la norma costituzionale. Secondo tale orientamento, l’art. 103 cost. sarebbe una norma residuale, applicabile soltanto là dove il legislatore non disponga diversamente[30]. A questa tesi potrebbe forse replicarsi che appare irriguardoso interpretare le norme della Costituzione con la stessa disinvolta elasticità con cui si potrebbero affrontare le norme di una circolare prefettizia. La lettera dell’art. 103 cost. non potrebbe essere più limpida nel consentire l’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva solo “per particolari materie”.
(D) Per un quarto orientamento, infine, l’unica possibilità di salvare l’art. 7, comma 3, l. 1034/71, da sospetti di illegittimità costituzionale è quella di ritenere che, in tema di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, sia configurabile una giurisdizione concorrente del giudice ordinario e di quello amministrativo[31]ma la tesi della giurisdizione concorrente appare difficilmente conciliabile col principio del giudice naturale.

3.2. La pregiudiziale amministrativa.

Problema strettamente connesso, ma non del tutto sovrapponibile, a quello dell’individuazione del giudice fornito di giurisdizione rispetto alla domanda risarcitoria, è quello della necessità della previa - o contestuale - impugnazione dell’atto amministrativo asseritamente produttivo di danno, per potere formulare la suddetta domanda. Tale questione ha visto dividersi sia la dottrina che - in misura minore - la giurisprudenza, e perciò appare opportuno dar conto delle varie posizioni.

3.3. Le posizioni della dottrina.

Le varie posizioni dottrinarie, sia pure con qualche forzatura, sono accorpabili intorno a tre orientamenti principali.
(A) Un primo orientamento è assolutamente contrario alla possibilità di domandare il risarcimento nei confronti della p.a., se previamente non si è provveduto a rimuovere l’atto amministrativo asseritamente fonte di danno. Questa conclusione, tuttavia, viene sostenuta con varie motivazioni:
(-) l’irrisarcibilità, ex art. 1227, comma primo, c.c., di un danno che il destinatario, omettendo l’impugnazione dell’atto amministrativo, finirebbe per causare a se medesimo[32]. A questa tesi può obiettarsi sia che il nesso causale, in tema di illecito aquiliano, è disciplinato dall’art. 40 c.p., alla stregua del quale la “causa” del danno è pur sempre l’atto amministrativo, in quanto fatto di per sé idoneo a produrlo; sia che la tradizionale e consolidata lettura che la giurisprudenza ha dato dell’art. 1227 c.c. porta ad escludere che il danneggiato abbia un onere di attivarsi immediatamente per elidere od attenuare le conseguenze del fatto illecito[33];
(-) l’impossibilità che oggetto del giudizio amministrativo sia un quid diverso dall’annullamento dell’atto, e da questo indipendente[34]. A questa tesi è facile replicare che essa non costituisce null’altro che una petitio principii, la quale pretende di fissare in astratto la natura del giudizio, e quindi ricavarne le conseguenze concrete; in realtà, invece, nulla vieta al legislatore di rimodellare la tradizionale struttura del giudizio amministrativo, e proprio la presenza nell’ordinamento dell’art. 7 l. 1034/71 impone all’interprete di verificare se tale norma abbia comportato un superamento della tradizionale concezione del giudizio amministrativo come processo d’impugnazione[35];
(-) l’impossibilità di considerare “ingiusto” un danno arrecato da un atto amministrativo che, in quanto divenuto inoppugnabile, produce effetti optimo iure, e non può più essere rimosso[36];
(-) la circostanza che l’interesse legittimo è strettamente connesso all’interesse pubblico, la cui certezza e definitività sarebbe gravemente vulnerata dalla possibilità di domandare il risarcimento senza impugnare l’atto[37];
(-) la circostanza che la domanda di risarcimento sia “accessoria” rispetto a quella di annullamento, con la conseguenza che la prima non può essere proposta se non è proponibile la seconda[38].

A tutte e tre le posizioni esposte da ultimo si è replicato che esse stanno e cadono col presupposto concettuale sul quale si fondano, e cioè che la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo non possa prescindere dalla cura dell’interesse pubblico, e quindi dall’annullamento dell’atto amministrativo viziato. A questa impostazione può tuttavia osservarsi, da un lato, che anche nel caso di autonoma proponibilità della domanda di risarcimento nulla vieta alla p.a. di preservare comunque l’interesse pubblico, scegliendo in piena autonomia se tenere fermo o revocare in sede di autotutela l’atto fonte di danno[39]; dall’altro, che il diritto al risarcimento del danno, proprio in quanto diritto soggettivo perfetto, non può essere sacrificato all’interesse pubblico.

(B) Per un secondo e - a quanto sembra - prevalente orientamento, invece, tra annullamento dell’atto e domanda di risarcimento non esiste alcuna pregiudizialità, né logica né giuridica. La pregiudizialità non è infatti prevista da alcuna norma di legge, ed anzi il nuovo testo dell’art. 295 c.p.c. ha drasticamente ridotto le ipotesi di pregiudizialità. Inoltre si osserva che l’eventuale sopravvenuta inoppugnabilità dell’atto non ne sana l’illegittimità, tanto è vero che lo stesso può essere revocato dalla p.a., in sede di autotutela[40], e che l’annullamento dell’atto illegittimo opera su un piano diverso dall’accertamento del danno, sicché non potrebbe esservi alcun contrasto di giudicati - ad esempio - tra una sentenza di condanna al risarcimento del danno ed un’altra di rigetto dell’impugnazione dell’atto perché tardiva[41]. Si aggiunge, altresì, che una volta ammesso che la lesione di un interesse legittimo costituisce un danno ingiusto ai sensi dell’art. 2043 c.c., l’atto lesivo non è che il “mezzo” attraverso il quale è stata recata la lesione, e pertanto la sua sopravvivenza o meno è ininfluente ai fini dell’accoglimento ella domanda risarcitoria[42]. Quanto, poi, al preteso “aggiramento” dei termini decadenziali di impugnazione degli atti amministrativi, che sarebbe consentito dal superamento della pregiudiziale amministrativo, si osserva che tale rischio non sussiste in iure, in quanto la condanna al risarcimento, previo accertamento incidentale della illegittimità dell’atto, lascia fermo l’assetto di interessi come realizzato dalla stessa p.a. attraverso l’atto amministrativo[43].
L’orientamento in esame ammette perciò la possibilità di domandare, anche dinanzi al giudice amministrativo, il risarcimento del danno da lesione di interessi, quand’anche sia spirato il termine d’impugnazione del provvedimento.

(C) Va segnalato, infine, un orientamento che potremmo definire “intermedio”, il quale ammette la proponibilità in via autonoma della domanda di risarcimento, anche senza previa impugnazione dell’atto amministrativo, ma a condizione che essa sia proposta prima della scadenza del termine per impugnarlo: in questo caso, il giudice (anche amministrativo) potrà conoscere incidentalmente dell’atto illegittimo, al solo fine di disapplicarlo[44].

3.4. Le posizioni della giurisprudenza.

Le divisioni dottrinarie di cui si è sommariamente dato conto al § precedente hanno toccato solo marginalmente la giurisprudenza, la quale si è schierata massicciamente in favore della permanenza della pregiudiziale amministrativa, salva l’ipotesi in cui l’impugnazione non fosse materialmente possibile, perché il danno derivi da un mero comportamento della p.a. (come ad esempio nel caso di occupazione de facto del fondo altrui, con irreversibile trasformazione dell’area, mai legittimata da alcun provvedimento di occupazione né di espropriazione[45]).

Secondo l’opinione assolutamente prevalente tra le decisioni edite dei TAR, la domanda risarcitoria non potrebbe prescindere dalla contestuale (o comunque tempestiva) domanda di annullamento dell’atto amministrativo, perché altrimenti si eluderebbe il termine perentorio per l’impugnazione degli atti illegittimi, con conseguente incertezza del diritto e dell’azione amministrativa[46]. In qualche caso, comunque, il rigetto della pretesa risarcitoria proposta in via autonoma è stato motivato in base al rilievo che l’illegittimità del provvedimento amministrativo è uno degli “elementi costitutivi dell’illecito causativo del danno, sicché l’interessato non può far valere la pretesa al risarcimento allorché egli non abbia esercitato i mezzi di tutela offerti dall’ordinamento che gli avrebbero consentito di ottenere la reintegrazione in forma specifica”[47]. In applicazione di questi princìpi è stata ritenuta, tra l’altro, la pregiudizialità tra l’impugnazione degli atti di gara e la domanda di risarcimento del danno causato dall’illegittima aggiudicazione dell’appalto[48], e ciò quand’anche l’opera oggetto dell’appalto sia stata interamente realizzata[49].

Si aggiunge, talora, che la possibilità di domandare il risarcimento col solo limite temporale del decorso del termine di prescrizione (5 anni, ex art. 2947 c.c.) renderebbe “aleatoria” l’attività amministrativa, a causa di illegittimità “sempre possibili e, se si vuole, anche probabili”[50]

Quest’ultima posizione della giurisprudenza tradisce, probabilmente, la ragione profonda - e forse inconsapevole - che induce molti giudici ad assumere un atteggiamento di “chiusura” nei confronti delle domanda risarcitorie formulate nei confronti della p.a.: il passaggio non graduale e “morbido”, ma repentino e brutale, da un sistema di sostanziale irresponsabilità della p.a. ad un altro di responsabilità piena, ha reso quanto mai attuale la felice intuizione del Busnelli, secondo il quale il superamento del “muro” di irrisarcibilità degli interessi legittimi avrebbe fatto sorgere la necessità di creare una “rete” di contenimento contro il dilagare delle domande risarcitorie[51]. Deve comunque aggiungersi che l’illustre autore, allorché parlava di “rete di contenimento”, pensava a meccanismi sostanziali (ad esempio, la distinzione tra interessi pretensivi ed oppositivi), e non certo a meccanismi processuali, quali l’introduzione di una pregiudiziale.

La necessità del previo annullamento dell’atto amministrativo, quale condizione per domandare il risarcimento del danno da quello causato, è stata di recente ribadita dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, mentre la giurisprudenza di legittimità, su tale questione, si è divisa.

Il massimo organo della giustizia amministrativa ha stabilito che la domanda di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi causata da un atto amministrativo non può essere proposta in via autonoma, se non si è proceduto alla tempestiva impugnazione dell’atto fonte di danno (Cons. Stato, Ad. plen., 26.3.2003, in Dir. e giust., 2003, fasc. 15, 65). A sostegno di tale conclusione, il Consiglio di Stato ha richiamato sinanche ad litteram la motivazione di Cons. di Stato, VI, 18.6.2002 n. 3338, in Urb. e appalti, 2002, 1329, nella parte in cui vi si afferma che una volta concentrata presso il giudice amministrativo la tutela impugnatoria dell'atto illegittimo e quella risarcitoria conseguente, non è possibile l'accertamento incidentale da parte del giudice amministrativo della illegittimità dell'atto non impugnato nei termini decadenziali al solo fine di un giudizio risarcitorio e che l'azione di risarcimento del danno può essere proposta sia unitamente all'azione di annullamento che in via autonoma, ma che è ammissibile solo a condizione che sia impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che sia coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento, in quanto al giudice amministrativo non è dato di poter disapplicare atti amministrativi non regolamentari”.

In seno alla giurisprudenza di legittimità, invece, come già accennato, sono ravvisabili due diversi orientamenti.
(A) Secondo un primo orientamento, inaugurato da Cass. sez. un. 500/’99, cit., in tema di responsabilità aquiliana derivante da un provvedimento illegittimo della pubblica amministrazione, non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità necessaria tra il giudizio di annullamento dell'atto stesso dinanzi al giudice amministrativo, ed il giudizio di risarcimento dinanzi al giudice ordinario, posto che sono risarcibili da parte di quest'ultimo -ai sensi dell'art.2043 cod. civ. - tutte le lesioni ad interessi ritenuti rilevanti per l'ordinamento, siano esse afferenti ad un interesse legittimo o ad un diritto soggettivo.
Tale orientamento è stato di recente ribadito da Cass. 16.5.2003 n. 7630, inedita, nella cui motivazione si afferma espressamente che “la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento non ha ragione di coesistere con il nuovo orientamento che esclude, in tema di responsabilità aquiliana, la necessità del requisito della violazione di un diritto soggettivo, essendo sufficiente anche la lesione di un interesse legittimo (...), e stante il disposto dell'art. 29 d. lgs. 80/1998, che ha conferito al giudice ordinario il potere di disapplicare, in via incidentale, gli atti amministrativi presupposti, se illegittimi. Vero è che la giurisprudenza ebbe ad affermare, nel passato, la citata pregiudizialità, ma ciò era allora necessitato dal superato orientamento che limitava l'applicazione del principio del neminem laedere alla sola ipotesi della violazione di un diritto soggettivo”.
(B) Per un secondo e diverso orientamento, invece, pur dopo la decisione di Cass. S.U. 500/99 sussisterebbe la permanente necessità del previo annullamento dell’atto amministrativo, rispetto all’introduzione della domanda risarcitoria.
Infatti, chiamata a decidere sulla domanda di risarcimento del danno derivato dalla illegittima esclusione da una cooperativa (con provvedimento assunto dalla p.a.), senza che fosse stato tempestivamente impugnato il provvedimento di esclusione, la S.C. ha operato un distinguo:
(a) quando l’atto amministrativo non è causa del danno, ma “mero antecedente” di esso, il giudice ordinario può disapplicarlo, quand’anche non impugnato;
(b) quando, invece, il danno derivi proprio dall’atto amministrativo, la previa impugnazione di esso è condizione necessaria per domandare il risarcimento del danno: e ciò non solo perché altrimenti verrebbe minato il “principio fondamentale di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico”, ma soprattutto perché non può ritenersi “ingiusto” il danno causato da un atto che, in quanto non rimosso, legittimamente produce i propri effetti (Cass. 27.3.2003 n. 4538, in Dir. e giust., 2003, fasc. 17, 21).

 

4. Le regole della liquidazione.

Si è già detto, in precedenza, che secondo l’orientamento oggi prevalente la responsabilità della p.a. derivante dall’adozione di atti amministrativi viziati, e lesivi di interessi legittimi, costituisce una ipotesi di responsabilità aquiliana, disciplinata dall’art. 2043 cod. civ.
Se così è, ne consegue che alla responsabilità della pubblica amministrazione debba applicarsi l'intero "statuto" della responsabilità extracontrattuale e dunque, in tema di liquidazione del danno, il disposto dell'articolo 2056 cod. civ.

Tale norma detta due regole fondamentali. Quella di cui al secondo comma autorizza il giudice a liquidare il danno da lucro cessante con “equo apprezzamento delle circostanze del caso", e su essa ci si soffermerà più innanzi.
Quella di cui al primo comma estende al risarcimento del danno da fatto illecito le regole dettate in tema di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, per quanto attiene all'accertamento del nesso causale, alla liquidazione del danno e al concorso di colpa della vittima (artt. 1223, 1226, 1227 c.c.).

Di tali regole occorre ora occuparsi brevemente. Ovviamente, attesi i limiti del presente lavoro, l'attenzione sarà incentrata sulle questioni più rilevanti o controverse suddette regole hanno dato luogo nella loro applicazione concreta.

 

5. Il nesso causale.

Qualsiasi operazione di liquidazione del danno non può che prendere le mosse dall'accertamento della sua derivazione causale rispetto alla condotta che si assume illecita.

Tuttavia, in tema di illeciti aquiliani, diverse sono le regole che presiedono all'accertamento del nesso eziologico.
Secondo l'orientamento ormai consolidato del giudice di legittimità, nella responsabilità extracontrattuale occorre distinguere due diversi nessi causali:
(a) il primo, tra condotta illecita e danno, disciplinato dagli artt. 40 e 41 codice penale (c.d. “causalità materiale");
(b) il secondo, tra danno e conseguenze pregiudizievoli per la vittima, disciplinato dall'articolo 1223 cod. civ. (c.d. “causalità giuridica").

Le regole che disciplinano il nesso di causalità materiale tra condotta e fatto illecito ubbidiscono al principio della condicio sine qua non. Ciò vuol dire che la responsabilità dell'autore del fatto materiale sussisterà ogniqualvolta egli abbia apportato un contributo purchessia alla produzione dell'evento dannoso, quand’anche assai modesto: e quindi anche se alla realizzazione del fatto dannoso abbia concorso la condotta di altre persone, ovvero abbia concorso il caso fortuito o un evento naturale[52].

Ovviamente, nel caso in cui la condotta di più persone abbia concorso causalmente alla produzione dell’evento dannoso, la misura del regresso interno tra i coobligati, ex art. 2055 c.c., andrà valutata in base all’entità delle colpe, e non in base all’entità dei contributi causali.

Regole parzialmente diverse sono quelle che regolano invece il nesso di causalità giuridica, tra l'evento di danno e le conseguenze pregiudizievoli che da esso sono derivate (art. 1223 c.c.). In questo caso trova applciazione il principio secondo cui sono risarcibili soltanto i pregiudizi che costituiscano conseguenza "immediata e diretta" del fatto illecito. Tale espressione è interpretata dal giudice di legittimità, secondo una massima ormai divenuta tralatizia, nel senso che “il criterio in base al quale sono risarcibili i danni conseguiti dal fatto illecito (...) deve intendersi, ai fini della sussistenza del nesso di causalità, in modo da comprendere nel risarcimento i danni indiretti e mediati, che si presentino come effetto normale, secondo il principio della c.d. regolarità causale (...).

Pertanto un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cd. teoria della condicio sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiono del tutto inverosimili (cd. teoria della causalità adeguata o della regolarità causale (...)”[53].

Una applicazione paradigmatica di tali princìpi si può ravvisare, a titolo di esempio, nel caso (oggetto di una recente ed importante decisione della Suprema Corte[54]) di indebita imposizione di vincoli di inedificabilità su un fondo privato, annullati in sede giurisdizionale, e tuttavia legittimamente e validamente reiterati a distanza di diversi anni.

In questi casi, ove il proprietario lamenti la lesione di una situazione di interesse non già “finale” (la perduta possibilità di edificare), ma “intermedia” (la perduta possibilità di vendere il fondo prima che mutasse la sua destinazione urbanistica) ai fini del risarcimento del danno lamentato dal proprietario occorrerà valutare:
(a) se l'illegittima imposizione di vincoli di inedificabilità sia stata “causa” della mancata vendita, ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p. (e così, ad esempio, se il fondo aveva un suo mercato, oppure se le caratteristiche ne rendevano verosimile o addirittura probabile la commerciabilità: è evidente, infatti, che un fondo caratterizzato da scoscendimenti o paludi ben difficilmente sarebbe potuto essere venduto);
(b) se e quale danno sia derivato dalla mancata vendita, ai sensi dell'articolo 1223 cod. civ. (e così, ad esempio, tale danno potrà ravvisarsi soltanto ove si possa ragionevolmente ritenere che il presumibile prezzo di vendita dell'immobile, rivalutato dal momento della commissione del fatto illecito al momento della decisione, sia superiore al valore attuale del fondo).

Un'altra ipotesi di scuola nella quale sembra possibile distinguere in vitro tra causalità materiale e causalità giuridica è quella del diniego illegittimo di autorizzazione a sottoporsi a cure sanitarie all'estero a spese del servizio sanitario nazionale. In una controversia di questo tipo, il Giudice chiamato a provvedere sulla domanda di risarcimento del danno, una volta accertata la illegittimità del diniego, dovrà poi:
(a) stabilire se l'illegittimo rifiuto sia stato "causa", ex articolo 40 codice penale, di un peggioramento della salute dell'assistito (ad esempio, perché le cure che avrebbe potuto ottenere all'estero avrebbero attenuato gli esiti della malattia);
(b) stabilire, ex art. 1223 c.c., se il peggioramento delle condizioni di salute abbia a sua volta prodotto ulteriori pregiudizi (biologici, morali, patrimoniali).

Particolare delicatezza riveste l'accertamento del nesso causale (materiale) nell'ipotesi di fatti illeciti consistiti in una omissione. In questi casi, infatti, il giudice è chiamato a svolgere un delicato giudizio prognostico, e stabilire se, qualora il danneggiante avesse effettivamente tenuto la condotta omessa, il danno si sarebbe verificato o meno.

Questa valutazione prende il nome di "giudizio controfattuale", e non deve essere compiuta sulla base di leggi statistiche o probabilistiche. Così, ad esempio, ove esistesse una statistica in base alla quale una certa condotta, se tenuta, in sei casi su dieci consentirebbe di evitare un certo danno, il giudice non potrete sulla base di questa sola motivazione ritenere accertato il nesso causale tra omissione e danno. Quel che invece rileva, ai fini di tale accertamento, è - secondo le parole della cassazione - la “probabilità logica" che la condotta omessa, se tenuta, avrebbe impedito il verificarsi del danno. Non, dunque, meri calcoli statistici debbono presiedere all'accertamento del nesso causale nei delicta per omissionem commissa, ma l'accertamento di una "alto grado di credibilità razionale dell'ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare”[55].

Si pensi, ad es., alla pretesa risarcitoria dell’imprenditore il quale lamenti che la p.a. gli abbia illegittimamente rifiutato un contributo previsto in favore dell'imprenditoria giovanile, determinandone lo stato di insolvenza ed il conseguente fallimento, con dispersione dell'azienda.

In questi casi, l'accoglimento della domanda risarcitoria sarà subordinato al seguente accertamento: stabilire se, qualora l'imprenditore avesse ottenuto il contributo negatogli dalla pubblica amministrazione, avrebbe potuto "con alto grado di credibilità razionale" soddisfare i creditori ed evitare il fallimento.


6. La liquidazione del danno.

Regola fondamentale in tema di risarcimento del danno aquiliano è quella della integralità e neutralità della riparazione: ciò vuol dire che, a risarcimento avvenuto, il danneggiato deve trovarsi nella identica posizione in cui si trovava prima del danno, ovvero in una posizione equipollente (quanti ea res erit, tantam pecuniam condemnato).

Questa regola è espressa dall'art. 1223 c.c., il quale stabilisce che il risarcimento del danno deve comprendere così la perdita subita dal creditore, come il mancato guadagno. Le due categorie di danno vengono tradizionalmente definite "danno emergente" e "lucro cessante". Queste, tuttavia, non si identificano con la distinzione tra danni passati e danni futuri.

Il danno emergente si distingue dal lucro cessante perché il primo tipo di danno sottrae, distrugge o riduce beni od utilità già esistenti nel patrimonio del danneggiato. Il secondo tipo di danno, invece, lascia inalterato il patrimonio dei debitore, ma gli impedisce di conseguire utilità che certamente avrebbe conseguito in assenza dell'evento dannoso.

Il lucro cessante non è dunque un danno futuro: od almeno, futuro in questo tipo di danno è soltanto l'incremento patrimoniale atteso dal danneggiato, se tale incremento viene riguardato con riferimento al momento dei verificarsi dell'evento dannoso.

Analogamente, il danno emergente non è un danno passato, in quanto esso può prodursi anche nel futuro: l'esempio classico è quello di chi, in seguito ad una illegittima occupazione temporanea del proprio fondo, non ancora liberato al momento della sentenza di annullamento del provvedimento di occupazione, sarà costretto a sostenere delle spese per la riduzione in pristino dei luoghi.

Dunque il danno emergente ed il lucro cessante si distinguono per la natura dei beni che colpiscono (rispettivamente, presenti o futuri); il danno presente e quello futuro si distinguono per il momento in cui si verificano, individuato non con riferimento alla condotta illecita, ma con riferimento alla liquidazione. E' presente, quindi, il danno già verificatosi al momento della aestimatio (sia essa volontaria o giudiziale); è futuro il danno non ancora verificatosi in tale momento.

Si potrà dunque avere:
(-) un danno emergente passato (ad esempio, le maggiori spese mediche sostenute all’estero in conseguenza dell’illegittimo diniego di rifusione da parte del s.s.n.);
(-) un danno emergente futuro (ad esempio, le spese che il proprietario dovrà sostenere in futuro per la rimozione delle opere erette dalla p.a. in seguito all’imposizione di una servitù illegittima);
(-) un lucro cessante passato (ad esempio, i fitti perduti del fondo illegittimamente occupato, per il periodo che va dall’occupazione illegittima al momento della liquidazione);
(-) un lucro cessante futuro (ad esempio, i fitti che saranno perduti, in caso di illegittima occupazione del fondo, fino al momento in cui la pubblica amministrazione, dando esecuzione alla sentenza di annullamento, non sgombrerà il fondo stesso).

Questa tetrapartizione non è mero esercizio accademico, ma è fondamentale a vari fini. Infatti:
(a) la liquidazione del danno da ritardato adempimento dell'obbligazione risarcitoria è dovuta solo per i danni passati (siano essi danno emergente o lucro cessante), e non per quelli futuri;
(b) la liquidazione di un danno che si produrrà nel futuro (sia esso danno emergente o lucro cessante) deve essere scontata (e cioè rapportata all’attualità con una opportuna operazione di riduzione, in quanto plus dat qui cito dat); al contrario, la liquidazione di un danno passato deve essere di attualizzata con un coefficiente di rivalutazione;
(c) la liquidazione del lucro cessante, sia esso passato o futuro, ove causato da atto illecito deve essere sempre compiuta con equo apprezzamento delle circostanze del caso (art. 2056 co. Il c.c.). Tale equa valutazione non è invece utilizzabile nella liquidazione del danno emergente, il quale - anche se futuro - andrà sempre liquidato juxta alligata et probata, e cioè con rigorosa valutazione delle prove (salva, ovviamente, l'applicazione dell'art. 1226 c.c. ove ne ricorrano i presupposti).

E' opportuno infine ricordare, per concludere sulla distinzione tra danno passato e danno futuro, che per potere provvedere al risarcimento del danno futuro, ossia del danno non ancora verificatosi al momento della liquidazione, è in ogni caso necessario che risulti provata o comunque incontestata l'esistenza di un danno risarcibile, perché possa essere valutato dal giudice in via equitativa, non essendo sufficiente la dimostrazione di un danno solo potenziale o possibile[56].

6.1. Danni passati e rivalutazione.

Se il danno si è verificato - come è la norma - in un momento anteriore rispetto a quello della liquidazione, quest’ultima può avvenire secondo due modalità:
(a) o liquidando il pregiudizio in moneta attuale, vale a dire pari al valore della perdita patita dalla vittima calcolato al momento in cui avviene la liquidazione;
(b) ovvero calcolando il danno al momento in cui esso si è verificato, e quindi attualizzando il relativo importo.

L’attualizzazione o rivalutazione è l’operazione matematica che consente di ottenere il valore attuale di un euro pagabile in un qualsiasi momento passato. Essa si ottiene moltiplicando l’importo del credito risarcitorio per un coefficiente di rivalutazione. Il più noto ed usato di tali coefficienti è quello basato sull’ “Indice Nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati” (c.d. FOI), calcolato dall’Istat (scaricabile anche dal sito web http://www.istat.it/DATI/Rivalutazi/coefficienti.html).

6.2. Danni futuri e sconto.

Se il danno si produrrà in un momento futuro rispetto a quello della liquidazione, la somma dovuta a titolo di risarcimento va scontata, cioè ridotta al fine di tenere conto dell’anticipato pagamento rispetto al momento di insorgenza del danno.

Lo sconto dei crediti futuri è l’operazione matematica consistente nel rendere attuale una somma di denaro che avrebbe dovuto essere pagata in un tempo futuro. Esso deve avvenire secondo la seguente formula matematica:

S = C x R x T / 100

dove S è lo sconto, ovvero la somma da decurtare a causa dei pagamento attuale; C è il capitale liquidato; R è il tasso percentuale di sconto (pari al tasso d'inflazione); T è il tempo.

Cosi, per fare un esempio, se l'impresa illegittimamente esclusa da una gara ha perduto la possibilità di stipulare un vantaggioso affare con un terzo (in quanto le risorse aziendali erano state tutte impegnate per partecipare alla gara dalla quale è stata illegittimamente esclusa), il danneggiato ha perduto la possibilità - poniamo - di realizzare in futuro un utile di £ 5.000.000, che però sarebbe stato incassato soltanto fra un anno. In questo caso, ipotizzando un tasso d’inflazione del 2%, lo sconto da applicare è:

S = 5.000.000 x 2 x 12/12 / 100 = 100.000

e dunque il credito risarcitorio sarà pari a £ 4.900.000.

Ovviamente, se l'anticipo è inferiore all'anno, la lettera T nella formula che precede andrà sostituita con la frazione di mesi che si intende calcolare (ad esempio, 3/12 per un ritardo di 3 mesi).

6.3. Capitalizzazione.

La capitalizzazione è l’operazione matematica consistente nel trasformare il valore di una rendita in un valore capitale.

Alla capitalizzazione si ricorre in tutti i casi in cui, in conseguenza del fatto illecito, il danneggiato ha perduto un emolumento che gli sarebbe stato corrisposto in futuro con cadenza periodica (redditi da lavoro, fitti, pigioni). È il caso, ad esempio, del danno patito dalla persona ingiustamente esclusa da un concorso, che non potrà più sostenere in futuro per raggiunti limiti di età[57]. Il pregiudizio patito dal danneggiato, in questo caso, è pari alla capitalizzazione dei redditi perduti, eventualmente detratto l'ammontare del reddito cui potrà comunque aspirare in considerazione del proprio profilo professionale.

La capitalizzazione si effettua moltiplicando l’importo annuale del reddito perduto per un coefficiente di capitalizzazione, secondo la formula:

D = R * k

dove D è il danno che occorre liquidare; R è la quota annuale di reddito perduto, k è il coefficiente di capitalizzazione.

Non esiste tuttavia un solo, ma numerosi coefficienti di capitalizzazione. Essi si differenziano sia per il saggio di interesse in base al quale sono calcolati (così, si potrà avere una capitalizzazione al 3%, al 4%, 5%, e via dicendo), sia in base al tipo di rendita al cui calcolo sono preordinati.
I più usati nella liquidazione del danno aquiliano sono:
(a) il coefficiente per la costituzione delle rendite vitalizie;
(b) il coefficiente per la costituzione delle rendite temporanee;
(c) il coefficiente di minorazione per la capitalizzazione anticipata.

Il coefficiente per la costituzione delle rendite vitalizie si usa per calcolare il valore della rendita di n euro, pagabili per tutta la vita dell’avente diritto.
Esso, pertanto, varia in funzione dell’età del danneggiato al momento della liquidazione.

I coefficienti più usati dalla giurisprudenza di merito sono quelli contenuti nella tabella allegata al r.d. 9.10.1922 n. 1403, calcolati in base ad un tasso di interesse del 4,50%.

Per la liquidazione del danno, occorre individuare il coefficiente corrispondente all’età del danneggiato al momento della liquidazione. Il coefficiente così individuato andrà moltiplicato per il reddito (o quella parte di esso) perduto dal danneggiato. Il risultato sarà il valore capitale di un rendita vitalizia i cui ratei annui siano corrispondenti alla aliquota di reddito perduta dal danneggiato.

 

Esempio [1]

Per liquidare il danno patrimoniale subìto da una persona di 35 anni, la quale per effetto di una lesione della salute ha perso il 30% del proprio reddito, pari a € 40.000 netti annui, occorre procedere nel seguente modo: 40.000 x 30% x 17,268, uguale a € 207.216 (su tale somma dovrà poi applicarsi la percentuale di riduzione corrispondente allo scarto tra vita fisica e vita lavorativa, variabile a seconda del caso concreto).

Il coefficiente per la costituzione delle rendite temporanee serve per ottenere il valore della rendita di n euro, pagabili non già per tutta la vita dell’avente diritto, ma per n anni.
Questo coefficiente serve a liquidare il danno patrimoniale da perdita di un reddito (od altra utilità) che abbia carattere periodico, ma limitato nel tempo. Ad esso si può ricorrere, ad esempio, per liquidare il danno patrimoniale patito da una impresa che, ingiustamente esclusa da una gara non ripetibile[58], ha perduto la possibilità di ottenere l’aggiudicazione di un appalto per forniture pluriennale che gli avrebbe consentito un guadagno di n euro l’anno.
Il criterio di applicazione è analogo a quello già visto con riferimento alla costituzione delle rendite vitalizie. Scelto il tasso percentuale in base al quale si vuole effettuare la capitalizzazione (si ricordi che minore è il tasso, più vantaggiosa è la liquidazione per il danneggiato), occorre individuare il coefficiente corrispondente al periodo di tempo per il quale il reddito sarà perduto, e moltiplicarlo per l’ammontare dell’utilità perduta.

Esempio [2]

Occorre liquidare il danno patrimoniale subìto dall’impresa Alfa per la perduta possibilità di ottenere l'aggiudicazione di un appalto di fornitura, che gli avrebbe reso un reddito di € 12.000 annui per 5 anni. Scelto un saggio di capitalizzazione del 4,5%, nell'apposita tabella si individuerà il corrispondente coefficiente di capitalizzazione per la durata di anni 5, pari a 4,389.Si dovrà, a questo punto, moltiplicare il reddito perduto per il suddetto coefficiente, e quindi il danno sarà pari a 12.000 x 4,389, ovvero € 52.668.

Infine, il coefficiente di minorazione per la capitalizzazione anticipata serve per liquidare tutti i danni futuri, che si verificheranno fra n anni. Attraverso l'impiego di tale coefficiente, si ottiene un valore attuale di una lira pagabile dopo n anni.
Una volta liquidato il danno attraverso il consueto metodo di capitalizzazione, il risultato dovrà essere ridotto, moltiplicandolo per il coefficiente corrispondente al numero di anni intercorrenti tra il momento della liquidazione ed il momento presumibile in cui si produrrà il danno.

Esempio [3]

Occorre liquidare lo stesso danno patrimoniale indicato all’esempio [2], ma con la particolarità che l’appalto ingiustamente non aggiudicato all’impresa danneggiata avrebbe avuto inizio soltanto tra 2 anni. In questo caso occorre:
(a) capitalizzare il reddito perduto, secondo i criteri già indicati all’esempio [2];
(b) moltiplicare il risultato per il coefficiente di minorazione, individuato sull’apposita tabella, corrispondente al numero di anni (2) che separano il momento della liquidazione da quello in cui avrebbe avuto inizio per il danneggiato la corresponsione del reddito. Il risultato sarà dunque pari a € 52.338 x 0,917, uguale a 47.993,94.

6.4. Il ritardato adempimento.

Il ritardato adempimento di una obbligazione causa al creditore un danno, consistente nella perduta disponibilità della somma (o dell’altra utilità dovuta) nel periodo tra la scadenza dell’obbligazione e l’effettivo adempimento.

I criteri di liquidazione del danno da ritardato adempimento hanno costituito una delle questioni più tormentate della responsabilità civile. Oggi tuttavia tale questione può ritenersi assestata su princìpi sufficientemente chiari e condivisi sul piano teorico, e razionalmente equi sul piano pratico.

Per esaminare tali princìpi, è opportuno distinguere tra obbligazioni di valuta (quelle che hanno ad oggetto ab origine una somma di denaro determinata) ed obbligazioni di valore.

(A) Nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta (ad es.: la restituzione dell’indebito), il debitore è tenuto a corrispondere, sulla somma dovuta e dal giorno della mora, gli interessi legali, nella misura stabilita dall’art. 1224, 1° co., c.c. (a meno che, ovviamente, il contratto o la legge non prevedano una diversa misura per gli interessi moratori), salvo il risarcimento dell’eventuale maggior danno, ai sensi del 2° comma dell’art. 1224 c.c.
Secondo la giurisprudenza di legittimità più recente, la liquidazione del maggior danno ex art. 1224, 2° co., c.c., elide la liquidazione degli interessi legali. Questi, infatti, rappresentano una liquidazione del danno effettuata ex ante e forfettariamente dal legislatore, e quindi la liquidazione di un danno presunto. Qualora, per contro, il creditore dimostri che il danno reale è stato superiore, e non è perciò ristorato dal solo pagamento degli interessi legali, il danneggiato avrà diritto al risarcimento di questo danno nella sua interezza, danno che non si aggiunge, ma si sostituisce alla liquidazione degli interessi legali [59].

Nelle obbligazioni di valuta, di norma il "maggior danno" ex art. 1224, 2° co., c.c., è rappresentato dalla svalutazione monetaria, la quale - deprezzando il denaro - ne riduce il potere di acquisto. In tema di prova del maggior danno da inadempimento delle obbligazioni di valuta, attualmente la giurisprudenza ammette largamente il ricorso al fatto notorio (art. 115 c.p.c.) ed alle presunzioni semplici (art. 2727 c.c.), tenendo conto della qualità soggettiva del creditore[60].

Di recente, tuttavia, la S.C. sembra avere modificato il proprio tradizionale orientamento, limitando fortemente la possibilità, per il giudice, di liquidare il maggior danno ex art. 1224, 2° co., c.c., facendo ricorso a fatti notori e prove presuntive. Ha infatti affermato Cass. 16/05/2000 n. 6327 che il riconoscimento, in favore del creditore, oltre agli interessi, del maggior danno differenziale derivato dall'impossibilità di disporre della somma durante il periodo di mora, va ammesso nei limiti in cui il creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l'inflazione produce a carico di tutti i possessori di danaro. Tuttavia, ha aggiunto la Corte, il ricorso a elementi presuntivi e a fatti notori (che, comunque, non esonera il creditore dall’onere di allegazione e prova) non deve ritenersi consentito in ordine al quantum, a causa della forte riduzione delle dinamiche inflazionistiche. Resta, comunque, escluso tout court il ricorso ad elementi presuntivi e a dati di comune esperienza che si traduca nell'applicazione di parametri fissi, quali quelli evincibili dagli indici Istat o dal tasso corrente degli interessi bancari[61].

Quando, pertanto, il creditore chiede la condanna del debitore moroso al risarcimento del maggior danno ex art. 1224, 2° co., c.c., egli ha l’onere di allegare e dimostrare che, se il debitore avrebbe tempestivamente adempiuto, egli avrebbe potuto investire la somma ricevuta, e ricavarne un lucro che lo avrebbe messo al riparo dai fenomeni inflazionistici.

In sintesi, dunque, l’attuale diritto vivente, in materia di danni da inadempimento di obbligazioni di valuta, si fonda sui seguenti principi:
(a) il danno da ritardo è liquidato nella forma degli interessi legali;
(b) il danno ulteriore ex art. 1224, 2° co., c.c., deve essere allegato e provato dal creditore;
(c) la liquidazione del danno ulteriore ex art. 1224, 2° co., c.c., si sostituisce e non si aggiunge a quella degli interessi legali.

(B) Nel caso, invece, di ritardato adempimento di una obbligazione di valore (tale è l’obbligo di risarcire il danno), non trovano applicazione né l’art. 1277 c.c., né l’art. 1224 c.c.[62].

Ovviamente, ciò non vuol dire che il ritardo nell’adempimento di un’obbligazione di valore sia senza conseguenze per il debitore, ma semplicemente che cambia il criterio di liquidazione del danno da ritardo.

Per determinare le conseguenze del ritardato adempimento di una obbligazione di valore, la prima operazione da compiere è quella di trasformare in valore monetario attuale l’importo accertato con riferimento alla data dell’illecito (taxatio), a meno che, ovviamente, il giudice non ritenga di liquidare il danno direttamente in moneta attuale o, come si suol dire, “all’attualità”). Questa operazione avviene attualizzando la somma dovuta, cioè moltiplicando il credito, calcolato con riferimento la momento di insorgenza, per un coefficiente di rivalutazione (normalmente quello elaborato mensilmente dall’ISTAT, attualmente denominato “FOI”).

Ove la liquidazione del danno avvenga in sede giudiziale, l’operazione di rivalutazione va compiuta d’ufficio, anche in assenza di una espressa domanda in tale senso, in quanto la rivalutazione non rappresenta un accessorio del credito (al pari, ad esempio, degli interessi legali per le obbligazioni di valuta), ma costituisce una componente intrinseca del danno, e per l'esattezza il danno causato dal decorso del tempo[63].

Una volta attualizzata la somma dovuta dal debitore moroso, tuttavia, non è detto che il creditore non abbia null’altro da pretendere. Infatti, qualora il debitore di un’obbligazione di valore ritardi l’adempimento, il creditore può subire un nocumento ulteriore rispetto a quello rappresentato dal deprezzamento della moneta. Il creditore infatti, non disponendo tempestivamente della somma dovutagli, perde la possibilità di effettuare investimenti e di ricavare così un lucro finanziario.

La liquidazione di questo tipo di danno aveva dato vita ad un acceso contrasto giurisprudenziale, oggi sanato dall’intervento delle Sezioni Unite, le quali hanno stabilito che:
(a) al creditore di un’obbligazione di valore spetta il risarcimento del danno ulteriore causato dal ritardo nell’adempimento;
(b) tale danno può essere liquidato in via equitativa e presuntiva, anche facendo ricorso al metodo degli interessi;
(c) gli interessi sub (b), tuttavia, non possono essere computati sulla somma rivalutata;
(d) il saggio degli interessi da applicare non deve necessariamente essere quello legale[64].

Successivamente all’intervento delle Sezioni Unite, i principi appena esposti sono divenuti jus receptum nella giurisprudenza di legittimità[65].

Per liquidare il danno da ritardato adempimento di una obbligazione di valore occorre dunque:
(a) determinare la base di calcolo su cui computare gli “interessi”, base di calcolo che non può mai essere pari alla somma originaria rivalutata all’attualità, ma che deve essere pari al coacervo del credito originario via via rivalutato anno per anno, oppure in base ad un indice di rivalutazione medio;
(b) applicare sulla somma così determinata un saggio di interessi equitativamente scelto dal giudice, in funzione dell’entità e della vetustà del credito.

Se la liquidazione avviene in sede giudiziale, dal momento del deposito della sentenza, l’obbligazione dell’assicuratore si trasforma in obbligazione di valuta, e produce interessi legali dalla data della liquidazione fino al pagamento, secondo i princìpi già esaminati in precedenza[66].

Così ad es., se si intende liquidare un danno aquiliano patito dalla vittima nel 2000 e ammontante - all’epoca - a 100 euro, si dovrà:
(a) rivalutare il danno ad oggi, e quindi moltiplicare il credito espresso in moneta del 2000 per il coefficiente FOI elaborato dall’Istat e relativo a tale anno (1,0758; il credito attuale è dunque pari a € 107,58);
(b) scegliere il saggio da interessi in base al quale calcolare il lucro cessante causato dalla perduta disponibilità della somma di denaro, nelle more tra il fatto illecito e la liquidazione (poniamo che si scelga il saggio del 4%, in considerazione dell'entità del credito e dell'atto qualifica imprenditoriale del creditore, le quali gli avrebbero consentito investimenti particolarmente remunerativi);
(c) applicare il saggio di interessi sub (b) ad una base di calcolo rappresentata dalla media aritmetica tra il valore del credito all'epoca del danno, ed il valore del credito rivalutato ad oggi [e quindi (100+107,58)/2, ovvero € 103,79*4%; il 4% di tale base di calcolo è pari a € 4,15];
(d) sommare il lucro cessante (4,15) al capitale rivalutato (107,58); il credito totale è dunque pari a € 111,73. Su tale somma, poi, saranno dovuti interessi legali dalla data della decisione.

Alla luce di quanto sin qui esposto, emerge dunque la palese erroneità della formula, pure largamente usata dalla giurisprudenza, in virtù della quale si condanna il danneggiante a risarcire il danno liquidato in sentenza, “oltre interessi e rivalutazione dal dì del dovuto al soddisfo”. Al di là della scorrettezza grammaticale[67], tale formula appare - per quanto già detto - inesatta per due motivi:
(a) sia perché gli interessi non si calcolano mai sulla somma rivalutata nelle obbligazioni di valore, mentre nelle obbligazioni di valuta della rivalutazione è dovuta solo se essa supera gli interessi legali, ed in questo caso si sostituisce ad essi;
(b) sia perché, in ogni caso, dal momento della liquidazione giudiziale al momento dell'effettivo pagamento del credito risarcitorio si converte in una obbligazione di valuta, e produce ex lege interessi nella misura legale.

 

7. Fatto illecito della p.a. e “caducazione” del contratto.

Problemi particolari, in tema di aestimatio del danno, possono sorgere allorché la condotta illecita "interferisca" in qualche modo con un contratto, ovvero quando la condotta illecita sia consistita proprio nella stipula di un contratto.

Limitando, per di motivi di spazio, l'esame all'attività della pubblica amministrazione, viene in rilievo in particolar modo l'ipotesi in cui, in seguito alla allo svolgimento di una procedura ad evidenza pubblica ed all'aggiudicazione di un contratto, gli atti di gara o la stessa aggiudicazione vengano annullati in sede giurisdizionale.

È noto come, su tale questione, si registri un contrasto tra la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale in questi casi il contratto sarebbe annullabile, ma la relativa azione potrebbe essere proposta soltanto della pubblica amministrazione (e la giurisdizione spetterebbe al giudice ordinario); e le più recenti tendenze della giurisprudenza amministrativa, secondo la quale l'annullamento degli atti di gara comporterebbe la "caducazione automatica" del contratto, la quale potrebbe essere invocata non solo dalla p.a., ma anche dal privato (e la giurisdizione spetterebbe al giudice amministrativo)[68].

Quale che sia la soluzione che si preferisca in merito a tale questione, v’è tuttavia da osservare che sia la tesi dell'annullabilità, sia quella della caducazione automatica, comportano il venir meno degli effetti del contratto con efficacia ex tunc.

Il venir meno degli effetti del contratto con efficacia retroattiva, a sua volta, pone due ordini di problemi per ciò che attiene al risarcimento del danno, e cioè:
(a) nei confronti dell'aggiudicatario, la pubblica amministrazione è obbligata alla restituzione delle prestazioni eventualmente ricevute medio tempore;
(b) nei confronti del partecipante escluso o pretermesso, la pubblica amministrazione è obbligata al risarcimento del danno.

Esaminiamo partitamente queste due ipotesi.

7.1. Gli obblighi di restituzione.

Nel caso di annullamento del contratto, così come nel caso di nullità o di risoluzione, obblighi restitutori possono sorgere anche a carico della parte non inadempiente (nel caso di risoluzione), ovvero della parte che non ha dato causa alla nullità o all’annullamento.

Tanto la nullità quanto l’annullamento o la risoluzione, infatti, travolgono il contratto con efficacia ex tunc[69], sicché le obbligazioni eseguite per effetto di esso divengono sine causa, e debbono essere restituite.

Gli obblighi restitutori scaturenti dalle vicende “demolitrici” del contratto non vanno confusi con l’obbligo di risarcire il danno.

Le azioni di risoluzione e di nullità da un lato, e quella di risarcimento dall’altro, hanno presupposti e finalità diverse.

Nel caso di risoluzione o nullità del contratto, infatti, viene meno la causa delle reciproche attribuzioni patrimoniali. L’azione di restituzione dunque non serve a risarcire, ma a recuperare quanto non dovuto, e costituisce una ordinaria azione di indebito ex art. 2033 c.c.., in quanto finalizzata a recuperare un pagamento od una prestazione non giustificati da alcuna causa[70].

Tuttavia le norme sull’indebito, come noto, distinguono tra possessore di buona e di mala fede, stabilendo che il primo è tenuto alla restituzione dei frutti dalla data della domanda giudiziale, il secondo dalla data della traditio (ovvero dal momento in cui ha acquistato la disponibilità della cosa).

Tale distinzione sullo stato soggettivo della parte tenuta alla restituzione è concordemente ritenuta applicabile, da dottrina e giurisprudenza, all’ipotesi di nullità del contratto. In tal caso, viene ritenuto in buona fede il contraente che ignorava la causa di nullità del contratto; in mala fede chi ne era a conoscenza. Solo quest’ultimo, pertanto, è tenuto alla restituzione dei frutti dalla data della traditio[71].

La distinzione tra buona e mala fede non è invece ritenuta rilevante, dal giudice di legittimità, nel caso di risoluzione del contratto per inadempimento (art. 1453 c.c.).

L’obbligo di restituzione dei frutti viene infatti qualificato non come un obbligo risarcitorio, ma come un obbligo restitutorio. Di conseguenza, tale obbligo prescinde del tutto dall’inadempimento e dalla colpa (che in materia di possesso viene fatta consistere nella mala fede, ex art. 1184 c.c.). Ciò vuol dire che il soggetto tenuto a restituire la res, sia stato o non sia stato responsabile della risoluzione; sia stato o non sia stato colpevolmente inadempiente, sarà in ogni caso tenuto alla restituzione dei frutti percetti, a far data dal momento in cui ha avuto la disponibilità della cosa[72].

Si noti come la Corte precisi espressamente che l’obbligo della restituzione sussiste “indipendentemente dall'eventuale inadempienza” del soggetto tenuto alla restituzione. Ciò vuol dire che, se tenuto alla restituzione è il soggetto non inadempiente, egli non potrà trattenere i frutti percetti fino alla domanda di restituzione (scilicet, di risoluzione), ma dovrà restituire anche quelli[73].

Problemi particolari possono sorgere quando l’obbligo di restituzione ha ad oggetto una cosa determinata, suscettibile di sfruttamento remunerativo, oppure una somma di denaro.

Nel primo caso, occorre ricordare che:
(a) se al momento della restituzione la cosa ha perso valore, il tradens (e cioè l’avente diritto alla restituzione) non può pretendere il maggior valore che aveva la cosa al momento della traditio, ove sia stato proprio lui, col proprio inadempimento, a determinare la risoluzione del contratto[74]. Così, ad esempio, se la gara per la fornitura di un bene è annullata perché l’aggiudicatario ha corrotto la commissione aggiudicatrice, questi non potrà poi pretendere la rivalutazione del bene medio tempore fornito alla p.a.;
(b) l’equivalente pecuniario dell’uso o del godimento della cosa che deve essere restituita, relativo al periodo compreso tra la consegna ed il rilascio, costituisce frutto del godimento del bene, e non un danno da lucro cessante, e di conseguenza rappresenta l’oggetto di un’obbligazione restitutoria, e non di un’obbligazione risarcitoria; di conseguenza, esso va restituito con decorrenza dalla data della traditio, senza che rilevi la buona o la mala fede dell’accipiens[75]. Così, annullata la gara per la concessione di sfruttamento di una rete di distribuzione, l’ex aggiudicatario è tenuto al pagamento dell’equo compenso per il godimento della cosa, con decorrenza dalla presa in consegna, anche se era del tutto ignaro dei motivi che hanno causato l’annnullamento dell'aggiudicazione.

Nel caso in cui la restituzione abbia ad oggetto una somma di denaro, la relativa obbligazione ha natura di valuta, e non di valore, con quanto ne consegue per quanto attiene al computo del danno da ritardato adempimento (sul quale si veda il § 6.4). Per giungere a tale conclusione, dopo aspri contrasti, è stato necessario l’intervento delle Sezioni Unite, le quali hanno stabilito che l’obbligo di risarcire sorge dalla commissione di un illecito (contrattuale od extracontrattuale); l’obbligo di restituire sorge invece dal venir meno della causa che sorreggeva l’attribuzione patrimoniale. Pertanto l’obbligo di restituire non costituisce una forma di risarcimento, ma una forma di ripetizione dell’indebito, ex art. 2033 c.c., con la conseguenza che la misura di esso non varia per il contraente fedele rispetto a quello inadempiente[76].

7.2. Il sinallagma tra le reciproche obbligazioni restitutorie.

Può talora accadere che la parte tenuta alla restituzione scaturita dalla “caducazione” del contratto si sottragga a tale obbligo. In questi casi è controverso se la controparte, qualora sia anch’essa tenuta a restituire la prestazione ricevuta, possa rifiutare di adempiere l’obbligo restitutorio sino a che l’altra non abbia adempiuto il proprio.

Parte della giurisprudenza propende per la soluzione affermativa, ritenendo:
(a) che possa esistere un “collegamento” (non meglio precisato) tra le obbligazioni restitutorie;
(b) che sia ammissibile una sorta di exceptio inadimpleti contractus, con riferimento ad obbligazioni non contrattuali, quali ad esempio l’obbligo di restituire l’indebito [77].

Altra parte della dottrina, invece, ritiene che tra le contrapposte obbligazioni restitutorie non sussiste alcuna reciproca condizione né alcun sinallagma, ed affermare il contrario equivarrebbe a perpetuare la inammissibile tesi che ravvisa nella risoluzione un contratto risolutorio sinallagmatico[78]. Quest’ultima tesi sembra essere stata condivisa, almeno implicitamente, da Cass. 11-11-1992, n. 12121, in Foro it. Rep., 1992, Indebito, 11, la quale ha espressamente affermato che “il mezzo di autotutela, predisposto mediante l'eccezione d'inadempimento di cui all'art. 1460 c.c., è applicabile ai contratti con prestazioni corrispettive e (…) non ai casi diversi ed analoghi, esso non può pertanto essere invocato nella fattispecie, in cui le obbligazioni delle parti discendono dal principio dell'indebito oggettivo, generalmente posto dall'art. 2033 c.c.”

 

8. Il danno da perdita di chance.

L'atto illegittimo della pubblica amministrazione può determinare non solo una deminutio patrimonii immediata per il danneggiato, ma può causare altresì lo sfumare di utilità non ancora entrate nel suo patrimonio, e che tuttavia non era neppur certo vi sarebbero entrate. È il caso, come noto, della illegittima esclusione da una gara o da un pubblico concorso, ovvero dell'annullamento degli atti di una procedura di evidenza pubblica, la quale per la situazione di fatto, o per legge, non possa essere seguita dall'aggiudicazione al secondo classificato.

Questo tipo di pregiudizio viene solitamente designato con l’espressione “perdita di chances”, che può pertanto definirsi come la perdita di un’utilità non solo futura, ma anche eventuale.

Si coglie già in queste battute il vero nodo irrisolto del danno da perdita di chance: perché un danno sia risarcibile, non è necessario che esso sia attuale, ben potendo risarcirsi anche il danno futuro. E’ necessario, però, che esso sia certo, vale a dire o già verificatosi, o ragionevolmente prevedibile secondo le facoltà umane. Il danno da perdita di chance si presenta invece, per definizione, come un danno futuro ed incerto, ciò che ha indotto qualche autore a dubitare della sua risarcibilità.

Per superare questo ostacolo concettuale alla risarcibilità del danno in esame, dottrina e giurisprudenza hanno seguito strade diverse.

(A) Secondo parte della dottrina, la chance costituisce la possibilità, la speranza, di conseguire un risultato favorevole. Essa dunque è ben distinta dal risultato favorevole cui mira. Una occasione propizia dapprima si presenta, e poi deve essere colta. Tuttavia il fatto stesso di avere un'occasione favorevole costituisce un vantaggio patrimoniale, ben distinto dal vantaggio patrimoniale conseguibile se l'occasione favorevole fosse sfruttata appieno.
La chance, pertanto, secondo la teoria in esame ha essa stessa un valore patrimoniale. La perdita di chance quindi produce un danno che consiste non nella perdita del risultato utile finale, il quale era soltanto sperato, ma nella perdita della possibilità, dell'opportunità, della speranza, di conseguire quel risultato sperato, perdita che è attuale e concreta. In altri termini, la possibilità di ottenere un risultato sperato costituisce una ricchezza, suscettibile di valutazione patrimoniale, e facente parte del patrimonio dell'individuo. Di conseguenza, la perdita della possibilità di ottenere il risultato sperato costituisce un danno emergente, ben distinto dalla perdita del risultato sperato[79].

Quale conseguenza di tale impostazione, la liquidazione del danno da perdita di chance avviene riducendo equitativamente il vantaggio patrimoniale che il danneggiato avrebbe ottenuto se la chance fosse stata arrisa da successo.

La tesi che ravvisa nella perdita di chance una ipotesi di danno emergente presenta l’indubbio vantaggio di semplificare l'opera del giudice, e quindi di facilitare la soluzione delle controversie. Infatti secondo questa tesi, una volta accertato che la chance esisteva e che è andata perduta, il giudice dovrebbe affermare senz'altro l'esistenza del danno, senza preoccuparsi di motivare sulla certezza dello stesso: appunto perché una chance, per definizione, non può essere "certa".

Questo è il motivo pel quale alcuni autori hanno ritenuto che l'adozione, da parte della giurisprudenza, della tesi della perdita di chance come danno in sé, non sia stata che uno stratagemma per "ammantare" della qualifica di diritto soggettivo una situazione giuridica che diritto soggettivo non era, e per conferire così rilevanza giuridica ad una lesione altrimenti irrisarcibile.

Nondimeno, la tesi che ravvisa nella perdita di chance una ipotesi di danno emergente va incontro a numerose obiezioni, ed infatti risulta scarsissimamente condivisa, al di fuori delle controversie di lavoro.

Queste obiezioni possono essere sintetizzate come segue:
(a) In primo luogo, è stato osservato che quando si parla di perdita di una chance si designa un pregiudizio che non può essere distinto dal danno finale, cioè dalla perdita del risultato sperato. Sopprimere una chance vuol dire infatti impedire il processo formativo vòlto all’acquisizione di una utilità futura, quando questo è ancora in fase di svolgimento. Pertanto affermare la risarcibilità della perdita di chance in sé non costituisce che un escamotage per ammettere la risarcibilità di un danno il cui nesso causale rispetto alla condotta illecita non è certo, ma solo probabile;
(b) in secondo luogo, si è osservato che una chance non può essere considerata un bene suscettibile di valutazione patrimoniale. Essa non ha utilità in sé, ma è utile se ed in quanto viene realizzata;
(c) infine, si è rilevato come, ammettendo che la "speranza” in quanto tale sia un bene autonomo e la sua lesione costituisca un danno risarcibile, dovrebbe di conseguenza ammettersi che la lesione di qualsiasi speranza, anche infinitesima, andrebbe risarcita. Una chance "ricca" andrà risarcita in modo ricco, una chance "scarsa" andrà risarcita in modo scarso; una chance infinitesima andrà risarcita in modo infinitesimo.

Tuttavia questa conclusione è scartata proprio da quell’orientamento il quale considera la perdita di chance un’ipotesi di danno emergente, il quale ricorre - come già detto - al criterio della selezione delle chances, ammettendo al risarcimento solo quelle "ragionevolmente fondate", oppure "statisticamente probabili", oppure "moralmente verosimili"[80].

Ma questa soluzione, oltre che onerare il giudice del gravoso compito di distinguere tra la speranza fallace e la speranza fondata, è in patente contraddizione con le premesse da cui muove l’orientamento di cui si discorre.

Se la chance è un bene suscettibile di valutazione economica, essa resta tale sia che abbia molte, sia che abbia poche possibilità di successo. In altri termini, sostenere che la chance è un bene patrimoniale in sé, ma che esso va risarcito solo quando sia "ragionevolmente fondata", equivarrebbe a dire che - ad esempio - la lesione della salute è un danno in sé, ma va risarcita solo quando essa superi un certo grado di invalidità permanente.

(B) Accanto all’orientamento che ravvisa nella perdita di chance una ipotesi di danno emergente, ne esiste un secondo, il quale mostra di considerare e valutare la perdita di chance alla stregua di una ordinaria ipotesi di lucro cessante.

E’ quanto emerge, ad esempio, dalla fattispecie decisa da Cass. 25.9.98 n. 9598, in Danno e resp., 1999, 534. In quel caso, uno studente di ballo aveva allegato di essere stato costretto, in seguito alle lesioni subìte in un sinistro stradale, ad abbandonare la scuola, ed aveva domandato il risarcimento del danno da perdita di chances occupazionali come ballerino. La corte, confermando la decisione di merito che aveva rigettatola domanda per difetto di prova d’un valido nesso causale, ha osservato:
(a) da un lato, che il danno patrimoniale futuro da perdita di chances è senz’altro risarcibile;
(b) dall’altro lato, però, che tale danno è risarcibile purché:
(b’) sia accertata l’esistenza d’un valido nesso causale tra le lesioni e la perdita dell’opportunità favorevole;
(b’’) la chance perduta doveva essere assistita da una “ragionevole probabilità” di verificarsi;
(b’’’) la suddetta ragionevole probabilità deve desumersi da elementi certi ed oggettivi.

Orbene, le tre circostanze alle quali la Corte subordina la risarcibilità del danno da perdita di chance coincidono esattamente con le condizioni usualmente richieste dalla Corte stessa per la risarcibilità del danno futuro da lucro cessante, per il quale la Corte esige che risulti provata o comunque incontestata l'esistenza di un danno risarcibile, perché possa essere valutato dal giudice in via equitativa, non essendo sufficiente la dimostrazione di un danno solo potenziale o possibile[81].

Il che vuol dire che questo secondo orientamento, mutato nomine, assoggetta il danno da lucro cessante e quello da perdita di chance alle medesime regole.


[1] : Tale sintagma è qui utilizzato nel suo senso più ampio ed omnicomprensivo di enti territoriali, enti pubblici non territoriali ed organismi di diritto pubblico.

[2]: In Danno e resp., 1999, 965, con note di CARBONE, MONATERI, PALMIERI, PARDOLESI, PONZANELLI e ROPPO, La cassazione riconosce la risarcibilità degli interessi legittimi; la sentenza, per la sua importanza, è stata pubblicata da moltissime riviste: la si può leggere anche in Contratti, 1999, 869, con nota di MOSCARINI, La risarcibilità degli interessi legittimi: un problema tuttora aperto; Urbanistica e appalti, 1999, 1067, con nota di PROTTO, E’ crollato il muro della irrisarcibilità delle lesioni di interessi legittimi: una svolta epocale?; Corriere giur., 1999, 1367, con nota di DI MAJO, Il risarcimento degli interessi «non più solo legittimi», e di MARICONDA, «Si fa questione d'un diritto civile...»; in Gius, 1999, 2760, con nota di BERRUTI; in Foro it., 1999, I, 2487, con nota di PALMIERI e PARDOLESI, ed ivi, 1999, I, 3201, con note di CARANTA, La pubblica amministrazione nell'età della responsabilità, FRACCHIA, Dalla negazione della risarcibilità degli interessi legittimi all'affermazione della risarcibilità di quelli giuridicamente rilevanti: la svolta della suprema corte lascia aperti alcuni interrogativi, ROMANO, Sono risarcibili; ma perché devono essere interessi legittimi?, SCODITTI, L'interesse legittimo e il costituzionalismo - Conseguenze della svolta giurisprudenziale in materia risarcitoria; in Giust. civ., 1999, I, 2261, con nota di MORELLI, Le fortune di un obiter: crolla il muro virtuale della irrisarcibilità degli interessi legittimi); in Giornale dir. amm., 1999, 832, con nota di TORCHIA; in Nuovo dir., 1999, 691, con nota di FINUCCI; in Trib. amm. reg., 1999, II, 225, con nota di BONANNI; in Arch. civ., 1999, 1107; in Mass. giur. lav., 1999, 1272; in Rass. giur. energia elettrica, 1999, 433; in Nuove autonomie, 1999, 563, con nota di SCAGLIONE; in Gazzetta giur., 1999, fasc. 35, 42; in Guida al dir., 1999, fasc. 31, 36, con nota di MEZZACAPO, CARUSO, DE PAOLA, ed ivi, 1999, fasc. 31, 36, con nota di FINOCCHIARO; in Dir. e pratica società, 1999, fasc. 21, 65; in Ammicon nota di it., 1999, 1399; in Dir. pubbl., 1999, 463, con nota di ORSI BATTAGLINI, MARZUOLI; in Rass. amm. sic., 1999, 9.
Lo stesso principio è stato affermato dalla sentenza “gemella” Cass. civ., sez. Unite, 22-07-1999, n. 501, inedita.

[3] : Sia pure con alcune eccezioni: una delle più rilevanti era quella prevista dall’art. 12 . 19.2.1992 n. 142 (legge comunitaria per il 1991), il quale disponeva che i soggetti i quali avessero subìto una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture o delle relative norme interne di recepimento, potevano chiedere all'Amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno. La norma è stata ora abrogata dall’art. 35, comma 5, d. lgs. 31.3.198 n. 80. E’ noto, altresì, come il principio della irrisarcibilità degli interessi legittimi fosse nei fatti attenuati da quel consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo che aveva prodotto l’ “affievolimento” del diritto trasformandolo in interesse legittimo, facendo riespandere quest’ultimo alla dignità di diritto soggettivo, rendeva possibile il promovimento dell’azione risarcitoria dinanzi al giudice ordinario: ex permultis, in tal senso, si vedano Cass., sez. I, 01-09-1997, n. 8297, in Danno e resp., 1998, 57, con nota di BENEDETTI; Cass., sez. un., 19-03-1997, n. 2436, in Giust. civ., 1997, I, 2785, con nota di APICELLA; Cass., sez. un., 10-04-1995, n. 4129, in Appalti urbanistica edilizia, 1996, 594; Cass., sez. un., 03-08-1993, n. 8545, in Foro it. Rep. 1993, Edilizia e urbanistica, n. 536; Cass., sez. un., 11-03-1992, n. 2957, in Riv. giur. edilizia, 1993, I, 789; Cass., 04-10-1990, n. 9792, in Foro it. Rep. 1990, Edilizia e urbanistica, n. 518; Cass., 01-03-1989, n. 1137, in Giust. civ., 1989, I, 832.

[4] : Hanno parlato di “scardinamento” del sistema precedente Romano, Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la l. n. 205 del 2000, in Dir. proc. ammin., 2001, 602; Francario, Inapplicabilità del provvedimento amministrativo ed azione risarcitoria, in Dir. amm., 2001, 29.

[5] : Si tratta di un concetto coniato e più volte utilizzato da Francesco Donato Busnelli, per indicare la ridda di contrasti giurisprudenziali in tema di liquidazione del danno alla salute, insorti una volta che venne definitivamente ammessa dalla Corte costituzionale l’autonoma risarcibilità di tale pregiudizio. Per una sintesi del concetto si veda, da ultimo, Busnelli, Il danno alla salute: un’esperienza italiana; un modello per l’Europa?, in Bargagna e Busnelli (a cura di), La valutazione del danno alla salute, Padova, 2001, 4.

[6] : Sono debitore della citazione a La Torre, Echi dell’antico dibattito sul contratto di assicurazione, in Assicurazioni, 1995, I, 491.

[7] : La tesi del danno evento venne elaborata dalla corte costituzionale per giustificare la risarcibilità ex se del danno biologico, al di là del limite imposto dall’art. 2059 c.c. (Corte cost., 14-07-1986, n. 184, in Foro it., 1986, I, 2053, con nota di PONZANELLI, La corte costituzionale, il danno non patrimoniale e il danno alla salute); successivamente tale impostazione venne utilizzata dalla Cassazione per giustificare la risarcibilità ex se di altri tipi di danni, quale ad esempio quello alla reputazione (si veda in particolare Cass., sez. III, 10-05-2001, n. 6507, in Dir. e giustizia, 2001, fasc. 22, 15, con nota di ROSSETTI, Risarcita la lesione della reputazione senza prova del danno patrimoniale).

[8] : La giurisprudenza, sul punto, è assai copiosa: per quella di legittimità, si rinvia alle motivazioni di Cass. 6507/01, cit. alla nota precedente, e Cass., sez. I, 07-06-2000, n. 7713, in Famiglia e dir., 2001, 159, con nota di DOGLIOTTI, La famiglia e l’«altro» diritto: responsabilità civile, danno biologico, danno esistenziale, ed ivi, 2001, 189 (solo massima), con nota di BONA, Violazione dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della responsabilità civile? (; la sentenza può leggersi anche in Foro it., 2001, I, 187, con nota di D’ADDA, Il c.d. danno esistenziale e la prova del pregiudizio, ed in Resp. civ., 2000, 923, con nota di ZIVIZ, Continua il cammino del danno esistenziale. Nella giurisprudenza di merito che ha condiviso la tesi in esame, a ben vedere, la tesi del danno da lesione di diritti costituzionalmente protetti, risarcibile ex se, viene solitamente utilizzata per aggirare con grande disinvoltura il limite alla risarcibilità del danno morale, imposto dall’art. 2059 c.c.: in tal senso si vedano, a mero titolo di paradigma di una giurisprudenza piuttosto diffusa, Trib. Milano, 15-06-2000, in Resp. civ., 2001, 461, con nota di FAVILLI, Danno non patrimoniale e «danni esistenziali»; Trib. Treviso, 25-11-1998, in Danno e resp., 2000, 68, con nota di CASO, Danno per lesione del rapporto parentale: tra esigenze di giustizia e caos risarcitorio, nonché in Riv. giur. circolaz. e trasp., 2000, 143, con nota di Rossetti, Si può monetizzare la perdita di un affetto?; Trib. Torino, 08-08-1995, in Resp. civ., 1996, 282, con nota di ZIVIZ, Quale futuro per il danno dei congiunti?.

[9] : Impossibile, oltre che ultroneo, sarebbe dare conto con esaustività in questa sede delle ragioni addotte pro e contro la tesi del danno esistenziale. Sia consentito dunque rinviare, per l’esame dell’ “impianto” di questa teoria, agli scritti di Ziviz, Alla scoperta dal danno esistenziale, in Contr. e impresa, 1994, 864; Monateri, Alle soglie di una nuova categoria risarcitoria: il danno esistenziale, in Danno e resp. 1999, 8; Cendon, Non di sola salute vive l’uomo, in Studi Rescigno, V, Milano 1999, 138-139; Cendon, Esistere o non esistere, in Cendon (a cura di), Trattato breve dei nuovi danni, Padova 2001, 2 e ss.). Per una serrata critica alla tesi del danno esistenziale, si vedano invece PECCENINI, Danni riflessi e danno esistenziale, in Contratto e impr., 2000, 1101; ROSSETTI , Il danno esistenziale tra l’art. 2043 e l’art. 2059 del codice civile, in Resp. civ., 2001, 809; PONZANELLI, Sei ragioni per escludere il risarcimento del danno esistenziale, in Danno e resp., 2000, 693; PEDRAZZI, La nuova stagione del danno non patrimoniale oltre le duplicazioni risarcitorie, in Danno e resp., 2002, 994.

[10] : Si vedano, in tal senso, Giudice di pace Bologna, 08-02-2001, in Giudice di pace, 2001, 192, nonché in Danno e resp., 2001, 981, con nota di BONA e CASTELNUOVO, Pubblica amministrazione, pretese del cittadino e danno esistenziale, nonché in Giur. it., 2001, 536, con nota di Greca, A proposito del danno esistenziale provocato dal rifiuto della Pubblica Amministrazione di annullare d’ufficio i propri provvedimenti illegittimi, il quale ha condannato al risarcimento del danno esistenziale un Comune il quale aveva omesso di revocare una sanzione amministrativa chiaramente irrogata per errore; nonché Trib. Bologna 20.1.2003, in Dir. e giust. 2003, fasc. 16, 46, con nota di Rossetti, Interessi pretensivi e risarcimento, il quale ha condannato una Università a risarcire il danno patito da uno studente cui era stato immotivatamente ridotto il voto di laurea rispetto a quello risultante dalla media degli esami. In argomento si veda anche Viola, La tutela risarcitoria del diritto di accesso ed il danno esistenziale, in Giust. amm., 2003, 310, ma va rilevato come quest’ultimo scritto mostra di ritenere quel che non è, definendo il danno esistenziale come ammesso e condiviso “dalla prevalente dottrina” (p. 318).

[11] : Per una più diffusa analisi sul punto, si vedano Navarretta, Art. 2059 c.c. e valori costituzionali: dal limite del reato alla soglia della tolleranza, in Danno e resp., 2002, 865, e Rossetti, Il danno civilmente rilevante: tipologie, accertamento, liquidazione, in Resp. civ., 2002.
Ovviamente, ritenere erronea la tesi del danno esistenziale non vuol dire ammettere la condivisibilità della scelta operata dal legislatore con la limitazione risarcitoria di cui all’art. 2059 c.c., e, soprattutto, la conformità a costituzione di tale norma.

[12] : Si veda anche Cass. 5.11.2002 n. 15449, in Dir. e giust., 2002, fasc. 41, 22, ma specialmente 25, con nota di Didone, Legge Pinto, il danno non è in re ipsa, ove espressamente si afferma che il c.d. danno esistenziale non è che una componente del danno morale.
E’ singolare osservare che l’attacco più duro alla tesi del danno in re ipsa è venuto proprio da chi l’aveva creato, e cioè dalla Corte costituzionale: ed infatti nella motivazione di Corte cost. 27.10.1994 n. 372, in Giust. civ., 1994, I, 3029 (sentenza con la quale la Consulta ha sostanzialmente “rimangiato” quanto affermato nel 1986 con la sentenza 184/86, cit. supra, nota 9), si legge: “là dove qualifica come «presunto» [il danno alla salute], identificandolo col fatto (illecito) lesivo della salute, [la sentenza n. 184/86] intende dire che la prova della lesione è, in re ipsa, prova dell'esistenza del danno (atteso che da una seria lesione dell'integrità fisio-psichica difficilmente si può guarire in modo perfetto), non già che questa prova sia sufficiente ai fini del risarcimento. E' sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato”.

[13] : Così Corte cost. 27.10.1994 n. 372, in Giust. civ., 1994, I, 3029.

[14] : Così TAR Toscana 27.10.2000 n. 2212, in Urb. e appalti, 2001, 432, con nota di Masi, Interessi legittimi pretensivi e risarcimento: il giudice amministrativo alla ricerca del “bene della vita”.

[15] : Da ultimo, in tal senso, appare di grande rilievo la motivazione di Cass. 10.1.2003 n. 157, in Dir. e giust., 2003, fasc. 6, 38, con nota di Abbamonte, Atti illegittimi della p.a., verso una responsabilità “da contatto”. Nella motivazione di tale decisione si afferma, in più luoghi, che “la tutela risarcitoria dell’interesse oppositivo è riconoscibile purché un danno vi sia” (p. 49), e che “l’astratta risarcibilità [della lesione] lascia aperte le questioni (...) in ordine alla valutazione delle prove” sull’esistenza del danno (p. 50). Va comunque sottolineato come, nella medesima sentenza, la S.C. abbia ritenuto che il danno da lesione dell’interesse positivo possa consistere non solo in un vulnus alla posizione “finale” del diritto dominicale, quale lo ius aedificandi, ma anche in un pregiudizio a posizioni “intermedie”, quali lo ius vendendi ad un certo prezzo.
Nello stesso senso si pronunciato anche il consiglio di Stato, il quale ha affermato che “il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale, ma richiede ia positiva verifica di tutti i requisiti previsti dalla legge e ciò è garanzia di un corretto contenimento delle domande risarcitorie: oltre alla lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento (il "danno ingiusto"), è indispensabile che sia accertata la colpa (o il dolo) dell'amministrazione, che sia accertata l'esistenza di un danno al patrimonio, che sussista un nesso causale tra l'illecito ed il danno subito” (Cons. Stato, sez. IV, 14.6.2001 n. 3169, in Giust. amm., 2001,784, ma specialmente 793).
Contra, invece, si è pronunciato TAR Puglia, 18.4.2002 n. 1569, in Giust. amm., 2002, 625, secondo cui la lesione di un interesse oppositivo implica ex se la lesione di un bene della vita, e comporta “automaticamente” la produzione di un danno ingiusto.

[16] : Giachetti, La risarcibilità degli interessi legittimi è in coltivazione, in Cons. Stato, 1999, 1599; CIRILLO, Il danno da illegittimità dell’azione amministrativa e il giudizio risarcitorio - Profili sostanziali e processuali, Padova 2001, 307-308; CARANTA, Attività amministrativa ed illecito aquiliano - La responsabilità della pubblica amministrazione dopo la l. 21 luglio 2000, n. 205, Milano 2001; Caringella, Il nuovo processo amministrativo - Dopo la l. 21 luglio 2000, n. 205, Milano 2001, 596-597. Quest’ultimo Autore assimila il “diritto strumentale” al risarcimento del danno da lesione di interessi, ad esempio, all’azione di risoluzione (art. 1453 c.c.) o di annullamento (art. 1441 c.c.): l’accostamento tuttavia non convince, sol che si consideri che tanto la domanda di risoluzione, quanto quella di annullamento, sono cumulabili con quella di risarcimento.

[17] : Cass. 10.1.2003 n. 157, cit., p. 67.

[18] : Lo stesso Consiglio di Stato ha affermato, senza mezzi termini, che allo stato attuale della legislazione “la responsabilità dell’amministrazione, conseguente all’adozione di provvedimenti illegittimi, resta saldamente inserita nel sistema dell’illecito delineato dagli artt. 2043 e ss. del codice civile”; più oltre, nella stessa decisione, si legge che “la responsabilità della p.a., correlata all’adozione di atti amministrativi illegittimi (...), va costruita secondo le regole comuni stabilite dal diritto delle obbligazioni” (Cons. Stato, sez. V, 6.8.2001, n. 4239, in Urb. e appalti, 2001, 1211, con nota di Passoni, Responsabilità per “contatto” e risarcimento per lesione di interessi legittimi).

[19] : Nello stesso senso del testo, SCOCA, Per un’amministrazione responsabile, in Giur. costit., 1999, 4045; nonché, sia pure in modo sintetico, Scognamiglio, Giurisdizione esclusiva e risarcimento del danno, in Dir. proc. amm., 2001, 1065, ma specialmente 1079.

[20] : Anche sotto questo profilo, quindi appare corretta l’osservazione secondo cui sarebbe venuta meno ogni distinzione tra giurisdizione esclusiva e giurisdizione di legittimità: infatti i poteri del giudice e le forme processuale finiscono per coincidere nei due casi (Scognamiglio, Giurisdizione esclusiva e risarcimento del danno, in Dir. proc. amm., 2001, 1073.

[21] : Tale espressione è in verità assai curiosa, posto che davvero non si comprende quali altri danni siano concepibili, se non a persone o a cose. Si potrebbe pensare al danno ad animali, ma il legislatore dovrebbe spiegarci perché ha inteso affidare alla giurisdizione del TAR il danno - ad esempio - da investimento di un cane o di un gatto da parte di un veicolo pubblico. Per una approfondita interpretazione dell’art. 33 cit., si veda da ultimo Cass. sez. un. 2.5.2003 n. 6719, in Urb. e appalti, 2003, 1163, con nota di Giovagnoli, Riparto di giurisdizione in materia di servizi pubblici: i rapporti individuali di utenza e le controversie meramente risarcitorie.

[22] : Vacirca, Appunti sul risarcimento del danno nella giurisdizione amministrativa di legittimità, in Giust. civ., 2001, II, 347; ovviamente resta ferma la giurisdizione del g.a. per i danni causati non già dal mero ritardo, ma dal silenzio-rifiuto, assimilato per fictio iuris ad un vero e proprio provvedimento. Contra, però, si veda TAR Emilia Romagna-Parma, 25.11.2002 n. 852, in Giust. amm., 2002, 1421, secondo cui il risarcimento del danno da “ritardato provvedimento” è subordinato alla preventiva o almeno contestuale impugnazione del silenzio, ritualmente formatosi in seguito ad apposita diffida.

[23] : Scoca, Giustizia amministrativa, Torino 2003, 82-83.

[24] : Il d. lgs. 80/98 è stato oggetto di ben 251 censure di illegittimità costituzionale, una delle quali accolta, e 37 delle quali ancora pendenti. Non tutte le censure, tuttavia, hanno assunto a parametro di legittimità costituzionale l’art. 103 cost.. In molti casi, la questione di legittimità viene fondato sul dubbio di un eccesso di delega dell’art. 34 d. lgs. 80/98 rispetto alla legge delega, nella parte in cui ha attribuito al giudice amministrativo la giurisdizione su diritti soggettivi nella materie urbanistica: in tal senso, si vedano Trib. Bassano del Grappa, 23.7.2001, in Gazz. uff. 21.8.2002 n. 33; Trib. Verona 15.12.2001, in Gazz. uff. 13.2.2002 n. 7; Trib. Vicenza 23.11.2001, in Gazz. uff. 6.3.2002 n. 10; Cass. [ord.], sez. un., 11-12-2001, n. 15641, in Foro it. Rep. 2001, Edilizia e urbanistica, n. 117; Trib. Modena 13.2.2002, in Gazz. uff. 2.5.2002 n. 18; Cass. 21.10.2002 n. 14870, inedita.

[25] : Trib. Roma (ord.) 16.11.2000, in Giurispr. romana, 2001, 43, con riferimento all’art. 34 d. lgs. 31.3.1998 n. 80. In quel caso, la Consulta ha ritenuto la questione manifestamente inammissibile, sul presupposto che dalla motivazione dell’ordinanza non sarebbe stato chiaro se il tribunale avesse inteso sospettare di illegittimità costituzionale l’art. 34 d. lgs. 80/98 nel testo anteriore, ovvero in quello successivo alle modifiche apportate dalla l. 202/00 (Corte cost. (ord.) 16-04-2002 n. 122, in Foro it., 2002, I, 1266).

[26] : Trib. Roma (ord.) 31.7.2002, in Giurispr. romana, 2002, 406.

[27] : Si vedano gli autori citati supra, nota 18; a questi può, forse, aggiungersi Satta, Giurisdizione esclusiva, in Enc. del dir., Milano 2000, Agg. V, 593, secondo cui l’attribuzione alla giurisdizione del giudice amministrativo la cognizione delle domande risarcitorie non avrebbe fatto altro che “anticipare” al giudizio di cognizione l’esame di domande quanto il giudice sarebbe stato chiamato a fare in sede di ottemperanza.

[28] : Varrone, Giurisdizione amministrativa e tutela risarcitoria, in Cerulli Irelli (a cura di), Verso il nuovo processo amministrativo - Commento alla l. 21 luglio 2000, n. 205, Torino 2001, 36. In giurisprudenza, la tesi è stata condivisa da Cons. giust. amm. sic. 14.6.2001 n. 296, in Giust. amm., 2001, 709; in tale occasione, il consesso isolano era presieduto da un giudice omonimo dell’autore citato poc’anzi; non saprei, dire, tuttavia, se si tratti o meno della stessa persona.

[29] : Scoca, Giustizia amministrativa, Torino 2003, 83; Scognamiglio, Giurisdizione esclusiva e risarcimento del danno, in Dir. proc. amm., 2001, 1079-1080.

[30] : Sassani, La giurisdizione esclusiva, in Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Milano 2001, 3568; Pajno, La nuova giurisdizione del giudice amministrativo, in Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Appendice al t. IV, 80.

[31] : Scognamiglio, Giurisdizione esclusiva e risarcimento del danno, in Dir. proc. amm., 2001, 1085.

[32] : Scognamiglio, , Giurisdizione esclusiva e risarcimento del danno, in Dir. proc. amm., 2001, 1090.

[33] : Ex multis, si vedano App. Lecce, 09-05-1983, in Corti Bari, Lecce e Potenza, 1984, 33; Pret. Catania, 19-01-1996, in Banca, borsa ecc., 1997, II, 225.

[34] : Cirillo, Il danno da illegittimità dell’azione amministrativa e il giudizio risarcitorio - Profili sostanziali e processuali, Padova 2001, 313 e ss.

[35] : Concezione che, più che tradizionale, è definita “obsoleta” da Caranta, Il ritorno dell’irresponsabilità, in Urb. e appalti, 2001, 675.

[36] : Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in La tutela dell'interesse al provvedimento, Trento, 2001, 239.

[37] Moscarini, Risarcibilità degli interessi legittimi e termine di decadenza, in Dir. proc. amm., 2001, 7; si vedano anche, nello stesso senso, Moscarini, Risarcibilità degli interessi legittimi e termini di decadenza, in Giur it., 2000, I, 1 ss.; Ruoppolo, Tutela aquiliana dell'interesse, in Dir. proc. amm., 2001, 717; BARBIERI, Considerazioni sul processo amministrativo e sulla tutela risarcitoria degli interessi legittimi, in Dir. proc. amm.. 2000, 389.

[38] : MONTESANO, I giudizi sulle responsabilità per danni e sulle illegittimità della pubblica amministrazione, in Dir proc. amm., 2001, 583.

[39] : Interlandi, Azione di annullamento ed azione risarcitoria: le regola della pregiudizialità esiste ancora? Alcune riflessioni su una sentenza “a passo di gambero”, in Dir. proc. amm., 2002, 128.

[40]: Caranta, Il ritorno dell’irresponsabilità, in Urb. e appalti, 2001, 675.

[41] : Caringella, Il nuovo processo amministrativo - Dopo la l. 21 luglio 2000, n. 205, Milano 2001, 606 e ss., secondo il quale peraltro la necessità del previo annullamento dell’atto illegittimo permarrebbe in tutti i casi in cui il danneggiato intenda domandare il risarcimento in forma specifica, con la condanna della p.a. ad un facere; Valaguzza, Riflessioni sull’onere di impugnativa del provvedimento illegittimo in un petitum risarcitorio, in Dir. proc. amm., 2001, 1122 e ss.

[42] : Polidori e Fruscione, La tutela risarcitoria degli interessi legittimi dopo la l. n. 205 del 2000: verso la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sul risarcimento del danno?, in Giust. civ., 2001, II, 303.

[43] : Lopilato, Pregiudiziale amministrativa e risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi: unione perfetta o intollerabile convivenza?, in Urb. e appalti, 2001, 1134, ma specialmente 1141 e ss.

[44] : Francario, Inapplicabilità del provvedimento amministrativo d azione risarcitoria, in Dir. amm., 2002, 23.

[45] : TAR Sicilia-Palermo, 7.10.2002, in Urb. e appalti, 2002, 1475.

[46] : Cfr. ex multis, TAR Campania-Napoli 27.3.2002 n. 1651, in Urb. e appalti, 2002, 724; T.a.r. Campania, sez. I, 08-02-2001, n. 603, in Urbanistica e appalti, 2001, 666, con nota di CARANTA, nonché in Giur. it., 2001, 1747; TAR Campania-Napoli 21.2.2001 n. 810, in Foro amm., 2001; TAR Campania-Napoli, 29.5.2002 n. 3177, in Urb. e appalti, 2002, 1212; TAR Sicilia-Palermo, 1.10.2001, n. 1444, in Urb. e appalti, 2002, 114; TAR Toscana 27.10.2000 n. 2212, in Urb. e appalti, 2001, 432. A questo filone può aggiungersi TAR Friuli-Venezia Giulia 23.4.2001 n. 179, in Giust. amm., 2001, 603, il quale ha escluso la possibilità di domandare, contestualmente all’annullamento dell’atto, la condanna generica della p.a. al risarcimento del danno “da liquidare in separata sede”, e ciò sul presupposto che l’azione di risarcimento dinanzi al giudice amministrativo “è ammessa purché segua alla pronuncia di annullamento”.

[47] : C. Stato, sez. IV, 22-03-2001, n. 1684, in Arch. giur. oo. pp., 2001, 361, nonché in Foro amm., 2001, 400.

[48] : Cons. di Stato, ad. plen., 29.1.2003 n. 1, in Giust. amm., 2003, 119.

[49] : Cons. di Stato, VI, 18.6.2002 n. 3338, in Urb. e appalti, 2002, 1329, ma specialmente 1330 e ss.

[50] : Così TAR Campania-Napoli, 27.3.2002 n. 1651, in Giust. amm., 2002, 623.

[51] : Busnelli, Lesione di interessi legittimi: dal “muro di sbarramento” alla “rete di contenimento”, in Danno e resp., 1997, 269, ma specialmente 274 e ss.

[52] : Cfr. Cass., sez. III, 10-12-1996, n. 10987, in Foro it. Rep. 1996, Responsabilità civile, n. 82; Cass., 24-02-1987, n. 1937, in Arch. circolaz., 1987, 471.

[53]: Cass., sez. III, 23-04-1998, n. 4186, in Danno e resp., 1998, 686, con nota di DE MARZO, nonché in Gius, 1998, 2065.

[54] : Cass. 10.1.2003 n. 157, in Dir. e giust., 2003, fasc. 6, 38.

[55] : Cass. Sez. Un. pen. 11.9.2002 n. 30328, in Dir e giust., 2003, fasc. 35, 21, la quale ha composto il precedente contrasto di giurisprudenza. Si badi che il dictum delle Sezioni Unite penali, avendo ad oggetto la norma (art. 40 c.p.) che disciplina anche la causalità materiale nell’illecito civile, non potrà non trovare applicazione anche con riferimento a quest’ultimo.

[56] : Ex multis: Cass. 1-6-1993, n. 6109, in Foro it. Rep., 1993, Danni civili, 56.

[57] : Ovviamente, il risarcimento di questo tipo di danno presuppone l'accertamento che il candidato, onde avesse sostenuto il concorso, sarebbe riuscito verosimilmente vincitore. Su questo tipo di danno, talora definito danno da perdita di chance, si veda più ampiamente infra, paragrafo 8.

[58] : Ad. es., perché la legge esclude il risarcimento in forma specifica: si pensi al disposto dell’art. 14, comma 2, l. 20.8.2002 n. 190, alla stregua del quale “la sospensione o l'annullamento giurisdizionale della aggiudicazione di prestazioni pertinenti alle infrastrutture non determina la risoluzione del contratto eventualmente già stipulato dai soggetti aggiudicatori; in tale caso il risarcimento degli interessi o diritti lesi avviene per equivalente, con esclusione della reintegrazione in forma specifica”. Ovviamente, resta tutto da valutare la conformità a costituzione di una simile previsione normativa.

[59] : Cfr., ex plurimis, Cass., 7-8-1990, n. 7967, in Foro it. Rep., 1990, Danni civili, n. 267; Cass., 16-12-1994, n. 10796, in Giur. it., 1995, I, 1, 1696; Cass., 14-3-1995, n. 2930, in Foro it. Rep., 1995, Danni civili, n. 292; Cass., 18-2-2000, n. 1834; Cass., 10-5-2000, n. 5988; Cass., 26-9-2000, n. 12758.

[60] : Si veda la “storica” decisione resa da Cass., 4-7-1979, n. 3776, in Giust. civ., 1979, I, 1546; Cass., 5-4-1986, n. 2368, in Foro it., 1986, I, 1265, con note di PARDOLESI, Le Sezioni Unite su debiti di valuta ed inflazione: orgoglio (teorico) e pregiudizio (economico), e di AMATUCCI, Svalutazione monetaria, preoccupazioni della Cassazione e princìpi non ancora enunciati in materia di computo di interessi; Cass., 3-5-1986, n. 3004, in Giust. civ., 1986, I, 1833; Cass., 1-7-1992, n. 8094, in Giust. civ., 1993, I, 2485, con nota di PANELLA, L’incidenza della svalutazione monetaria nei debiti di valuta; Cass., 4-5-1994, n. 4321, ivi, 1994, I, 2143; Cass., 15-1-2000, n. 409.

[61] : Nello stesso senso, Cass., 22-2-2000, n. 1997; Cass., 9-6-1999, n. 5678, in Foro it. Rep., 1999, Danni civili, n. 317.

[62] : Ex plurimis, Cass. 12-6-1998 n. 5908, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 335; Cass. 26-11-1997 n. 11857, in Foro it. Rep., 1997, Danni civili, 304; Cass. 7-12-1994 n. 10493, in Foro pad., 1995, I, 161; Cass. 19-7-1982 n. 4214, in Giust. civ., 1983, I, 531; Cass. 11-4-1981 n. 2164, in Foro it. Rep., 1981, Danni civili, 130.

[63] : Cass. 18-12-1998 n. 12686, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 318; Cass. 2-12-1998 n. 12234, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 300; Cass. 6-11-98 n. 11190, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 319; Cass. 24-8-1998 n. 8364, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 297; Cass. 25-9-1997 n. 9396, in Foro it. Rep., 1997, Danni civili, 306; Cass. 27-3-1997 n. 2745, in Foro it. Rep., 1997, Danni civili, 323; Cass. 1-12-1992, n. 12839, in Foro it., 1994, I, 2227; Cass. 19-11-1983 n. 6897, AC, 1984, 528; Cass. 12-4-1983, n. 2571, in Foro it. Rep., 1983, Danni civili, 222; Cass. 13-2-1982, n. 900, in Foro it. Rep., 1982, Appello civile, 44.

[64] : Pr tutti e quattro questi princìpi, si veda Cass., 17-2-1995 n. 1712, in Foro it., 1995, I, 1470; in Corriere giur., 1995, 462; Gius, 1995, 427; AC, 1995, 667; in Giust. civ., 1995, I, 1495; in Assicurazioni, 1995, II, 2, 81; in Resp. civ. prev., 1995, 533; in Riv. giur. circ. trasp., 1996, 108.

[65] : Nello stesso senso si vedano, tra le più recenti, Cass. 26-4-1999 n. 4156; Cass. 18-2-1999 n. 1372, inedita; Cass. 20-1-1999 n. 490; Cass. 20-1-1999 n. 489, inedita; Cass. 12-1-1999 n. 256; Cass. 22-12-1998 n. 12788; Cass. 28-11-1998 n. 12089; Cass. 23.11.1998 n. 11860, inedita; Cass. 24-7-1998 n. 7298).

[66] : Cass. 21-4-1998 n. 4030, in Arch. circolaz., 1998, 774; Cass. 6-11-1996 n. 9648, in Foro it. Rep., 1996, Interessi, 5; Cass. 17-5-1995 n. 5412, in Foro it. Rep., 1995, Danni civili, 314; Cass. 7-4-1988 n. 2737, in Resp. civ. prev., 1989, 327; Cass. 14-12-1985 n. 6336, in Arch. circolaz., 1986, 280,

[67] : “Soddisfo”, infatti, è prima persona singolare del presente indicativo del verbo “soddisfare”, e non un sostantivo.

[68] : Così, da ultimo, Cons. di Stato, VI, 5.5.2003 n. 2332, in Urb, e appalti, 2003, 918, con nota di Montedoro, I rapporti fra evidenza pubblica e contratto di appalto.

[69] : Cfr. Cass., sez. II, 11-02-1998, n. 1395, in Giur. it., 1999, 271.

[70] : Cass., sez. II, 04-02-2000, n. 1252; Cass., sez. II, 13-04-1995, n. 4268, in Foro it. Rep. 1995, Indebito, n. 10; così Sacco-De Nova, Il contratto, Torino 1993, 636; Luminoso, Obbligazioni restitutorie e risarcimento del danno nella risoluzione per inadempimento, in Giur. comm., 1990, 421.

[71] : Ex multis, Cass., sez. II, 27-12-1994, n. 11177, in Foro it. Rep. 1994, Indebito, n. 11.

[72] : Cass. 20-5-1997, n. 4465, in Foro it. Rep. 1997, Contratto in genere, 56; Cass., 5-4-1990, n. 2802, in Foro it. Rep. 1990, Contratto in genere, 377.

[73] : In questo senso, in dottrina, si vedano Auletta, La risoluzione per inadempimento, Milano 1942, 288 e seguenti; Mirabelli, Dei contratti in generale, Torino 1958, 498; Dalmartello, Risoluzione del contratto, in Noviss. dig., XVI, Torino, 1969, 145; contra, invece, nel senso che la distinzione tra buona e mala fede rilevi anche nel caso di risoluzione del contratto, si sono espressi Sacco, cit., 637; Scalfi, Risoluzione del contratto - diritto civile, in Enc. giur., XXVII, Roma 1991, 8.

[74] : Cass. 22.11.1974 n. 3782, inedita.

[75] : Cass. 20.5.1997 n. 4465, in Foro it. Rep., 1997, Contratto in genere, 55,

[76] : Cass. 4.12.1992 n. 12942, in Foro it., 1993, I, 401.

[77] : Cass. 23.4.1980 n. 2678, in Banca, borsa e titoli, 1981, II, 145; Cass. 27.3.1962 n. 623, inedita; Trib. Roma, 20-10-1982, in Foro pad., 1982, I, 293; Trib. Roma, 3-12-1982, in Giur. it., 1983, I, 2, 741; queste conclusioni sono condivise anche da autorevole dottrina, la quale ritiene estensibile per analogia l’art. 1460 c.c. alle ipotesi di risoluzione giudiziale, in virtù del “perfetto parallelismo” esistente tra gli effetti obbligatori derivanti dalla sentenza di risoluzione e quelli del contratto risolto: così Bigliazzi-Geri, Della risoluzione per inadempimento, Bologna-Roma 1988, 17; Rossi, L’exceptio inadimpleti contractus negli obblighi di restituzione nascenti da sentenza di risoluzione del contratto, in Dir. e giur., 1995, 190, ma specialmente 196-197.

[78] : Sacco, op. ult. cit., 1993, 638; nello stesso senso, Pret. Roma, 20-7-1994, in Dir e giur., 1995, 190, e Pret. Roma 10.1.1995, in Dir e giur., 1995, 190,

[79] : Cass. 1-4-87 n. 3139, in Foro it., 1987, I, 2073; nello stesso senso, si vedano anche Cass. 29.4.93 n. 5026, GI, 1993, I, 1, 234; Cass. 7.3.91 n. 2368, FI, 1991, I, 1793; Cass. 12-10-88 n. 5494, FI, 1989, I, 1330; Cass. 24-1-92 n. 781, in Foro it. Rep., 1992, Lavoro (rapporto), 836; Cass. 19.12.85, FI, 1986, I, 383, tutte relative a fattispecie di esclusione di lavoratori dipendenti dalla partecipazione a concorsi interni.
L’orientamento della sezione lavoro della Corte di cassazione, come è ovvio, ha indirizzato la giurisprudenza del lavoro di merito, la quale in larga parte ha fatto il proprio il principio secondo cui la perdita di chance costituisce una ipotesi di danno emergente; principio, tuttavia, sempre affermato con riferimento ad illegittime esclusioni da prove concorsuali (Pret. Roma 30-4-1986, in Nuovo dir., 1986, 989; Pret. Palermo 17-9-1988, in Temi sic, 1989, 302; Pret. Palermo 28-11-1991, in Temi sic., 1991, 557; Pret. Roma 16-3-93, DL, 1994, II, 36; contra, però, si veda Pret. Ascoli Piceno 23-3-93, FI, 1994, I, 1826, secondo cui non può essere accolta la domanda di risarcimento per la perdita di chance, avanzata da concorrenti che si ritengano ingiustamente pretermessi da un concorso, qualora non provino che nell'ipotesi di osservanza dei criteri di valutazione, l'esito della valutazione sarebbe stato loro favorevole).

[80] : Cass. 22.4.93 n. 4725, in Foro it. Rep., 1993, Lavoro (rapporto), 750; Cass. 2.12.96 n. 10748, in Foro it. Rep., 1996, Lavoro (rapporto), 764).

[81] : Ex multis, Cass. 1-6-93 n. 6109, in Foro it. Rep., 1993, Danni civili, 56.