Esclusione o licenziamento

del socio lavoratore di Cooperativa?

 

Sommario:
1. Delimitazione dell'analisi e programma di ricerca
2. Quadro sinottico delle ipotesi di esclusione e di licenziamento
3. Ipotesi di esclusione per motivi non rilevanti nel rapporto di lavoro. Legittimità della clausola che prevede comunque la perdita del posto di lavoro. Esclusione della configurabilità di un nesso  di pregiudizialità-dipendenza tra rapporto associativo e rapporto di lavoro
4. Diversa regolamentazione nel contratto collettivo di lavoro e nel contratto sociale della stessa condotta tenuta dal socio-lavoratore
5. Tecnica procedimentale di esclusione e di licenziamento
6. Tutela contro l'esclusione e contro il licenziamento. Differenze di disciplina
7.Coordinamento di disciplina processuale in base al collegamento negoziale per pregiudizialità-dipendenza tra rapporto associativo e rapporto di lavoro
8. Doppia tutela e modalità di armonizzazione. Pregiudizialità-dipendenza tra cause
9. Segue. Esame critico delle conseguenze applicative: sospensione necessaria della causa dipendente e divieto di tutela cautelare
10. Segue. Valutazione di sintesi
11. Tutela spettante in caso di esclusione-licenziamento.

 

1. - Con la l. n. 142 del 2001 è stata affermata la c.d. teoria dualistica: accanto al rapporto associativo del socio di cooperativa coesiste un ulteriore e distinto rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma (art. 1, comma 3°) ([1]).

La l. 14 febbraio 2003, n. 30 (art.9) ha cancellato le parole «e distinto», per cui il rapporto di lavoro del socio è sì «ulteriore» rispetto al rapporto associativo, ma non si distingue più da quest'ultimo, rispetto al quale assume anzi una posizione ancillare. Infatti, la l. n. 30 del 2003 ha altresì previsto che:

a) la risoluzione del rapporto associativo comporta l'automatica estinzione anche del rapporto di lavoro, in sintonia con l'art. 2533 c.c., nella versione novellata dal d.lgs. n. 6 del 2003, che entrerà in vigore il 1° gennaio 2004;

b) l'esercizio dell'attività sindacale, di cui al titolo III dello st. lav., troverà applicazione soltanto se compatibile con il rapporto associativo, nei limiti definiti da accordi collettivi tra associazioni nazionali del movimento cooperativo e organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative;

c) la regolamentazione normativa del rapporto sia associativo che di lavoro trova la sua fonte primaria nel contratto sociale e nel regolamento, essendo la cooperativa tenuta unicamente a rispettare il trattamento economico risultante dai contratti collettivi nazionali di lavoro;

d) sempre a proposito di regolamentazione normativa del rapporto del socio-lavoratore, il ruolo primario della fonte interna, anche regolamentare, risulta confermato anche dal novellato art. 2533 c.c., a norma del quale l'esclusione della cooperativa è espressamente prevista per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dal contratto sociale, dal regolamento o dal rapporto mutualistico, mentre, in precedenza, l'art. 2527 c.c. si limitava a richiamare i casi stabiliti dall'atto costitutivo ([2]).

In sintesi, a livello di diritto sostanziale, il rapporto associativo e il rapporto di lavoro appaiono come le due facce di una stessa medaglia: non si tratta più di due rapporti separati e distinti, bensì di due rapporti confluenti in un rapporto complesso, la cui regolamentazione poggia principalmente sulla fonte interna (contratto sociale, regolamento) e su specifici accordi sindacali, che sappiano tener conto della particolarità di questo rapporto di lavoro.

Questa nuova veste sostanziale si ripercuote sull'individuazione del giudice competente in caso di controversia: viene cancellato il comma 2° dell'art. 5 l. n. 142 del 2001, che distingueva tra rapporto associativo, rimesso alla competenza del giudice ordinario, e rapporto di lavoro, rimesso alla competenza funzionale del giudice di lavoro. Adesso, il novellato art.5, comma 2°, non parla più di rapporto, ma di «prestazione mutualistica», rinviando al tribunale ordinario le relative controversie ([3]).

Quanto poi all'esclusione-licenziamento del socio-lavoratore, unicamente si prevede, in negativo, l'inapplicabilità dell'art. 18 st. lav. (art. 2, comma 1°).

Null'altro si aggiunge: non si indica quale sia la tutela spettante; quale sia il giudice competente; quale sia il rito da seguire; quale il coordinamento tra le diverse tutele previste per il rapporto associativo da un lato e per il rapporto di lavoro dall'altro lato.

Di qui la necessità di analizzare funditus l'argomento, anche in considerazione della rilevanza e delicatezza del problema, tenuto conto dell'ampia diffusione del lavoro in cooperativa.

Per riempire il vuoto lasciato dal dettato legislativo, occorre preliminarmente tratteggiare la disciplina, sostanziale e processuale, prevista per l'esclusione dalla società cooperativa e dal rapporto di lavoro. Un problema di coordinamento si pone, infatti, soltanto in caso di diversità di disciplina.

Una volta delineato il quadro di diritto positivo, è possibile esaminare le varie soluzioni proposte in dottrina e la persuasività delle stesse, tenendo presenti i principi costituzionali e, in particolare, la necessità di non fare del socio-lavoratore di cooperativa un paria tra i lavoratori, con tutela dimidiata.

 

2. - Iniziamo con il porre a confronto le ipotesi di esclusione dal rapporto associativo e quelle di licenziamento, per evidenziarne omogeneità e differenze.

Si nota che:

a) le cause di esclusione possono essere integrate dalla volontà delle parti, dato che, a norma del vigente art. 2527 c.c., al di là delle ipotesi espressamente prese in considerazione dal codice o da leggi speciali, l'atto costitutivo può prevedere casi particolari mentre il novellato art. 2533 c.c. aggiunge che l'esclusione può essere altresì disposta per gravi inadempienze delle obbligazioni previste dal contratto sociale, dal regolamento o dal rapporto mutualistico;

b) sono legislativamente previste cause oggettive di esclusione non rilevanti nel distinto rapporto di lavoro, come il fallimento del socio (art. 2288, comma 1°, c.c.) ovvero la condanna ad una pena che importa l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici (art. 2286 c.c.);

c) sono legislativamente previste cause soggettive di esclusione non rilevanti nel distinto rapporto di lavoro, come il mancato pagamento della quota associativa, malgrado la diffida (art. 2524 c.c. vigente, art. 2531 c.c. novellato);

d) tutte le ipotesi di giusta causa ovvero di giustificato motivo soggettivo di licenziamento possono rientrare nella previsione di esclusione dalla cooperativa per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale (art. 2286 c.c.), dato che una delle principali obbligazioni contratte dal socio è certamente quella di conferire la propria capacità lavorativa, stipulando e correttamente eseguendo il distinto rapporto di lavoro;

e) tra le ipotesi di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, l'eccessiva morbilità (superamento del periodo di comporto per sommatoria) non trova una corrispondente previsione nella disciplina del rapporto associativo, in cui si prevede come causa di esclusione l'inidoneità a svolgere l'opera conferita (art. 2286, comma 2°, c.c.) ([4]);

f) sempre tra le ipotesi di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il ridimensionamento dell'attività produttiva (sia per cause fisiologiche quali la perdita o l'ultimazione della commessa o dell'appalto sia per cause patologiche quali la crisi del settore o del mercato o, comunque, per una valutazione di non proficuità dell'attività) rileva sul versante del rapporto di lavoro, ma non immediatamente e necessariamente sul versante del rapporto associativo ([5]). Infatti, il legislatore ha espressamente previsto che l'iscrizione nelle liste di collocamento, al fine del pagamento dell'indennità di disoccupazione ([6]) non determina la perdita dello stato di socio della cooperativa (art. 24, comma 3°, l. 24 giugno 1997 n. 196, così come modificato dall'art. 1-quater, d.l. 8 aprile 1998, n. 78, conv. in l. 5 giugno 1998, n. 176). Nel caso, quindi, che il socio voglia restare in cooperativa, pur senza lavorare, per mantenere una sorta di priorità allo svolgimento di nuove occasioni di lavoro, si pone il problema della possibilità di imporre l'esclusione dalla cooperativa. Tale possibilità è stata dedotta dall'estensione anche alle cooperative di produzione e lavoro della procedura di mobilità (art. 8 d.l. 20 maggio 1993 n. 148, convertito in l. 19 luglio 1993, n. 236): la previsione di poter reagire ad una crisi aziendale con dei licenziamenti collettivi e la messa in mobilità confermerebbe la possibilità per l'assemblea ([7]) di disporre l'esclusione dalla cooperativa dei soci-lavoratori in esubero ([8]). Questa consecutio non convince per l'autonomia del rapporto associativo rispetto al rapporto di lavoro e, quindi, per la possibilità di restare soci in attesa di nuove occasioni di lavoro, come confermato dall'art. 24, comma 3°, l. n. 24 giugno 1997 n. 196 ([9]). Non c'è un automatico effetto di trascinamento della sorte di uno dei due rapporti su quella dell'altro rapporto.

Queste ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per poter rilevare anche nel distinto rapporto associativo, necessitano di una previsione dell'atto costitutivo (art. 2527 c.c. vigente) ovvero del contratto sociale o del regolamento (art. 2533 c.c. novellato): è possibile escludere la permanenza in cooperativa di soci in attesa di lavorare ovvero  specificatamente legittimare l'esclusione dalla compagine sociale in caso di perdita del posto di lavoro conseguente a ridimensionamento dell'attività di impresa ([10]) o al superamento del periodo di comporto per malattia.

Al contrario si sostiene che un'eventuale clausola statutaria che prevedesse l'esclusione del socio a seguito di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sarebbe nulla, «posto l'interesse del socio medesimo a rimanere associato ad una cooperativa il cui oggetto sociale è comunque quello di perseguire occasioni di lavoro per i soci» ([11]). Nel caso, quindi, che non ci sia da lavorare, è il socio e non già la cooperativa che può decidere di rescindere il contratto sociale, dando le proprie dimissioni.

Questa tesi è corretta nel suo svolgimento. È però il punto di partenza che può essere messo in discussione. Occorre verificare se l'oggetto sociale di una cooperativa di lavoro sia necessariamente di perseguire occasioni di lavoro per i soci. Ebbene, l'oggetto sociale di una cooperativa di lavoro potrebbe, ad es., essere quello di «ottenere, tramite la gestione in forma associata dell'azienda, continuità di occupazione lavorativa e le migliori condizioni economiche, sociali e professionali»; conseguentemente, è possibile altresì prevedere nel contratto sociale o nel regolamento la perdita della qualità di socio in caso di perdita del posto di lavoro. La cooperativa di lavoro può, ma non deve necessariamente operare come un'agenzia di collocamento o di lavoro interinale.

In sintesi, tutte le ipotesi di licenziamento possono essere altresì ipotesi di esclusione dalla cooperativa. In particolare, gli obblighi derivanti dal contratto sociale possono fagocitare gli obblighi derivanti dal contratto di lavoro e così ogni giusta causa o giustificato motivo soggettivo può essere inadempienza rispetto al contratto sociale.

Non solo.

Il contratto sociale o il regolamento possono anche esemplificare gli obblighi di comportamento nell'esecuzione del rapporto di lavoro, prevedendo che determinate e specifiche condotte nello svolgimento del lavoro comportino l'esclusione dalla cooperativa, con problemi di coordinamento di disciplina che si esamineranno infra.

Al contrario, non tutte le ipotesi di esclusione dalla cooperativa possono essere altresì ipotesi di licenziamento (ad es., fallimento del socio), con problemi di legittimità della clausola dell'atto costitutivo che dispone la perdita del posto di lavoro in caso di esclusione dalla cooperativa, anche se per motivi irrilevanti nel distinto rapporto di lavoro.

Questo il quadro sinottico delle ipotesi di esclusione e di licenziamento.

Si tratta adesso di affrontare i problemi di coordinamento di disciplina.

 

3. - I problemi di coordinamento di disciplina possono distinguersi per il profilo statico e per il profilo dinamico.

Sotto il profilo statico innanzitutto si pone il problema della legittimità della clausola del contratto sociale che prevede comunque la perdita del posto di lavoro in caso di esclusione dalla cooperativa, anche nel caso in cui la causa di esclusione sia del tutto irrilevante rispetto alla permanenza del rapporto di lavoro.

Questo problema è nuovo ed è conseguente alla riforma legislativa.

Prima della riforma non c'era bisogno di una siffatta previsione nell'atto costitutivo, essendo prevalente in giurisprudenza la tesi monista dell'unico rapporto associativo e di lavoro ([12]) e, pertanto, con l'esclusione dalla cooperativa automaticamente si perdeva anche il posto di lavoro .

Adesso la l. n. 30 del 2003, pur confermando che il rapporto di lavoro è ulteriore (ma non più distinto) rispetto al rapporto associativo, ha novellato l'art. 5, comma 2°, l. n. 142 del 2001, prevedendo che il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l'esclusione del socio. Questa norma va coordinata col novellato articolo 2533 c.c. che, pur affermando l'automatica risoluzione del rapporto mutualistico a causa dello scioglimento del rapporto sociale, ammette una diversa previsione dell'atto costitutivo.

Si pone quindi il problema di considerare la previsione del novellato art. 5, comma 2°, come imperativa e inderogabile ovvero come previsione astratta e generale, da applicarsi in caso di difetto di diversa previsione del contratto sociale, come consente il novellato art. 2533 c.c.

Vengono in considerazione le cause di esclusione sopra riportate sub b) e sub c), cioè le ipotesi di fallimento, interdizione, mancato pagamento della quota sociale, ecc.

È stato tentato di dare rilievo a tali cause di esclusione anche nel rapporto di lavoro, sostenendo che «una causa di esclusione del socio possa avere sempre rilevanza disciplinare e giustificare un teorico licenziamento [.] considerando la condotta da tenere nel rapporto associativo quale oggetto di una sorta di diligenza preparatoria ai fini del rapporto di lavoro» ([13]). Così il mancato pagamento della quota associativa ovvero la mancata partecipazione alle assemblee ([14]) rileverebbe disciplinarmente, essendo funzionale al corretto svolgimento del lavoro assegnato.

Questa tesi è suggestiva, in quanto consente di giustificare l'effetto trainante causa di esclusione-licenziamento senza dover affrontare il problema dell'autonomia ovvero dell'interdipendenza funzionale tra il rapporto di lavoro ed il rapporto associativo.

Tuttavia, prescindendo dalla possibilità di attribuire rilievo disciplinare nel rapporto di lavoro a condotte rilevanti esclusivamente nel rapporto associativo, quale il pagamento della quota sociale, rimangono comunque fuori le ipotesi oggettive di esclusione di diritto dalla cooperativa slegate da una particolare condotta tenuta nell'adempimento del contratto sociale o del contratto di lavoro.

Ad es., il fallimento del socio può essere conseguente allo svolgimento di un'attività di impresa terminata prima dell'ingresso in cooperativa e dell'inizio dell'attività lavorativa a favore della stessa. Non è pertanto possibile dare un rilievo disciplinare ad una causa di esclusione che prescinde da una condotta tenuta nell'adempimento del contratto sociale o del contratto di lavoro.

Stabilito, quindi, che sussistono ipotesi di esclusione che non hanno diretta rilevanza rispetto al rapporto di lavoro instaurato con la cooperativa, si tratta di passare al gradino successivo, cioè alla verifica della possibilità di attribuire indiretta rilevanza a tali ipotesi di esclusione.

Possono a tal proposito distinguersi due ricostruzioni: una generale ed astratta ed un'altra specifica e concreta; la prima prescinde, mentre la seconda richiede la verifica del singolo caso.

Viene in considerazione la tesi del collegamento negoziale sussistente tra il contratto sociale ed il contratto di lavoro, riscontrando un «rapporto di reciproca dipendenza funzionale», per cui comunque e necessariamente «se viene meno il contratto associativo (ad esempio per esclusione del socio) il collegato contratto di lavoro dovrà, a sua volta, estinguersi, essendo caduta la precondizione che ne aveva giustificato la conclusione, ossia la qualità di socio in capo al lavoratore» ([15]). Tra il rapporto di lavoro ed il rapporto associativo sussisterebbe quindi un nesso di pregiudizialità-dipendenza a carattere permanente, simile a quello intercorrente tra conduttore e subconduttore ([16]). È, pertanto, indifferente in base a quale causa è venuto meno il rapporto associativo, perché, pur in difetto di diretta rilevanza della causa di esclusione rispetto al rapporto di lavoro (ad es., fallimento del socio), comunque si ha un effetto di trascinamento dell'esclusione dalla società rispetto al rapporto di lavoro.

Questa tesi va verificata nel momento costitutivo del rapporto di lavoro: se, infatti, il rapporto di lavoro è dipendente dal rapporto associativo, vuol dire che non si può instaurare con una cooperativa un rapporto di lavoro senza essere previamente diventato socio, così come non è possibile concedere un diritto di ipoteca senza essere previamente diventato proprietario del bene da ipotecare ovvero così come non è possibile concedere in sublocazione un bene di cui non si è prima diventanti conduttori ([17]).

Ebbene, questa consecutio non sussiste. La cooperativa non è obbligata ad avvalersi unicamente di soci lavoratori ed anzi, nella propria autonomia organizzativa, può assumere lavoratori subordinati ad esempio per sostituire un socio-lavoratore assente per malattia o maternità ovvero per sopperire ad eccezionali ma temporanee esigenze.

Ad esempio, il contratto collettivo nazionale di lavoro per gli operatori delle pulizie prevede all'art. 4 la c.d. clausola di salvaguardia del posto di lavoro. Tale clausola vale per tutte le imprese, anche se in forma cooperativa. In base a tale norma, in caso di rinnovo dell'appalto del servizio di pulizie a parità di condizioni, il personale in servizio presso la ditta cessante, con anzianità di servizio di almeno quattro mesi, ha il diritto di essere assunto dalla ditta subentrante. Se l'appalto se lo aggiudica una cooperativa di lavoro, quest'ultima non potrà costringere il personale già in forze a diventare socio ([18]). Si troverà così costretta ad avvalersi di lavoratori non soci. Se non avesse l'autonomia organizzativa di poter assumere dei lavoratori non soci, si troverebbe fuori dal mercato, in base ad un non scritto nesso di interdipendenza funzionale tra rapporto associativo e rapporto di lavoro, tale per cui non è possibile instaurare (e mantenere) il secondo in assenza del primo.

In sintesi, non è possibile utilizzare la teoria generale ed astratta del nesso tra rapporto associativo e rapporto di lavoro per riuscire ad attribuire indiretta rilevanza alla causa di esclusione dalla cooperativa rispetto alla sorte del rapporto di lavoro.

Il novellato art. 5, comma 2°, l. n. 142 del 2001 non può pertanto essere considerato inderogabile dalla volontà pattizia. Tale norma deve essere coordinata con il novellato art. 2533 c.c., consentendo alla cooperativa di prevedere nel contratto sociale il mantenimento del rapporto di lavoro, pur dopo lo scioglimento del rapporto associativo.

 

4. - Sempre sotto il profilo statico, un altro problema di coordinamento di disciplina si pone con riferimento alla possibile diversa regolamentazione della stessa condotta tenuta dal socio-lavoratore.

Ad esempio, il contratto collettivo di riferimento può stabilire la perdita del posto di lavoro in caso di assenza per malattia superiore a 365 giorni nell'ultimo triennio, salvo il diritto di richiedere un ulteriore periodo di tempo come aspettativa non retribuita per recuperare la capacità lavorativa, e con essa la conservazione del posto; l'atto costitutivo potrebbe abbassare tale soglia dei 365 giorni ovvero escludere l'aspettativa.

Ancora. Il contratto sociale o il regolamento potrebbero regolamentare in maniera più stringente l'esemplificazione contenuta nel contratto collettivo di riferimento delle mancanze disciplinari.

Quanto a queste ultime, il potere disciplinare è comunque una prerogativa del datore di lavoro e, pertanto, la cooperativa può ben specificare e parti­colareggiare le condotte disciplinarmente rilevanti, tenuto conto delle pro­prie peculiarità e della particolare attività svolta. Starà poi al giudice effet­tuare un controllo di razionalità delle previsioni.

Il problema di coordinamento di disciplina si porrà piuttosto con riferimento alle possibili sanzioni. Ad esempio, il contratto collettivo di riferimento potrebbe prevedere che la sanzione della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione non possa superare i cinque giorni lavorativi ovvero regolamentare a livello sanzionatorio la recidiva; il contratto sociale o il regolamento della cooperativa potrebbero superare questi limiti sanzionatori.

In queste ipotesi, così come in quella del superamento del periodo di comporto per malattia, si pone il problema della prevalenza da dare alle previsioni del contratto sociale/regolamento ovvero a quelle del contratto collettivo.

            Ebbene, come ricordato al n. 1, «il regolamento non può contenere disposizioni derogatorie in pejus rispetto al solo trattamento economico» del contratto collettivo (art. 6 novellato); al contrario la parte normativa del contratto collettivo può essere derogata, anche in pejus. Occorre però che tale deroga in pejus sia giustificabile in considerazione delle particolarità, in astratto, del rapporto di lavoro in cooperativa e, in concreto, del tipo e modalità di attività svolta.

            Altrimenti, tenendo conto del fatto che lo scopo di una cooperativa di lavoro è quanto meno quello di migliorare le condizioni di lavoro e garantire la continuità di occupazione, risulta difficile dare asilo a previsioni che peggiorino la situazione dei soci-lavoratori rispetto a quelle dei normali lavoratori subordinati.

 

5. - Sotto il profilo dinamico un problema di coordinamento di disciplina si pone con riferimento alla tecnica procedimentale di esclusione e di licenziamento ([19]).

La formazione dell'atto di esclusione dalla cooperativa non è procedimentalizzata, con la previsione del necessario previo coinvolgimento del soggetto interessato. L'art. 2527 c.c. unicamente prevede che la delibera debba essere presa dall'assemblea o, se previsto nell'atto costitutivo, dal consiglio di amministrazione (il novellato art. 2533 c.c. inverte la regola, attribuendo il potere di esclusione al consiglio di amministrazione o, se l'atto costitutivo lo prevede, all'assemblea). Pertanto soltanto in caso di discussione in assemblea il socio da escludere potrà far sentire la sua voce, ma, comunque, senza aver previamente avuto una formale contestazione ed un termine a difesa, come invece previsto dall'art. 7 st. lav. in caso di licenziamento per motivi disciplinari.

È vero che spesso a livello statutario è prevista una forma di controllo endosocietario delle delibere di esclusione, affidato ad un collegio di probiviri, per cui il procedimento di esclusione è da considerarsi perfezionato soltanto a seguito della pronuncia del collegio dei probiviri ([20]). Si tratta, però, soltanto di una possibilità ed è successiva ad una delibera già presa.

Si pone pertanto il problema di condizionare la validità formale dell'esclusione, per motivi inerenti la corretta esecuzione del rapporto di lavoro, al rispetto della procedura di cui all'art. 7 st. lav.

Prima della riforma, la giurisprudenza riteneva non invocabile l'art. 7 dello st. lav., in quanto tale norma si applica al rapporto di lavoro subordinato e il rapporto tra la cooperativa e il socio non è riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato ([21]). Anzi, non si richiedeva neppure la trasmissione in forma integrale del provvedimento di esclusione ovvero l'adozione di particolari formalità, purché la comunicazione consentisse al socio di comprendere le ragioni dell'esclusione e, quindi, di articolare le proprie difese ([22]).

In sintesi, prima della riforma, l'atto di esclusione per mancanze era simile al licenziamento disciplinare quanto a contenuto, ma non quanto a procedimento. Sia l'atto di esclusione che l'atto di licenziamento, infatti, cristallizzano le ragioni del recesso nella motivazione dell'atto unilaterale autoritativo, e, pertanto, la successiva fase contenziosa si articola secondo il principio di eventualità, non potendo essere variati o aggiunti nuovi motivi di recesso rispetto a quelli già evidenziati, ma soltanto fatti contrari (dupliche) alle repliche dell'opponente ([23]). Il principio di eventualità, però, non reggeva e condizionava la formazione dell'atto di esclusione, in quanto non era prevista la necessità di una previa contestazione degli addebiti, come richiesto invece dall'art. 7 st. lav., per cui l'atto di esclusione non era «a rima obbligata» rispetto ad un precedente atto di contestazione.

Adesso, a seguito della riforma, qualora coesista un rapporto di lavoro subordinato accanto al rapporto associativo, si dovrà applicare l'art. 7 st. lav. per poter validamente procedere a contestare delle inadempienze nello svolgimento del rapporto di lavoro e, quindi, procedere al licenziamento (art. 2, l. 142 del 2001).

Benché, infatti, sia possibile contenere in un unico documento l'atto di esclusione e di licenziamento, si tratta comunque di due atti autonomi ([24]) e, pertanto, non è possibile far valere l'esclusione come licenziamento, per poter eludere la tecnica procedimentale fissata dall'art. 7. La cooperativa non può cioè adottare l'atto di esclusione senza previa contestazione degli addebiti e, quindi, procedere al licenziamento, sulla base della previsione statutaria che preveda l'automatica risoluzione del rapporto di lavoro in caso di esclusione. Per validamente recedere dal rapporto di lavoro per motivi disciplinari occorre rispettare l'art. 7. Sarà quindi l'atto di esclusione a risentire della disciplina del rapporto di lavoro e, quindi, ad essere procedimentalizzato.

Ciò in caso di esclusione-licenziamento per mancanze nell'esecuzione del rapporto di lavoro.

In caso di esclusione-licenziamento per cause soggettive proprie del rapporto associativo, legislativamente (ad es., mancato pagamento della quota sociale) o statutariamente previste (ad es., mancata partecipazione alla vita sociale, assenza non giustificata a più assemblee sociali, ecc.), la formazione dell'atto di esclusione rimane non procedimentalizzata, a meno di voler considerare la «condotta da tenere nel rapporto associativo quale oggetto di una sorta di diligenza preparatoria ai fini del rapporto di lavoro» ([25]).

Considerato, comunque, che la mutualità interna alla cooperativa impone di esaltare la tutela e le garanzie spettanti al socio-lavoratore, è consigliabile disciplinare nel regolamento interno o nello statuto il procedimento di contestazione anche delle mancanze relative al rapporto associativo.

 

6. - Tratteggiato il rapporto sussistente tra esclusione e licenziamento, si può passare ad esaminare la tutela prevista a favore del socio-lavoratore.

Occorre preliminarmente porre a confronto la tutela spettante in caso di esclusione e quella spettante in caso di licenziamento. Soltanto dopo tale esame, precisate le peculiarità e caratteristiche di queste diverse forme di tutela, sarà possibile ricercare un coordinamento di disciplina, che tenga conto della previsione normativa dell'art. 2, comma 1°, l. n. 142 del 2001 nonché dei principi costituzionali.

La tutela prevista in caso di esclusione è quella disciplinata dall'art. 2527 c.c. e, a partire dal 1° gennaio 2004, dal novellato art. 2533 c.c. Queste le principali caratteristiche, rispetto alla tutela, reale ex art. 18 st. lav. ovvero obbligatoria ex art. 8 l. 604 del 1966, contro il licenziamento:

a) l'impugnazione della delibera di esclusione deve essere effettuata tramite azione giudiziale, mentre l'impugnazione del licenziamento può essere fatta anche stragiudizialmente;

b) l'azione di impugnativa dell'esclusione deve essere promossa a pena di decadenza entro il termine perentorio di trenta (sessanta per il novellato art. 2533 c.c.) giorni dalla comunicazione ([26]), mentre, in caso di licenziamento, è sufficiente la contestazione stragiudiziale entro il termine di sessanta giorni (art. 2, l. n. 604 del 1966), potendo poi l'azione giudiziale seguire nel termine prescrizionale quinquennale di cui all'art. 1442 c.c. ([27]);

c) giudice competente a decidere sull'esclusione è il tribunale, in formazione collegiale (art. 50 bis, n. 5, c.p.c.; art. 1, comma 3°, d.lgs. 17 gennaio 2003, n.5), mentre il controllo sul licenziamento è demandato al tribunale in composizione monocratica, quale giudice del lavoro;

d) il tribunale, in base al vigente art. 2527 c.c., può sospendere l'esecuzione della deliberazione di esclusione «sic et simpliciter, senza che ricorrano i gravi motivi, richiesti, invece, per la sospensione di qualsiasi altra deliberazione societaria ed associativa ex art. 2378, comma 4°, c.c. e dell'art. 23 c.c.» ([28]) e, comunque, senza che ricorra il «pregiudizio grave ed irreparabile» di cui all'art. 700 c.p.c. ([29]). Con la riforma del diritto societario, il novellato art. 2533 c.c. non prevede più la sospensione della delibera. Si applicherà il procedimento cautelare delineato dagli art. 23 e 24 d.lgs. n.5 del 2003, che, comunque, prescinde dal presupposto del «pregiudizio grave ed irreparabile» di cui all'art. 700 c.p.c. e prevede la possibilità di richiedere la misura cautelare anche ante causam, il mantenimento di efficacia del provvedimento cautelare anche nel caso in cui il giudizio di merito non sia iniziato o si estingua, la possibilità di un giudizio abbreviato. Al contrario, in caso di licenziamento, la tutela cautelare è quella di cui all'art. 700 c.p.c., per cui tale rimedio è da escludere a priori quando si verte in ambito di tutela obbligatoria, in quanto la tutela di merito può al massimo dare un contenuto risarcimento danni, che non può originare il pregiudizio imminente ed irreparabile richiesto dalla tutela cautelare ([30]). In caso di tutela reale, sarà comunque onere del lavoratore provare la sussistenza del periculum in mora, con la dimostrazione di apparenti ragioni d'urgenza ulteriori rispetto a quelle date dalla natura della causa, quali il carico familiare, la necessità di affrontare spese indilazionabili, ecc. ([31]); inoltre, secondo quanto previsto in giurisprudenza, si pone il problema ulteriore di dover dar conto anche del fumus boni iuris, fornendo elementi per apprezzare l'apparente illegittimità del licenziamento, benché, a norma dell'art. 5 l. n. 604 del 1966 spetti al datore di lavoro l'onere probatorio della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento ([32]);

e) l'annullamento della delibera di esclusione comporta la ricostituzione della situazione anteriore e il risarcimento del danno, che nel caso di socio-lavoratore è pari al compenso-retribuzione (oltre che agli eventuali utili distribuiti) fino alla data di rientro nella compagine sociale ([33]). In caso di licenziamento, se assistito da tutela obbligatoria, sussiste soltanto il diritto al risarcimento danni (art. 8 l. n. 604 del 1966); se invece è invocabile la tutela reale, il lavoratore ha il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento di tutte le retribuzioni perse, con un minimo di cinque mensilità, oltre alla possibilità di rinunciare alla reintegra e richiedere ulteriori quindici mensilità di retribuzione;

f) la tutela contro l'esclusione prescinde dalla consistenza dell'azienda e, pertanto, si applica indifferentemente sia alle piccole che alle grandi cooperative.

In sintesi, la tutela contro l'esclusione, quanto agli effetti, appare sicuramente preferibile alla tutela debole contro il licenziamento, offrendo la ricostituzione della situazione anteriore e il recupero di quanto perso invece di un modico indennizzo di natura economica. Per di più questa maggior tutela potrebbe frustrare sul nascere l'interesse a costituire delle false piccole cooperative, emanazione di grandi società di capitali, dalle quali prendono in appalto frammenti del ciclo produttivo.

Inoltre si caratterizza per la più ampia tutela cautelare concedibile e per il minor tempo di proposizione dell'impugnativa. Entrambe queste caratteristiche si legano alla particolarità della fattispecie: per la possibilità di regolare funzionamento della compagine sociale (validità delle deliberazioni) è necessario sapere entro un termine breve se l'esclusione è o meno posta in discussione e, in caso positivo, se il socio escluso, almeno provvisoriamente, ha o meno il diritto di partecipare alla vita sociale e contrastare l'assunzione di decisioni importanti.

Non è chiaro, però, se la restitutio in integrum conseguente all'annullamento della delibera di esclusione consenta di recuperare oltre che la qualità di socio anche quella di lavoratore.

È quanto si passa a verificare.

 

7. - Il problema del tipo di tutela in caso di esclusione-licenziamento è stato spesso affrontato come appendice e conseguenza della disciplina del collegamento negoziale tra rapporto associativo e rapporto di lavoro.

La ricostruzione del tipo di collegamento negoziale è infatti servita per stabilire se accordare soltanto un tipo di tutela (quella contro l'esclusione o quella contro il licenziamento) ovvero se accordare entrambe le tutele, salvo, in quest'ultimo caso, ricercare un mezzo di coordinamento dei due differenti giudizi.

Così si è affermato sussistente un nesso di derivazione genetico e funzionale tra il rapporto associativo e il rapporto di lavoro, tale per cui la costituzione del rapporto di lavoro dipende «dall'instaurazione (contestuale o pregressa) del rapporto associativo» e «il nesso di derivazione, che ne risulta, rende il rapporto di lavoro - anche successivamente alla sua costituzione - inscindibile da quello associativo» ([34]). Ne consegue «il carattere pregiudiziale che - rispetto all'impugnazione (rectius: impugnabilità) del licenziamento - assumono le questioni concernenti la cessazione, valida ed efficace appunto, del rapporto associativo» ([35]). Pertanto al socio escluso spetta la tutela prevista dall'art. 2527 c.c. e, a partire dal 1° gennaio 2004, dall'art. 2533 c.c. novellato.

Sempre partendo dal presupposto dell'esistenza di un nesso di derivazione genetico e funzionale tra il rapporto associativo ed il rapporto di lavoro ([36]), si afferma però un'alternatività di tutela, perché il nesso funzionale tra i due rapporti è biunivoco, per cui:

- «se il socio lavoratore è stato escluso dalla società per una causa di esclusione statutariamente prevista e il rapporto di lavoro è venuto meno in virtù dello scioglimento del rapporto associativo tipico, allora andrà impugnato proprio l'atto di esclusione che è il presupposto»;

- se, invece, l'esclusione dipende dalla violazione di obblighi giuslavoristici, quali l'assenza ingiustificata, allora «l'impugnazione deve avvenire proprio a stregua della legislazione sui licenziamenti», cioè invocando la tutela ex art. 8 l. n. 604 del 1966, anche per evitare «una maggiorazione di tutela inspiegabile per le cooperative con meno di sedici dipendenti» ([37]).

Questa alternatività di tutela viene infine giustificata sulla base di una distinzione tra atto deliberativo ed atto estintivo ([38]): il primo riferito alla valorizzazione dei motivi di risoluzione del singolo rapporto (associativo o di lavoro); il secondo riferito alla consequenziale terminazione dell'altro rapporto (associativo o di lavoro), che non può continuare a sussistere in mancanza del collegato rapporto. Occorre impugnare l'atto deliberativo e non l'atto terminativo, in quanto la sorte di questo è già a livello di diritto sostanziale legata alla sorte dell'(impugnazione dell') atto deliberativo.

Ebbene, sotto il profilo sostanziale, abbiamo già visto che è legislativamente esclusa la necessità di un nesso di pregiudizialità-dipendenza a carattere permanente tra rapporto associativo e rapporto di lavoro (ex art. 24, comma 3°, l. 24 giugno 1997, n. 196, così come modificato dall'art. 1-quater, d.l. 8 aprile 1998, n. 78, conv. in l. 5 giugno 1998, n. 176, è possibile l'iscrizione nelle liste di collocamento, al fine del pagamento dell'indennità di disoccupazione, pur mantenendo lo stato di socio della cooperativa) e che la necessità di un tale nesso si pone in contrasto con i principi costituzionali a tutela dell'autonomia organizzativa della cooperativa, potendone altresì gravemente pregiudicare il funzionamento ([39]).

Se, pertanto, benché connessi, sono reciprocamente autonomi il rapporto associativo e il rapporto di lavoro e possono perdurare a prescindere dalla coesistenza dell'altro rapporto, sfuma la distinzione tra «atto deliberativo» ed «atto terminativo», in quanto non è necessaria ed automatica la fine anche del collegato rapporto e, conseguentemente, la reviviscenza di quest'ultimo in caso di accoglimento dell'impugnazione dell'atto deliberativo-terminativo dell'altro rapporto.

In ogni caso questa riesumazione del rapporto collegato, in caso di accoglimento dell'impugnazione dell'atto che ha posto fine all'altro rapporto, non regge sotto il profilo processuale, in quanto si afferma che la tutela prevista in caso di esclusione-licenziamento per violazione di obblighi giuslavoristici è quella prevista dall'art. 8 l. n. 604 del 1966, cioè la c.d. tutela obbligatoria ([40]). Tale tutela non comporta de iure la ricostituzione del rapporto di lavoro, ma soltanto l'obbligo alternativo di riassunzione ovvero di pagamento di una contenuta indennità risarcitoria. La mancata ricostituzione del rapporto di lavoro non può, quindi, fungere da traino per il ripristino del rapporto associativo. Pertanto, per liberarsi di un socio scomodo, è sufficiente per la cooperativa procedere ad un licenziamento-esclusione per motivi riguardanti il rapporto di lavoro, anche se frutto di pura fantasia, rischiando al più di pagare lo scotto di un modico indennizzo.

Abbiamo così un'irrazionale differenza di tutela, a seconda che la cooperativa proceda all'esclusione (per motivi non riguardanti il rapporto di lavoro) e, quindi, al licenziamento ovvero proceda al licenziamento e, quindi, all'esclusione. Nel primo caso, applicandosi la tutela prevista dall'art. 2527 c.c. (a partire dal 1° gennaio 2004, dall'art. 2533 c.c.), il socio-lavoratore potrà ottenere il ripristino della situazione e il risarcimento del danno, pari al compenso-retribuzione e agli eventuali utili distribuiti fino alla data di rientro nella compagine sociale ([41]); nel secondo caso il socio-lavoratore dovrà accontentarsi di un modico indennizzo in danaro ex art. 8 l. n. 604 del 1966.

Questa differenza di tutela è costituzionalmente illegittima, non potendosi invocare a giustificazione l'affectio societatis, in quanto il supposto primario interesse della cooperativa ad operare armoniosamente e con comunione di intenti tra i propri soci non può valere soltanto in caso di licenziamento-esclusione (per motivi relativi al rapporto di lavoro) e non anche in caso di esclusione-licenziamento (per motivi irrilevanti nel rapporto di lavoro).

In fine, sempre sotto il profilo processuale, si nota che il supposto nesso di pregiudizialità-dipendenza non esclude la tutela del rapporto dipendente e, quindi, la possibilità per il socio-lavoratore di agire sia a tutela del rapporto pregiudiziale associativo ex art. 2527 c.c. che a tutela del rapporto dipendente di lavoro.

È quanto si passa ad esaminare.

 

8. - Pur partendo dal presupposto che il rapporto associativo e il rapporto di lavoro sono autonomi sia nel momento costitutivo che nel momento risolutivo, si afferma che sussiste un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra cause, per di più bilaterale, per cui la causa sull'esclusione può essere talvolta pregiudiziale e talaltra dipendente rispetto alla causa sul licenziamento ([42]).

Si sostiene che il giudizio sull'esclusione è pregiudiziale rispetto al giudizio sul licenziamento, ove ricorrano le seguenti condizioni:

a) si agisca per c.d. tutela obbligatoria ex art. 8 l. n. 604 del 1966 e nell'atto costitutivo della cooperativa «non sia contemplata la presenza di dipendenti non soci» ([43]);

b) in ogni caso in cui «la domanda comprenda l'applicazione della tutela rea­le» ([44]).

Al contrario, il giudizio sul licenziamento è pregiudiziale rispetto a quello sull'esclusione «laddove atto normativo della società cooperativa stabilisca l'esclusione automatica del socio licenziato per non essere contemplati soci che non siano anche lavoratori dipendenti» ([45]).

L'effetto di questo nesso di pregiudizialità-dipendenza è:

1) la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., salvo che le due domande di invalidazione dell'esclusione e del licenziamento siano state proposte contestualmente o l'una in via riconvenzionale rispetto all'altra, con applicazione del rito del lavoro, ai sensi degli artt. 40, comma 3°, e 34 e 36 c.p.c. ([46]);

2) la (probabile) non esperibilità della tutela cautelare ex art. 700 c.p.c. mirante alla reintegra provvisoria nel posto di lavoro, «poiché il giudice del lavoro non potrebbe esprimersi sulla sussistenza del requisito del fumus boni iuris circa l'invocazione dell'art. 18 st. lav., dal momento che l'applicabilità di quest'ultimo dipende dall'esito del giudizio sull'esclusione, riservato solo ai singoli magistrati della sezione civile ordinaria dello stesso tribunale» ([47]).

Esaminiamo la tenuta di questa ricostruzione, iniziando dal nesso di pregiudizialità-dipendenza, per poi valutare le conseguenze applicative.

Innanzitutto non sussiste un nesso di pregiudizialità-dipendenza tra la causa sull'esclusione e quella sul licenziamento, qualora il socio-lavoratore estromesso si limiti a chiedere la tutela obbligatoria ex art. 8 l. n. 604 del 1966.

La sorte dell'atto di esclusione può condizionare l'esito del giudizio sul licenziamento soltanto ammettendo che il socio-lavoratore non possa scegliere tra riassunzione e risarcimento del danno, in quanto tale scelta è riservata al datore di lavoro ([48]); dovendo, quindi, il socio-lavoratore richiedere comunque la riassunzione, l'esito della causa di lavoro è subordinato all'accertamento della validità dell'esclusione, in presenza di una clausola del contratto sociale che vieti la presenza di lavoratori dipendenti non soci.

Ebbene, a prescindere dal riconoscimento dell'alternatività di obbligazione riassunzione-risarcimento soltanto a favore del datore di lavoro e non anche del lavoratore ([49]), comunque la previsione statutaria di voler operare soltanto con soci-lavoratori può ben essere intesa come anticipato esercizio della facoltà di scelta riservata al datore di lavoro tra riassunzione e risarcimento del danno a favore di quest'ultima obbligazione. Pertanto, il socio-lavoratore escluso può agire in giudizio, impugnando il solo licenziamento e richiedendo il risarcimento del danno ex art. 8 l. n. 604 del 1966 e l'esito di tale controversia è indipendente dall'eventuale causa sull'esclusione ovvero dal consolidamento dell'atto di esclusione.

Passiamo ad esaminare il nesso di pregiudizialità invertita, per cui la causa sul licenziamento è pregiudiziale rispetto a quella sull'esclusione.

È un gatto che si morde la coda, poiché, seguendo la ricostruzione proposta, il giudice del lavoro non può sapere se concedere o meno la tutela reale fin tanto che il giudice chiamato a decidere sull'esclusione non abbia deciso se invalidare o meno l'atto di esclusione. Così abbiamo che il giudice dell'esclusione deve aspettare l'accertamento del giudice del lavoro circa l'illegittimità del licenziamento; il giudice del lavoro deve aspettare la decisione sull'esclusione per poter riconoscere la tutela reale al socio-lavoratore estromesso.

Non solo. Affermandosi che questo nesso di pregiudizialità-dipendenza tra cause impone la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., abbiamo che il giudice del lavoro dovrebbe fare una sentenza parziale di mero accertamento dell'illegittimità del licenziamento, senza però poter decidere sul diritto azionato al posto di lavoro e al risarcimento del danno ovvero, ampliando lo spettro degli effetti positivi del giudicato, sull'esistenza del rapporto di lavoro ([50]), dovendo attendere la decisione sull'esclusione. Ma la decisione soltanto sul licenziamento verte su un fatto e non su un diritto e non è ammissibile nel nostro ordinamento. In ogni caso, tale decisione non copre quanto domandato e la possibilità di accordare o negare la tutela richiesta viene posticipata al momento in cui la causa sull'esclusione si sia conclusa con una sentenza passata in giudicato. A sua volta e preliminarmente la causa sull'esclusione, sospesa ex art. 295 c.p.c. in attesa della decisione sulla legittimità del licenziamento, può riprendere il suo corso soltanto quando la decisione sul licenziamento è passata in giudicato. L'assurdità di una tale situazione è di immediata percezione.

Inoltre, sotto il profilo sostanziale, le cause di licenziamento sono di regola anche cause di esclusione ([51]); in particolare, come detto, tutte le ipotesi di giusta causa ovvero di giustificato motivo soggettivo di licenziamento rientrano nella previsione di esclusione dalla cooperativa per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale (art. 2286 c.c.), dato che una delle principali obbligazioni contratte dal socio è certamente quella di conferire la propria capacità lavorativa, stipulando e correttamente eseguendo il distinto rapporto di lavoro ([52]). Pertanto, siamo di fronte ad una comunanza di fatti storici, il cui diverso accertamento comporta soltanto un contrasto logico di giudicati, tollerato dal nostro ordinamento e non idoneo a causare la sospensione necessaria di un processo.

Rimane da considerare l'ipotesi di pregiudizialità-dipendenza tra la causa sull'esclusione e quella sul licenziamento, in cui è chiesta la tutela reale.

Analizziamo come è costruita questa pregiudizialità tra cause.

Si afferma che la tutela reale non è invocabile in caso di esclusione; pertanto, occorre preliminarmente accertare se l'esclusione è legittima o meno; se, infatti, l'esclusione venisse invalidata, cadrebbe il limite alla possibilità di richiedere la tutela reale contro il licenziamento ([53]).

Verifichiamo la tenuta di questa ricostruzione.

La verifica poggia su due piani: innanzitutto bisogna riscontrare se l'illegittimità dell'esclusione sia a livello normativo costruita come fatto costitutivo del diritto alla tutela reale del posto di lavoro; superata questa verifica di diritto sostanziale, occorre accertare se a livello normativo è imposta la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c.

Torniamo, quindi, al dettato letterale dell'art. 2 l. n. 142 del 2001, a norma del quale «ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la l. 20 maggio 1970, n. 300, con esclusione dell'art. 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo».

Il testo normativo non prevede come fatto costitutivo del diritto alla tutela reale del posto di lavoro l'illegittimità dell'esclusione dalla cooperativa. Il legislatore si limita ad escludere l'applicabilità dell'art. 18 ogni qual volta ci sia un'estromissione dalla cooperativa del socio-lavoratore, che perde sia il posto di lavoro che quello di socio.

Non solo.

Per poter affermare l'applicabilità della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., occorre altresì la previsione che la questione pregiudiziale (illegittimità dell'esclusione) debba essere decisa con efficacia di giudicato. Soltanto in questi casi può essere attribuita prevalenza all'armonia dei giudicati piuttosto che alla rapidità ed efficacia di giustizia ([54]).

Ebbene, questa previsione non c'è nella norma in commento.

In sintesi, la tesi del nesso di pregiudizialità-dipendenza tra la causa sull'esclusione e quella sul licenziamento, con conseguente sospensione necessaria della seconda in attesa della definizione con sentenza passata in giudicato della prima, non è supportata dal testo normativo.

 

9. - In fine, bisogna tener conto delle conseguenze applicative della tesi in esame.

Come anticipato, si sostiene che, in attesa della definizione con sentenza passata in giudicato della controversia sull'esclusione, non è possibile neppure concedere la tutela cautelare ex art. 700 c.p.c., con reintegra provvisoria nel posto di lavoro, in quanto il giudice del lavoro non può valutare la sussistenza del fumus boni iuris circa il diritto alla tutela reale fin tanto che non è eliminato l'atto di esclusione e la valutazione della validità dell'esclusione è riservata ai soli singoli magistrati della sezione civile del tribunale ([55]). Quest'ultima osservazione non è corretta, in quanto la decisione dell'azione di impugnativa della delibera di esclusione è riservata al tribunale in composizione collegiale e non già ai singoli magistrati della sezione civile, dovendosi applicare l'art. 50 bis c.p.c. nonché, a partire dal 1° gennaio 2004, l'art. 1 comma 3°, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5.

Quanto poi al divieto di tutela cautelare, va messo in risalto che tale privazione si pone in contrasto con la garanzia costituzionale del diritto alla tutela dei propri diritti ed interessi legittimi (art. 24), poiché tale tutela si esplica sia nella forma ordinaria di cognizione-accertamento che in quella cautelare, oltre che in quella esecutiva. La possibilità di lasciare un soggetto senza tutela cautelare, specialmente quando il pregiudizio derivante dalla durata del processo è particolarmente sensibile (nel nostro caso sono in gioco le esigenze anche alimentari connesse al posto di lavoro e la durata del processo è enormemente dilatata in conseguenza della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. in attesa del passaggio in giudicato della decisione sull'esclusione), deve quindi non soltanto risultare chiaramente dal testo normativo, ma anche essere giustificabile razionalmente. Nulla di tutto ciò nel nostro caso ([56]).

Non solo.

La tesi in esame omette di considerare la possibilità di evitare la sospensione necessaria e, quindi, l'effetto perverso di protratta denegata giustizia, ricorrendo al simultaneus processus. Si prevede, infatti, la possibilità della trattazione congiunta della causa sull'esclusione e della causa sul licenziamento soltanto nel caso di introduzione contestuale delle due domande di invalidazione ovvero nel caso in cui una di esse sia stata proposta in via riconvenzionale ([57]).

Ebbene, anche nel caso di proposizione separata delle due cause, bisogna comunque ricercare la possibilità di procedere ad una trattazione congiunta.

Non rappresenta un impedimento alla trattazione congiunta il fatto che la controversia sul licenziamento debba essere trattata con il rito del lavoro.

Non bisogna però confondere rito del lavoro e giudice del lavoro, nel senso che se rito del lavoro deve essere, allora la controversia spetta al giudice del lavoro ([58]). Il rito non è la competenza.

Non solo.

Comunque, il simultaneus processus non avverrà davanti al giudice del lavoro, bensì davanti al tribunale in composizione collegiale, secondo quanto disposto dall'art. 281- novies c.p.c.

L'intero contenzioso viene quindi trattato dal giudice dell'esclusione (tribunale in formazione collegiale) e non già davanti al giudice del licenziamento (giudice unico del lavoro).

Questa notazione è al momento sfuggita ai vari commentatori della riforma.

 

10. - Dopo aver analizzato la complessa ricostruzione sul nesso di pregiudizialità-dipendenza tra cause, è possibile trarre delle considerazioni di sintesi, utili per affrontare poi l'interpretazione del testo normativo.

Innanzitutto tale tesi presuppone, come punto di partenza, il riconoscimento, a livello di diritto sostanziale, dell'autonomia del rapporto di lavoro rispetto a quello associativo, per cui la sorte dell'uno è slegata dalla sorte dell'altro e, quindi, l'accoglimento dell'impugnativa dell'atto terminativo di uno dei due rapporti non può comportare la riesumazione dell'altro rapporto, la cui risoluzione si sia oramai consolidata per difetto di tempestiva opposizione. Ad esempio, l'accoglimento dell'impugnazione del licenziamento non può far riemergere il rapporto associativo, ove l'atto di esclusione non sia stato impugnato giudizialmente nel termine decadenziale di trenta giorni, come imposto dall'art. 2527 c.c. (sessanta giorni ex art. 2533 novellato); parimenti l'accoglimento dell'impugnazione dell'atto di esclusione non può comportare la ricostituzione del rapporto di lavoro, ove l'atto di licenziamento non sia stato impugnato stragiudizialmente nel termine decadenziale di sessanta giorni, come imposto dall'art. 6 l. n. 604 del 1966.

L'analisi non può però fermarsi a questa constatazione di principio.

Portando alle estreme conseguenze quanto affermato da questa ricostruzione, vediamo che, a livello di diritto processuale, l'insensibilità della sorte di un rapporto sulla sorte dell'altro, frutto dell'autonomia dei due rapporti, è in realtà soltanto apparente.

Infatti, in caso di mancata impugnazione dell'atto di esclusione, il socio-lavoratore può rischiare di trovarsi sprovvisto di qualsiasi tutela anche contro l'atto di licenziamento, in quanto:

- la tutela reale è esclusa dall'art. 2 l. n. 142 del 2001, essendo cessato, in maniera non più contestabile, il rapporto associativo oltre che quello di lavoro;

- la tutela obbligatoria è esclusa, nel caso in cui nell'atto costitutivo della cooperativa sia prevista la presenza soltanto di soci-lavoratori e il rapporto associativo non sia più ricostituibile per difetto di tempestiva impugnazione dell'atto di esclusione. Quest'ultima considerazione non è chiaramente sostenuta, ma è conseguente alla tesi che riconosce una situazione di pregiudizialità-dipendenza tra cause non soltanto nell'ipotesi in cui il socio-lavoratore richieda la tutela reale, ma anche nell'ipotesi in cui nel contratto sociale non sia contemplata la presenza di dipendenti non soci. Se, quindi, si può essere lavoratori subordinati soltanto in quanto soci, ma non è più possibile essere soci essendosi consolidato per difetto di tempestiva opposizione l'atto di esclusione dalla cooperativa, allora non è neppure invocabile la tutela debole di cui all'art. 8 l. n. 604 del 1966, in quanto il socio lavoratore escluso-licenziato può richiedere unicamente la riassunzione, ponendosi il risarcimento del danno come facoltà del datore del lavoro e non già come diritto del lavoratore immediatamente azionabile ([59]).

Anche l'affermato rapporto di pregiudizialità-dipendenza invertito, per cui la causa sull'esclusione, disposta come conseguenza automatica del licenziamento del socio, deve essere sospesa in attesa della definizione della causa d'impugnazione del licenziamento ([60]), è in realtà soltanto apparente: come osservato ([61]), se la tutela reale ([62]) contro il licenziamento presuppone che sia stato espunto dal mondo del diritto l'atto di esclusione, allora il giudice del lavoro, una volta ritenuto illegittimo il licenziamento, dovrebbe arrestarsi nel decidere, non sapendo se poter o meno riconoscere la tutela reale, in attesa della definizione, con sentenza passata in giudicato, della causa sull'esclusione. Pertanto, la causa sull'esclusione, da dipendente rispetto alla causa sul licenziamento, torna ad essere pregiudiziale.

Seguendo e dando attuazione a questa ricostruzione, la tutela contro l'esclusione diventa necessaria e pregiudiziale a qualsiasi forma di reazione all'estromissione dalla cooperativa.

Inoltre, la causa sull'esclusione, dovendo essere promossa ex art. 2527 c.c. entro trenta giorni (sessanta giorni ex art. 2533 c.c. novellato) dalla comunicazione dell'atto, è presumibilmente la prima ad essere proposta e, come visto nel paragrafo precedente, è dotata di vis atractiva nei confronti dell'eventuale causa sul licenziamento.

In sintesi, la prima considerazione da fare è che la reazione contro l'estromissione ruota intorno alla causa sull'esclusione, la cui definizione con sentenza passata in giudicato condiziona la tutela contro il licenziamento.

Non solo.

Questa ricostruzione ha il pregio di rispondere alla ratio della norma in esame (art. 2 l. n. 142 del 2001), che vuole escludere la possibilità della ricostituzione di un rapporto parziale tra le parti, cioè del solo rapporto di lavoro.

Il socio-lavoratore estromesso dalla cooperativa non può cioè imporre il suo ritorno in cooperativa soltanto come lavoratore dipendente. La volontà delle parti si era incontrata nella costituzione del rapporto associativo unitamente al rapporto di lavoro. La possibilità di azionare la tutela dell'art. 18 st. lav. è pertanto possibile quando, nel rispetto della volontà delle parti, si debba discutere unicamente del rapporto di lavoro, dato che la cooperativa ha provveduto soltanto al licenziamento del socio. In caso contrario non è possibile forzare la volontà delle parti tramite la ricostituzione per ordine del giudice del solo rapporto di lavoro.

 

11. - Dall'analisi effettuata della disciplina sostanziale e processuale prevista per l'esclusione dalla società cooperativa e dal rapporto di lavoro, è possibile affermare, come punti fermi, che, in caso di esclusione-licenziamento il socio-lavoratore estromesso:

a) può rinunciare alla riammissione in cooperativa e limitarsi a richiedere il risarcimento danni da illegittimo licenziamento, azionando la tutela prevista dall'art. 8 l. n. 604 del 1966;

b) non può rinunciare alla riammissione in cooperativa e pretendere la reintegra nel posto di lavoro come mero lavoratore subordinato, azionando la tutela ex art. 18 st. lav.;

c) per ottenere la restitutio in integrum, deve impugnare in giudizio l'atto d'esclusione nel termine decadenziale di trenta giorni dalla comunicazione, azionando la tutela ex art. 2527 c.c. (sessanta giorni ex art. 2533 c.c. novellato).

Al contrario è dubbio se la tutela ex art. 2527 c.c. (art. 2533 c.c. novellato e artt. 23-24 d.lgs. n. 5 del 2003, a partire dal 1° gennaio 2004) debba o meno essere affiancata da altra tutela contro il licenziamento (tutela debole ex art. 8 l. n. 604 del 1966 ovvero tutela reale ex art. 18 st. lav., a seconda della consistenza aziendale).

Tale dubbio poggia innanzitutto sul dato letterale della norma, che non ammette la tutela ex art. 18 st. lav. ogni qual volta venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo. L'esclusione della tutela reale è pertanto legata al mero dato fattuale della cessazione di entrambi i rapporti e non già all'accertamento giudiziale di una valida esclusione ovvero all'inoppugnabilità dell'atto di esclusione.

Si potrebbe allora sostenere che la tutela ex art. 2527 c.c. (art. 2533 c.c. novellato e artt. 23-24 d.lgs. n. 5 del 2003, a partire dal 1° gennaio 2004) va affiancata dalla tutela generale del posto di lavoro di cui all'art. 8 l. n. 604 del 1966. Tale assunto è però irrazionale e incostituzionale. Irrazionale in quanto il socio-lavoratore estromesso si trova nel paradosso di poter recuperare la poltrona di socio-lavoratore della cooperativa, azionando la tutela ex art. 2527 c.c. (art. 2533 c.c. novellato e artt. 23-24 d.lgs. n. 5 del 2003, a partire dal 1° gennaio 2004), ma non il posto di lavoro, sacrificabile per volontà della cooperativa con la corresponsione di un modico indennizzo. Incostituzionale, per violazione dell'art. 3 cost., in quanto la qualità di socio invece di conferire maggiori diritti e tutela al contrario toglie la garanzia del posto di lavoro: il lavoratore subordinato non socio di una cooperativa con più di quindici dipendenti ha diritto alla reintegra; il socio-lavoratore ha diritto soltanto ad un modico indennizzo. Tale trattamento non può essere giustificato con l'esigenza primaria di tutelare l'affectio societatis, in quanto il supposto primario interesse della cooperativa ad operare armoniosamente e con comunione di intenti tra i propri soci non opera con riguardo al rapporto associativo, che può essere ricostituito per ordine del giudice, ex art. 2527 c.c. (art. 2533 c.c. novellato e artt. 23-24 d.lgs. n. 5 del 2003, a partire dal 1° gennaio 2004).

Bisogna inoltre tener conto del fatto che il rapporto associativo non può essere fine a se stesso; il socio aderisce alla cooperativa, conferendo le proprie attitudini e capacità lavorative; la figura del «socio-lavoratore in attesa di lavorare» è infatti eccezionale e necessariamente temporanea. Pertanto, una volta ricostituito il rapporto associativo (provvisoriamente, a seguito della sospensiva dell'atto di esclusione, ovvero definitivamente, a seguito dell'accoglimento dell'impugnazione dell'atto di esclusione), il socio-lavoratore, proprio per essere tale, deve poter altresì partecipare alla vita sociale, lavorando. Il conferimento delle proprie attitudini e capacità lavorative dovrà seguire lo schema già utilizzato (nel caso di specie, lavoro subordinato), salvo sopravvenienze o nuovo e diverso incontro delle volontà delle parti.

La norma dell'art. 2 l. n. 142 del 2001, nella parte in cui esclude la tutela reale ex art. 18 st. lav., in caso di esclusione-licenziamento, può pertanto essere intesa nel senso che la tutela spettante è soltanto quella prevista dall'art. 2527 c.c. (art. 2533 c.c. novellato e artt. 23-24 d.lgs. n. 5 del 2003, a partire dal 1° gennaio 2004).

Abbiamo infatti visto ([63]) che tutte le ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro possono essere fagocitate tra le cause di esclusione.

In questo modo, invece di fare del socio-lavoratore di cooperativa un paria tra i lavoratori, con tutela ridotta, si rafforza la tutela spettante, in quanto è possibile la restitutio in integrum anche nel caso di piccola cooperativa, con meno di quindici dipendenti. Si noti che all'interno di grandi società di capitali è diffusa la prassi di costituire piccole cooperative, a cui appaltare frammenti del ciclo produttivo. Anche la tutela cautelare è più intensa, in quanto, come visto ([64]), è concedibile senza necessità di allegare e dimostrare l'esistenza di un pregiudizio grave e irreparabile.

Inoltre la tutela ex art. 2527 c.c. (art. 2533 c.c. novellato e artt. 23-24 d.lgs. n. 5 del 2003, a partire dal 1° gennaio 2004) risponde maggiormente alle esigenze di certezza nei rapporti giuridici, in considerazione della necessità di impugnativa giudiziale nel termine perentorio di trenta giorni (sessanta giorni ex art. 2533 c.c. novellato). Entro questo breve lasso di tempo la cooperativa potrà quindi apprezzare il rischio di prendere decisioni rilevanti senza la partecipazione del socio estromesso.

Si tratta di una proposta di lettura dell'art. 2 l. n. 142 del 2001, senza pretesa di certezza.

Si osserva che, comunque, anche a voler seguire la tesi della doppia tutela, societaria e lavoristica, la seconda finirebbe per essere attratta dalla prima, applicandosi l'art. 281-novies c.p.c. Questa soluzione inoltre si adatta perfettamente al novellato art. 5 comma 2°, l. n. 142 del 2001, secondo cui spettano al tribunale ordinario le controversie relative alla «prestazione mutualistica».

In fine si fa presente che il ministero del lavoro e delle politiche sociali, direzione generale per la tutela delle condizioni di lavoro, nella circolare n. 34 del 17 giugno 2002, ha affermato l'applicazione della disciplina contenuta nell'art. 2527 c.c. nel caso in cui la cooperativa risolva sia il rapporto di lavoro che il rapporto associativo ([65]).

 



([1]) Molteplici i commenti a questa legge, con particolare riferimento alla duplicità dei rapporti associativo e di lavoro. Vedi Aa. Vv., La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, a cura di Nogler, Tremolada e Zoli, in Nuove leggi civili comm., 2002, p. 369 ss.; Aa. Vv., Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato. Commento alla l. 3 aprile 2001, n. 142, a cura di Montuschi e Tullini, Torino, 2002, passim; Alleva, I profili giuslavoristici della nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Riv. giur. lav., 2001, I, p. 353 ss.; Amato, La tutela economica prevista per il socio-lavoratore dalla l. 142 del 2001, in Dir. rel. ind., 2002, p. 189 ss.; Andreoni, La riforma della disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Lavoro nella giur., 2001, p. 205 ss.; Biagi-Mobiglia, La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, in Guida al lavoro, 2001, n. 45, p. 13 ss.; Ciampi, Un punto fermo nella «galassia normativa» ma siamo ancora lontani dal definitivo riordino, in Guida al dir., n. 18, 2001, p. 36 ss.; de Angelis, Il lavoro nelle cooperative dopo la l. n. 142 del 2001: riflessioni a caldo su alcuni aspetti processuali, in Lav. nella giur., 2001, p. 813 ss.; Id., L'esclusione e il licenziamento del socio lavoratore tra diritto e processo, ivi, 2002, p. 605 ss.; De Luca, Il socio lavoratore di cooperative: la nuova disciplina (l. 3 aprile 2001 n. 142), in Foro it., 2001, V, c. 233 ss.; Di Paola, Società cooperativa: il legislatore si pronuncia sulla posizione del socio lavoratore, in Nuove leggi civili comm., 2001, p. 909 ss.; Dondi, Primi appunti sulla riforma della posizione del socio lavoratore di cooperativa, in Atti del seminario Regolamenti e statuti delle cooperative dopo la legge n. 142/2001 (Forlì 26 ottobre 2001), Roma, 2002, p. 13 ss.; Furfari, Socio lavoratore: l'intervento del legislatore, in Riv. crit. dir. lav., 2001, p. 303 ss.; Meliadò, La nuova legge sulle cooperative di lavoro: una riforma necessaria, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, p. 345 ss.; Miscione, Il socio lavoratore di cooperativa (regolamentazione forte dopo la l. n. 142 del 2001), in Dir. e pratica lav., inserto del fasc. 34, 2001, passim; Pallini, La «specialità» del rapporto di lavoro del socio in cooperativa, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, p. 371 ss.; Pizzoli, Cooperative di lavoro e applicabilità della nuova disciplina, in Guida lav., n. 27, 2001, p. 34 ss.; Riciputi, Appunti per un contributo interpretativo sul nuovo « socio lavoratore», in Lav. e prev. oggi, 2001, p. 673 ss.; Rotondi-Collia, Soci e cooperative dopo la l. n. 142 del 2001, in Dir. prat. lav., 2001, p. 1619 ss.; Spolverato, I diritti individuali e collettivi dei soci lavoratori di cooperativa, in Lav. nella giur., 2002, p. 305 ss.; Tartaglione, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Guida al lavoro, 2001, n. 20, p. 8 ss.; Vallebona, L'incostituzionale stravolgimento del lavoro in cooperativa, in Mass. giur. lav., 2001, p. 813 ss.; Vedani, Le novità per il socio lavoratore di cooperativa, in Dir. e prat. lav., 2001, p. 1307 ss.

Sui lavori preparatori della riforma, vedi Meliadò, Il lavoro nelle cooperative: tempo di svolte, in Riv. it. dir. lav., 2001, I, p. 25 ss.; Ricci, Ancora sulla giurisprudenza in materia di lavoro nelle cooperative: garanzie dei crediti, licenziamenti e mobilità, tutela previdenziale, fiscalizzazione degli oneri sociali. Le prospettive «de iure condendo», in Foro it., 2000, I, c. 1095 ss.

([2]) Per i primi commenti, con particolare riferimento al rapporto del socio lavoratore, cfr. Massi, La riforma del mercato del lavoro, in Dir. e pratica lav., inserto del fascicolo n.10, p. XI s.; Vedani, La posizione del socio lavoratore di cooperativa, in Dir. e pratica lav., ivi, p. XXVII ss.; Garofalo, Gli emendamenti alla disciplina del socio lavoratore di cooperativa contenuti nel d.d.l. 848 B, in Lav. nella giur., 2003, p.5 ss.; Tartaglione, Le modifiche alla disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Guida al lavoro, 2003, p.70 ss.; Monzani, Prevalenza del rapporto societario e nuovo termine per l'approvazione dei regolamenti, ivi, p.78 ss.

([3]) Sulla portata innovativa di tale norma, particolarmente scarna è la relazione del senatore Tofani, tenuta alla seduta del Senato n. 320 del 30 gennaio 2003 (http://www.gruppi.margheritaonline.it/cgibin/getresoconto_senato.cgi?id_resoconto=958). Più interessante il resoconto sommario del dibattito alla seduta della commissione lavoro, previdenza sociale del Senato, n. 130 del 23 gennaio 2003 (http://notes3.senato.it/ODG_PUBL.NSF/45034dbe417ddaff412568400038b595/ffc8ec74ecdc032ac1256cb70069fa66?OpenDocument): alla provocazione dei senatori Treu e Ripamonti circa la sottrazione al giudice del lavoro delle controversie in materia di rapporto di lavoro, il sottosegretario Sacconi risponde in maniera anodina, sostenendo che «la norma proposta tende a dar vita ad un rapporto complesso, nel quale spetterebbe comunque al giudice ordinario la competenza a pronunciarsi sulle controversie nelle quali prevale il rapporto mutualistico. Quindi le controversie di lavoro fra soci-lavoratori e cooperative non verrebbero sottratte al giudice giuslavoristico». I giudici dovrebbero quindi operare una complicata e controvertibile valutazione di prevalenza o meno del rapporto associativo su quello di lavoro. Sempre nello stesso dibattito parlamentare il relatore Tofani osserva «di aver interpretato il concetto di prestazione mutualistica, di cui alla lett. d) come riferito al rapporto associativo». Cfr. anche Garofalo, Gli emendamenti alla disciplina del socio lavoratore, cit., p. 7, secondo il quale restano al giudice del lavoro le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione lavorativa, riconducibili alla previsione di cui all'art. 409 c.p.c.; Vedani, La posizione del socio lavoratore, cit., p. XXX, il quale immagina il ricorso al giudice del lavoro, adducendo la simulazione del rapporto societario; Tartaglione, Le modifiche alla disciplina, cit., p.75, secondo il quale è venuta meno, una volta per tutte, la competenza funzionale del giudice del lavoro; Monzani, op. cit., p. 80, secondo il quale nel termine «prestazione mutualistica» si intendono tutti i rapporti tra socio e cooperativa, compreso quello di lavoro.

Sul testo precedente v. de Angelis, Il lavoro nelle cooperative dopo la L. n. 142/2001, cit., p. 815 s.; Spolverato, Ancora sulle norme applicabili al socio lavoratore di cooperativa: le novità dell'art. 5, L. n. 142/2001, in Lavoro nella giur., 2002, p. 411 ss.; Riverso, I profili processuali della legge n. 142 del 2001, in Aa. Vv., Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, cit., p. 73 ss.

([4]) Dondi, op. cit., n. 5.5, suggerisce un adeguamento interpretativo della disciplina codicistica, tenuto conto dell'art. 4, comma 4°, l. n. 68 del 1999, che impone la verifica della sussistenza di mansioni alternative compatibili con il raggiungimento dello scopo sociale.

([5]) Meliadò, Il lavoro nelle cooperative, cit., p. 45 s., distingue tra diritti del socio inerenti al funzionamento della società e diritti relativi all'attività svolta dalla società.

([6]) Si noti che attualmente le cooperative di cui al d.p.r. n. 602 del 1970 (svolgenti attività elencate in tale decreto, tra cui, ad es., attività di pulizia, facchinaggio, trasporto, ecc.) sono esentate dall'assicurazione contro la disoccupazione involontaria (art. 24, comma 5°, l. n. 196 del 1997).

([7]) Si noti che l'art. 24, comma 4, l. 24 giugno 1997, n. 196, espressamente prevede che l'espletamento della procedura di mobilità deve essere preceduto dall'approvazione, da parte dell'assemblea, del programma di mobilità. L'art. 2527, comma 2°, c.c., prevede la possibilità che l'esclusione sia deliberata dagli amministratori, se l'atto costitutivo lo consente. Il novellato art. 2533 c.c., che entrerà in vigore il 1° gennaio 2004, attribuisce il potere di deliberare l'esclusione direttamente al consiglio di amministrazione, salvo previsione contraria. Pertanto, in caso di licenziamenti collettivi, il consiglio di amministrazione dovrebbe disporre l'esclusione del socio soltanto in senso meramente esecutivo del programma di mobilità deliberato dall'assemblea.

([8]) Cfr. Meliadò, op. ult. cit., p. 45; Dondi, op. cit., n. 5.4.

([9]) Inoltre si noti che la possibilità di accedere all'ammortizzatore sociale costituito dall'indennità di mobilità non riguarda tutte le cooperative, ma soltanto quelle «svolgenti le attività comprese nei settori produttivi rientranti nel campo di applicazione della disciplina, relativa all'indennità di mobilità stessa soggette agli obblighi della correlativa contribuzione» (art. 24, comma 4°, l. n. 196 del 1997).

([10]) In questo senso Dondi, op. cit., n. 5.4, anche per legittimare la possibilità di disporre l'esclusione dalla cooperativa in caso di soppressione di meno di cinque posti di lavoro e, quindi, di non adozione di un programma di mobilità.

([11]) Così Vedani, Le novità per il socio lavoratore, cit., p. 1310, nota 11.

([12]) Cfr., ex pluribus, Cass., 2 dicembre 1999, n. 13435, in Giust. civ., 2000, I, p. 994, con nota di Giacalone; Trib. Bergamo, 24 febbraio 2000, in Lav. nella giur., 2000, p. 1078; Cass., 17 novembre 1999, n. 12777, in Dir. e prat. lav., 2000, p. 965; Cass., 28 febbraio 2000, n. 2228, in Mass. Giur. It., 2000, p. 273.

([13]) Così Miscione, Il socio lavoratore di cooperativa, cit., p. VI s.

([14]) Spesso negli statuti delle cooperative di produzione e lavoro è inserita la previsione dell'obbligo di partecipare attivamente alla vita sociale e alla gestione della cooperativa, partecipando alle assemblee, con la sanzione dell'esclusione in caso di mancata e non giustificata assenza ad un certo numero di assemblee.

[15] Così Alleva, op. cit., p. 358. Tremolada, in La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, cit., pp. 374 s. e 393 ss., afferma l'esistenza di un principio di inscindibilità del rapporto di lavoro dal rapporto sociale, per cui l'estinzione del rapporto sociale determina l'automatica cessazione di diritto dello speciale rapporto di lavoro, a causa del venir meno del suo presupposto necessario. Pallini, op. cit., p. 375 ss., afferma l'esistenza di un collegamento negoziale tra il rapporto di lavoro e il rapporto associativo di tipo genetico-necessario ed unidirezionale, in quanto la qualità di socio è presupposto giuridico essenziale per la costituzione e regolamentazione del rapporto di lavoro. Pertanto, qualora si risolva il rapporto associativo, si realizza un'ipotesi di impossibilità giuridica del rapporto di lavoro, con conseguente risoluzione automatica di quest'ultimo.

([16]) Ex art. 1585 c.c. il diritto del subconduttore richiede la sussistenza del diritto del conduttore. Al contrario nel rapporto di pregiudizialità-dipendenza a carattere istantaneo, una volta venuta in essere, la situazione dipendente si autonomizza ed è indifferente rispetto alla sorte del rapporto pregiudiziale (ad es., diritto reale di garanzia tramite ipoteca, che sussiste anche se, successivamente al sorgere del diritto reale di garanzia, viene meno il diritto di proprietà sul bene da parte del dante causa).

([17]) Infatti Alleva, op. cit., p. 358, nota 18, afferma che «se aspirante socio e cooperativa non raggiungono un accordo su uno dei due contratti (quello associativo o quello di lavoro) non si attiva né il rapporto sociale, né quello di lavoro: non c'è socio e neppure lavoratore». Ugualmente Pallini, op. cit., p. 375, afferma che «la qualità di socio del lavoratore costituisce presupposto giuridico essenziale per la costituzione e la regolamentazione del rapporto di lavoro».

([18]) Si noti che le cooperative di pulizie, in base al d.p.r. n. 602 del 1970, versano i contributi previdenziali su di un compenso convenzionale e non su quello reale (di regola più alto), con un sensibile risparmio contributivo. Il socio lavoratore, nell'attuale sistema previdenziale a carattere contributivo e non più retributivo, avrà un trattamento pensionistico calcolato sui contributi versati. Essendo tali contributi di importo molto basso, anche la pensione sarà di scarso importo. Ecco un buon motivo per il dipendente dell'impresa cessante di non diventare socio della cooperativa subentrante nell'appalto. Si fa presente che proprio la l. n. 142 del 2001 ha previsto la progressiva cancellazione di tali benefici contributivi. Comunque, diventare socio di una cooperativa non è «senza costi o vantaggi», dato che il socio è chiamato a rispondere dei risultati di bilancio, per cui, se il bilancio chiude in attivo, potrà partecipare alla divisione degli utili in base all'apporto lavorativo dato; al contrario, se il bilancio è in perdita, potrà essere chiamato a coprire di tasca propria il disavanzo.

([19]) Si rinvia, per un maggior approfondimento, a quanto scritto in L'allegazione dei fatti nel processo civile. Profili sistematici, Torino, 2001, p. 266 ss.

([20]) Cfr., ex pluribus, Cass., sez. un., 7 dicembre 1999, n. 868; in Dir. e pratica soc., 2000, p.73, con nota di Ditta; Trib. Bergamo, 17 maggio 1999, in Società, 1999, p. 1243; Cass., 12 agosto 1997, n. 7529, in Giust. civ., 1988, I, p. 90; Cass., 27 maggio 1995, n. 5912, in Società, 1996, p.30, con nota di Stesuri.

([21]) Cfr. Cass., 4 aprile 1997, n. 2941, in Mass. Giur. It., 1997, p. 279; Cass., 5 agosto 1994, n. 7308, in Giust. civ., 1995, I, p. 1005 e in Foro it., 1995, I, c. 1546.

([22]) Cfr., ex pluribus, Trib. Trani, 24 luglio 2001, in Giur. merito, 2001, p. 648; Cass., 27 agosto 1999, n. 8984, in Mass. Giur. It., 1999, p. 957; Cass., 26 aprile 1999, n. 4126, in Società, 1999, p. 1074, con nota di Bonavera; Cass., 21 novembre 1997, n. 11637, in Mass. Giur. It., 1997, p. 1154; Cass., 15 febbraio 1993, n. 1448, in Nuova giur. civ., 1994, I, p.202, con nota di Sarno; Cass., 19 ottobre 1989, n. 4207, in Società, 1990, p. 459, con nota di Protettì e in Giust. civ., 1990, I, p. 1840, con nota di Stella Richter.

([23]) Su tale problematica si rinvia a quanto scritto in L'allegazione dei fatti, cit., p. 276 ss.

([24]) Cfr. de Angelis, Il lavoro nelle cooperative dopo la l. n. 142/2001, cit., p. 815, che esclude l'automaticità del recesso del rapporto di lavoro, occorrendo comunque un atto di licenziamento; Id., L'esclusione e il licenziamento del socio lavoratore tra diritto e processo, cit., p. 606;Miscione, op. cit., p. VIII; Meliadò, La nuova legge sulle cooperative di lavoro, cit., p. 368. Contra Tremolada, op. cit., p. 375.

([25]) Così Miscione, Il socio lavoratore di cooperativa, cit., p. VII.

([26]) Cfr. Cass., 15 gennaio 1999, n. 384,in Foro it., 2000, I, c. 2661, che però fa decorrere il dies a quo per la proposizione dell'opposizione dalla conoscenza della mancata costituzione da parte dell'assemblea del collegio dei probiviri, a cui, per statuto, era demandato il controllo endosocietario della delibera di esclusione; Trib. Bergamo, 17 maggio 1998, in Società, 1999, p. 1243 e Cass., 12 agosto 1997, n. 7529, in Giust. civ., 1998, I, p.90 e Cass., 27 maggio 1995, n. 5912, in Società, 1996, p. 30, con nota di Stesuri e Trib. Milano, 18 marzo 1993, in Società, 1993, p. 1363, fanno decorrere il termine di trenta giorni dalla comunicazione della decisione dei probiviri; Trib. Sulmona, 25 febbraio 1993, in Riv. dir. comm., 1994, II, p. 117, precisa che, comunque, il reclamo al collegio dei probiviri va proposto nel termine decadenziale di trenta giorni previsto dall'art. 2527 c.c.; Cass., 28 maggio 1991, n. 6041, in Foro it., 1991, I, c. 2368 e in Corr. giur., 1991, p. 1235 e in Società, 1991, p. 1359 e Cass., 18 luglio 1990, n. 7337, in Mass. Giur. it., 1990, prevedono la sospensione del termine durante il periodo feriale, applicando l'art. 1, l. 7 ottobre 1969, n. 742.

([27]) Cfr. Cass., 30 marzo 1998, n. 3337, in Mass. Giur. it., 1998; Cass., 13 settembre 1993, n. 9502, in Giur. it., 1994, I, l, c. l.

([28]) Così Trib. Mistretta, 4 marzo 1998, in Giur. merito, 1998, p. 620.

([29]) Si esclude la possibilità di coesistenza dei rimedi cautelari di cui all'art. 700 c.p.c. e all'art. 2527, comma 3°, c.c., anche nel caso che la misura cautelare venga richiesta ante causam (cfr. Trib. Padova, 20 aprile 2000, in Società, 2000, p. 1122; Trib. Monza, 19 ottobre 1999, in Giur. milanese, 2000, p. 208). Contra Trib. Verona, 1° agosto 1996, in Giur. merito, 1997, p. 4, che ammette il ricorso alla tutela d'urgenza ex art. 700 c.p.c., in quanto di maggiore ampiezza (potendo dare un'anticipazione del risarcimento del danno oltre alla sospensione della delibera) ed efficacia (essendo più rapida, per cui sarebbe possibile agire in via urgente ex art. 700 c.p.c. per il timore che durante il tempo necessario per agire sempre in via urgente ex art. 2527 c.c. il proprio diritto possa subire un pregiudizio imminente ed irreparabile). Cass., 29 gennaio 1993, n. 1164, in Foro it., 1993, I, c. 2206 esclude l'applicabilità dell'art. 700 c.p.c. al posto della tutela ex art. 2527, comma 3°, c.c., in quanto la tutela d'urgenza ex art. 700 c.p.c. è residuale e si applica soltanto nel caso in cui difetti una specifica tutela.

([30]) Cfr. Trib. Milano, 18 settembre 2000, in Orient. giur. lav., 2000, I, p. 786.

([31]) Cfr. Trib. Forlì, 21 marzo 2000, in Lav. nella giur., 2000, p. 859; Trib. Roma, 2 marzo 2000, ivi, p. 773; Trib. Viterbo, 20 settembre 1999, ivi, 2000, p. 575; Trib. Roma, 4 ottobre 1996, in Orient. giur. lav., 1996, p. 1041; Pret. Roma, 15 settembre 1995, in Lav. nella giur., 1996, p. 148. Contra Pret. Milano, 13 aprile 1996, in Riv. critica dir. lav., 1996, p. 952, secondo cui la lesione del diritto-dovere al lavoro ex art. 4 cost. integra il requisito del pregiudizio irreparabile di cui all'art. 700 c.p.c.

([32]) Cfr. Pret. Cagliari, 17 luglio 1998, in Riv. giur. sarda, 2000, p. 837; Trib. Roma 21 marzo 1997, in Notiz. giur. lav., 1997, p. 287.

([33]) Cfr. Cass., 21 novembre 1997, n. 11637 nella motivazione (la sentenza non è pubblicata su alcuna rivista, ma la motivazione può essere recuperabile da una banca dati contenente le sentenze della cassazione civile per esteso, ad es. JurisData della Giuffrè).

([34]) Così De Luca, cit., op. cit., c. 236. Cfr. anche Andreoni, op. cit., p. 206, che considera il licenziamento «figlio» dell'esclusione dal rapporto associativo; Tremolada, op. cit., p. 394 s., secondo cui il socio estromesso, pur dovendo impugnare il licenziamento nel termine decadenziale di cui all'art. 6 l. 604 del 1966, «non dispone di alcuna tutela lavoristica, ma esclusivamente dei rimedi sociali, come l'impugnazione della delibera di esclusione annullabile. Solo in seguito ad annullamento di tale delibera potrà accedere all'anzidetta tutela, che non potrà essere diversa da quella prevista dall'art. 18».

([35]) Così De Luca, op. cit., c. 241.

([36]) Si fa riferimento alla ricostruzione di Alleva, op. cit., p. 358, secondo il quale il contratto associativo è la «precondizione» per la conclusione del contratto di lavoro e, pertanto, «se viene meno il contratto associativo (ad esempio per esclusione del socio) il collegato contratto di lavoro dovrà, a sua volta, estinguersi».

([37]) Così Alleva, op. cit., p. 364 testo e nota 29.

([38]) Cfr. Alleva, , op. cit., p. 364.

([39]) Vedi retro n. 3.

([40]) Cfr. Alleva, op. cit., p. 364 testo e nota 29.

([41]) Cfr. Cass., 21 novembre 1997, n. 11637, cit.

([42]) Cfr. de Angelis, Il lavoro nelle cooperative, cit., p. 816 s.; Id., L'esclusione e il licenziamento del socio lavoratore, cit., p. 606 ss.; Miscione, op. cit., p. XX; Dondi, op. cit., n. 5.3.

([43]) Così de Angelis, L'esclusione e il licenziamento del socio lavoratore, cit., p. 608.

([44]) Così de Angelis, op. loc. ultt. citt. Cfr. anche Dondi, op. cit., n. 5.3; Miscione, op. cit., p. XX.

([45]) Così de Angelis, op. loc. ultt. citt. Cfr. anche Dondi, op. cit., n. 5.3.

([46]) Cfr. de Angelis, op. loc. ultt. citt. Cfr. anche Dondi, op. cit., n. 5.3.

([47]) Così Dondi, op. cit., n. 5.3, il quale, comunque, si esprime in forma dubitativa. Contra Miscione, op. cit., p. XX, nota 95.

([48]) Sull'alternatività o prevalenza della riassunzione e del risarcimento del danno previsti dall'art. 8 l. n. 604 del 1966 si rinvia a Niccolai, in I licenziamenti2 a cura di Mazzotta, Milano, 1999, p. 511 ss.

([49]) Si osserva l'irrazionalità della disposizione ove applicata nel senso che il datore di lavoro possa liberarsi delle conseguenze del proprio illegittimo comportamento proponendo la riassunzione al lavoratore illegittimamente licenziato. V. Niccolai, op. cit., p. 515 e citazioni ivi contenute.

([50]) Si noti che la tecnica procedimentale di allegazione dei fatti nel giudizio di impugnazione del licenziamento può comportare un accertamento dell'esistenza del rapporto cristallizzata al momento del licenziamento impugnato ed insensibile, quindi, ad eventuali successivi fatti modificativi o estintivi. Si rinvia a quanto scritto in L'allegazione dei fatti, cit., p. 266 ss.

([51]) V. retro n. 2.

([52]) V. retro n. 2.

([53]) Cfr. de Angelis, L'esclusione e il licenziamento del socio lavoratore, cit., p. 607; Dondi, op. cit., n. 5.3; Miscione, op. cit., p. XX; Tremolada, op. cit., p. 395.

([54]) Cfr. Menchini, voce Sospensione. I. Sospensione del processo civile: a) Processo civile di cognizione, in Enc. dir., vol. XLIII, Milano, 1990, p. 32 ss.

([55]) Cfr. Dondi, op. loc. ultt. citt. V. retro n. 8.

([56]) Ritiene ammissibile la tutela cautelare, con accertamento incidentale della validità dell'esclusione, Miscione, op. cit., p. XX, nota 95; Riverso, op. cit., p. 90 ss. Cfr. anche, in termini generali, Trisorio Liuzzi, La sospensione del processo civile di cognizione, Bari, 1987, p. 649 ss.

([57]) Cfr. de Angelis, L'esclusione e il licenziamento del socio lavoratore, cit., p. 608; Dondi, op. cit., n. 5.3. De Luca, op. cit., c. 246, indica la possibilità della riunione dei due giudizi, inerenti il rapporto associativo ed il rapporto di lavoro, in quanto rientranti nella competenza dello stesso giudice di primo grado. Cfr. anche Pallini, op. cit., p. 381; Meliadò, La nuova legge sulle cooperative di lavoro, cit., p. 368; Bolego, in La riforma della posizione giuridica, cit., p. 458. A ben guardare, però, come si dirà nel testo, bisogna tener conto che la causa sull'esclusione è affidata al tribunale in composizione collegiale, mentre la causa sul licenziamento è affidata alla competenza del giudice unico del lavoro.

([58]) V., ad es., Riverso, op. cit., 81, il quale così si esprime: «sovvengono proprio l'art. 34 e l'art. 40, 3° comma, c.p.c., i quali stabiliscono che le cause cumulativamente proposte (o successivamente riunite) debbano essere trattate e decise con il rito del lavoro. Prevale quindi il giudice del lavoro».

([59]) V. retro n. 10.

([60]) Cfr. de Angelis, L'esclusione e il licenziamento del socio lavoratore, cit., p. 608.

([61]) V. retro n. 9.

([62]) Nonché la tutela obbligatoria ex art. 8 l. n. 604 del 1966, nel caso in cui sia esclusa la presenza di lavoratori dipendenti che non siano anche soci; v. quanto sopra detto nel testo.

([63]) V. retro n. 2.

([64]) V. retro n. 6.

([65]) Tale circolare è scaricabile dal sito www.minlavoro.it/circolari ed è riportata a p. 233 di Aa. Vv., Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, cit.

Autore: Dott. Dino Buoncristiani - tratto da www.judicium.it - gennaio 2004