Termine dell'anno e cessazione dell'impresa. Commento agli artt. 10 ed 11 della L.F.

Art. 10 L.F. (Fallimento dell'imprenditore che ha cessato l'esercizio dell'impresa).
L'imprenditore che, per qualunque causa, ha cessato l'esercizio dell'impresa può essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell'impresa, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo.

Art. 11 L.F. (Fallimento dell'imprenditore defunto).
L'imprenditore defunto può essere dichiarato fallito quando ricorrono le condizioni stabilite nell'articolo precedente.
L'erede può chiedere il fallimento del defunto, purchè l'eredità non sia già confusa con il suo patrimonio.
Con la dichiarazione di fallimento cessano di diritto gli effetti della separazione dei beni ottenuta dai creditori del defunto a norma del Codice civile.



Gli artt. 10 e 11 della legge fallimentare consentono il fallimento dell'imprenditore cessato e di quello defunto a condizione che l'insolvenza si sia manifestata entro l'anno dalla morte (che implica, ovviamente, cessazione della qualità di imprenditore) o dalla cessazione dell'esercizio dell'impresa; la morte del soggetto che, prima della sua morte, abbia cessato l'esercizio dell'impresa, non rileva ai fini dell'individuazione del dies a quo, che continua ad essere quello della cessazione dell'esercizio dell'impresa; se il fallimento è dichiarato post mortem occorre separare il patrimonio del de cuius, che deve essere acquisito al fallimento e destinato al soddisfacimento dei creditori concorsuali, dal patrimonio dell'erede (cfr. ex multis Cass. 28 dicembre 1998, n. 12846, in Fall. 1999, 1012); ovviamente sul patrimonio così separato concorrono i creditori del defunto imprenditore secondo le regole proprie del concorso fallimentare e non con le norme civilistiche relative ai creditori separatisti e questo spiega perché il terzo comma dell'art. 11 stabilisce che con la dichiarazione di fallimento cessano di diritto gli effetti della separazione dei beni ottenuta dai creditori a norma del codice civile.
L'imprenditore defunto può essere dichiarato fallito anche oltre l'anno dalla morte quando egli sia stato ammesso alla procedura di concordato preventivo e poi debba essere dichiarato fallito a norma dell'art. 181 legge fall. per mancanza delle condizioni di ammissibilità del concordato (Cass. 21/11/2002 n. 16415 cit.); in questo caso, infatti, rileva che la procedura concorsuale alternativa al fallimento sia stata aperta nel termine di legge, mentre per la successiva dichiarazione di fallimento per mancanza delle condizioni non è previsto alcun termine; si ritiene che l'ammissione alla procedura di concordato preventivo possa essere chiesta anche dai suoi eredi (v. R. Massaro, Osservazioni a Cass. 21/11/2002 n. 16415 in Fall. 2003, 1063).
Entrambe le norme fondano la loro ratio nella volontà del legislatore di impedire che la cessazione dell'attività dell'impresa implichi sottrazione del patrimonio alla liquidazione concorsuale.
La disposizione "consente" il fallimento dell'imprenditore cessato (può essere dichiarato fallito) piuttosto che "vietarlo" (come avrebbe potuto fare con una formula del tipo l'imprenditore che ha cessato ... "non può essere" dichiarato fallito oltre l'anno ...) e pertanto si manifesta come una deroga al principio (che sembra presupporre) della non fallibilità dell'imprenditore cessato, piuttosto che come deroga al principio (non accolto) della fallibilità per debiti di impresa a prescindere dalla cessazione della stessa.

Il decorso dell'anno dalla cessazione dell'esercizio dell'impresa costituisce un limite oggettivo alla dichiarazione di fallimento e come tale non suscettibile né di interruzioni né di sospensioni. Il principio della non fallibilità dell'imprenditore che ha cessato l'attività di impresa ha generato tre connesse problematiche: una ancora attuale (cosa si intenda per cessazione dell'esercizio di impresa) e due (se la disposizione dell'art. 10 LF sia applicabile anche alle società e ai soci illimitatamente responsabili) ormai superate da: - una prima sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale (Corte Cost. 12 marzo 1999, n. 66 in Fall 1999, 489, con nota di F.A. Genovese) con la quale la Corte, dichiarando manifestamente infondata la questione relativa al diverso trattamento tra soci per i quali sia cessato il vincolo sociale da oltre un anno e imprenditore individuale che abbia cessato l'attività da oltre un anno, ha ritenuto che il limite temporale di fallibilità, fissato per il solo imprenditore, debba ritenersi esteso anche ai soci per analogia e in virtù di un preteso principio generale diretto alla tutela della certezza delle situazioni giuridiche (situazioni giuridiche che sembrerebbe volere individuare in quelle riguardanti lo status del soggetto-socio inadempiente e assoggettabile a fallimento e in quelle dei terzi che entrino in contatto con tale soggetto)
- una seconda sentenza, questa volta additiva di accoglimento, con la quale la Corte Costituzionale (Corte Cost. 21 luglio 2000, n. 319 in Fall. 2001, 13 con nota di F.A. Genovese) ha dichiarato:
a) l'illegittimità costituzionale dell'art. 10 legge fallimentare nella parte in cui non prevede, per le società, la decorrenza del termine annuale di fallibilità dalla cancellazione della società dal Registro delle Imprese;
b) l'illegittimità costituzionale dell'art. 147 legge fallimentare nella parte in cui prevede la possibilità di dichiarare il fallimento dei soci illimitatamente responsabili dopo il decorso di un anno dal momento in cui abbiano perso, per qualsiasi motivo, l'illimitata responsabilità.
Queste decisioni hanno sconvolto un quadro di riferimento giurisprudenziale ormai consolidato e hanno creato nuove e numerose problematiche che verranno più avanti commentate.
Con riferimento all'individuazione del momento di cessazione dell'attività di impresa, per l'imprenditore individuale, il problema è di facile soluzione quando l'imprenditore si sia ritirato dal commercio senza compiere alcuna attività di liquidazione (quando abbia, per così dire, chiuso la saracinesca), ma si complica quando egli abbia deciso di porre termine all'impresa, ma debba ancora liquidare l'azienda, pagando i debiti, commercializzando le giacenze di magazzino, vendendo i beni strumentali; la giurisprudenza, un po' tautologicamente e un po' tralaticiamente, ha affermato che non viene meno l'esercizio dell'impresa quando vengano poste in essere operazioni intrinsecamente identiche a quelle poste in essere nell'esercizio di impresa, anche se connotate dalla finalità di disgregare l'azienda nella prospettiva liquidatoria (cfr. ex plurimis Cass. 22 marzo 1984, n. 1918, in Fall. 1984, 1022 e Cass. 3 novembre 1989, ivi, 1990, 3984; Cass. 4 settembre 1998, n. 8781, ivi, 1999, 863; Cass. 14/6/2000 n. 8099 in Mass 2000; Cass. 28/3/2001 n. 4455 in Mass. 2001 per la giurisprudenza di merito v., Trib. Velletri 14 luglio 1994, ivi, 1994, 1301; Trib. Torino 22 dicembre 1999, ivi, 2000, 454), o comunque tali da rivelarsi come manifestazione di un'attività economica (Cass. 3 novembre 1989, n. 4599, ivi, 1990, 394).
Il concetto di operazione commerciale intrinsecamente identica a quella posta in essere nell'esercizio dell'impresa, non è privo di una certa ambiguità (v. N. Salanitro in Commentario Scialoja Branca, Zanichelli, 1974, sub artt. 10-11, partic. pagg. 324 ss.), ma quanto meno consente di collegare la cessazione dell'impresa al fatto oggettivo dell'arresto delle attività commerciali, indipendentemente dalla circostanza che sia o meno iniziata o conclusa la fase (solo eventuale per l'imprenditore individuale) della liquidazione.
Sulla base di tale criterio, sono stati ritenuti non incompatibili con la cessazione dell'impresa gli atti "neutri" come, ad esempio, i pagamenti (v. App. Bari 31 gennaio 1985, in Fall. 1985, 785) o gli atti che non connotano l'attività di impresa, ma che sono espressione di un'attività meramente liquidatoria, come ad esempio la vendita dei beni strumentali o la vendita della stessa azienda, che, anzi, rappresenta un elemento dal quale è possibile presumere la cessazione dell'attività (v. Trib. Torino 11 novembre 1992, in Giur. it. 1993, I, 2, 210); l'esercizio di attività di finanziamento, mediante emissione di titoli cambiari, è stata ritenuta attività economica imprenditoriale che prosegue fino alla scadenza dei titoli (App. Bologna 30 settembre 1999, in Il fallimento 2000, 106); nel caso specifico l'attività economica si concretizzava nella prestazione di garanzie proprio mediante emissione di titoli cambiari e pertanto l'attività, quanto a durata, coincideva con il termine di durata delle garanzie prestate.
Se l'imprenditore pone in essere attività commerciali diverse da quelle caratteristiche della precedente impresa, ma integranti esercizio di una diversa impresa, non cessa di essere imprenditore e, come tale, assoggettabile, senza alcun limite temporale al fallimento (cfr. N. Salanitro, op. cit., 328).
L'inciso, contenuto nell'art. 10 legge fallimentare "per qualunque causa" è stato, da taluni (Trentini, Sequestro preventivo penale e decorrenza del termine dell'anno, in Il fallimento 1995, 306), indicato come rivelatore dell'ininfluenza dell'atteggiamento psicologico dell'imprenditore e della sua eventuale intenzione di riprendere l'attività (cfr. App. Palermo 13 marzo 1956, in Giur. sic. 1957, 583): l'attività di impresa può cessare anche senza o contro la volontà dell'imprenditore e da questa premessa si fa derivare che anche il sequestro dell'azienda può costituire il momento iniziale per la decorrenza del termine annuale (Trib. Orvieto 30 maggio 1994, decr., in Il fallimento 1995, 306).
Il principio della rilevanza del dato oggettivo della cessazione, indipendentemente dalla volontà dell'imprenditore dovrebbe, secondo alcuni, essere temperato attraverso la necessaria distinzione tra "cessazione dell'attività" e semplice "sospensione", che si verifica quando l'organizzazione di impresa viene mantenuta in vita nella prospettiva della ripresa dell'attività; la giurisprudenza del Supremo Collegio ha, infatti, affermato che la cessazione dell'attività rilevante per escludere la fallibilità deve concretarsi in un ritiro dal commercio effettivo, completo e definitivo (Cass. 21 gennaio 1971, n. 182, in Dir. fall. 1971, II, 652; Cass. 7 marzo 1978, n. 1113, ivi 1978, II, 416; in dottrina v. A. Chiozzi, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, diretto da L. Panzani, vol. I, 67, Torino, 2000); da ultimo in giurisprudenza si è osservato che "il completo e assoluto ritiro dell'imprenditore non può dirsi realizzato se nella fase della liquidazione siano state compiute operazioni tali da rivelarsi come manifestazione di un'attività economica, sia pure svolta esclusivamente in funzione della disgregazione" (Cass. 13/12/2000 n. 15716 in Mass.2000).
Quest'ultimo parametro (ritiro dal commercio effettivo, completo e definitivo) presenta un'indubbia analogia con il criterio della dissoluzione dell'organizzazione di impresa, per il quale la cessazione si verificherebbe solo nel momento in cui l'impresa non può più essere esercitata perché non esiste più la sua organizzazione (v. R. Provinciali e G. Ragusa Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1988, 83 ss.); la dissoluzione dell'organizzazione dell'impresa, peraltro, presuppone la liquidazione dei beni aziendali che la giurisprudenza mostra invece di volere superare proprio con il concetto di oggettiva cessazione dell'attività.
Occorre, comunque, domandarsi che senso avrebbe cessare l'attività di impresa e contemporaneamente mantenere in vita l'organizzazione imprenditoriale se non proprio quello di volere riprendere l'attività, con la conseguenza che, in tale ipotesi, la cessazione dovrebbe essere valutata come semplice sospensione; in conclusione, il criterio dell'oggettiva cessazione dell'attività appare come uno strumento di decisione utile, ma incompleto se non affiancato, in presenza di imprese dotate di impianti e di organizzazione, da elementi (come ad esempio la cessione dell'azienda o l'inizio della liquidazione) dai quali desumere l'irreversibilità della scelta di cessare l'attività.
L'imprenditore che cede l'azienda, se non ne acquista un'altra, evidentemente cessa l'attività di impresa, ma è più problematico stabilire se vi sia cessazione dell'attività da parte dell'imprenditore che abbia semplicemente affittato l'azienda, senza esercitare alcuna altra attività di impresa; in senso favorevole al decorso del termine dell'art. 10 legge fallimentare, in tali ipotesi, si sono espressi: Trib. Velletri 14 luglio 1994, in Fall. 1994, 1301; Trib. Reggio Emilia 15 febbraio 1996, ivi, 1996, 1226; tuttavia, in dottrina (cfr. A. Chiozzi, op. cit., 68 ss.) si è efficacemente osservato che il canone riscosso dall'imprenditore affittante costituirebbe pur sempre un reddito di impresa, connesso all'esercizio, in modo mediato, dell'impresa medesima, così che non potrebbe dirsi realizzata la dismissione della stessa.
La permanenza dell'iscrizione alla C.C.I.A.A., secondo la giurisprudenza formatasi prima delle recenti ordinanze della Corte Costituzionale (v. infra) non precludeva all'imprenditore di dimostrare l'avvenuta cessazione dell'attività di impresa (App. Caltanissetta 19 luglio 1983, in Dir. fall. 1984, II, 165; Trib. Udine, 2 giugno 1984, ivi, 1985, II, 216), ancorchè detta iscrizione creasse un'apparenza di impresa in attività.
Le indicazioni interpretative provenienti dalla Corte Costituzionale sono invece di segno diverso, nel senso, cioè, che anche per l'imprenditore individuale come per l'imprenditore societario il termine annuale debba decorrere dalla cancellazione del registro delle imprese salvo la prova che malgrado l'iscrizione l'imprenditore abbia continuato ad esercitare l'attività.
Con specifico riferimento all'imprenditore individuale vengono in rilievo le ordinanze Corte Cost. 7/11/2001 n. 361 (in Fall. 2002, 1042 con nota critica di S. Di Amato) e Corte Cost. 22/4/2002 n. 131 (in Fall. 2003, 17 con osservazioni adesive di U. De Crescienzo).
La Corte Costituzionale che ha pronunciato l'ordinanza n. 361 era stata investita della questione di costituzionalità (del sistema ridisegnato dalla stessa Corte) dal Tribunale di Monza con ordinanza 2/11/2000 (in Fall. 2001,75) che poneva un quesito in termini assolutamente chiari: a seguito degli interventi della Corte il termine di fallibilità per l'imprenditore societario e per i soci che avessero perso la qualità di soci illimitatamente responsabili, non decorreva dalla cessazione dell'attività (per la società) o dalla perdita della predetta qualità (per i soci), ma dalla data della pubblicazione della cancellazione o degli eventi incidenti sull'illimitata responsabilità nel registro delle imprese e quindi veniva a crearsi una disparità di trattamento tra imprenditori (a seconda che fossero collettivi o individuali) e tra creditori a seconda che fossero creditori di un imprenditore collettivo o individuale, posto che l'inizio del termine di fallibilità per l'imprenditore collettivo (e per il socio) non veniva a coincidere con la cessazione dell'attività, ma veniva spostato in avanti, fino al momento dell'iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese (o dell'iscrizione dell'evento che determinava la perdita dell'illimitata responsabilità), con maggior tutela del ceto creditorio, concretamente posto in grado di conoscere, grazie al registro delle imprese, l'evento a partire dal quale iniziava a decorrere l'anno.
La Corte Costituzionale in una parte della motivazione si è dilungata in ovvie considerazioni sul fatto che i terzi possono provare la non veridicità del fatto iscritto nel registro delle imprese (cioè la cessazione dell'attività), assolutamente irrilevanti rispetto al problema posto, che consisteva nello stabilire se l'imprenditore individuale che avesse cessato l'attività senza iscrivere l'evento nel registro, potesse egualmente giovarsi del termine annuale decorrente dalla cessazione dell'attività; in altra parte della motivazione la Corte si è limitata ad escludere l'esistenza di un "diritto vivente" riguardante "l'asserita irrilevanza rispetto ai terzi, ai fini dell'applicazione dell'art. 10 della legge fallimentare, della iscrizione nel registro delle imprese della cessazione dell'impresa, cessazione prevista come obbligatoria dall'art. 2196, terzo comma del codice civile, per gli effetti di cui all'art. 2193 c.c."
Tuttavia, pur nella "laconicità" della frase e per effetto del richiamo agli artt. 2196 e 2193, pare potersi desumere, implicitamente, un'interpretazione secondo la quale, di fronte all'istanza di fallimento, l'imprenditore individuale non potrebbe "opporre" la cessazione ultrannuale dell'attività se tale evento egli non abbia previamente iscritto nel menzionato Registro; la circostanza che l'imprenditore abbia trenta giorni per chiedere l'iscrizione (art. 2196 c.c.) della cessazione, a parere di chi scrive, in questa prospettiva, non dovrebbe assumere alcun rilievo sull'individuazione del dies a quo che dovrebbe comunque iniziare a decorrere solo dalla data dell'iscrizione.
Con la seconda ordinanza (22/4/2002 n. 131 cit.) la Corte Costituzionale ha richiamato la precedente ordinanza, ma si è espressa in termini più chiari e decisi osservando che "successivamente all'entrata in vigore della legge 29/12/1993 n. 580...istitutiva del registro delle imprese, va esclusa la configurabilità di un diritto vivente sulla rilevanza, ai fini della decorrenza del termine di cui all'art. 10 legge fallimentare, della semplice cessazione di fatto dell'impresa individuale".
Non v'è unanimità di consensi su questa interpretazione essendosi autorevolmente sostenuto (S. Di Amato: Principio di effettività e di affidamento e termini per la dichiarazione di fallimento dell'ex imprenditore ed ex socio in Fall. 2002, 1043) che nel fallimento (dell'imprenditore) ciò che assume rilievo è l'effettività dell'esercizio dell'impresa e non l'elemento dell'affidamento dei creditori e, quindi, del possibile rilievo da attribuire in generale alla pubblicità sul registro delle imprese, conclusione alla quale l'autore giunge sul rilievo che il creditore non avrebbe un diritto al fallimento del suo debitore e di conseguenza potrebbe fare affidamento solo sulla responsabilità patrimoniale del medesimo, ma non dovrebbe potere fare affidamento sulla sua fallibilità in quanto l'assoggettamento di un imprenditore ad una procedura concorsuale dipenderebbe da valutazioni di ordine pubblico economico, connesse, secondo il predetto autore, all'effettività dell'esercizio dell'impresa; questa conclusione troverebbe fondamento normativo nello stesso art. 10 LF nella parte in cui prevede che siano "soggetti alle disposizioni sul fallimento ...gli imprenditori che esercitano una attività commerciale" e nella parte in cui consente il fallimento dell'imprenditore che ha cessato l'attività a condizione che non sia decorso un anno dalla cessazione.
L'orientamento della Corte Costituzionale, ove fosse condiviso dalla giurisprudenza (in tal senso si è già espresso Trib. Torino 25/7/2002 in Fall 2003, 326; Trib. Trani, 14/7/2003 in Fall. 2004, 221), consentirebbe, da un lato, la valorizzazione dell'obbligo sancito dalla legge di iscrizione dell'evento cessazione nel registro delle imprese (iscrizione destinata, appunto, ai terzi) e dall'altro, l'applicazione di una regola uniforme per tutti i soggetti fallibili: imprenditori individuali, società e soci.
Ove si scegliesse di applicare il suddetto criterio verrebbe inoltre superato il problema di distinguere la cessazione dell'attività dalla semplice sospensione, distinzione che implica una difficile indagine sul soggettivo intendimento dell'imprenditore e sarebbero eliminate quelle incertezze interpretative, di cui si è già fatto cenno, sulla rilevanza del sequestro dell'azienda o dell'affitto dell'azienda ai fini della configurabilità della cessazione: qualsiasi situazione di arresto dell'attività, per qualunque ragione, verrebbe equiparata ad una semplice sospensione, irrilevante ai fini della decorrenza del termine annuale, finché l'imprenditore non manifesti l'irrevocabilità della sua scelta di cessare l'attività attraverso l'atto formale della iscrizione della cessazione nel registro delle imprese.
L'imprenditore individuale e l'imprenditore societario devono, in ogni caso, essere equiparati anche nel momento successivo alla cancellazione, quando si introduca la contestazione relativa ad una prosecuzione dell'attività malgrado la formale cancellazione: per entrambe le tipologie di imprenditori si deve applicare il criterio delle operazioni intrinsecamente identiche a quelle poste in essere nell'esercizio di impresa, elaborato dalla giurisprudenza e già commentato in precedenza: ove l'imprenditore individuale o societario continui ad operare (la società con la stessa ragione sociale, dovendosi distinguere il caso di creazione di nuova società) o, avendo intenzione di completare una liquidazione dopo la formale cancellazione, ponga in essere operazioni intrinsecamente identiche a quelle poste in essere nell'esercizio di impresa, l'impresa non potrà essere considerata cessata e il giudice del registro dovrà disporre ai sensi dell'art. 2191 la cancellazione dell'iscrizione della cancellazione, in quanto avvenuta senza che sussistessero le condizioni richieste dalla legge (sull'ammissibilità della cancellazione dell'iscrizione di cancellazione v. anche Porzio, L'estinzione delle società per azioni, Napoli, 1959, 235 ss.).
Sotto questo aspetto, sembra perdere rilevanza anche la distinzione tra imprenditore individuale e imprenditore societario fondata sull'obbligatorietà del procedimento di liquidazione per l'imprenditore societario e non per l'imprenditore individuale; ove l'imprenditore societario riuscisse a iscrivere la cancellazione dal registro delle imprese anche in mancanza di completamento della fase di liquidazione, ma in presenza di effettiva cessazione di attività, decorrerebbe egualmente il termine annuale, salvo la rilevanza che potrebbe assumere un successivo provvedimento del giudice del registro di cancellazione dell'iscrizione della cancellazione dal Registro delle imprese in mancanza delle condizioni di legge (ad esempio in mancanza dell'approvazione del bilancio finale di liquidazione o di altre formalità essenziali); è al riguardo significativa la modifica introdotta dalla riforma del diritto societario in merito alla cancellazione delle società dopo il completamento della liquidazione: il nuovo articolo 2495 che sostituisce il vecchio articolo 2456 non si limita a stabilire che i creditori non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, ma introduce l'inciso "ferma restando l'estinzione della società" con ciò chiarendo che l'omessa definizione dei rapporti passivi (e analogicamente di quelli attivi) non impedisce l'estinzione dell'ente e non può giustificare una cancellazione della iscrizione di cancellazione.
Affrontando sotto diverso angolo visuale il problema della sufficienza o insufficienza della formale cancellazione per l'inizio del decorso del termine, il Tribunale di Roma (Trib. Roma 17/7/2002 in Fall 2003, 684) ha ritenuto che il termine comincia a decorrere dalla cancellazione... solo se questa è stata eseguita all'atto del completamento dell'attività di liquidazione che, pur non determinando l'estinzione di tutti i rapporti obbligatori, abbia comunque destinato al soddisfacimento dei creditori i residui beni sociali; in difetto la società resta assoggettabile a fallimento pur decorso l'anno dalla cancellazione.
Le prime indicazioni provenienti dal S.C., dopo la pronuncia della Corte Cost., seppure non affrontino espressamente l'argomento, sembrano orientate a dare rilevanza al dato fattuale della cessazione dell'attività piuttosto che al dato formale della cancellazione (v. Cass. 13/12/2000 n. 15716 in Mass. 2000, che a fronte di una cessazione dichiarata il 30/6/1994 e di un fallimento dichiarato il 29/6/2000, invece di prendere semplicemente atto della dichiarazione infrannuale rispetto alla formale cancellazione, valuta due atti di cessione di beni aziendali, compiuti il 30/6/2004 come significativi di una perdurante attività a quella data).
Se si segue il l'orientamento per il quale l'imprenditore individuale anche se formalmente non cancellato, non può fallire decorso un anno dalla concreta cessazione dell'attività il Tribunale, nell'istruttoria prefallimentare (che necessita di uno svolgimento il più sollecito possibile) non sarà comunque tenuto a svolgere particolari accertamenti sulla permanenza dell'attività di impresa, in mancanza di indizi che ne facciano supporre la cessazione; sarà, semmai, il fallendo a dovere allegare i fatti (concreti) sui quali dovrà essere svolta istruttoria al fine dell'accertamento della cessazione, malgrado le contrarie apparenze; per contro, ove un'apparenza documentale (ad esempio dichiarazioni fiscali e denunce alla C.C.I.A.A.) faccia presumere la cessazione ad una data che non consentirebbe il fallimento, sarà la parte che ha interesse alla dichiarazione di fallimento a dovere indicare gli elementi sui quali indagare per contestare la cessazione a tale data, a meno che il Tribunale non decida di svolgere indagini di ufficio, che sarebbero giustificate solo qualora vi fosse ragione di dubitare della corrispondenza delle risultanze documentali alla situazione reale.
Il Tribunale deciderà sulla base degli elementi presuntivi acquisiti, come la denuncia alla C.C.I.A.A., le denunce fiscali e contributive, la cessione della licenza di esercizio, l'eventuale pignoramento dei beni aziendali in mancanza di loro sostituzione (per la valorizzazione di tale circostanza come presunzione di cessazione v.Trib. Roma 2 aprile 1982, in Dir. fall. 1982, II, 1152), o altro ancora.
E' bene ricordare che in questa materia il Tribunale dispone di ampi poteri officiosi (Cass. n. 2520/1957, ivi, 1957, II, 507; Cass. n. 3488/1969, in Giust. civ. Mass. 1969; Cass. n. 3104/1974, ivi, 1974; Cass. n. 3398/1985, ivi, 1985), che dovranno essere esercitati in relazione alle necessità del caso concreto; la dichiarazione di fallimento eventualmente fondata su risultanze documentali difformi dalla situazione reale dovrà formare oggetto di giudizio di opposizione fallimento e la sentenza che accoglierà l'opposizione non potrà recare condanna alle spese per il creditore istante che abbia in buona fede agito confidando nelle risultanze della visura camerale.
Problema diverso è quello relativo all'imprenditore individuale che non si cancella, ma che, pur continuando l'attività, perda i requisiti dimensionali per l'assoggettabilità a fallimento divenendo piccolo imprenditore; poiché egli continua la stessa impresa, semplicemente con organizzazione più ridotta e poiché il termine dell'art. 10 fa riferimento ad una cessazione di attività che nel caso specifico non si è verificata, non sembra condivisibile l'orientamento espresso dal Tribunale di Milano (Trib. Milano 23/6/2003 in Fall. 2003, 1345) per il quale si dovrebbe applicare il termine annuale dal momento della perdita dei predetti requisiti dimensionali e l'alternativa potrebbe essere solo di attribuire rilevanza alla dimensione dell'impresa nel momento della dichiarazione di fallimento oppure considerare la dimensione dell'impresa nel momento in cui momento si è determinato lo stato di insolvenza; se il giudice si limitasse a fotografare la situazione dell'impresa al momento della decisione trascurerebbe un dato essenziale, ossia che l'impresa, in quanto attività, si caratterizza per il suo evolversi nel tempo; così facendo rischierebbe di confondere con un'impresa piccola un'impresa che, invece, proprio perché in crisi è stata costretta a ridimensionarsi, magari anche licenziando la manodopera.
In mancanza di precise regole di riferimento molto sarà lasciato alla ragionevole valutazione dei giudici fallimentari che potrebbero esser indotti a valutazioni fondate sulla sostanziale inutilità dell'apertura di una esecuzione collettiva su un patrimonio inesistente, ma vorrei sottolineare due aspetti:
a) il fallimento consente attività recuperatorie, attraverso azioni revocatorie o di inefficacia che potrebbero ricostituire un patrimonio disperso ed inoltre consente la repressione penale dei fatti di bancarotta;
b) il fallimento è la procedura liquidatoria che l'ordinamento appresta di fronte all'insolvenza di un imprenditore non piccolo.
Tanto premesso, un criterio ragionevole potrebbe essere quello di partire proprio dall'analisi dell'insolvenza nel suo formarsi, analisi che si raccorda con un criterio valutativo fondato sulle ripercussioni del dissesto nell'economia generale: se l'imprenditore ridimensionatosi al punto di diventare piccolo imprenditore, era riuscito a sanare l'insolvenza provocata al tempo della sua attività di imprenditore non piccolo e viene chiamato a rispondere di debiti formatisi quando ormai per effetto del ridimensionamento svolgeva la sua piccola attività, potrà essere considerato piccolo imprenditore non fallibile, ma altrimenti dovrà essere assoggettato a fallimento.
Pertanto nella valutazione sulla esclusione dal fallimento per limiti dimensionali sembra preferibile considerare la dimensione dell'impresa in collegamento temporale con il formarsi dell'insolvenza.
In conclusione, il principio di effettività (sia pure con il temperamento, suggerito dalla Corte Costituzionale, dell'irrilevanza della cessazione in mancanza di iscrizione di cancellazione) che connota l'assunzione della qualità di imprenditore individuale, connota anche la perdita di tale qualità, nel senso che l'imprenditore individuale cessa di essere tale quando termina definitivamente di compiere attività di impresa, tali essendo considerate, come detto, anche quelle compiute nella fase della liquidazione quando siano intrinsecamente identiche a quelle poste in essere nell'esercizio dell'impresa; al riguardo, oltre all'esempio della vendita delle giacenze di magazzino (attività che è funzionale non all'esercizio dell'impresa, ma alla sua liquidazione e tuttavia costituisce manifestazione di attività economica), può essere fatto l'esempio (tratto da L. Guglielmucci, Lezioni di diritto fallimentare Giappichelli 2000, p. 27, che richiama una fattispecie decisa da Cass. 26/2/1980 n. 1328) dell'impresa edile che costruisce un immobile per rivendere gli appartamenti: terminata la costruzione licenzierà la manodopera, chiuderà il cantiere, venderà le attrezzature e tuttavia l'attività di impresa non potrà ritenersi cessata finché non siano ultimate le vendite dei singoli appartamenti alle quali era finalizzata tutta l'impresa.
Le due ulteriori questioni relative all'applicabilità di un limite temporale per la dichiarazione del fallimento delle società e dei soci illimitatamente responsabili, fino alle già citate sentenze della Corte costituzionale 12 marzo 1999, n. 66 e 21 luglio 2000, n. 319), venivano tradizionalmente tenute distinte tra loro in quanto la risposta al problema, nel caso di imprenditore societario, veniva ricercata nell'art. 10 legge fallimentare e, nel caso del socio, nell'art. 147 della stessa legge.
Per le società, a seconda delle varie teorie, si riteneva applicabile l'art. 10 legge fallimentare con decorrenza del termine dall'approvazione del bilancio finale di liquidazione, o dalla cancellazione del registro delle imprese o dall'effettiva cessazione dell'attività sociale, ma la giurisprudenza del Supremo Collegio, collegando la cessazione dell'attività all'esaurimento di tutte le pendenze attive, passive e processuali (v. ex plurimis Cass. 9 marzo 1996, n. 1876, in Fall. 1996, 764) e ritenendo esistente la società fino a che non venisse estinto anche l'ultimo debito e malgrado la formale cancellazione dal registro delle imprese (Cass. 11 luglio 1966, n. 1180, in Giur. it. 1967, 11, 76) mostrava di considerare, quanto meno di fatto, inapplicabile la citata disposizione alle società (v. amplius C. Proto, L'inapplicabilità dell'art. 10 l.f. all'imprenditore collettivo, in Fall. 1997, 742; M. Ferro, Connotazioni garantistiche dell'iniziativa fallimentare: limiti temporali riguardo al mutamento della partecipazione alla società , ivi, 2000, 669, v. partic. p. 671).
Tale orientamento veniva criticato dalla maggior parte della dottrina (v., per riferimenti G. Valcavi, Sull'esigenza di un'integrazione legislativa dell'art. 10 l.f., in Dir. fall. 1999, 739) che riteneva ingiustificata la disparità di trattamento rispetto all'imprenditore individuale. Mi sembra, tuttavia, degno di considerazione il fatto che le società in genere e quelle di capitali in particolare, sono considerate, dal nostro legislatore, come enti che normalmente hanno un rilievo, nel mondo economico, decisamente maggiore rispetto all'imprenditore individuale e che per tale motivo sono assoggettati, obbligatoriamente, alla fase della liquidazione. Tale fase della vita della società, non prevista per l'imprenditore individuale, è caratterizzata da momenti di più intensa tutela per il ceto creditorio, posto che i creditori, per il soddisfacimento dei loro crediti, potranno fare affidamento solo sul ricavato della liquidazione e non sulle prospettive di sviluppo della società; privare, proprio in tale fase, il ceto creditorio della tutela fallimentare (come accadrebbe facendo decorrere il termine dalla cessazione dell'attività di impresa senza considerare la fase della liquidazione) non è certo coerente con l'evidenziata esigenza di tutela.
Per i soci illimitatamente responsabili, la risposta al problema veniva, invece, ricercata nell'art. 147 legge fallimentare, che non poneva alcun limite temporale al fallimento del socio illimitatamente responsabile che per qualsiasi ragione avesse cessato di essere tale; un limite alla sua fallibilità veniva ravvisato, da una parte della giurisprudenza, soltanto nella necessità che si fosse già manifestato lo stato di insolvenza al momento in cui veniva meno il vincolo sociale (Cass. 22 maggio 1990, n. 4626, in Fall. 1991, 425) o che in tale momento fossero già venute ad esistenza le obbligazioni determinative dello stato di insolvenza (Cass. 6 novembre 1985, n. 5394, in Foro it. 1986, I, 1961; formula non felice e di non facile comprensione, posto che nell'ambito delle generalizzata insolvenza diventa difficile stabilire se un'obbligazione piuttosto che un'altra abbia determinato l'insolvenza), mentre altra parte della giurisprudenza escludeva qualsiasi rilevanza all'accertamento dell'insolvenza nel momento della cessazione del vincolo sociale (v. Cass. 17 ottobre 1989, n. 6087, in Fall. 1989, 572 e, con motivazione approfondita con numerosi richiami di giurisprudenza, Trib. Monza 30 ottobre 1986, ivi,1997, 531).
In questo contesto interpretativo perdeva interesse (almeno in parte) anche il profilo dell'omessa pubblicizzazione dell'evento che determina il venir meno del vincolo sociale, omissione che, ai sensi dell'art. 2290 codice civile, determina il permanere dell'illimitata responsabilità del socio uscente; infatti il recesso, ancorché fosse stato portato a conoscenza dei terzi il recesso, non veniva esclusa l'illimitata responsabilità per le obbligazioni ad esso precedenti e, conseguentemente, la permanente fallibilità pur in assenza di responsabilità, da parte del socio uscente, per le nuove obbligazioni contratte dalla società dopo il recesso pubblicizzato.
L'articolato sistema, che differenziava, quanto ai termini di fallibilità, soci, società e imprenditori individuali veniva giudicato conforme a Costituzione dalla stessa Corte costituzionale, dapprima con ordinanza 26 luglio 1988, n. 919 (ivi, 1988, 1061), con riferimento al diverso trattamento, ritenuto ragionevole, tra imprenditore individuale e socio e, successivamente, con ordinanza 20 maggio 1998, n. 180 (ivi, 1998, 1107, con nota di F.A. Genovese), con riferimento al diverso trattamento tra imprenditore individuale e società, ritenuto non in contrasto con il principio di eguaglianza "quando produce, come nella specie, maggior tutela di alcuni senza pregiudizio per altri".
Il sistema sopra delineato, come detto, è stato completamente stravolto con le già citate sentenze n. 66/99 e 319/2000 della Corte Costituzionale.
La seconda decisione si era resa necessaria per una serie di motivi:
a) la non vincolatività della prima pronuncia (trattandosi, come detto di sentenza di rigetto), la reazione di molti giudici di merito, le incertezze che permanevano sull'individuazione del termine da applicare analogicamente (v. Trib. Padova 10 maggio 1999, in Foro it. 1999, I, 2381) e sulla soluzione da dare a situazioni nelle quali permaneva il vincolo sociale, ma veniva meno l'illimitata responsabilità (v. amplius, sullo stato della giurisprudenza immediatamente dopo la predetta sentenza: G. Limitone, Il fallimento di società di persone oltre il termine annuale, in Fall. 2000, 567);
b) l'incongruenza della situazione creata con la prima decisione: lo scioglimento del vincolo sociale rispetto ad un solo socio ne impediva il fallimento dopo il decorso dell'anno, ma se tutti i soci, senza recedere singolarmente, avessero deciso di sciogliere la società e avessero provveduto alla relativa cancellazione, avrebbero continuato ad essere esposti al fallimento senza limiti di tempo, ritenendosi non estinta la società fino all'esaurimento effettivo di tutte le pendenze e, quindi, permanente il vincolo sociale, con conseguente fallibilità in estensione ex art. 147 legge fallimentare.
Per effetto di tali decisioni attualmente:
alle società viene applicato lo stesso termine di fallibilità previsto per l'imprenditore individuale, ma decorrente non dalla cessazione dell'attività bensì dalla cancellazione dal registro delle imprese (v. Trib. Milano 16/10/2003 in Fall. 2004, 451; v. anche Cass. 19/11/2003 n. 17544 in Fall 2004, 573 che però richiama la regola introdotta dalla Corte Costituzionale contrapponendola alla liquidazione di tutti i rapporti, non più necessaria); la conclusione è in linea con quell'orientamento dottrinale e giurisprudenziale sopra riportato per il quale le società commerciali sono imprenditori commerciali e quindi fallibili sin dal momento della loro costituzione e fino alla loro estinzione; solo dalla loro formale estinzione, attraverso la cancellazione, può, dunque, iniziare a decorrere il termine di fallibilità e non dalla mera cessazione dell'attività, interpretabile come mera sospensione, visto che in ogni momento, anche ad avanzata liquidazione, la società può revocare lo stato di liquidazione (art. 2487 ter nel testo riformato).

Poiché solo dalla cancellazione consegue l'estinzione della società (ex nunc: v. A. Dimundo in La riforma del diritto societario a cura di G. Lo Cascio - artt. 2484-2496 vol. 9 Giuffrè 2003), il termine annuale decorre solo dall'annotazione della cancellazione nel registro delle imprese senza che possa assumere alcun rilievo l'eventuale ritardo imputabile all'Ufficio al quale è stata rivolta la domanda di iscrizione (per l'irrilevanza del ritardo dell'Ufficio: v. Trib. Milano 12/3/2004 in Fall 2004, 941); la conclusione è ulteriormente avvalorata, ove si ritenga che l'iscrizione della cancellazione sia diretta a tutelare l'affidamento dei terzi nella fallibilità dell'imprenditore, dalla considerazione che il collegamento tra formale cancellazione e l'inizio della decorrenza del termine di fallibilità non è destinato a sanzionare il comportamento dell'imprenditore che per negligenza ometta di chiedere l'iscrizione della cancellazione, ma, appunto a rendere conoscibile ai terzi l'avvenuta estinzione dell'imprenditore collettivo con il conseguente inizio della decorrenza del termine.
Ha, invece, ritenuto che per le società il termine annuale dovrebbe decorrere dalla cessazione dell'attività o dallo scioglimento a prescindere dalla cancellazione, ma con riferimento ad una società non iscritta, la Corte di Appello di Milano con sentenza 26/1/2001 (in Giur. Comm. 2002, II, 334 con nota adesiva di O. de Nicola) decisione che, tuttavia, svalorizza il dato letterale del dispositivo della sentenza n. 319/2000 della Corte Costituzionale (nel suo specifico riferimento alla cancellazione come inizio della decorrenza del termine di fallibilità) per valorizzare una parte della motivazione nella quale si fa effettivamente, cenno alla cessazione dell'attività e allo scioglimento della società ma solo a meri fini descrittivi e per ricordare che la giurisprudenza consolidata non tiene conto di questi elementi; il Giudice di Appello, con questo particolare ragionamento (al quale aggiunge la considerazione che altrimenti si creerebbe una disparità di trattamento con le società non iscritte che conseguentemente non possono neppure essere cancellata) trae la conclusione che il richiamo della Corte Costituzionale, alla formale cancellazione costituisca l'indicazione di uno strumento utile ma non esclusivo per accertare la cessazione dell'attività o lo scioglimento della società.

Ai soci illimitatamente responsabili, viene esteso il termine di fallibilità annuale previsto per i soli imprenditori individuali, con decorrenza dal momento della perdita, per qualsivoglia ragione, della illimitata responsabilità, ma a condizione che di tale evento sia data pubblicità con l'iscrizione nel registro delle imprese (cfr. da ultimo Cass. 5/10/1999 n. 11045 in Fall. 2000, 646, anteriore rispetto alla sentenza n. 319/200 della Corte Cost., ma che afferma un principio non incompatibile con la decisione del giudice delle leggi; v. inoltre il convincente commento di A. Patti Recesso del socio illimitatamente responsabile e fallimento ivi, 648; v. anche Trib. Trani 14/7/1999 in Foro It. 2000, 1626 e con riferimento alla giurisprudenza successiva alle decisioni della Corte Cost.: ; Trib. Roma 18/12/2000 in Fa 2001, 838;Trib. Padova 22/5/2001 in Fall 2001, 1186; Trib. S. Maria Capua Vetere 18/1/2002, in Fall. 2002, 1141; App. Bologna 13/6/2000 in Fall 2001 837 e s.); in caso di mancata pubblicità , ai sensi dell'art. 2290 c.c. ("lo scioglimento deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza non è opponibile ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato"), per le società non iscritte e dell'art. 2300 per le società iscritte (le modificazioni dell'atto costitutivo finché non sono iscritte non sono opponibili ai terzi a meno che non si provi che questi ne erano a conoscenza) il socio uscente (ossia non solo il socio receduto o escluso, ma anche il socio che abbia ceduto la propria quota, quando la cessione divenga efficace per la società) continua ad essere socio illimitatamente responsabile per i terzi ignari e come tale assoggettabile a fallimento, come, d'altra parte, espressamente previsto, per l'estensione degli effetti della dichiarazione dello stato di insolvenza ai soci illimitatamente responsabili receduti o esclusi, dall'art. 23 D.Lgs. n. 270/1999 sulla nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria; in estrema sintesi, non è sufficiente l'uscita del socio dalla società, ma è necessaria anche la perdita dell'illimitata responsabilità per le obbligazioni successive al venir meno del vincolo sociale, evento che si realizza per le società regolari, con l'iscrizione dell'evento risolutore del vincolo nel registro delle società mediante la conseguente modifica dell'atto costitutivo (art. 2300).
In dottrina, peraltro, non v'è unanimità di consensi circa la fallibilità del socio fuoriuscito in relazione alla responsabilità (ex artt. 2290 e 2300) per le obbligazioni contratte dopo lo scioglimento del vincolo sociale; la tesi contraria è sostanzialmente fondata sull'argomento per il quale la responsabilità non discende dalla condizione di socio e non concerne tutti i creditori, ma discende dalla necessità di tutelare (e concerne) solo quei creditori che abbiano fatto incolpevole affidamento sull'apparente qualità di socio (v. da ultimo O. De Nicola Il fallimento della società irregolare e del socio illimitatamente responsabile alla luce della sentenza della Corte Costituzionale 21/7/2000 n. 319 in Giur. Comm. 2002, II, 340 e, ivi, partic. pp.354 e ss. richiami di dottrina e giurisprudenza), tesi che, da un lato non considera tutta l'elaborazione giurisprudenziale che ha condotto ad affermare la fallibilità della società apparente e dall'altro, sotto il profilo della responsabilità, non considera che al momento della dichiarazione di fallimento occorre presumere, per la valenza probatoria delle iscrizioni nel registro delle imprese, che detta responsabilità riguardi tutti i creditori e non soltanto alcuni, mentre l'esonero da responsabilità nei confronti di eventuali creditori che fossero a conoscenza della modifica dell'atto costitutivo, costituisce evento del tutto ipotetico e che il curatore, sostituendosi al socio fallito, dovrebbe concretamente provare al fine di potere escludere il loro concorso sul patrimonio personale dell'ex socio; in giurisprudenza sembra collegare l'inizio della decorrenza del termine con la perdita dell'illimitata responsabilità a prescindere dalla iscrizione nel registro delle imprese: Trib. Pistoia 24/5/2001 in Fall. 2001, 1287.
Comunque, a prescindere dall'illimitata responsabilità per le obbligazioni assunte dalla società dopo la non pubblicizzata fuoriuscita del socio e anche ritenendo questa responsabilità non rilevante ai fini della fallibilità, la mancata iscrizione dell'evento che ha determinato la perdita dell'illimitata responsabilità determina comunque l'inopponibilità ai terzi dell'evento medesimo e come tale giustifica l'affidamento di questi nella perdurante fallibilità dell'ex socio ed impedisce l'inizio della decorrenza del termine di fallibilità; in sintesi, affermare che il socio uscente non può fallire per le obbligazioni sociali successive alla sua fuoriuscita dalla società (ancorché ne debba rispondere per la mancata iscrizione nel registro delle società) non significa far decorrere il termine annuale di fallibilità dall'evento che determina il venir meno dell'illimitata responsabilità piuttosto che dall'iscrizione di tale evento nel registro delle imprese.
La Corte costituzionale con la sentenza n. 319/2000, collegando l'inizio del termine annuale di fallibilità non più al venir meno del vincolo sociale, come affermato con la sentenza n. 66/1999, ma al momento in cui i soci abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata, ha inteso ricomprendere anche il caso della trasformazione (o di incorporazione con mutamento del regime di responsabilità per alcuni o tutti i soci) che aveva sollevato perplessità nei giudici di merito perché con la trasformazione di una società personale in una società di capitali, viene meno l'illimitata responsabilità dei soci per le obbligazioni successive alla trasformazione, ma permane il vincolo sociale e l'illimitata responsabilità per le obbligazioni anteriori se non vi è stata liberazione da parte dei creditori. Poiché, nelle ordinanze di rimessione, la questione era stata evidentemente sollevata con riferimento a soci che non erano liberati dai creditori sociali per le precedenti obbligazioni (altrimenti, in mancanza di obbligazioni delle quali dovessero rispondere, non avrebbe potuto essere dichiarato il loro personale fallimento), deve ritenersi che la Corte abbia voluto individuare il momento iniziale per la decorrenza del termine annuale in quello in cui cessa l'illimitata responsabilità per le obbligazioni che la società andrà ad assumere, senza che possa avere rilievo il permanere dell'illimitata responsabilità per le obbligazioni già assunte, come ad esempio nel caso di trasformazione di società di persone in società di capitali senza liberazione dei soci della precedente forma societaria.
Tanto premesso, desta perplessità una recente decisione della Cassazione (Cass. 13/3/2003 n. 3733 in Fall. 2004, 489.) per la quale il socio accomandante di una s.a.s. incorporante una s.n.c. nella quale egli era illimitatamente responsabile, fallisce in estensione senza limiti temporali in quanto permanga la sua illimitata responsabilità per le obbligazioni preesistenti della estinta s.n.c., decisione in radicale contrasto con il regime di fallibilità del socio delineato dalle pronunce della Corte Costituzionale; è invece coerente con le indicazioni della Corte Costituzionale la sentenza della Corte di Appello di Bologna (App. Bologna 11/2/2003 in Fall. 2003, 1309) che ha deciso per la non fallibilità del socio che ha perso da oltre un anno l'illimitata responsabilità nell'analogo caso del socio non liberato di società di persone trasformata in società di capitali.
Queste decisioni della Corte Costituzionale hanno aperto una serie consistente di problematiche relative:
a) alla rilevanza della perdita dell'illimitata responsabilità per i soci di società non iscritte ai quali, non si può applicare, di fatto, il disposto dell'art. 2290 in quanto, mancando l'iscrizione della società nel registro delle imprese non può neppure essere iscritto l'evento che determina l'uscita del socio dalla società; tale evento potrebbe, in ipotesi, essere portato a conoscenza con altri mezzi idonei, così dandosi egualmente attuazione allo specifico onere stabilito dalla norma; in questo caso il termine di fallibilità, ove ritenuto applicabile anche a questi soci, dovrebbe iniziare a decorrere dall'evento (con onere probatorio a carico del soggetto che assume di non essere più socio) che determina lo scioglimento del rapporto o la perdita dell'illimitata responsabilità (Cass. 6/10/2000 n. 13322 in Fall. 2001, 73) o, secondo altra interpretazione, dagli ulteriori eventi che abbiano consentito ai terzi di percepire lo scioglimento del vincolo sociale, sostitutivi del regime pubblicitario, a condizione che non venga successivamente creata una perdurante o nuova apparenza di appartenenza alla società; in caso di società irregolare palese, i terzi e in particolare i creditori ripongono affidamento sull'illimitata responsabilità del socio palese così che se lo scioglimento non è portato a conoscenza degli stessi con mezzi idonei, non è opponibile (ex art. 2290) e il socio uscente conserva l'illimitata responsabilità per le obbligazioni, anche successive, con conseguente permanente assoggettabilità a fallimento (v. M. Ferro Connotazioni garantistiche dell'iniziativa fallimentare cit., 674 e nota 35 con richiami giurisprudenziali ivi).
Questa particolare problematica non è stata considerata nella prima decisione del Supremo Collegio (Cass. 6 dicembre 2000, n. 13322 cit.) che, dopo la sentenza n. 66/1999 della Corte cost., si è occupata della questione della fallibilità del socio di società di fatto receduto da oltre un anno, con la quale si è esclusa la fallibilità del socio senza che venisse affrontato l'ulteriore problema della comunicazione ai terzi dello scioglimento del vincolo sociale.
Occorre ancora ricordare che al socio occulto non può essere applicato l'art. 2290 e il connesso onere di portare a conoscenza il suo recesso proprio perché i terzi, non conoscendo il rapporto sociale, neppure possono fare affidamento sulla partecipazione del socio occulto e di conseguenza non può permanere illimitata responsabilità per le obbligazioni successive allo scioglimento del vincolo, ma solo illimitata responsabilità per quelle anteriori; siccome, tuttavia, per effetto della pronuncia della Corte Costituzionale questa responsabilità anteriore allo scioglimento del vincolo sociale consente la dichiarazione del fallimento del socio solo nei limiti dell'anno dallo scioglimento, questo socio, dopo il decorso dell'anno, non potrebbe più essere dichiarato fallito a meno di non ritenere che il sistema delineato dal Giudice Costituzionale sia applicabile solo alle società regolarmente iscritte e ai soci di queste e non anche alle società (e ai soci) delle società irregolari e occulte.
Recentemente, la Corte Costituzionale (Corte Cost. ord. n. 321 dell'1/7/2002; Corte Cost. ord. n. 36 del 4/2/2003) ha espresso il diverso orientamento per il quale ragionevolmente e senza lesione del principio di eguaglianza l'ordinamento riserverebbe un diverso trattamento alle società non iscritte e ai soci di queste, assoggettando tali società e i loro soci a fallimento senza limiti di tempo e senza che possa rilevare la cessazione dell'attività o dell'appartenenza alla compagine sociale.
b) all'individuazione di un termine di fallibilità per le società non iscritte le quali, proprio perché non iscritte, non potrebbero neppure cancellarsi realizzando così quella vicenda estintiva prevista dal nuovo articolo 2495; per queste società nulla sembrerebbe mutato rispetto al previgente sistema, posto che non è messo in discussione, neppure dalla Corte Costituzionale, il principio ripetutamente affermato dalla giurisprudenza per il quale le società sono imprenditori commerciali per la loro mera esistenza, indipendentemente dal concreto esercizio dell'attività e non si estinguono se non con l'effettivo esaurimento di tutte le pendenze, attive, passive e processuali, salvo quanto stabilito dal nuovo art. 2495 per il quale la conclusione della liquidazione con l'approvazione del bilancio finale e la formale cancellazione determinano l'estinzione indipendentemente dalla sussistenza di debiti; da quest'ultima norma potrebbe forse ricavarsi analogicamente il principio per il quale anche le società irregolari, compiuta la liquidazione potrebbero considerarsi estinte malgrado il permanere dei debiti; d'altro lato, secondo le ordinanze della Corte Costituzionale da ultimo richiamate, la conseguenza di permanente fallibilità, per le società che hanno scelto l'irregolarità, non confligge con alcuna norma di rango costituzionale.
Anche per le società non iscritte, come già detto per i loro soci, non vi è uniformità di giudizio in quanto sia in dottrina (S. Di Amato: Principio di effettività e di affidamento e termini per la dichiarazione di fallimento dell'ex imprenditore ed ex socio cit) che in giurisprudenza (App. Milano 26/1/2001 in G.Co 2002, II, 334 richiamata, con condivisione di argomenti, da M. Vacchiano Il Fallimento della società di fatto Giuffrè 2004, p. 304 e s.) è stata sostenuta la tesi per la quale, queste società sarebbero fallibili nel termine annuale dell'art. 10, decorrente dalla cessazione dell'attività, svincolata dalla necessaria liquidazione di tutti i rapporti.
In buona sostanza le decisioni della Corte Costituzionale hanno ingenerato una serie di problematiche a fronte delle quali dottrina e giurisprudenza hanno risposto in modo non univoco e talvolta confuso e contraddittorio: basti pensare che, dopo la prima pronuncia della Corte Costituzionale, con una sentenza di merito si era ritenuto di individuare in cinque anni il termine per la fallibilità del socio receduto, poi si è creata incertezza sul termine di fallibilità per le società irregolari e per i soci receduti di queste e, ancora, si è sostenuta per il socio occulto la decorrenza del termine annuale addirittura dalla dichiarazione di fallimento della società di cui egli è socio occulto (Trib.Udine 25/6/2002, in Fall. 2003) 566, così trascurando il fatto che egli, in quanto non receduto, continua ad essere socio illimitatamente responsabile; in questo modo si è affermato il principio, non desumibile né dalla legge né dalle pronunce della Corte Costituzionale, per il quale il termine di fallibilità annuale si applica non solo al socio che ha perso la sua illimitata responsabilità, ma anche al socio di una società in stato di liquidazione o che comunque abbia cessato l'attività di impresa.
A seguito del "varco" aperto dall'affermazione del rilievo costituzionale del principio della certezza delle situazioni giuridiche applicato alle procedure fallimentari si è giunti infine a sospettare l'incostituzionalità della mancata fissazione di un termine, decorrente dal provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, per la dichiarazione giudiziale di insolvenza (Trib. Cosenza 28/2/2003 in Fall 2003, 786) di una Banca posta in liquidazione coatta amministrativa, sulla base dell'argomento per cui mentre nel caso di fallimento la prescrizione dell'azione revocatoria inizia a decorrere dalla data di fallimento, nel caso di liquidazione coatta non inizierebbe mai a decorrere tale prescrizione se non dall'incerto momento nel quale viene dichiarato lo stato di insolvenza; al che si potrebbe agevolmente replicare che anche in caso di fallimento il termine di prescrizione dell'azione revocatoria resta incerto fino a che non è stato dichiarato il fallimento; probabilmente l'equivoco è nato dalla mancata considerazione che il provvedimento di messa in liquidazione non è equiparabile alla dichiarazione di fallimento, mentre alla stessa è equiparabile la dichiarazione dello stato di insolvenza; analoga confusione si è creata con riferimento alle conseguenze penali della dichiarazione di insolvenza (secondo argomento addotto dal Tribunale): queste restano incerte fino alla dichiarazione di insolvenza nella stessa misura in cui restano incerte fino alla dichiarazione di fallimento le conseguenze penali a carico del fallito o degli amministratori della società fallita.
Forse l'argomento sotteso alla decisione era l'equiparazione della liquidazione coatta alla cessazione dell'attività: come per l'imprenditore è fissato un termine dalla cessazione dell'attività per la dichiarazione di fallimento, così per l'impresa soggetta alla liquidazione coatta, che segna il momento della cessazione dell'attività, dovrebbe essere fissato un termine per la dichiarazione di insolvenza, ma non si è considerato che per le società il termine, a seguito dell'intervento della Corte Costituzionale, non decorre dalla cessazione dell'attività o dalla loro messa in liquidazione, ma dall'evento formale della loro cancellazione.

Settembre 2004 - Autore: Cesare Proto - trato dal sito: www.forensia.it