Le azioni a tutela del possesso

Sommario:
1. Le azioni possessorie
2. I rimedi
3. L’azione di reintegrazione
4. L’elemento oggettivo dello spoglio
5. L’elemento soggettivo dello spoglio
6. I legittimati attivi e passivi all’azione
7. Tutela possessoria e pubblica amministrazione
8. Lo spoglio tramite ufficiale giudiziario
9. L’eccezione feci sed iure feci
10. Le cause di giustificazione
11. I termini
12. L’azione di manutenzione
13. Spese e miglioramenti
14. Il procedimento possessorio
15. Le azioni di nuova opera e di danno temuto

 

1.  Le azioni possessorie

La peculiarità del possesso consiste ed emerge nella sua interezza proprio sotto il profilo della tutela [2]. Il possessore può infatti esperire varie azioni a tutela del suo potere di fatto, a prescindere da indagini circa la sua legittimazione.

Le azioni a tutela del possesso vengono qualificate possessorie, in contrapposizione a quelle petitorie esperibili a tutela di diritti reali (rivendicazione, azione negatoria, azione confessoria).

Mentre infatti le azioni petitorie presuppongono la prova della titolarità del diritto, spesso lunga e difficoltosa, le azioni possessorie si basano sul fatto stesso del possesso o su quello dell’avvenuto spoglio.

Esse sono pertanto notevolmente più snelle, con la conseguenza che lo stesso proprietario potrà preferirle alla rivendicazione al fine di recuperare il bene.

Si consideri tuttavia come nella prassi l’intento del legislatore sia di fatto frustrato da una miriade di intoppi processuali; non è così infrequente che l’intero procedimento, se si calcolano i tempi delle varie fasi nelle quali si articola, possa durare anche più di dieci anni, con buona pace delle esigenze di rapidità e snellezza volute dal legislatore.

In realtà le azioni possessorie in molti casi sono null’altro che un rimedio, usufruibile dallo stesso proprietario, per tutelare i propri beni; in molti casi esse tendono in altre parole ad apparire come un mero doppione di altri rimedi, come per esempio la rivendicazione, o i provvedimenti cautelari finalizzati ad ottenere una tutela urgente.

Si consideri ancora che nel nostro ordinamento esistono strumenti alternativi di tutela urgente, come per esempio il rimedio di cui all’art. 700 c.p.c. [3].

In queste condizioni non è sicuramente chiaro perché la prassi italiana, ed in primis gli avvocati, continuino a privilegiare la tutela possessoria, sempre meno rapida, ad altri rimedi cautelari, come per esempio l’art. 700 c.p.c.; tanto più che in Francia ed in Germania è netta la tendenza a preferire i rimedi cautelari urgenti [4], sicuramente più moderni, razionali ed efficienti di quelli tradizionali a tutela del possesso, non fosse altro perché non esperibili indiscriminatamente ma solo in presenza di fumus boni iuris.

In queste condizioni vi è sicuramente spazio per riconsiderare l’intero settore della tutela urgente ed interdettale; bisognerebbe in altre parole avere il coraggio di riformare ex novo l’intero settore dei rimedi interdettali tramite nuove forme di azioni di applicazione generale, come per esempio l’art. 700 c.p.c., idonee a consentire una tutela veramente rapida ed urgente delle situazioni di appartenenza, a prescindere dai cavilli e dalle distinzioni più o meno arbitrarie che si sono sedimentate nel corso della storia in materia di azioni possessorie.

2.  I rimedi

Il legislatore delinea tre differenti azioni in materia di tutela possessoria, a seconda del tipo di lesione posta in essere:

1) l’azione di reintegrazione in presenza di uno spoglio violento o clandestino (art. 1168, c. 1°, c.c.);

2) l’azione di manutenzione in presenza di molestie e turbative (art. 1170, c. 1°, c.c.);

3) nonché ancora l’azione di manutenzione con finalità recuperatorie in caso di spoglio non violento o clandestino (spoglio semplice) (art. 1170, c. 2°, c.c.).


3.  L’azione di reintegrazione

Ai sensi dell’art. 1168, c. 1°, c.c., chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l’anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l’autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo.

Ovviamente l’azione è proponibile anche nei confronti del proprietario che abbia cercato di farsi giustizia da solo appropriandosi del suo bene. L’autotutela non è infatti in linea di principio consentita, salvo il caso in cui la reazione sia concomitante all’offesa e ad essa proporzionata (vim vi repellere licet, legittima difesa).

Il possessore da parte sua, dopo aver provato il suo possesso nonché l’avvenuto spoglio, non è altresì tenuto a giustificare il suo potere di fatto (possideo quia possideo).

Ai fini dell’esercizio delle azioni possessorie non è necessario che il possesso abbia gli stessi requisiti di quello utile per l’usucapione [5], in tema di reintegra del possesso di una servitù di passaggio non è così necessario che esistano (come è invece richiesto per l’usucapione) opere visibili e permanenti destinate all’esercizio del passaggio [6].

L’azione di reintegrazione o di spoglio è pertanto esperibile nel caso in cui si sia stati privati del possesso. L’art. 1168, c. 1°, c.c. precisa che deve essersi trattato di uno spoglio violento o clandestino. In realtà la giurisprudenza da lunga data ha attenuato il requisito della violenza dello spoglio. A questi fini non occorre pertanto che lo spoglio sia avvenuto con le armi, con la forza fisica o con minacce, ma è sufficiente che sia avvenuto senza o contro la volontà effettiva o anche soltanto presunta del possessore [7].

Secondo la giurisprudenza non occorre che si tratti di violenza fisica, ma è sufficiente una mera violenza morale, vale a dire una minaccia [8].

Questo comporta ovviamente un’attenuazione delle ragioni originarie per cui era prevista la tutela del possesso. Tendono in altre parole ad attenuarsi i profili attinenti alla tutela dell’ordine pubblico ed in loro vece emerge sempre più la rilevanza del possesso quale forma minore di appartenenza. Il possesso tende cioè ad essere tutelato in quanto tale, a prescindere dalla violenza o clandestinità dello spoglio.

In virtù di questa interpretazione, praticamente abrogante del requisito della violenza, la giurisprudenza ravvisa in buona sostanza la violenza nel fatto stesso dello spoglio. Per definizione non vi può infatti essere spoglio se la privazione del possesso non avviene contro la volontà del possessore.

Si consideri ancora che in virtù di questa interpretazione viene meno la distinzione tra spoglio violento (art. 1168, c. 1°, c.c.), e spoglio semplice (art. 1170, c. 3°, c.c.). Ai sensi dell’art. 1170, c. 3°, c.c. chi ha subito uno spoglio non violento o clandestino (spoglio semplice) può chiedere di essere rimesso nel possesso, se ricorrono le condizioni previste dalla legge per la proponibilità dell’azione di manutenzione. Si tratta peraltro di una norma che assai raramente ha trovato applicazione da parte della giurisprudenza [9].

La reintegrazione consente di reagire non solo nei casi di spoglio violento, ma anche clandestino. Si discute a questo proposito in che senso debba essere inteso il concetto di clandestinità.

Clandestinità in senso oggettivo, significa che nessuno nelle condizioni del possessore avrebbe potuto rendersi conto dello spoglio; clandestinità in senso soggettivo fa viceversa riferimento alla mera ignoranza relativa del soggetto spossessato [10].

Secondo la giurisprudenza il concetto di clandestinità deve peraltro essere stabilito esclusivamente in rapporto al soggetto passivo dello spoglio, è pertanto clandestino lo spoglio commesso all’insaputa del possessore o del detentore, che ne venga a conoscenza in un momento successivo, quando esso sia stato realizzato con atti che non siano venuti a conoscenza dello spogliato [11].


4.  L’elemento oggettivo dello spoglio

Il legislatore non definisce in modo esplicito il concetto di spoglio; occorre pertanto ricostruire il concetto facendo riferimento al vocabolario comune.

La rilevanza della definizione emerge ove si consideri che il legislatore distingue tra spoglio e semplice molestia, escludendo che il detentore possa agire in manutenzione (art. 1168, c. 2°, c.c.).

Rigorosamente parlando il concetto di spoglio implica quello di privazione del possesso. Si ha in altre parole spoglio ogniqualvolta il possessore viene privato del suo possesso [12].

In realtà la dottrina ha ormai da tempo notato una costante tendenza da parte della giurisprudenza ad espandere sempre più il concetto di spoglio a scapito di quello di semplice molestia del possesso, al fine di legittimare anche i detentori a reagire in presenza di molestie del loro possesso [13].

In questo modo si rischia però di stravolgere i principi, nonché l’assetto di interessi voluto dal legislatore.

Secondo la giurisprudenza lo spoglio implica la sottrazione o la privazione del possesso [14], la restrizione o riduzione delle facoltà inerenti al potere della vittima [15]; in altri casi si parla di innovazione che comporta un più limitato esercizio del potere [16], o ancora di privazione durevole del potere di fatto [17].

La giurisprudenza ravvisa altresì lo spoglio quando l’aggressione implica un mutamento di destinazione economica della cosa [18]; secondo altri giudicati ancora mentre lo spoglio incide direttamente sulla cosa, la turbativa si rivolge contro l’attività di godimento rendendola più disagevole [19].

La giurisprudenza insiste molto sul carattere attuale e duraturo dello spoglio, anche se non necessariamente lo spoglio deve essere permanente o irreversibile [20].

In dottrina ha dato luogo a discussione se ai fini dello spoglio è sufficiente il semplice spossessamento [21], o se viceversa si richiede altresì l’acquisto del possesso da parte dello spogliante [22].

Si pensi per esempio ai casi in cui vengono distrutti oggetti altrui, o liberati animali domestici, senza che però il responsabile se ne impossessi.

Tra queste due soluzioni pare sicuramente preferibile la prima, dato che anche nei casi in cui non vi è impossessamento può sussistere una responsabilità di carattere risarcitorio in capo a chi ha effettuato lo spoglio [23].

Lo spoglio può essere effettuato anche dal detentore in caso di interversione del possesso [24]; secondo la giurisprudenza il rifiuto di restituire alla scadenza del rapporto non implica però sempre necessariamente spoglio [25]. Ai fini dello spoglio può peraltro essere sufficiente anche molto meno, come per esempio l’abbattimento di un muro al fine di rendere comunicante l’appartamento con altro adiacente [26].

Si consideri ancora il caso in cui il detentore trasferisce a terzi il bene.


5.  L’elemento soggettivo dello spoglio

Tradizionalmente ai fini dell’esperibilità dei rimedi possessori si richiede oltre all’elemento oggettivo della fattispecie, anche la prova dell’elemento soggettivo, vale a dire dell’animus spogliandi o turbandi [27].

Questa ricostruzione tradizionale risulterebbe confortata altresì da esigenze di armonia, dato che anche il possesso consta di due elementi, uno oggettivo, il corpus, ed uno soggettivo, l’animus.

Si tratta di una soluzione peraltro non incontrastata, la quale è stata avversata da parte della dottrina, la quale ha fatto rilevare da un lato come si tratti di un requisito praeter legale, vale a dire non espressamente previsto da parte del legislatore, e dall’altro lato di un requisito sostanzialmente inutile in quanto ripetitivo di aspetti già insiti nell’elemento oggettivo dello spoglio [28].

Da parte sua la giurisprudenza è costante nell’affermare la necessità della prova dell’animus, sia nell’azione di spoglio che in quella di manutenzione [29].

Quando però si tratta di precisare in cosa consista l’animus, la giurisprudenza per lo più afferma che l’elemento soggettivo o animus turbandi è insito nel fatto stesso di privare del godimento della cosa il possessore o il detentore, contro la volontà espressa o tacita del medesimo [30].

Ma se così stanno le cose risulta evidente che l’animus spogliandi viene in buona sostanza a coincidere con la consapevolezza di agire contro la volontà presunta o tacita del possessore, già richiesta dalla giurisprudenza in sostituzione del requisito della violenza dello spoglio.

Con il che risulta sempre più evidente come da un lato la giurisprudenza abbia in buona sostanza eliminato il requisito legale della violenza e lo abbia sostituito con il requisito preter legale dell’animus, inteso come semplice consapevolezza e volontarietà di privare il possessore del suo potere di fatto [31].

In alcuni casi la giurisprudenza si spinge oltre e richiede ai fini dell’animus addirittura la prova del dolo o della colpa [32]. Prevale peraltro l’impostazione in base alla quale la presenza dell’animus prescinde dalla prova rigorosa del dolo o della colpa [33], viceversa richiesta in conformità ai principi generali ove si dovesse giungere ad una pronuncia risarcitoria ai sensi dell’art. 2043 c.c.

Sarebbe però eccessivo giungere alla conclusione della completa irrilevanza dell’animus. In realtà chiarificatore può essere l’esame dei casi in cui la giurisprudenza esclude l’esistenza dell’animus, e come conseguenza ulteriore dello spoglio o della turbativa. L’animus è escluso quando l’immissione nel possesso derivi da un atto di imperio della p.a. [34], il fondo sia incolto [35], o ancora vi sia il consenso espresso o tacito del possessore [36].

Non esclude viceversa l’animus il convincimento di aver agito nell’esercizio di un proprio diritto [37].

6.  I legittimati attivi e passivi all’azione

L’azione di reintegrazione compete al possessore (art. 1168, c. 1°, c.c.). Ai sensi dell’art. 1168, c. 2°, c.c. legittimato attivo all’azione è altresì il detentore, purché non si tratti di detenzione per ragioni di servizio o di ospitalità.

Il che significa che il conduttore può esperire l’azione di spoglio nei confronti dello stesso proprietario di casa che di fatto gli impedisca di accedere all’immobile sostituendo la chiave della serratura, o in altri modi.

La giurisprudenza per converso esclude l’esperibilità delle azioni possessorie da parte del proprietario di casa nei confronti degli inquilini che rifiutino di lasciar libero l’immobile alla scadenza. La mancata restituzione non integra infatti gli estremi dello spoglio, dato che non implica un mutamento della situazione di fatto. Ne consegue pertanto che il proprietario di casa dovrà necessariamente instaurare un giudizio di natura petitoria al fine di consentire l’accertamento del suo diritto alla restituzione

Legittimato passivo è l’autore dello spoglio, in conformità ad una legittimazione personale tipica dei rimedi delittuali (art. 1168, c. 1°, c.c.).

L’art. 1169 c.c. corregge però immediatamente il tiro asserendo che la reintegrazione può essere domandata anche contro chi è nel possesso in virtù di un acquisto a titolo particolare, fatto con la conoscenza dell’avvenuto spoglio [38]. In questo caso legittimato passivo non è più l’autore dell’illecito, ma chi in concreto ha la disponibilità materiale del bene, in conformità ad uno schema tipico dei rimedi a tutela delle forme di appartenenza. L’azione non è viceversa esperibile nei confronti di un acquirente di buona fede, salva la possibilità di chiedere il risarcimento del danno a chi ha effettuato lo spoglio, nonché agire in rivendicazione nei confronti dell’acquirente, sempreché quest’ultimo non abbia acquistato la proprietà del bene.

Resta aperta tutta una serie di problemi. Il legislatore non ha infatti precisato se l’azione sia ancora esperibile o meno nei confronti dell’autore dello spoglio nel caso in cui non risulti più possibile la restituzione, per distruzione o trasferimento a terzi.

In base ad un’opinione dottrinale ormai risalente, nei casi di distruzione o trasferimento del bene, venendo meno la possibilità di una restituzione materiale, occorreva escludere la legittimazione passiva dell’autore materiale dello spoglio [39].

Sebbene questa soluzione abbia avuto un certo riscontro in giurisprudenza [40], in seguito si è sempre più consolidata, sia in dottrina [41] che in giurisprudenza [42] l’opinione che la distruzione o il trasferimento del bene non fa venir meno la legittimazione passiva dell’autore dello spoglio, vista la sua responsabilità per i danni inferti.

Ne consegue che legittimato attivo è non solo l’autore materiale dello spoglio, ma anche quello morale, ancorché non abbia mai ottenuto la disponibilità materiale della cosa [43]; parimenti, sempre in conformità ad una logica tipicamente delittuale, nel caso in cui vi siano più autori materiali o morali dello spoglio l’azione può essere intentata indifferentemente contro ciascuno di essi, senza necessità della partecipazione al giudizio degli altri [44]. Non esiste in atre parole un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra più autori di uno spoglio o di una turbativa [45].


7.  Tutela possessoria e pubblica amministrazione

Regole particolari trovano applicazione nei confronti della pubblica amministrazione. In termini del tutto generali la giurisprudenza esclude l’esperibilità dei rimedi possessori nei confronti della pubblica amministrazione quando agisca sulla base di un atto amministrativo [46]; l’azione non può essere intentata neppure da un’altra pubblica amministrazione [47].

I rimedi possessori sono viceversa esperibili nel caso in cui la p.a. ha agito iure privatorum [48].

La pubblica amministrazione può invece esperire senza limitazioni i rimedi possessori contro i privati, oppure avvalersi a sua discrezione della forza pubblica (art. 823, c. 2°, c.c.) [49].


8.  Lo spoglio tramite ufficiale giudiziario

Nel caso in cui taluno venga privato del possesso da un ufficiale giudiziario nel legittimo esercizio delle sue funzioni, non è ovviamente possibile avvalersi delle azioni possessorie.

Nel caso in cui l’ufficiale giudiziario abbia operato sulla base di un titolo esecutivo illegittimo, occorrerà farne accertare l’illegittimità, nonché sollecitare l’emanazione di un provvedimento di contenuto opposto in virtù del quale riottenere il proprio bene.

Può però anche capitare che l’ufficiale giudiziario abbia agito in virtù di un titolo non esecutivo, nei confronti di soggetti diversi da quelli indicati nel provvedimento, o ancora con riferimento a beni differenti rispetto a quelli previsti. Nei casi di questo genere possono avere ingresso le azioni possessorie con finalità di carattere recuperatorio [50]. A questi fini la giurisprudenza è solita richiedere la prova del dolo in capo a chi ha sollecitato l’intervento dell’ufficiale giudiziario [51].


9.  L’eccezione feci sed iure feci

In base a quanto stabilisce -in termini del tutto generali- l’art. 705 c.p.c., finché dura il giudizio possessorio non è esperire il rimedio petitorio. Da questo principio gli interpreti hanno desunto l’ulteriore regola in virtù della quale in sede possessoria non è consentito che il convenuto cerchi di giustificarsi adducendo il suo diritto (feci sed iure feci) [52].

L’eccezione feci sed iure feci è viceversa consentita nel caso in cui il convenuto eccepisca di aver agito in conformità ad una situazione di possesso [53] o di compossesso [54].

Nei casi di questo genere la giurisprudenza consente altresì che venga prodotto il titolo di acquisto, ancorché al solo fine di colorare la situazione possessoria e di chiarirne i limiti (ad colorandam possessionem) [55].

10. Le cause di giustificazione

Il soggetto convenuto in un giudizio possessorio è altresì legittimato a difendersi invocando le comuni cause di giustificazione previste sia in sede civile che penale, vale a dire la legittima difesa [56], lo stato di necessità, e così via [57]. Si pensi per esempio ad una persona che sottragga una pistola o un coltello ad un rapinatore, catturi un cane pericoloso, e così via.

11. I termini

L’esperibilità delle azioni possessorie è soggetta ad un termine annuale di decadenza (artt. 1168, c. 1°; 1170, c. 1°, c.c.).

Problematico è semmai capire a partire da quale momento effettuare il computo del termine. Il problema si pone specie nel caso in cui la lesione consista di più atti reiterati nel tempo. Nei casi di questo genere la giurisprudenza è costante nell’affermare che l’anno utile per l’esperimento delle azioni possessorie, nel caso di turbativa o di spoglio posti in essere con più atti, decorre dal primo, quando i successivi atti siano strettamente collegati o connessi, si da configurare la progressiva estrinsecazione della stessa azione lesiva; mentre decorre da ciascuno di detti atti successivi, quando essi presentino connotati autonomi in modo da concretare uno spoglio o turbativa a sé stante [58].


12. L’azione di manutenzione

Ai sensi dell’art. 1170, c. 1°, c.c. chi è stato molestato nel possesso di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di una universalità di mobili può, entro l’anno dalla turbativa, chiedere la manutenzione del possesso medesimo.

L’azione è esperibile entro un anno dalla turbativa.

Legittimato attivo all’azione non è però qualunque possessore come nel caso dell’azione di reintegrazione, ma solo il possessore di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di una universalità di mobili.

L’azione non compete pertanto al possessore di beni mobili.

Parimenti essa non compete al semplice detentore. Ne consegue che l’inquilino in caso di turbative non potrà cercare di tutelarsi in virtù di tale azione.

Il legislatore richiede inoltre che si tratti di un possesso qualificato dalla durata e dal modo d’acquisto. In particolare l’azione è data solo se il possesso dura da oltre un anno, continuo e non interrotto, e non è stato acquistato violentemente o clandestinamente (art. 1170, c. 2°, c.c.).

Qualora il possesso sia stato acquistato in modo violento o clandestino, l’azione può nondimeno esercitarsi, decorso un anno dal giorno in cui la violenza o la clandestinità è cessata.

L’azione di manutenzione è quindi sicuramente espressione di una logica differente rispetto a quella sottesa all’azione di reintegrazione. Mentre l’azione di reintegrazione, per lo meno nella sua configurazione originaria, è in primo luogo finalizzata a tutelare l’ordine pubblico, l’azione di manutenzione è posta a tutela di una situazione possessoria qualificata la quale assurge quasi al rango di una forma cadetta di appartenenza.

Ai sensi dell’art. 1170, c. 3°, c.c. l’azione di manutenzione è altresì esperibile con finalità recuperatorie in caso di spoglio non violento o clandestino.

Tenendo peraltro conto dell’estrema ampiezza con cui la giurisprudenza intende i requisiti della violenza e della clandestinità ai sensi dell’art. 1168, c. 1°, c.c., l’ambito d’applicazione di questa norma risulta assai ristretto.

Centrale ai fini dell’individuazione del campo d’applicazione della norma in questione è chiarire il concetto di molestia. Tradizionalmente le molestie vengono distinte in molestie di fatto e di diritto.

Molestia di fatto è qualsiasi limitazione o turbativa della sfera del possesso altrui [59], o ancora qualsiasi atto che modifichi o tenda a modificare il possesso o lo stato del possesso [60].

Si pensi per esempio all’esercizio di fatto di una servitù di passaggio, alla violazione delle distanze legali nelle costruzioni [61], alla sopraelevazione di un edificio oltre i limiti consentiti, alle immissioni eccedenti la normale tollerabilità [62], alla violazione dello spazio aereo, o ancora a qualsiasi altra turbativa nei rapporti di vicinato [63].

In realtà si tratta di concetti sostanzialmente empirici, tanto più che a monte resta il delicato problema da un lato di distinguere il concetto di spoglio da quello più limitato di turbativa, e dall’altro quello di distinguere le turbative vere e proprie dalle ingerenze lecite.

Per quel che riguarda la distinzione tra spoglio e turbativa ogni tentativo di rigore risulta frustrato dalle applicazioni giurisprudenziali da sempre favorevoli ad estendere sempre più la nozione di spoglio a scapito di quella di semplice turbativa.

Per quel che riguarda il secondo aspetto utile può essere viceversa instaurare un parallelismo tra lesione della proprietà e lesione del possesso; in questa prospettiva non è possibile ravvisare una molestia se l’ingerenza sarebbe lecita anche sotto il profilo del corrispondente diritto di proprietà [64]. Non costituisce così molestia una ingerenza esplicata ad un’altezza tale da non costituire lesione neppure del corrispondente diritto di proprietà [65].

Ancora più controverso è il discorso relativo alle molestie di diritto. Tradizionalmente per molestie di diritto si intendono gli atti giudiziali o stragiudiziali con i quali si contesta l’altrui possesso [66].

Si pensi per esempio alla notifica con cui il conduttore fa sapere al locatore di voler tenere la cosa come propria; all’ingiunzione rivolta al vicino di non sopraelevare; o ancora alla diffida con cui si contesta l’altrui diritto al possesso, e così via [67].

Parte della dottrina ha peraltro contestato l’opportunità della distinzione tra molestie di fatto e di diritto. Si è considerato come la distinzione non trovi corrispondenza in materia di spoglio, dove non si distingue tra spoglio di fatto e di diritto, e come in realtà i casi di molestia di diritto o costituiscono veri e propri casi di spoglio, o tentativi di spoglio [68].


13. Spese e miglioramenti

Il legislatore ha disciplinato accuratamente i diritti del possessore soccombente in sede di revindica in ordine alle spese, ai miglioramenti ed alle addizioni (artt. 1149, 1150, 1152 c.c.). Il legislatore tace viceversa in ordine al medesimo ordine di problemi che può porsi tra attore e convenuto nell’ambito del giudizio possessorio.

Non vi è però alcun dubbio che, così come nel giudizio possessorio può avere ingresso l’azione risarcitoria (art. 2043 c.c.), parimenti occorre consentire l’azione in arricchimento (art. 2041 c.c.) [69].


14. Il procedimento possessorio

Ai sensi dell’art. 705, c. 1°, c.p.c. il convenuto nel giudizio possessorio non può proporre giudizio petitorio, finché il primo giudizio non sia definito e la decisione non sia stata eseguita. Il che significa che il proprietario dovrà attendere con pazienza la conclusione del giudizio possessorio, restituire la cosa e successivamente agire in rivendicazione.

Il principio di separazione tra giudizio possessorio e petitorio è stato peraltro recentemente attenuato da parte della Corte costituzionale, la quale con la sent. 3 febbraio 1992, n. 25 ha dichiarato illegittimo l’art. 705, c. 1°, c.p.c. nella parte in cui subordina la proponibilità del giudizio petitorio alla conclusione di quello possessorio ed alla esecuzione della relativa decisione, nel caso in cui ne derivi o possa derivarne un pregiudizio irreparabile per il convenuto.

Il divieto del cumulo tra possessorio e petitorio è altresì derogato dall’art. 704 c.p.c., il quale riserva al giudice del petitorio ogni domanda che reagisce a lesioni del possesso che si sono verificate nel corso del procedimento petitorio stesso. A questi fini è però essenziale la concomitanza delle lesioni possessorie con il giudizio petitorio [70].

Problemi sorgono nel caso in cui l’attore effettui un errore sotto il profilo della qualificazione dell’azione; qualifichi per esempio l’azione di spoglio, mentre in realtà è di manutenzione e viceversa.

Nel caso in cui l’attore abbia qualificato l’azione come di spoglio, mentre in realtà si tratta di mera turbativa, il giudice è legittimato a riqualificare correttamente come di manutenzione l’azione proposta [71]. Nel più è infatti contenuto il meno, con la conseguenza che l’art. 112 c.p.c. non risulta violato.

Non è invece consentito l’opposto, vale a dire qualificare come di spoglio un’azione di manutenzione [72].

Ai fini dell’esecuzione del giudicato non rileva se la configurazione dei luoghi, come per esempio l’ubicazione della servitù di passaggio, è leggermente diversa rispetto a quella prospettata dal ricorrente [73].

A prescindere dagli esiti del processo, l’esercizio delle azioni possessorie esplica un effetto interruttivo del decorso dei termini per l’usucapione [74].

Le azioni possessorie non sono compromettibili ad arbitri, in quanto appartengono alla competenza inderogabile dei giudici ordinari [75].

In conformità ai principi generali, il provvedimento che definisce la controversia deve provvedere in tema di spese giudiziali [76].

Attualmente il giudizio possessorio risulta sdoppiato in due fasi, di cui la prima culmina con l’adozione di un’ordinanza contenente un interdetto cautelare o provvisorio, destinato ad anticipare provvisoriamente una soluzione, che sarà poi confermata o rovesciata nella sentenza finale.


15. Le azioni di nuova opera e di danno temuto

Le azioni di nuova opera e di danno temuto (artt. 1171, 1172 c.c.) sono esperibili in via preventiva al fine di scongiurare la possibilità di un danno.

Esse sono esperibili dal proprietario, dal titolare di un diritto reale di godimento e dal possessore.

Entrambi i procedimenti si articolano in due fasi: una prima fase cautelare ed urgente, finalizzata a consentire al giudice di adottare i provvedimenti necessari a scongiurare il pericolo di danno; ed una seconda fase, consistente in un normale giudizio di merito, finalizzato ad accertare il fondamento della pretesa.

 A) La denunzia di nuova opera può essere effettuata ogniqualvolta si ha ragione di temere che da una nuova opera, da altri intrapresa sul proprio fondo, sia per derivare danno alla cosa che forma l’oggetto del proprio diritto o possesso. Il giudice può vietare la continuazione dell’opera, oppure consentirla, disponendo se del caso le opportune cautele; nel primo caso per il risarcimento del danno prodotto dalla sospensione dell’opera, qualora l’opposizione risulti infondata nella decisione del merito; nel secondo caso per la demolizione dell’opera e per il risarcimento del danno, ove il denunziate ottenga sentenza favorevole (art. 1171 c.c.).

Gli elementi costitutivi della fattispecie sono dunque tre: a) una condotta umana [77], b) un’opera, c) il timore di un danno.

La condotta deve essere illecita, vale a dire lesiva della proprietà o del possesso dell’attore. Non è richiesta viceversa la prova del dolo o della colpa; l’inibitoria opera su basi rigorosamente oggettive. Il discorso può però mutare se si innesta una pretesa risarcitoria ai sensi dell’art. 2043 c.c.

La richiesta del provvedimento cautelare è ovviamente consentita soltanto nel caso in cui l’opera non sia ancora ultimata [78]; dopo l’ultimazione dell’opera si procederà a trattare direttamente il merito.

I requisiti suddetti, mancato decorso di un anno dall’inizio dell’opera e mancata ultimazione della stessa, debbono però sussistere esclusivamente in relazione alla prima fase cautelare del procedimento; ne consegue che, nella successiva fase di merito, il riscontro della carenza di tali presupposti, può spiegare rilievo esclusivamente al fine della revoca dei provvedimenti cautelari eventualmente concessi, ma non comporta di per sé improponibilità della domanda [79].

L’opera deve comportare ragionevole timore di danno; ragionevole timore non significa necessariamente danno certo o danno attuale [80]; ne consegue l’esperibilità del rimedio anche in relazione ad un manufatto, che pur non essendo attualmente lesivo del diritto altrui, possa essere temuto come fonte di futuro danno per i carattere che l’opera potrebbe assumere qualora fosse condotta a termine [81].

Il proprietario di un immobile in caso di inosservanza da parte del vicino delle distanze minime nelle costruzioni, ha peraltro facoltà di esperire non solo l’azione di denuncia di nuova opera, ma anche quella possessoria o direttamente quella petitoria, fondata sulla violazione del diritto di proprietà [82].

L’azione di danno temuto può essere esperita anche da parte del possessore di un bene demaniale; secondo la giurisprudenza l’art. 145, c. 2°, c.c. deve infatti essere inteso nel senso dell’attribuzione della tutela possessoria nei termini più ampi [83].

 B) La denunzia di danno temuto può essere fatta ogniqualvolta si ha ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti pericolo di un danno grave e prossimo alla cosa che forma l’oggetto del proprio diritto o possesso; l’azione si riferisce quindi al pericolo proveniente da un qualche cosa di già esistente, come per esempio un edificio che minacci di crollare. L’azione non è viceversa ovviamente esperibile nel caso in cui il pericolo sia rappresentato da una persona.

In termini del tutto generali è possibile asserire che mentre l’azione di denuncia di nuova opera presuppone un facere, vale a dire l’inizio di una nuova opera, l’azione di danno temuto presuppone un non facere, vale a dire l’inosservanza dell’obbligo di rimuovere un pericolo [84].

Anche in questo caso l’azione presuppone l’illiceità del comportamento in questione [85], non viceversa il dolo o la colpa del convenuto. In ogni caso è però richiesto che il pericolo interessi direttamente il denunciante e non solo in modo generico i terzi [86].

Anche in questo caso l’autorità giudiziaria può disporre le necessarie misure cautelari, per ovviare al pericolo, come per esempio l’abbattimento o il transennamento dell’edificio pericolante (art. 1172 c.c.).


Autore: Pa o l o   G a l l o  [1] - tratto dal sito: www.diritto.it

[1]    Queste pagine corrispondono al capitolo finale della recente  monografia "Beni, proprietà e diritti reali" che ad opera di specialisti della materia costituisce esauriente ricostruzione sistematica della normativa, al tempo stesso esauriente quanto alla rappresentazione degli orientamenti della giurisprudenza. E per una aggiornata rassegna  e ampio commento degli orientamenti della giurisprudenza in materia di diritti reali è uscita adesso la nuova edizione di Casi e questioni di diritto privato. Proprietà e diritti reali indirizzata prevalentemente agli interessi degli operatori pratici del diritto

 

[2] R. Sacco, Il possesso, La denuncia di nuova opera e di danno temuto, in Trattato di diritto civile, diretto da G. Grosso-F. Santoro Passarelli, Milano, 1960; Montel, Il possesso, in Trattato di diritto civile, diretto da F. Vassalli, II ed., Torino, 1962; Levoni, rassegna di giurisprudenza sulle azioni possessorie, Milano, 1976; Gentile, Il possesso, in Giur. sistematica di dir. civ. e comm., diretto da W. Bigiavi, II ed., Torino, 1977; Levoni, La tutela del possesso, vol. I, Milano, 1979, vol. II, Milano, 1982; Masi, Il possesso e la denuncia di nuova opera e di danno temuto, in Trattato di diritto civile, diretto da P. Rescigno, Torino, 1982, p. 425 ss.; De Martino, Possesso. Denuncia di nuova opera e di danno temuto, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, V ed., Bologna-Roma, 1984; P. Gallo, Possesso. Sintesi di informazione, in Riv. dir. civ., 1986, II, p. 323; Cabella Pisu, Azioni possessorie, in Dig. IV ed., sez. civ., vol. II, Torino, 1988, p. 55; R. Sacco, Il possesso, in Trattato di diritto civile, diretto da A. Cicu-F. Messineo, continuato da L. Mengoni, Torino, 1988; P. Gallo, Possesso. Sintesi di informazione, in Riv. dir. civ., 1989, II, p. 429.

[3] Pret. Macerata, 20 luglio 1985, in Giur. merito, 1987, p. 506; Cass. 12 giugno 1991, n. 6653.

[4] Gambaro, La legittimazione passiva alle azioni possessorie, Milano, 1979.

[5] Un tempo si parlava a questo proposito di possesso legittimo: art. 686 c.c. del 1865.

[6] Cass. 15 febbraio 1984, n. 1139; Cass. 15 giugno 1991, n. 6772.

[7] Cass. 13 dicembre 1978, n. 5932; Cass. 23 febbraio 1981, n. 1101; Cass. 20 gennaio 1982, n. 372; Cass. 13 febbraio 1987, n. 1577; Cass. 29 gennaio, 1993, n. 1131.

[8] Cass. 29 giugno 1985, n. 3896.

[9] Pret. Gubbio, 3 marzo 1994, in Rass. Giur. Umbra, 1995, p. 111; Cabella Pisu, op. cit., p. 74 ss.

[10] R. Sacco, op. cit., p. 239.

[11] Cass. 20 gennaio, 1982, n. 372; Cass. 26 novembre 1987, n. 8784; Cass. 28 gennaio 1995, n. 1036.

[12] Cass. 20 giugno 1995, n. 6956.

[13] Dejana, Sulla distinzione tra spoglio e molestia, in Giur. compl. Cass. civ., 1946, II, 1, p. 37.

[14] Cass. 18 novembre 1970, n. 2439; Cass. 6 dicembre 1984, n. 6415.

[15] Cass. 20 marzo 1978, n. 1386.

[16] Cass. 14 novembre 1978, n. 5242.

[17] Cass. 26 febbraio 1976, n. 627.

[18] Cass. 4 maggio 1982, n. 2736.

[19] Cass. 22 gennaio 1976, n. 198, in Giur. it., 1976, I, 1, c. 1463.

[20] Un episodio isolato di aratura è turbativa e non spoglio: Cass. 4 agosto 1978, n. 3837.

[21] In questo senso Dejana, Sulla distinzione tra spoglio e molestia, in Giur. compl. Cass. civ., 1946, II, 1, p. 37.

[22] Cass. 29 aprile 1956, n. 1301, in Foro pad., 1956, I, p. 565.

[23] R. Sacco, op. cit., p. 221.

[24] Cass. 21 maggio 1955, n. 1496; Cass. 2 agosto 1956, n. 3042; Pret. Torino, 6 giugno 1995, in Giur. it., 1996, I, 2, c. 366; Trib. Foggia, 17 maggio 1996, in Dir. eccl., 1996, p. 203; Masi, op. cit., p. 428; R. Sacco, op. cit., p. 225.

[25] Cass. 29 marzo 1995, n. 3700.

[26] Cass. 19 aprile 1959, n. 1065.

[27] Montel, op. cit., p. 521.

[28] Dejana, Un requisito non richiesto per lo spoglio: l’animus spoliandi, in Giur. compl. Cass. civ., 1946, II, 1, p. 139; Funaioli, A proposito di animus spoliandi e natura giuridica dello spoglio, in Giust. civ., 1951, p. 16; Cormio, Se sia necessario l’animus spoliandi per far valere l’azione di reintegrazione, in Nuovo dir., 1956, p. 22; De Martino, op. cit., p. 130; Masi, op. cit., p. 464; in posizione sostanzialmente critica si veda altresì R. Sacco, op. cit., p. 243 ss., secondo il quale sono ben pochi i casi in cui può risultare opportuno ricorrere al requisito dell’animus.

[29] Cass. 16 marzo 1984, n. 1800; Cass. 29 maggio 1990, n. 5013; Cass. 15 ottobre 1994, n. 8417.

[30] Cass. 4 giugno 1981, n. 3633; Cass. 7 agosto 1982, n. 4447; Cass. 23 marzo 1984, n. 1933.

[31] Cass. 11 novembre 1986, n. 6589.

[32] Cass., Sez. Un., 22 novembre 1994, n. 9871.

[33] Cass. 30 marzo 1984, n. 2107; Cass. 26 novembre 1986, n. 6978.

[34] Cass. 7 febbraio 1981, n. 766; Trib. Forlì, 7 marzo 1986, in Arch. civ., 1986, p. 847.

[35] Cass. 11 dicembre 1985, n. 6268.

[36] Cass. 7 agosto 1982, n. 4447; Cass. 18 luglio 1985, n. 4226; Cass. 10 aprile 1996, n. 3291.

[37] Cass. 8 maggio 1981, n. 3012; Cass. 10 marzo 1981, n. 1340; Cass. 22 luglio 1995, n. 8059.

[38] Cass. 25 maggio 1993, n. 5873.

[39] Montel, op. cit., p. 179.

[40] Cass. 21 giugno 1985, n. 3731; Cass. 4 novembre 1993, n. 10939; Cass. 29 novembre 1995, n. 12347; Cass. 3 luglio 1996, n. 6057.

[41] Dejana, Azione di spoglio contro il locatore e rapporti tra lo spogliato ed un secondo locatario, in Foro it., 1947, I, c. 94; Id., In tema di legittimazione passiva all’azione di spoglio, in Giur. compl. Cass. civ., 1947, Iii, p. 60; Sacco, op. cit., p. 334.

[42] Cass. 21 febbraio 1981, n. 1053; Cass. 19 febbraio 1981, n. 1034; Cass. 15 novembre 1982, n. 6103; Cass. 18 febbraio 1983, n. 1251; Cass. 24 gennaio 1985, n. 317; Cass. 7 aprile 1987, n. 3356; Cass. 13 aprile 1988, n. 2914; Cass. 5 giugno 1990, n. 5389; Cass. 23 marzo 1995, n. 3377; Cass. 10 aprile 1996, n. 3303; Cass. 16 febbraio 1996, n. 1211.

[43] Cass. 14 febbraio 1985, n. 1252; Cass. 26 aprile 1994, n. 3941.

[44] Cass. 26 agosto 1994, n. 7524.

[45] Pret. Napoli-Torre del Greco, 22 settembre 1993, in Foro it., 1993, I, c. 3422.

[46] Cass., Sez. Un., 16 novembre 1991, n. 12303; Cass., Sez. Un., 24 novembre 1992, n. 12515; Leo, Sulla proponibilità delle azioni possessorie nei confronti della p.a., in Sse, 1976, p. 44; Angeletti, Aspetti problematici della discriminazione tra giurisdizioni e stato amministrativo, Milano, 1980, p. 101 ss.

[47] Cass., Sez. Un., 12 giugno 1967, n. 1311.

[48] Cass., Sez. Un., 29 maggio 1992, n. 6477; Cass., Sez. Un., 26 agosto 1993, n. 9005; Cass., Sez. Un., 14 aprile 1993, n. 4380; Cass., Sez. Un., 7 novembre 1994, n. 9206; Cass., Sez. Un., 7 novembre 1994, n. 9208; Cass., Sez. Un., 27 ottobre 1995, n. 11170; Cass., Sez. Un., 25 gennaio 1995, n. 891; Cass., Sez. Un., 17 febbraio 1995, n. 1713.

[49] Cass. 18 ottobre 1986, n. 6127; Cons. Stato, 20 aprile 1988, n. 337, in Foro it., 1989, Iii, c. 398; Tar Umbria 12 febbraio 1988, n. 48, in Foro amm., 1988, p. 3328; Tar Piemonte 16 febbraio 1989, n. 145, in Giur. it., 1989, Iii, 1, c. 194; Tar Sardegna 8 aprile 1993, n. 331; Cons. giust. amm. Sic. sez giurisdiz., 27 febbraio 1981, n. 27, in Cons. Stato, 1991, I, p. 309.

[50] Cass. 14 dicembre 1978, n. 5971; Cass. 21 giugno 1996, n. 5740.

[51] Cass. 29 maggio 1995, n. 6038.

[52] Cass. 22 giugno 1995, n. 7067.

[53] Cass. 11 gennaio 1989, n. 81.

[54] Cass. 6 novembre 1987, n. 8231; Cass. 4 agosto 1990, n. 7874.

[55] Cass. 24 gennaio 1984, n. 580; Cass. 5 giugno 1987, n. 4906; Cass. 5 dicembre 1988, n. 6583; Cass. 24 marzo 1995, n. 3434.

[56] Cass. 8 novembre 1958, n. 3660.

[57] R. Sacco, op. cit., p. 255.

[58] Cass. 16 gennaio 1897, n. 282; Cass. 24 aprile 1992, n. 4939; Cass. 15 luglio 1995, n. 7751.

[59] Cass. 6 febbraio 1965, n. 185.

[60] Cass. 21 ottobre 1971, n. 2968.

[61] Cass. 5 agosto 1983, n. 5261; Cass. 23 gennaio 1995, n. 724.

[62] Pret. Torino, ord. 9 marzo 1961, in Foro it., 1961, I, c. 1360; Cass. 20 ottobre 1977, n. 4485, in Giur. it., 1978, I, 1, c. 10; Cass. 23 marzo 1996, n. 2604.

[63] Cass. 7 dicembre 1961, n. 2791; Cass. 22 maggio 1981, n. 3370.

[64] R. Sacco, op. cit., p. 231.

[65] Cass. 7 gennaio 1984, n. 106.

[66] Montel, op. cit., 1962, p. 540.

[67] Cass. 21 ottobre 1975, n. 3470, in Giur. it., 1977, I, 1, c. 716; Cass. 12 novembre 1975, n. 3811.

[68] R. Sacco, op. cit., p. 234.

[69] R. Sacco, op. cit., p. 346; P. Gallo, Arricchimento senza causa e quasi contratti, i rimedi restitutori, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 1996.

[70] Cass. 9 giugno 1988, n. 3929; Cass. 26 febbraio 1993, n. 2444; Cass. 22 novembre 1995, n. 12099.

[71] Cass. 14 giugno 1976, n. 2209; Cass. 25 luglio 1981, n. 4820; Cass. 26 aprile 1994, n. 3941.

[72] Cass. 17 giugno 1961, n. 1438.

[73] Cass. 15 febbraio 1984, n. 1139.

[74] Cass. 15 maggio 1992, n. 5801.

[75] Pret. Torino, 11 giugno 1990, in Arch. civ., 1990, p. 1155.

[76] Pret. Napoli-Torre del Greco, 22 settembre 1993, in Foro it., 1993, I, c. 3422.

[77] Cass. 25 marzo 1987, n. 2897.

[78] Cass. 27 aprile 1991, n. 4649.

[79] Pret. Napoli, 7 aprile 1989, in Arch. civ., 1990, p. 935.

[80] Cass. 24 marzo 1979, n. 1736.

[81] Cass. 30 luglio 1988, n. 4802.

[82] Cass. 29 marzo, n. 2891.

[83] Pret. Verona, 25 giugno 1984, in Giust. civ., 1985, I, p. 3246.

[84] Cass. 25 marzo 1987, n. 2897.

[85] Pret. Gavirate, ord. 11 giugno 1966, in Giur. it., 1968, I, 2, c. 558.

[86] Trib. Roma, 14 febbraio 1983, in Temi rom., 1984, p. 594.