REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAPPUCCIO Giammarco - Presidente
Dott. MARZIALE Giuseppe - Consigliere
Dott. RORDORF Renato - rel. Consigliere
Dott. GILARDI Gianfranco - Consigliere
Dott. DI PALMA Salvatore - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
società SIGECO-CSS (già SIGECO SISTEMI DI GESTIONE COMPUTERIZZATI) S.R.L., elettivamente domiciliato in ROMA, via dei Gracchi 130, presso l'avv. Filippo NERI, rappresentata e difesa dall'avv. CASARINI Riccardo, giusta procura speciale in calce al ricorso;
- ricorrente-
contro
il Dott. BRIDI Alberto, domiciliato in ROMA, via Crescenzio 97, presso l'avv. Claudio DI PIETROPAOLO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avv. PUCCIONI Franco, giusta procura speciale in calce al controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza della Corte d'appello di Firenze, depositata il 14 dicembre 2001, n. 2016/01;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza dal Consigliere Dott. Renato RORDORF;
uditi l'avv. Riccardo CASARINI, che ha chiesto raccoglimento del ricorso e l'avv. Claudio DI PIETROPAOLO che ne ha chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PALMIERI Raffaele che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Il Dr. Alberto Bridi, con citazione notificata il 1 marzo 1995, ha chiesto al Tribunale di Firenze di dichiarare nulla, o comunque annullare, una deliberazione con la quale, in data 1 dicembre 1994, l'assemblea straordinaria della Sigeco - Sistemi di Gestione Computerizzati s.r.l. (in prosieguo indicata solo come Sigeco) aveva proceduto all'azzeramento per perdite del capitale sociale, ammontante a nominali L. 30.000.000, ed alla sua ricostituzione, nella misura di L. 20.000.000, mediante versamenti eseguiti dai soli due soci presenti in assemblea. L'attore ha riferito di essere titolare di una quota pari al 47,36% del capitale della Sigeco, intestato per la restante parte agli altri due soci, ed ha lamentato che la deliberazione impugnata sia stata assunta dall'assemblea in sua assenza e con quorum costitutivo e deliberativo inferiore a quello prescritto dal codice civile e dallo statuto della società, con la conseguenza che egli sarebbe stato così di fatto illegittimamente escluso dalla compagine sociale.
Radicatosi il contraddittorio, la convenuta Sigeco si è difesa non solo sostenendo la legittimità della indicata deliberazione assembleare, ma anche preliminarmente eccependo l'improponibilità della domanda in presenza di una clausola statutaria che demandava ad arbitri la risoluzione delle controversie insorte tra i soci e la società. Il Tribunale di Firenze, con sentenza emessa il 20 maggio 1998, ha accolto detta eccezione ed ha dichiarato improponibile la domanda del Dr. Bridi.
Questi ha interposto gravame, che è stato accolto dalla Corte d'appello di Firenze, la quale, con sentenza depositata il 14 dicembre 2001, ha dichiarato nulla la deliberazione assembleare impugnata.
La corte fiorentina ha infatti ritenuto che la controversia, in quanto avente ad oggetto la validità di una deliberazione assembleare relativa ad operazioni sul capitale sociale, avesse carattere indisponibile e non potesse perciò esser validamente deferita ad arbitri. Quanto al merito, la medesima corte ha interpretato la previsione dell'art 9 dello statuto sociale, secondo cui per le deliberazioni di assemblea straordinaria occorre il voto unanime dei soci, come riferita alla totalità dei titolari del capitale sociale (e non soltanto alla totalità dei presenti in assemblea), facendo da ciò discendere la nullità della deliberazione nella specie adottata in assenza di uno dei soci.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre la Sigeco prospettando tre motivi di doglianza, cui il Dr. Bridi resiste con controricorso illustrato da successiva memoria.

Motivi della decisione

1. La società ricorrente si duole, in primo luogo, dalla violazione dell'art. 806 c.p.c. Insiste infatti nel sostenere che - contrariamente a quanto reputato dalla corte d'appello, la controversia in esame non avrebbe ad oggetto la validità della specifica deliberazione assunta il 1 dicembre 1994 dall'assemblea dei soci con ad oggetto la riduzione e la ricostituzione del capitale, bensì l'interpretazione di quanto dispongono le clausole dello statuto sociale in tema di quorum assembleare costitutivo e deliberativo; interpretazione, questa, che non coinvolgerebbe interessi generali, come tali non suscettibili di deferimento al giudizio arbitrale, e che perciò legittimamente avrebbe potuto esser devoluta ad arbitri.
1.1. Il dedotto motivo di ricorso appare manifestamente inaccoglibile.
La doglianza, nei termini in cui è prospettata, non mette in discussione la correttezza giuridica dell'affermazione operata dalla corte territoriale in merito alla non compromettibilità in arbitri di una controversia avente ad oggetto la validità di una deliberazione con cui l'assemblea di una società a responsabilità limitata abbia operato sul proprio capitale (affermazione formulata - ovviamente - a prescindere dalle disposizioni introdotte solo successivamente in tema di arbitrato societario dal d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, non applicabili, ratione temporis, al caso di specie). Quel che la ricorrente sostiene è che però l'oggetto della controversia non sarebbe quello sopra indicato: esso investirebbe, invece, unicamente il tema della validità delle clausole dello statuto sociale che governano, in via generale, le modalità di costituzione e decisione dell'assemblea, sicchè l'eventuale caducazione della deliberazione assembleare impugnata costituirebbe una mera conseguenza del più ampio giudizio vertente sulla validità di siffatte clausole.
Sennonchè, l'interpretazione delle domande proposte dalle parti in giudizio è compito esclusivo del giudice di merito, cui perciò tocca individuare l'oggetto di quel che la parte chiede e provvedere di conseguenza. Il modo e gli esiti di tale attività interpretativa, se sorretta da congrua ed adeguata motivazione, non sono suscettibili di riesame ad opera della Cassazione.
Nel caso di specie, l'interpretazione della domanda - intesa come volta ad ottenere una declaratoria di nullità o l'annullamento di una ben specifica deliberazione adottata dall'assemblea della società convenuta in giudizio - appare del tutto piana e coerente con il tenore letterale della domanda medesima, riportata nella narrativa della sentenza impugnata e nella parte iniziale dello stesso ricorso per Cassazione (nonchè nel controricorso). Nè del resto la ricorrente, limitandosi a prospettare la propria diversa tesi nei termini già dianzi riferiti, formula una qualche specifica censura rivolta alla motivazione con cui il giudice d'appello ha proceduto ad individuare l'oggetto di detta domanda.
E' poi appena il caso di aggiungere che la necessità di valutare la validità della deliberazione assembleare impugnata alla stregua anche di una o più clausole dello statuto sociale e di dirimere i dubbi eventualmente insorti in ordine all'interpretazione di tali clausole non implica certo, di per sè, che l'oggetto della causa s'identifichi con quest'ultima attività interpretativa, la quale invece ha unicamente funzione strumentale al fine di dare risposta alla domanda formulata dalla parte: se cioè la deliberazione assembleare sia o meno valida. Non diversamente, in tutti i casi in cui la validità di un atto negoziale forma oggetto di domanda giudiziale, il giudice è chiamato ad individuare e ad interpretare le norme di legge applicabili alla fattispecie; ma non per questo può dirsi che l'oggetto del giudizio verte sull'interpretazione di quelle norme in via generale, piuttosto che sulla validità dello specifico atto negoziale con riferimento al quale esse sono destinate a trovare applicazione.
2. Il secondo motivo di ricorso, con cui si denuncia la violazione degli artt. 1367, 2447 e 2486 c.c., è volto a criticare l'interpretazione che la corte d'appello ha dato all'art 9 dello statuto sociale.
A parere della ricorrente l'interpretazione privilegiata dalla corte fiorentina, nella misura in cui postula per le deliberazioni dell'assemblea straordinaria della società la necessità del voto unanime di tutti i titolari del capitale sociale, non terrebbe conto della lesione in tal modo inferta al principio maggioritario da cui è retta la disciplina delle deliberazioni assembleari di società;
principio che sarebbe scalfito dalla necessità di conseguire viceversa, in ogni caso, il consenso unanime di tutti i soci. A giudizio della ricorrente, detta clausola dello statuto, se così interpretata, si rivelerebbe perciò nulla: il che imporrebbe, in conformità al canone legale che privilegia l'interpretazione meglio in grado di assicurare la validità dell'atto negoziale da interpretare, di riferire l'unanimità richiesta da quella medesima clausola non già a tutti i titolari del capitale sociale, bensì soltanto ai soci presenti e votanti in assemblea.
2.1. Nemmeno tale doglianza coglie nel segno.
La clausola statutaria di cui si discute, come riportata nell'impugnata sentenza, dopo avere genericamente richiamato le norme vigenti in tema di "costituzione e validità delle delibere della assemblea ordinaria", prevede espressamente che "la assemblea straordinaria delibererà con il voto unanime".
La corte territoriale, nel soffermarsi su quest'ultima indicazione, vi ha ravvisato la previsione di un quorum deliberativo ulteriore e diverso rispetto a quello dei due terzi del capitale sociale richiesto dall'art. 2486 c.c. (nella formulazione vigente all'epoca dei fatti di causa) ed ha escluso che l'anzidetta previsione dell'unanimità possa riferirsi solo ai soci presenti in assemblea:
per la ragione che, in tal modo, potrebbe illogicamente risultare la fissazione di un quorum meno elevato per le deliberazioni dell'assemblea straordinaria rispetto a quelle dell'assemblea ordinaria.
Il rilievo critico formulato a tal riguardo da parte ricorrente, se per un verso effettivamente pone in evidenza la difficoltà di conciliare la natura collegiale dei deliberati assembleari con una regola unanimistica più consona agli atti contrattuali che a quelli collegiali, per altro verso non si confronta in alcun modo con l'argomento logico posto a base dell'interpretazione criticata; ma, soprattutto, non appare in nessun caso idoneo a condurre al risultato cui la ricorrente mira.
Non si può evitare di rilevare, infatti, che l'ipotizzata invalidità di una clausola come quella dianzi riferita, se davvero dovesse dipendere dall'incompatibilità del principio maggioritario con la previsione di unanimità dei voti da quella clausola richiesta per assumere determinate deliberazioni assembleari, non verrebbe meno per il solo fatto che l'unanimità sia riferita ai soci presenti in assemblea piuttosto che ai soci titolari dell'intero capitale sociale.
La ragione di una simile invalidità - come questa corte ha chiarito (ma con riferimento alle società azionarie) nella sentenza n 2450 del 1980 -risiede nel rilievo per cui l'unanimità dei consensi è richiesta solo nel momento costitutivo della società, mentre successivamente vige il principio della formazione della volontà sociale secondo il criterio maggioritario: il che non consente di stabilire la regola della totalità dei consensi per le deliberazioni di assemblea. Non mette conto qui rilevare come parte della dottrina abbia dubitato dell'invocabilità di un siffatto principio nel settore delle società a responsabilità limitata, in considerazione del maggior peso che l'elemento personale in esse riveste (e già rivestiva anche prima della recente riforma realizzata con d. lgs. n. 6 del 2003). Giova invece considerare che quel principio, se applicabile, osterebbe alla validità di una clausola statutaria come quella in esame pur se l'unanimità in essa richiesta fosse da riferire non ai titolari del capitale sociale bensì ai soci presenti in assemblea, perchè ne resterebbe ugualmente vulnerata la regola maggioritaria che si assume debba reggere inderogabilmente un tal genere di atto collegiale.
Comunque interpretata la clausola di unanimità risulterebbe perciò nulla. Ma è opportuno inoltre osservare come un'eventuale declaratoria di nullità di detta clausola, con il conseguente ripristino della regola legale di cui al citato art. 2486 che individua il quorum deliberativo dell'assemblea straordinaria nei due terzi del capitale sociale, neppure consentirebbe di preservare la validità della deliberazione assembleare in discorso, essendo stata questa assunta col voto favorevole dei soci portatori di appena poco più della metà di detto capitale.
3. Il terzo motivo di ricorso, con cui viene denunciata la violazione degli artt. 2377 e 2379 c.c., è volto a sostenere che avrebbe errato la corte d'appello nel dichiarare la nullità della più volte menzionata deliberazione assembleare, perchè l'asserita violazione delle regole concernenti il procedimento deliberativo dell'assemblea avrebbe al più consentito di ritenere detta deliberazione annullabile, ma giammai nulla.
3.1. La censura è inammissibile.
La corretta distinzione tra vizi implicanti la nullità di una deliberazione di società e vizi che ne determinino l'annullabilità rileva, in sede d'impugnazione, solo a condizione che colui il quale eccepisca l'errore al riguardo commesso dal giudice a quo alleghi e dimostri di avere un concreto interesse alla correzione di tale errore. Ciò che, nel caso di specie, la società ricorrente ha del tutto omesso di fare.
Pur essendo indubitabile che (almeno prima dell'entrata in vigore della riforma disposta con il citato d. lgs. n. 6 del 2003) alle due suindicate categorie di vizi della deliberazione corrispondano azioni e decisioni giudiziali di natura diversa, e che ne possano conseguire effetti almeno in parte dissimili, resta che, nell'essenziale, tanto la pronuncia giudiziale di nullità quanto quella di annullamento rispondono all'interesse dell'attore di far venir meno la deliberazione viziata. Quando perciò - come nella specie - entrambe le azioni siano state esercitate, onde non si ponga un'eventuale questione di corrispondenza tra il richiesto ed il pronunciato, nè si metta in dubbio la tempestività della domanda con riguardo al termine di decadenza stabilito per l'esercizio delle azioni di annullamento dal primo capoverso dell'art. 2377 c.c. (tempestività espressamente ribadita in questa sede dal controricorrente), l'eventuale errore nel quale il giudice sia incorso nell'individuare la natura del vizio da cui la deliberazione è affetta e la conseguente imprecisa definizione nella formula della pronuncia giudiziale emessa possono risultare (e nella più parte dei casi è presumibile che risultino) privi di ogni reale incidenza. La parte che quella decisione impugni sotto questo profilo è tenuta, pertanto, a chiarire le ragioni per cui lo fa, non potendo l'impugnazione esser retta dal solo teorico scopo di conseguire una decisione formulata in termini giuridicamente più corretti.
Difetta dunque, nel presente caso, ogni evidenza dell'interesse che deve sorreggere, a pena d'inammissibilità, qualsiasi doglianza formi oggetto di un motivo di ricorso.
4. Il ricorso deve perciò essere rigettato, con conseguente condanna della società ricorrente al rimborso delle spese sostenute dalla controparte nel giudizio di legittimità, che vengono liquidate in euro 5.000,00 (cinquemila) per onorati e 100,00 (cento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

P. Q. M.

La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 5.000,00 (cinquemila) per onorari e 100,00 (cento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 18 febbraio 2005.
Depositato in Cancelleria il 13 aprile 2005