Lavoro a progetto: primi orientamenti giurisprudenziali


 

L'avvio di un'azione di contrasto contro l'abuso delle collaborazioni coordinate e continuative, troppo sovente utilizzate in modo improprio, sia nel settore privato sia in quello pubblico, ha costituito una delle priorità individuate nella legge-delega n. 30 del 2003, cui il d.lgs n. 276 del 2003 (art. 61) ha dato attuazione: è stato previsto a tal fine che le collaborazioni coordinate e continuative non avrebbero più potuto costituire oggetto come tali di un contratto valido se non «riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione della attività lavorativa» (1). Ciò premesso, le collaborazioni coordinate e continuative, nella loro nuova veste di lavoro a progetto, dovranno essere, come chiarito nella circolare ministeriale 8 gennaio 2004 n. 1, «caratterizzate dall'elemento qualificatorio essenziale, rappresentato dall'autonomia del collaboratore (nello svolgimento della attività lavorativa dedotta nel contratto e funzionalizzata alla realizzazione del progetto, programma di lavoro o fase di esso), dalla necessaria coordinazione con il committente e dall'irrilevanza del tempo impiegato per l'esecuzione della prestazione». Sarebbe stata così rivisitata la regolamentazione delle collaborazioni di cui all'art. 409, n. 3, c.p.c., in modo da far assumere rilievo essenziale alla «natura temporanea dell'interesse produttivo e la conseguente naturale limitazione temporale della durata della collaborazione» (2).
Le disposizioni normative in tema di lavoro a progetto e la stessa definizione giuridica di questo contratto hanno suscitato un intenso dibattito dottrinale; anche per questo, le prime pronunce giurisprudenziali in materia sono state attese con vivo interesse e accolte con grande attenzione.
La prima sentenza, a quanto consta, è stata quella pronunciata in data 5 aprile 2005 dal Tribunale di Torino (3) che, in assenza della dimostrazione, da parte della datrice di lavoro convenuta, della natura autonoma del rapporto di lavoro intercorso con i suoi collaboratori, ha accolto le richieste di questi ultimi facendo ricorso al raffronto della fattispecie concreta rispetto ai consolidati indici sintomatici della sussistenza dei caratteri della subordinazione. Dopo la pronuncia del Tribunale torinese, sui caratteri e sulla regolamentazione del contratto di lavoro a progetto, sono stati chiamati a pronunciarsi i Tribunali di Ravenna e Milano, con le sentenze in rassegna.
Nella fattispecie oggetto della prima di queste due sentenze, era stato richiesto al giudice di dichiarare la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e, per l'effetto, di riconoscere il diritto della ricorrente (preposta alla riorganizzazione dell'ufficio commerciale) alla reintegrazione nel posto di lavoro, con inquadramento ai sensi del contratto collettivo nazionale di lavoro del settore commercio. Secondo quanto assunto in ricorso, infatti, il contratto di lavoro a progetto sarebbe stato formalizzato dopo l'inizio del rapporto di lavoro ed, ancora, sarebbe stato privo dei requisiti individuati all'art. 61 d.lgs. n. 276 del 2003 , per l'assenza di uno specifico progetto, nonché per la mancata finalizzazione dello stesso alla realizzazione di un determinato risultato, visto che la ricorrente avrebbe svolto mere «funzioni ordinarie» di segreteria. La ricorrente, per supportare le proprie pretese, ha fatto riferimento alla sussistenza nella specie degli indici rivelatori della subordinazione (utilizzo degli strumenti aziendali; inserimento nell'organizzazione aziendale; osservanza di un orario di lavoro predeterminato).
Pronunciandosi sul merito di tali doglianze, il tribunale ha, innanzi tutto, rilevato come dovesse considerarsi priva di fondamento la questione della nullità del contratto derivante dalla circostanza, peraltro non provata, dell'inizio del rapporto di lavoro in epoca precedente alla stipula del contratto di lavoro a progetto: l'art. 62 d.lgs. n. 276, cit. , infatti, prevede che «il contratto di lavoro a progetto è stipulato in forma scritta e deve contenere, ai fini della prova, i seguenti elementi [...]». La forma scritta, dunque, come confermato anche dalla circolare ministeriale 8 gennaio 2004 n. 1 (4), sarebbe stata richiesta a fini esclusivamente probatori, non ad substantiam; inoltre, sempre secondo il suddetto tribunale, sarebbe stato irragionevole assumere la sussistenza di due diversi regimi di forma, uno per il testo del contratto ed uno per i requisiti dello stesso (molti dei quali integrano al contempo, elementi essenziali del primo: l'indicazione della durata, il corrispettivo, le forme di coordinamento), anche perché la norma citata non contiene alcun elemento utile in tal senso.
Anche in difetto di forma, dunque, secondo quanto precisato dal giudice ravennate, il contratto di lavoro a progetto deve considerarsi perfettamente valido, sempre che ne sia stata rispettata la ratio legis e la natura autonoma. Nel caso concreto, peraltro, a prescindere dal momento iniziale di esecuzione del rapporto di lavoro, è stata riscontrata la sussistenza, sia formalmente che sostanzialmente, di un progetto specifico e predeterminato, connesso allo svolgimento di una precisa attività («istruire i propri collaboratori circa l'ordine e la coordinazione dei vari compiti affinché il risultato sia la gestione esemplare del cliente a partire dall'ordine in arrivo, alla partenza della merce, al buon andamento della spedizione. Il tutto sempre rivolto al buon mantenimento della attuale clientela ed all'acquisizione della nuova»), delimitata funzionalmente e temporalmente, cui ineriva un chiaro risultato finale (realizzazione di una più efficace organizzazione dell'ufficio commerciale). In presenza di simili presupposti, è stata dichiarata l'inesistenza degli estremi per la conversione, ex art. 69, comma 1, d. lgs. n. 276 del 2003, del contratto di lavoro a progetto in un rapporto di lavoro subordinato ed a tempo indeterminato.
In tal modo, la sentenza in commento ha ribadito, sposando un'interpretazione asseritamente volta a preservare la costituzionalità dell'art. 69, comma 1, d. lgs. n. 276 del 2003 (5), quanto già assunto dal Tribunale di Torino e dal Ministero del lavoro nella circolare n. 1, cit. circa la natura relativa della presunzione enucleata nella disposizione appena riportata: sarebbe, infatti, a carico del datore di lavoro l'onere di dimostrare la sussistenza degli elementi integrativi del progetto (e della collaborazione di natura autonoma) nella fattispecie concreta.
Di contro, autorevole dottrina (6) ha rilevato che la norma appena richiamata dovrebbe essere interpretata nel rispetto del suo disposto letterale, così che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, dovrebbero essere solo considerati come rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto di lavoro: pertanto, non diverrebbero formalmente tali, ma riceverebbero, «pur restando legittima la pattuizione circa l'autonomia della prestazione, ovvero il suo non assoggettamento pieno a eterodirezione», lo stesso trattamento giuridico, salvo che per quei profili intrinsecamente connessi allo statuto della subordinazione. Facendo ricorso ad una siffatta opzione ermeneutica, peraltro, verrebbero ad essere positivamente superati quei profili di illegittimità costituzionale, derivanti dalla violazione del principio di inderogabilità del tipo legale, che scaturiscono dalla «coattiva qualificazione, ad opera del legislatore, in termini di subordinazione di un rapporto che non presenta affatto tale carattere» (7).
Ad ogni modo, si concorda con chi ha recentemente affermato che l'interpretazione dottrinaria appena riportata permetterebbe di realizzare positivamente «una sostanziale parificazione della disciplina per tutte le prestazioni di lavoro a carattere continuativo in senso tecnico e destinate a soddisfare un interesse del committente non temporalmente circoscritto, cioè non limitate a un progetto, indipendentemente dal loro assoggettamento pieno a eterodirezione» (8).
L'opzione per la natura assoluta della suddetta presunzione, sebbene garantisca migliori condizioni di tutela in favore di coloro che offrono prestazioni di lavoro continuative, non temporalmente limitate, in condizioni di mono-committenza, non risolve, tuttavia, uno dei problemi derivanti dalla lacunosità della disciplina legislativa: come potrà, infatti, essere applicato lo statuto del lavoro subordinato ad una collaborazione che, sebbene priva di uno specifico progetto, dovesse essere comunque resa in condizioni di totale autonomia da parte di chi, prestando la propria attività in favore di più committenti, non può certamente essere considerato economicamente dipendente? (9).
Occorre, parimenti, osservare come la tesi della natura relativa della presunzione di cui all'art. 69, comma 1, d.lgs. n. 276/03, cit. svilisca la stessa autonomia dispositiva di tale norma rispetto a quella contenuta al comma 2 del medesimo articolo: la verifica sul substrato fattuale del rapporto di lavoro, infatti, diviene, in entrambi i casi, esiziale ai fini della individuazione della sanzione applicabile.
Fermo quanto sopra, si rileva, ritornando alla disamina delle decisioni di merito, che, nel caso esaminato dal Tribunale di Ravenna, il giudice ha rilevato come non «si capirebbe perché il miglioramento di un ufficio o di un reparto aziendale non possa costituire un obiettivo da conseguire attraverso un contratto a progetto». In un contesto regolatorio in cui, a parere di chi scrive, la definizione di progetto non è stata adeguatamente enucleata, si ritiene che la sentenza in esame fornisca significativi chiarimenti, permettendo di fugare una serie di dubbi interpretativi sugli esatti confini della pertinente nozione che, in verità, parte della dottrina (10) aveva già contribuito a dipanare. È ragionevole credere che proprio sulla delimitazione di tali confini la giurisprudenza sarà presto chiamata in modo ricorrente a fornire il proprio apporto ermeneutico.
A fronte del tentativo posto in essere dalla ricorrente di dimostrare la natura subordinata del rapporto di lavoro, è stato evidenziato in sentenza come non sia stata fornita la dimostrazione dell'assoggettamento al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, quanto piuttosto quella dell'autonomia della prestazione svolta dalla medesima ricorrente che, infatti, avrebbe esercitato la propria autonomia professionale in regime di piena discrezionalità tecnica e gestionale. Il tribunale ha dunque deciso il caso sottoposto al suo esame facendo ricorso a quell'orientamento assolutamente consolidato in giurisprudenza per cui «requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato -ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo- è il vincolo della subordinazione. L'esistenza di tale vincolo, che consiste per il lavoratore in uno stato di assoggettamento gerarchico, e per il datore di lavoro nel potere di direzione con il consequenziale inserimento del lavoratore nella organizzazione aziendale, va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che caratteri dell'attività lavorativa come la continuità, la rispondenza dei suoi contenuti ai fini propri dell'impresa, le modalità di erogazione della retribuzione e la stessa durata dell'attività non assumono valore decisivo, essendo compatibili sia con il rapporto di lavoro subordinato che con quello di lavoro autonomo o parasubordinato» (11).
Anche nella fattispecie decisa dal Tribunale di Milano, la ricorrente, dopo avere sottoscritto un contratto di lavoro a progetto, ha richiesto il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso e il connesso inquadramento da contratto collettivo. Alla base dell'azione giudiziale, questa volta vi è stata l'affermazione per cui le mansioni di informatore medico-scientifico, concretamente svolte per un periodo di tre mesi recandosi dai medici per illustrare i prodotti commercializzati dalla società convenuta, non avrebbero potuto essere inquadrate nel contesto di un'attività avente natura autonoma.
Inoltre, sempre nel caso di specie, è stata ulteriormente contestata la validità del contratto a progetto perché lo stesso sarebbe stato sottoscritto quindici giorni dopo l'inizio effettivo del rapporto ed, ancora, in quanto il progetto in esso enucleato sarebbe stato inesistente o non correttamente formulato.
Il ricorso è stato rigettato. L'argomento della presunta esecuzione del contratto di lavoro prima della sua stessa formalizzazione è stato giudicato irrilevante, nonché priva di fondamento è stata giudicata la pretesa di far discendere la nullità del contratto dalla mancata intestazione del testo negoziale con la dicitura «contratto a progetto», poiché «nessuna norma impone l'indicazione della tipologia contrattuale nell'intestazione del contratto, e tanto meno a pena di nullità».
Il giudice ha, inoltre, rilevato come, pur a fronte della pretesa inesistenza, non corretta formulazione, nonché simulazione totale del progetto, il ricorrente non abbia richiesto la violazione dell'art. 69, comma 1, d.lgs. n. 276/03, cit. In ogni caso, anche ove una simile richiesta fosse stata formulata, la stessa per il giudice meneghino avrebbe dovuto considerarsi infondata in quanto il progetto dedotto in contratto («verificare la conoscenza, la diffusione ed il posizionamento sul mercato dei propri farmaci, con conseguente necessità di realizzare uno studio che comporti la rilevazione, l'analisi e l'elaborazione dei dati relativi alle specialità farmaceutiche sul territorio nazionale») era, invece, da considerarsi specifico, ben descritto e correttamente delimitato.
È stata, piuttosto, invocata l'applicazione del comma 2 della medesima disposizione legislativa dal momento che il rapporto di lavoro si sarebbe asseritamente svolto con le modalità tipiche della subordinazione. A fronte della proposizione di un simile argomento, tuttavia, la ricorrente non ha fornito, come invece avrebbe dovuto, un'adeguata dimostrazione probatoria dell'assoggettamento del prestatore al potere direttivo (nemmeno in termini di indicazioni sulle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa), di controllo e disciplinare del datore di lavoro.
Da quanto sopra evidenziato, appare evidente che la giurisprudenza di merito, utilizzando gli strumenti precedentemente individuati in sede di applicazione dell'art. 409, n. 3, c.p.c., abbia sinora espresso un orientamento affatto restrittivo rispetto all'applicazione concreta delle norme in tema di lavoro a progetto, in tal modo supplendo alle contraddizioni in esse contenute. Dalle motivazioni delle prime tre sentenze in materia, infatti, si coglie nettamente che la categoria della subordinazione - pur a dispetto del meritevole tentativo legislativo di introdurre una regolamentazione funzionale al saldo posizionamento del contratto di lavoro a progetto nell'ambito del lavoro autonomo - continua ad assumere valore dirimente ai fini del concreto accertamento della qualificazione del rapporto di lavoro, in tal modo dimostrando l'inadeguatezza della disciplina di cui agli art. 61-69 d. lgs. n. 276, cit., ad introdurre realmente qualcosa di innovativo per «disincentivare l'abuso del lavoro parasubordinato» (12).

Autore: Dott. Mario Emanuele - pubblicato in Giust. civ. 2006, 7-8


Note:

(1) È stato rilevato (De Luca Tamajo, Dal lavoro parasubordinato al lavoro a progetto, in WP C.S.D.L.E. «Massimo D'Antona», 2003, n. 25, 14) che la fattispecie legale del lavoro a progetto sarebbe dunque stata strutturata «secondo un modello a sommatoria» di requisiti, dal momento che nello schema delle vecchie collaborazioni continuative e coordinate vengono innestati gli elementi individuati all'art. 61 d. lgs. n. 276, cit.

(2) Ichino, L'anima laburista della Legge Biagi. Subordinazione e «dipendenza» nella definizione della fattispecie di riferimento del diritto del lavoro, in questa Rivista, 2005, II, 138. L'autore, conseguentemente, conclude nel senso che «la nuova legge esclude dall'area di applicazione della disciplina del lavoro autonomo qualsiasi rapporto di collaborazione durevole che non rientri nel tipo legale così definito».

(3) Sulla quale cfr. Bausardo, Il contratto a progetto a un primo vaglio della giurisprudenza di merito, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, 849.

(4) Per un commento di questa circolare, si rinvia a Vallebona, Lavoro a progetto: incostituzionalità e circolare di pentimento, in Arg. dir. lav., 2004, 295 e a Del Punta, Co.co.co in transizione, in Lavoce.info, 22 gennaio 2004. Quest'ultimo, in particolare, ha osservato come tale circolare mandi «messaggi piuttosto netti (ma non univoci) verso l'attenuazione di alcune rigidità. Si allude soprattutto all'inattesa via di fuga legata ad una lettura dell'art. 69, comma 1, meno rigida di quella che si poteva (e si può tuttora) ipotizzare».

(5) Contestata soprattutto rispetto alla violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 cost. e dell'indisponibilità del tipo contrattuale (Vallebona, lc. cit. In proposito, è stato evidenziato (De Luca Tamajo, op. cit., 21) che, in questo caso, «a differenza di quanto sancito nel comma 2 dell'art. 69, il legislatore non si limita ad applicare il meccanismo sanzionatorio della simulazione, lasciando emergere il rapporto di fatto instaurato (subordinato o autonomo; a tempo indeterminato o a termine), ma prevede un vero e proprio effetto punitivo per il committente, costringendolo a divenire parte di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, per di più sin dall'instaurazione del rapporto. Senza dire, poi, che la coattiva qualificazione, ad opera del legislatore, in termini di subordinazione di un rapporto che non presenta affatto tale carattere potrebbe addirittura sollevare dubbi di legittimità costituzionale della norma in esame, anche in ragione dello stravolgimento imposto all'iniziativa economica privata». In proposito, il richiamo a C. cost. 31 marzo 1994 n. 115 (in Arg. dir. lav., 1995, 297 ss.) appare doveroso, dal momento che il giudice delle leggi ha, in quell'occasione, precisato in termini assolutamente chiari che «non sarebbe comunque consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinati a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l'inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall'ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato». Come è stato osservato da D'Antona (Limiti costituzionali alla disponibilità del tipo contrattuale nel diritto del lavoro, ivi, 66), infatti, «ai fini di una tale qualificazione assumono rilevanza diretta i connotati economico-sociali del rapporto che effettivamente si instaura tra le parti, quale che sia il titolo o la disciplina deliberati in astratto dal legislatore o prescelti dalle parti con la dichiarazione negoziale».

(6) Ichino, op. cit., 145. Tale tesi è stata sostenuta in passato anche da Tursi (Esorcismi tramite circolare, in lavoce.info, 22 gennaio 2004), quando ha affermato che «la lettura della legge è incompatibile con l'interpretazione ministeriale, perché la legge impone al giudice di considerare il rapporto co.co.co. senza progetto come lavoro subordinato. Si potrebbe forse sostenere che la legge si è limitata a sanzionare l'instaurazione di rapporti co.co.co. senza progetto, imponendo a questi rapporti l'applicazione della disciplina del lavoro subordinato, senza definirli come tali». Con argomentazioni diverse, ma comunque contrarie alla natura relativa della presunzione di cui all'art. 69, comma 1, d. lgs. n. 276, cit., si segnalano anche la posizione di Santoro Passarelli G., Il lavoro economicamente dipendente, in Riv. it. dir. lav., 2004, I, 563; e di Pizzoferrato, Presente e futuro del lavoro a progetto, in Lav. giur., 2004, n. 9, 838. Secondo Ichino, op. cit., 146, infine, ferme le riflessioni di cui sopra, dovrebbe concludersi nel senso che «il campo di applicazione del diritto del lavoro è esteso - di regola - ai rapporti di collaborazione autonoma continuativa a tempo indeterminato, restandone esclusi soltanto i rapporti di collaborazione autonoma "a progetto", cioè esclusivamente (e non solo formalmente) temporanei».

(7) De Luca Tamajo, op. cit., 21. Si rinvia, in proposito, supra nt. 4.

(8) Bausardo, op. cit.

(9) Interessanti, in proposito, gli spunti di riflessione offerti da Brun,Primi orientamenti della giurisprudenza di merito sul lavoro a progetto: prevale la linea «morbida», in Riv. it. dir. lav., 2006, II, n. 2.

(10) Parte della dottrina (Proia, Lavoro a progetto e modelli contrattuali di lavoro, in Arg. dir. lav., 2003, n. 3, 668 s.), infatti, ha notato come il lavoro a progetto, essendo un contratto di lavoro autonomo, «può avere ad oggetto la realizzazione di qualsiasi opera e servizio vengano svolti in modo autonomo e non subordinato. Non si riesce, quindi, a comprendere come possa essere sostenuto che, nel caso in cui il committente individui un programma o un progetto volto a esporre (o determinare o enunciare) le modalità e i termini di realizzazione di un'opera o un servizio che non siano innovativi e complessi (bensì semplici e ordinari), sia preclusa la stipulazione del contratto di lavoro a progetto».

(11) Da ultimo, Cass. 13 febbraio 2004 n. 2842; Cass. 25 ottobre 2005 n. 20659.

(12) Vallebona, op. cit., 297.