I Presupposti per la dichiarazione di fallimento

Lezione tenuta dall'Avv. Maria Luisa Contento al Corso 2002 - 2003 della Fondazione Scuola Forense Barese

1) Premessa
2) il requisito soggettivo - figure particolari di imprenditori - orientamenti giurisprudenziali
3) Il requisito temporale - la cessazione dell’impresa individuale e collettiva
4) il requisito oggettivo - stato d’insolvenza 5) la crisi d’impresa - prospettive di riforma

1 - Premessa

La procedura fallimentare ha una duplice natura sia amministrativa-pubblicistica che di esecuzione collettiva.

Il fallimento, fin dalla sua origine ( risalente al Basso Medioevo) è stato, infatti, configurato come un istituto volto alla liquidazione generale ed officiosa del patrimonio di un debitore insolvente, nell’interesse dei suoi creditori.
I creditori hanno nella procedura fallimentare una influenza determinante, ne condizionano l’avvio e la prosecuzione con ricorsi ed istanze, esprimono i loro pareri , sindacano l’operato del Giudice delegato. Sotto il profilo dell’interesse pubblico il fallimento persegue anche la finalità di liquidare aziende dissestate affinché non rechino pregiudizio ad altri organismi economici.

Esistono attualmente diverse aree normative per la regolamentazione della crisi d’impresa:

- quella del fallimento applicabile a tutti gli imprenditori commerciali che si trovino in stato di insolvenza e la cui attività non superi certe dimensioni;

- quella amministrativa riservata alle imprese di particolare rilevanza economica e sociale oppure che svolgono una specifica attività ( assicurativa, bancaria, di revisione, d’intermediazione fiduciaria e di valori mobiliari, cooperative ecc. );

- quella prevista dalle procedure concorsuali minori (concordato preventivo ed amministrazione controllata);

- quella infine privatistica nella quale sono inquadrabili i concordati stragiudiziali.

L’area fallimentare, ancorata alla disciplina del Regio decreto n. 267 del 16 marzo del 1942 , come abbiamo sopra accennato, si ispira ad una finalità liquidatoria delle imprese insolventi e ad una tutela accentuata dei diritti dei creditori, determinando altresì uno spossessamento del patrimonio del debitore.
Tale legge è stata oggetto nel corso degli anni di ripetuti interventi da parte della Corte Costituzionale - a volte abrogativi, a volte interpretativi - al fine di adeguare la predetta normativa , via via sempre più datata, al mutato contesto economico- sociale.
Il disegno di legge sulla riforma del diritto fallimentare presentato nell’ottobre 2000 e non più attuato, proponeva un radicale cambiamento di prospettiva considerando l’impresa come un bene economico da tutelare nell’interesse della collettività e del mantenimento dei livelli occupazionali, introducendo una procedura cd. "anticipatoria di crisi" ed una successiva di "insolvenza". Attualmente è istituita presso il Ministero di Giustizia una Commissione cui è affidato il compito di redigere un nuovo progetto di legge delega per una organica e completa riforma della materia.
La disamina dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, intesi come situazioni personali - patrimoniali alle quali il legislatore riconnette l’applicabilità delle norme fallimentari (Santarelli Umberto - commentario Scialoja- Branca, Fallimento art. 1-22, pg. 5) non può , quindi, prescindere da un breve excursus degli sviluppi giurisprudenziali che hanno inciso notevolmente su molteplici aspetti di tali requisiti.
Le istanze innovatrici elaborate da dottrina e giurisprudenza - già di fatto operative nella prassi di molti tribunali - hanno portato alla presentazione del disegno di legge n. 1243 ( approvato il 1 marzo 2002 dal Governo) attualmente all’esame del Parlamento che, introduce modifiche urgenti al regio decreto 267/42, che incidono - in particolare per quanto concerne l’ambito dell’odierna lezione - sulla assoggettabilità a fallimento della piccola società commerciale, sul fallimento dei soci illimitatamente responsabili di società dichiarata fallita, sul procedimento per far luogo alla dichiarazione di fallimento.

 

2. Il requisito soggettivo

Prendendo le mosse dall’art. 1 del R.D. 267/42 , vediamo che il primo presupposto per l’assoggettabilità a fallimento è costituito dal requisito soggettivo.
Recita l’Art. 1: " sono soggetti alle disposizioni sul fallimento , sul concordato preventivo e sull’amministrazione controllata gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori".
Il citato Disegno di legge n. 1243 intende abrogare il comma 2 dell’art. 1, l. fall che tratta dell’esclusione del piccolo imprenditore, argomento sul quale ci soffermeremo più avanti.
Da tale norma scaturisce una nozione di "imprenditore commerciale non piccolo" la cui esatta definizione ha dato luogo ad infinite dispute dottrinali e giurisprudenziali, stante la necessità di ricomprendere in tale ambito figure di non facile assimilazione- che in prosieguo esamineremo singolarmente - come l’imprenditore agricolo, l’imprenditore intellettuale, l’agente di commercio , il procacciatore d’affari ed altre figure minori.
Il concetto di imprenditore che esercita un’attività commerciale ( il nostro ordinamento non conosce la figura dell’insolvente "civile" ) va desunto dal codice civile e, in particolare, dal combinato disposto dall’art. 2082 Cod. civ. , che definisce l’imprenditore come " chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi" e dall’art. 2195 Cod. civ. che indica quali attività sono definibili come commerciali.

Quattro sono, quindi, a norma dell’art. 2082 cod. civ, i profili distintivi dell’imprenditorialità :

  • l’effettivo esercizio dell’attività economica : L’effettività dell’impresa (individuale) sussiste, ai fini del fallimento, quando sopraggiunge una crisi irreversibile di liquidità o produttiva dopo l’assunzione di obbligazioni contratte funzionalmente alla produzione o allo scambio.
  • l’organizzazione che viene in rilievo sia come attività di organizzazione sia come attività organizzata . Sotto il primo profilo si è posto il quesito se l’attività di organizzazione integri già attività di impresa, ovvero abbia carattere pre-imprenditoriale. La giurisprudenza si è espressa sul punto con pronunce non uniformi aderendo talora alla prima impostazione assoggettando a fallimento chi cada in dissesto nella fase organizzativa (Cass. 19 settembre 1974 n. 2460), talaltra alla seconda. In ordine al secondo profilo si pone l’accento sul fatto che l’organizzazione deve avere per oggetto il lavoro ed i fattori produttivi ( capitale e lavoro) indipendentemente dall’organizzazione del lavoro altrui, giacchè un impresa può ben sussistere anche senza dipendenti. E’ essenziale che una delle due forme organizzative si attui e si manifesti in concreto, costituendo la mancanza di dette forme il discrimine tra impresa e lavoro autonomo, ovvero lavoro professionale;
  • la professionalità, viene intesa nel senso di abitualità e sistematicità dell’attività produttiva , pur non esigendosi né che si tratti di attività esclusiva, né che vi sia svolgimento continuativo. Rientra nell’attività imprenditoriale anche l’esercizio stagionale, purchè dotato di stabilità ( stabilimento balneare, impianto sciistico, ecc.). Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che anche il c.d. unico affare, se di notevole complessità e rilevanza economica può qualificare un imprenditore (come nell’esempio assai comune dell’edificio da costruire per la rivendita delle singole unità immobiliari - l’Agenzia delle entrate con Risoluzione 7.8.02 n.273/E ha chiarito che il privato che proceda alla costruzione di box destinati alla rivendita, tramite impresa delegata in virtù di contratto d’appalto, pone in essere un’attività imprenditoriale e di conseguenza le cessioni dei box costituiscono operazioni rilevanti ai fini IVA).
  • lo scopo lucrativo non si identifica necessariamente con il profitto personale ma si estende alle utilità economiche comunque ritraibili dalla produzione o dallo scambio, e si concreta nel metodo economico di gestione ( la copertura dei costi con i ricavi) ovvero nell’obiettiva idoneità dell’impresa a produrre un reddito a prescindere dal fatto che il profitto sia realmente conseguito o destinato a fini lucrativi o altruistici. Non è imprenditore, perciò, un soggetto che vende sottoprezzo (od a "prezzo politico") i propri beni o servizi, escludendo, a priori, la possibilità di coprire i costi con i ricavi.

Economicità è produrre in condizioni almeno di pareggio del bilancio (secondo una valutazione ex ante): l’attività produttiva, infatti, deve creare non solo beni e servizi, ma valore aggiunto e ricchezza, alimentandosi con i suoi stessi ricavi e non comportare erogazione a fondo perduto ( F. GALGANO, L’imprenditore, Zanichelli, Quarta edizione, 1992, pag. 24.).
Molte discussioni riguardano lo scopo finale dell’attività: è controverso se lo scopo di lucro (cioè l’intento di conseguire un profitto personale) sia o meno un requisito essenziale per l’acquisizione della qualità d’imprenditore da parte di un soggetto che intraprenda un’attività economica. In discussione non è lo scopo che normalmente spinge un imprenditore a svolgere un’attività produttiva (cioè la realizzazione del massimo profitto), ma se la mancanza di questo possa far perdere al soggetto la qualifica d’imprenditore. E se per scopo lucrativo s’intende il puro movente psicologico soggettivo dell’imprenditore, la risposta deve essere negativa. ( Quindi un’attività può essere "economica" anche se non improntata al fine di lucro, così G. F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale - 1 diritto dell’impresa, UTET, 1997, 3a edizione, pag. 35.)
L’impresa, per la scienza economica, è l’attività economica, organizzata dall’imprenditore per la produzione di beni o servizi. Abbiamo visto che è imprenditore, in senso proprio, chi intraprende, ossia da inizio ad un’attività produttiva, mettendo assieme fattori produttivi prima separati, facendoli interagire ed ottenendo il prodotto. Imprenditore è quindi colui che svolge una funzione d’intermediario tra chi dispone dei fattori produttivi e chi domanda prodotti finiti o servizi.
Nello svolgimento di tale funzione, l’imprenditore coordina tutti i fattori produttivi tramite le proprie direttive e le proprie scelte economiche, assumendo così la funzione organizzativa e sottoponendosi, in prima persona, al rischio d’impresa (rischio che cioè – nonostante le previsioni - i costi sostenuti non siano coperti dai ricavi realizzati). A norma dell’art. 2086 Cod. civ. l’imprenditore è infatti " il capo dell’impresa, da lui dipendono gerarchicamente i collaboratori".
Questo, porta, poi, l’imprenditore ad acquisire l’eventuale profitto generato dalla propria gestione, e il conseguimento del massimo profitto è il fine lucrativo, anche soggettivo, dell’impresa.
È necessario ricordare, a questo punto, anche il significato economico e giuridico d’azienda, che è l’organismo elementare del sistema economico, sinonimo, anche, di organizzazione economica. Infatti l’art. 2555 Cod. civ. la definisce come "complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa". L’economicità è la condizione di funzionamento dell’azienda che ha come elementi distintivi la "durabilità" e la "autonomia". "L’azienda, per essere ordine economico istituito deve essere duratura, deve cioè svolgersi secondo condizioni di vita e di funzionamento tali da consentire di durare nel tempo in un ambiente mutevole". Tuttavia "non è sufficiente che l’azienda duri nel tempo, occorre anche accertarsi che non si manifesti un sistematico ricorso a interventi di sostegno o di copertura delle perdite da parte di altre economie". Così l’azienda deve essere in grado di provvedere con la propria attività al proprio sostentamento (CARLO BIANCHI - Le prospettive di riforma della legge fallimentare).

Per concludere il discorso sull’imprenditore ricordo che quello definito dall’art. 2082 c.c. non è solo l’imprenditore privato, ma anche quello pubblico , come si desume dagli articoli 2093, 2201 e 2221 relativi alle imprese esercitate da enti pubblici, ma ricordo che a norma dell’art. 1 L.F., gli enti pubblici non sono assoggettabili a fallimento.

Le attività commerciali

L’art. 2195 cod. civ. suddivide le "attività commerciali" , in cinque categorie : 1) attività "industriale" , diretta alla produzione di beni e servizi; 2) attività intermediaria nella circolazione dei beni; 3) attività di trasporti per terra, acqua o per aria, 4) attività bancaria o assicurativa, 5) altre attività ausiliarie alle precedenti. A tali categorie si applicano le disposizioni di legge che fanno riferimento ad attività e imprese commerciali.
Il fine della produzione o dello scambio , cui l’attività deve essere preordinata, caratterizza l’imprenditore distinguendolo dal mero commerciante o uomo d’affari , dell’abrogato codice di commercio ed identificandolo sempre più con il produttore cioè: "colui che , professionalmente, produce beni o servizi o si interpone nello scambio dei beni, ossia svolge un’attività creativa di ricchezza" (Galgano Francesco , op. cit., p. 53). Tale norma, rispetto alla definizione di cui all’art. 2082, pone pertanto l’accento sul carattere "industriale" dell’attività. Le società, quando abbiano per oggetto sociale un’attività compresa tra quelle indicate dall’art.2195 c.c., sono istituzionalmente imprenditori commerciali posto che il concetto base che qualifica l’imprenditore commerciale è lo scopo di lucro.
Il primo comma dell’art. 2195 c.c. stabilisce, inoltre, che gli imprenditori che esercitano le attività in esso elencate sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese.
L’iscrizione al registro delle imprese non è, però, costitutiva della qualità di imprenditore commerciale. Possono essere, infatti, imprenditori commerciali anche soggetti (non iscritti al registro delle imprese) la cui attività, tuttavia, rientri o sia assimilabile a quelle regolate dal 2195 cod. civ. Così, per esempio, è fallibile, in quanto imprenditore commerciale, pure chi di fatto gestisce un ristorante anche se la licenza è intestata a un altro soggetto.
L’esistenza del presupposto soggettivo viene, tuttavia, abitualmente fornita con l’iscrizione alla Camera di Commercio, certificazione che il creditore deve allegare al ricorso per dichiarazione di fallimento.
La fallibilità è di norma esclusa se l’imprenditore risulta iscritto alla sezione dei piccoli imprenditori o all’albo delle imprese artigiane (attribuendosi a tale iscrizione un valore di presunzione relativa, che può essere confutata dal creditore con prove contrarie da ricavarsi dal volume d’affari , dai mezzi impiegati, dal reddito del titolare ecc.).

Il piccolo imprenditore e la piccola società commerciale; l’artigiano e la società artigiana.

L’art. 1 l.f., nel secondo comma, stabilisce limiti quantitativi alle dimensioni del piccolo imprenditore rinviando a quanto stabilito per l’assoggettamento all’imposta di ricchezza mobile ed in subordine al tetto rappresentato dalle novecentomila lire di capitale investito nell’azienda.
Il primo criterio era venuto meno per effetto della soppressione dell’imposta di ricchezza mobile a seguito della riforma tributaria del 1973; il secondo era caduto per effetto della pronuncia 570/89 della Corte costituzionale che aveva considerato anacronistiche le novecentomila lire ( mai adeguate nonostante l’inflazione), con il risultato che la norma non realizzava più le finalità che l'avevano determinata e la sua applicazione sul piano pratico produceva disparità di trattamenti ed appariva affetta da illogicità ed irrazionalità.
Caduti questi limiti, la nozione di piccolo imprenditore era data dall’art. 2083 c.c., norma che, nel fare riferimento al coltivatore diretto del fondo, all’artigiano ed al piccolo commerciante, forniva una definizione di carattere generale affermando la qualità di piccolo imprenditore per coloro che esercitassero un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.
Per uno dei tipi nominati di piccolo imprenditore, l’artigiano, la legislazione speciale fornisce una disciplina diversa e più ampia, estesa anche alle società artigiane, dapprima solo di persone, ma più di recente anche di capitali.
Rimane pertanto l’ultimo inciso del secondo comma dell’art. 1 L.F., che afferma che in nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali.
La Corte costituzionale aveva mostrato di ritenere con la sentenza 570/89 che la nozione di piccolo imprenditore ed i limiti all’assoggettabilità a fallimento dovessero essere legati all'oggetto dell'attività d'impresa, all'organizzazione, alle dimensioni raggiunte e, da ultimo, alle ripercussioni che il dissesto produce nell'economia in generale, onde evitare di mettere in moto una macchina complessa e costosa, qual è la procedura concorsuale, quando non ne vale la pena.
Le successive decisioni in materia di impresa artigiana e di piccola società commerciale avevano però seguito un orientamento differente.
La Corte costituzionale ha dato risposte differenziate alle questioni di legittimità costituzionale dell'ultimo inciso dell'art. 1, comma 2, l.f. sollevate con riferimento sia alla fallibilità della società artigiana che della piccola società commerciale.
Con due sentenze pronunciate nello stesso anno , a distanza di pochi mesi (6 febbraio 1991 n. 54 e 23 luglio 1991 n. 368), esclusa sempre la sussistenza di una violazione dei principi costituzionali, affermava l'intervenuta abrogazione dell'inciso in esame per quanto concerneva le società artigiane e la sua perdurante vigenza per le piccole società commerciali.
In sostanza, per effetto della scelta interpretativa effettuata dalla Corte, da un lato era possibile ritenere sussistente una piccola società artigiana, come tale sottratta al fallimento in ragione del suo carattere artigiano e dell’interpretazione abrogativa dell’ultima parte dell’art. 1, comma 2, l.fall. e dall’altro doveva (e tuttora deve) ritenersi valido, con riferimento alla piccola società commerciale, il principio secondo il quale in nessun caso una società commerciale può essere considerata piccolo imprenditore.
L’artigiano, individuale o societario, viene pertanto riconosciuto dal giudice fallimentare in relazione al dato qualitativo della modalità di produzione, a seconda che ad essa (ed al relativo utile d’impresa) concorra preminentemente l’apporto di mezzi di capitale o di lavoro ( dei titolari, anche soci e dei dipendenti) in una valutazione condotta alla stregua della legge speciale in materia (L. 443/1985 art. 3).
Quest’ultima fissa, tuttavia, i criteri cui le regioni devono attenersi nell’adozione di provvedimenti per la tutela e lo sviluppo dell’artigianato in relazione ai benefici fiscali, creditizi ecc. previsti per le imprese iscritte , e pertanto la Cassazione (Sez. I, sentenza 29 maggio 2000 n. 7065 e 22 settembre 2000 n. 12548) ha più volte puntualizzato che "ai fini della definizione della natura di impresa artigiana, la legge 443/1985 detta i criteri ai quali occorre far riferimento per l'ammissione della stessa impresa al godimento delle provvidenze previste dalle singole leggi regionali; tali criteri, tuttavia, non assurgono a principi generali idonei a sovrapporsi alla regolamentazione codicistica prevista dall'articolo 2083 del cod. civ.".
Pertanto, le società artigiane vengono esonerate dal fallimento fino a che le loro dimensioni restano modeste, l’organizzazione non si converte in quella tipica di una vera e propria impresa commerciale o industriale , e il guadagno non diventa profitto.
La razionalità della differenziazione del piccolo imprenditore individuale, rispetto alle società, anche se di modeste dimensioni, poggia per queste ultime sulla presunzione di speculazione e profitto che ne determina la costituzione (Trib. Torino 28 settembre 2000, in Il Fallimento 4/01 pg. 279).
Come brillantemente ha esposto Luciano Panzani nel suo recente articolo " la miniriforma della legge fallimentare" ( Il Fallimento n. 5/02 pg. 469 e seg.) "Non restava che prendere atto della scelta della Corte, pur se sembrava inspiegabile come il panettiere (imprenditore artigiano) e il commerciante di alimentari (imprenditore commerciale) fossero esonerati dal fallimento se esercitavano l'attività da soli, mentre se per sventura avessero deciso di costituire una società in nome collettivo con la moglie, la scure del fallimento si sarebbe abbattuta solo sul secondo".
L’abrogazione dell’art. 1, comma 2, L.F. prevista dal disegno di legge 1243, risolverà il problema alla radice.
Cadranno non soltanto i limiti quantitativi della nozione di piccolo imprenditore, ma anche la previsione che la società commerciale non possa mai essere considerata un piccolo imprenditore.
Al giudice di merito sarà, quindi, riservato il non facile compito di riempire di contenuti la definizione contenuta nell’art. 2083 c.c. secondo criteri che non potranno non essere comuni all’imprenditore individuale ed all’imprenditore collettivo.

L’imprenditore agricolo

La sottrazione alle procedure concorsuali delle imprese agricole trova ragione nel collegamento con la coltivazione del fondo e nel criterio "dell’esercizio normale dell’agricoltura". Il privilegio si fonda sul doppio rischio assunto dall’imprenditore agricolo, esposto alle incertezze dell’ambiente naturale (c.d. rischio biologico) prima che a quelle del mercato.
Esaminiamo la figura dell’imprenditore agricolo disciplinata dall’art. 2135 Cod. civ., come modificato dal decreto lgs. 18.5.2001 n. 228 : "è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali ed attività connesse".
Si intendono per tali "le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque…" , e, comunque connesse le attività "… dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o di servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale…".
Sempre ai sensi della normativa richiamata (art. 10), "si considerano imprenditori agricoli le cooperative di imprenditori agricoli … quando utilizzano per lo svolgimento delle attività di cui all'art. 2135 c.c., come sostituito dal comma 1 del presente articolo, prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico".
Come evidentemente emerge dal testo sopra richiamato, la nuova disciplina considera agricola la coltivazione del fondo, la silvicoltura, l'allevamento di animali ove - senza che sussista un necessario collegamento con il fondo, il bosco o le acque - siffatte attività siano rappresentate dalla cura e sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale.
Non vi è dubbio che la adozione del criterio della cura e dello sviluppo di un ciclo biologico, animale o vegetale, costituisce il principale elemento innovativo della nuova formulazione dell'art. 2135 c.c.
Pertanto la nuova definizione elimina tutti i possibili dubbi del passato circa l'agrarietà di determinate coltivazioni in serre o capannoni, o ancora di quelle fuori terra di ortaggi o frutta, aeroponiche o idroponiche, della coltivazione al chiuso di funghi o della floricoltura effettuata mediante l'utilizzo di serre coperte o scoperte, riscaldate o no (già in passato, sul carattere agricolo di tale ultima attività, cfr. Cass. 24 luglio 1996, n. 6662 in Giur. It., 1997, I, 1, 298; App. Catanzaro 12 luglio 1995 in Riv. Not. 1996, 971; Trib. Forlì 15 febbraio 1997 in Il Fallimento 1997, 634).
L'ancoraggio della nozione di attività agricola al criterio del ciclo biologico, animale o vegetale, ha determinato, in certa misura, il superamento dell'orientamento - prevalente prima dell'attuale riforma - secondo il quale con i termini di coltivazione del fondo, silvicoltura ed allevamento del bestiame si enunciava un preciso collegamento tra l'attività agricola e la terra, sostenendosi, da questo filone interpretativo, che qualunque attività agricola per essere tale doveva comunque essere collegata allo sfruttamento del fondo.
Secondo tale impostazione numerose pronunce avevano affermato che "non è imprenditore agricolo chi gestisce un vivaio e coltivi piante, fiori ornamentali e frutta per la successiva vendita" (cfr. Trib. Roma 2 aprile 1991 in Il Fallimento 1991, 1199) e "l'esercizio dell'attività di vivaista diretta alla coltivazione e vendita di piante e fiori rientra in quella agricola solo se risulti connessa alla coltivazione del fondo e comunque sia ad essa complementare" (cfr. Trib. Roma 15 aprile 1993 in Il Fallimento 1993, 1073).
Tuttavia, come attentamente osservato da dottrina assai autorevole, negli ultimi tempi la spinta ad accantonare la centralità dell'elemento fondiario nella produzione agricola è sembrata sempre più forte a fronte della diffusione di nuove forme di attività collaterali e complementari a quella dell'imprenditore agricolo, quali le imprese di servizi e la nascita di imprese operanti nel 'comparto' agrario che, in assenza del collegamento del fondo, non erano riconducibili alla nozione civilistica di impresa agraria presupposta a suo tempo dal legislatore al fine di ottenere i vantaggi dell'esclusione del fallimento e della tenuta delle scritture contabili.
Di qui la nascita di un nuovo filone interpretativo che, pur riconoscendo la necessità del collegamento col fondo, giustificava in parte la specificità dello statuto dell'imprenditore in funzione del duplice rischio economico ed ambientale gravante sull'impresa agraria. Il successivo allargamento della definizione dei confini della materia agricola rispetto alle enunciazioni dell'art. 2135 c.c. è intervenuto con i Regolamenti CE, nei quali si è ipotizzata una nozione estremamente ampia di imprenditore agricolo comprendente, ad esempio, anche chi esercita la pesca, e con le leggi speciali come ad esempio:

  • la l. 3 maggio 1971 n. 419 art. 2 che, in applicazione di regolamenti comunitari, ha disciplinato i titolari di imprese avicole;
  • la l. 5 febbraio 1992 n. 102 che considera agricola "la produzione di proteine animali in ambiente acquatico mediante il controllo, parziale o totale, diretto o indiretto, del ciclo di sviluppo di organismi acquatici;
  • la l. 23 agosto 1993 n. 349 che considera agricola l'attività diretta all'allevamento di razze canine a determinate condizioni quantitative;
  • il d.p.r. 30 giugno 1965 n. 1124 art. 206 che considera agricole le attività di allevamento di "specie suinicole, avicole, cunicole, itticole, dei selvatici a scopo alimentare e quelle attinenti all'apicoltura, bachicoltura e simili).

Il definitivo superamento della nozione tradizionale è intervenuto con il richiamato decreto legislativo n. 228 del 2001 che pone a centro della nozione di imprenditore agricolo l'esercizio di attività "dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico" (o di una sua fase necessaria) "che utilizzano o possono utilizzare" il fondo, il bosco o le acque.
Due appaiono adesso -in definitiva- gli elementi costitutivi della nozione giuridicamente rilevante dell'attività agricola:
- il ciclo biologico, che va inteso come il complesso di attività dirette al mantenimento o all'evoluzione di una specie vegetale o animale;
- l'utilizzo del fondo, quale strumento, effettivo o solamente potenziale, per l'esercizio di tale attività.
(Fatta quest’ampia ricostruzione in diritto il Tribunale di S. Maria C.V. sezione fallimentare - con Decreto 9 aprile 2002 - Rel. Ceniccola , ha ritenuto che tali elementi siano contemporaneamente presenti nel tipo di attività concretamente esercitata dalla società resistente nel caso esaminato, giacchè la floricoltura:
- ha come oggetto uno specifico ciclo biologico, ossia la coltivazione di fiori (e di piante in genere);
- utilizza il fondo non solo in modo effettivo (tenendo conto, in una logica atomistica, della porzione di terreno necessaria per effettuare l'implantazione) ma anche potenziale (considerando la possibilità di effettuare trapianti dal o nel fondo, operazione che può addirittura rendersi necessaria quando, a fronte di cicli biologici in fase avanzata, le esigenze di mantenimento della specie vegetale impongono l'utilizzo diretto del fondo)
- sotto il profilo soggettivo, poi, nessun ostacolo pone, alla ritenuta qualificazione in termini di imprenditore agricolo, la forma di ente cooperativa, poiché l'art. 1 co. 2 del d. lgs. n. 228/01 espressamente riconosce la natura agricola delle cooperative di imprenditori agricoli quando utilizzano per una qualsiasi attività indicata dall'art. 2135 c.c. prevalentemente prodotti dei soci "ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla cura e allo sviluppo del ciclo biologico" ).

Il professionista intellettuale

Il professionista intellettuale (si debba o meno iscrivere a determinati albi) e l’artista sono anch’essi destinatari di un regime esonerativo, posto dall’art. 2238 c.c. pur potendo presentare i tratti soggettivi astrattamente già propri dell’art. 2082 c.c.
L’enfatizzazione della componente intellettuale e della prestazione solo di mezzi e non di risultato non esaurisce la portata eccettuativa fissata in via legale allorché l’art. 2238 c.c. configura l’attività professionale quale possibile elemento di "un’attività organizzata in forma d’impresa" con la relativa applicazione delle norme dettate per l’imprenditore.
Il rischio, pur mancando una retribuzione connessa al risultato, non può dirsi estraneo ad una nozione che individui nella mera erogazione di un servizio gli aspetti di compiutezza di una attività economica ben configurabile per altre imprese: la creazione di un software , l’assistenza on line in via telematica, l’aggiornamento di banche dati, hanno da tempo manifestato la ricorrenza di modalità erogative di servizi retribuiti con parametri di continuità temporale più che di ottenimento di risultati, appartenendo la loro coordinazione solo al merito delle scelte di gestione interne all’impresa stessa. E’ quindi ipotizzabile una sovrapposizione della qualità imprenditoriale sull’esercizio della professione (ad es. medico che organizza l’erogazione di servizi sanitari propri ed altrui ai degenti di una casa di cura).
Nei casi di professioni non protette che sfuggano agli elementi di valorizzazione esclusivamente "personale" del lavoro, il prestatore non fruisce di un doppio status, bensì di una compiuta attrazione nell’alveo della comune nozione d’impresa: il dato organizzativo individuale o societario emerge quale opzione per un modello di prestazione (contratto d’appalto) o di conferimento (servizio) che fa perdere al professionista intellettuale o all’artista ogni onere o privilegio.
Infine segnalo brevemente che l’esempio classico dell’agente di cambio, disciplinato dall’art. 4 L.F. ha perso d’attualità, essendone prevista l’ abrogazione dall’art. 2 del disegno di legge 1243. La norma da un lato considerava il fallimento dell’agente di cambio; dall’altro rinviava alla legge speciale per il c.d. fallimento fiscale.
Entrambi i due istituti sono superati. Per il primo la nuova disciplina degli intermediari finanziari e la previsione per le società di gestione di valori mobiliari della procedura di liquidazione coatta amministrativa rendeva superflua la previsione normativa (anche se l’art. 60 del disegno di legge detta una norma transitoria per gli agenti di cambio tuttora iscritti ad esaurimento nel ruolo unico nazionale secondo il t.u.f. 58/1998); per il secondo già era intervenuta la Corte costituzionale dichiarando l’illegittimità dell’istituto che faceva seguire il fallimento al mancato pagamento dell’imposta, anziché alla sussistenza dello stato d’insolvenza.


3) Il requisito temporale - L’Imprenditore cessato o defunto

L’art. 10 L. F. dispone che "l’imprenditore che, per qualsiasi causa, ha cessato l’esercizio dell’impresa può essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell’impresa, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo".
Il termine annuale di cui alla norma in esame costituisce un limite oggettivo alla dichiarazione di fallimento ( la cui pronuncia per la prevalente giurisprudenza deve essere depositata prima della scadenza del termine stesso). Consideriamo qui l’imprenditore individuale , mentre per l’ impresa collettiva vedremo in seguito gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 319/00.
Il problema si pone per l’individuazione del momento in cui si ha la cessazione dell’attività.
Pur non essendoci per la ditta individuale una fase di liquidazione , l’esercizio dell’impresa non potrebbe dirsi cessato ( vedi Cass. 4599/89) quando l’imprenditore compia operazioni intrinsecamente identiche a quelle normalmente poste in essere nell’esercizio dell’impresa, ovvero tali da rivelarsi come manifestazioni di un’attività economica, ancorché svolta esclusivamente in funzione della disgregazione dell’azienda (ad esempio eliminazione delle scorte di magazzino, recupero crediti ecc).
In sostanza per non procedersi alla dichiarazione di fallimento il ritiro dal commercio deve essere effettivo, completo e definitivo.
Tra i fatti che lasciano presumere, sia pure in modo non assoluto, la cessazione dell’attività sono annoverati la denuncia di cessazione alla Camera di Commercio e la cessione della licenza di esercizio. Ma il debitore può dimostrare, anche in mancanza di tali dati formali, la cessazione di fatto dell’attività ( mancanza di acquisto di beni necessari all’esercizio dell’impresa, pignoramento dei beni aziendali ecc. e, viceversa, il creditore può fornire la prova che nonostante la dichiarata cessazione il debitore abbia di fatto continuato ad operare).
L’art. 11 L. F. consente l’accesso alla procedura concorsuale anche se il titolare dell’impresa è defunto, mentre il limite dell’anno si aggiunge a quello già individuato dall’art. 10 L. F. per la cessazione dell’esercizio dell’impresa.
La decorrenza del termine comincia dal materiale esaurimento delle operazioni connotanti la fine dell’esercizio dell’impresa ovvero dalla data della morte e, in caso di decesso posteriore alla cessazione dell’iniziativa economica, non si ha alcuna causa sospensiva del termine, anzi, per il rispetto dell’anno, si computa tutto il periodo già seguito al primo evento.
La dichiarazione di fallimento è pronunciata nominativamente a carico del fallito defunto ed esige l’esclusione, nei suoi confronti, delle cause esonerative soggettive quale il carattere di piccolo imprenditore commerciale.
Occorre inoltre che la manifestazione dell’insolvenza (requisito oggettivo, che esamineremo in prosieguo ) si sia avuta entro l’anno dalla morte e sia riferibile esclusivamente ad obbligazioni già proprie dell’organizzazione dell’impresa del defunto.
La previsione di un possibile fallimento dell’imprenditore deceduto attesta la relativa ultrattività delle norme concorsuali che , rinvenendo nel solo limite temporale la preclusione alla dichiarazione, confermano l’esigenza pubblicistica di attuare anche in via esecutiva la garanzia sul compendio patrimoniale già aggregato attorno all’impresa, secondo la concezione "economica" dell’imprenditore commerciale offerta dall’art. 2082 c.c che abbiamo sopra ricordato.

Il fallimento delle società e del socio illimitatamente responsabile. Il termine dell’anno per la dichiarazione di fallimento a seguito della sentenza della Corte Costituzionale N. 319 del 2000.

Abbiamo già accennato al fatto che le società in qualsiasi forma costituite (anche semplici o di fatto), quando abbiano per oggetto sociale un’attività compresa tra quelle indicate dall’art.2195 c.c. , sono iuris et de iure ritenute imprenditori commerciali e sono, quindi, assoggettabili alle procedure concorsuali.
Una recente pronuncia della Cassazione (Sez. I 26 giugno 2001, n. 8694 in il Fallimento pg. 603 n. 6/02) ha ribadito che "le società costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un’attività commerciale sono assoggettabili al fallimento indipendentemente dall’effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione e non dall’inizio del concreto esercizio dell’attività d’impresa, al contrario di quanto avviene per l’imprenditore commerciale individuale. Sicchè, mentre quest’ultimo è identificato dall’effettivo esercizio dell’attività, relativamente alle società commerciali è lo statuto a compiere tale identificazione, realizzandosi l’assunzione della qualità in un momento anteriore a quello in cui è possibile per l’impresa non collettiva stabilire che la persona fisica abbia scelto, tra i molteplici fini potenzialmente raggiungibili, quello connesso alla dimensione imprenditoriale".
Tale orientamento è pacifico in giurisprudenza ed è condiviso dalla prevalente dottrina. E’ del tutto irrilevante, quindi, l’eventuale mancato esercizio dell’attività commerciale indicata nell’atto costitutivo, una volta che la società è sorta ed esiste (fino a modifica statutaria) per quel fine.
Solo per le società irregolari, rispetto alle quali manca un’espressa manifestazione dell’intento di perseguire il fine dell’esercizio abituale di un’attività commerciale, il momento di rilevanza giuridica per il sorgere dello status di imprenditore commerciale torna a cadere nel momento in cui la società inizia in concreto ad operare per il perseguimento di quel fine.
In tema di società di fatto, ancora una volta la Cassazione ci viene a precisare che per la configurabilità della responsabilità delle persone o dell’ente, anche in sede fallimentare, non è necessaria la prova dell’esistenza della società , essendo sufficiente la cosiddetta "apparenza della società" ossia il comportamento di due o più persone che, pur non essendo legate da vincoli sociali, operano nel mondo esterno in modo da generare il convincimento che esse agiscono come soci (Cass. Civ. sez. I 22 marzo 2001 n. 4089 in Il fallimento 2/02 p. 151).
Tuttavia mentre la sussistenza di una società di fatto postula, nei rapporti interni tra le parti, l’esistenza di un fondo comune costituito dai conferimenti destinati all’esercizio congiunto di un’attività economica, la partecipazione all’alea dei guadagni e delle perdite e l’affectio societatis , detta attività nei confronti dei terzi è costituita dall’esteriorizzazione del vincolo sociale, indipen-dentemente dall’oggettivo riscontro della stipulazione e della operatività di un patto sociale.  Si richiede , ai fini della responsabilità nei confronti dei terzi e dell’assoggettamento a procedure concorsuali , che l’operare di due o più persone nel mondo esterno sia tale da giustificare l’opinione che esse siano legate da un vincolo sociale (c.d. società apparente). Viene ritenuto, in particolare, che prestazioni di finanziamenti, garanzie, ed altre consimili attività di sostegno economico possano venire in considerazione quali elementi sintomatici in sede di formazione del convincimento circa la sussistenza di una società di fatto, se ed in quanto essi si risolvano in una sistematica opera di concorso al raggiungimento di uno scopo d’impresa che non trovi apprezzabile giustificazione in un elemento psicologico di diversa natura quale quello correlato alla solidarietà famigliare.
La giurisprudenza esclude la configurabilità di una società di fatto tra società di capitali e persone fisiche in quanto incompatibile con la radicale differenziazione, nella natura e nella struttura, tra le società personali e le società di capitali. Viene del pari escluso che soci di fatto possano coesistere, in seno alla società di capitali, con i soci risultanti dall’atto costitutivo e dalle successive formali modificazioni della compagine sociale.

Fatte queste premesse, vediamo, sul piano operativo, che le società sono sottoposte al fallimento con le modalità stabilite dagli art. 146 e ss. L.F.
In particolare l’art. 147 dispone che la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili.
Il disegno di legge n. 1243 interviene su tale disciplina con modifiche di rilievo. L’art. 41 prevede la modifica dell’art. 147 L.F. limitando espressamente il fallimento del socio illimitatamente responsabile al caso che si tratti di socio di società di persone, ancorché irregolare, stabilendo un termine finale per far luogo al fallimento (coincidente con l’anno dalla morte o dall’iscrizione nel registro delle imprese della cessazione della qualità di socio illimitatamente responsabile) regolando, altresì, il procedimento per far luogo all’estensione.
La giurisprudenza è già prevalentemente orientata nel senso di escludere il fallimento del socio illimitatamente responsabile di società di capitali, vale a dire dell’azionista unico o del quotista unico di s.r.l. nei casi in cui gli sia applicabile la disciplina della responsabilità illimitata. Ciò sulla base del principio per cui a differenza del socio di società di persone, qui la responsabilità illimitata non aveva carattere ontologico, ma era riferibile al solo periodo in cui l’azionista o quotista unico avesse avuto la titolarità esclusiva dell’intero capitale sociale ed era destinata a venir meno sol che venisse ripristinata la pluralità dei soci. Maggiori dubbi sussistevano per il socio accomandatario di s.a.p.a., mentre per il socio illimitatamente responsabile di società cooperativa era prevista una diversa disciplina (artt. 151 e 211 L.F.).
La soluzione prescelta dal Disegno di legge è legittima per Panzani , con riferimento all’azionista o quotista unico, soprattutto in un sistema legislativo che ormai ammette, almeno per la s.r.l. ed in attuazione di una direttiva europea, la possibilità che la società sin dall’inizio nasca con socio unico e con il beneficio della responsabilità limitata (l’estensione del principio all’accomandatario della società in accomandita per azioni , figura a dire il vero ben poco frequente nella pratica, appare più discutibile).
La nuova disciplina del termine finale per l’estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile costituisce applicazione del principio affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza del 21 luglio 2000 n. 31. La Corte, richiamando la sentenza n. 66 del 1999, ha osservato che, così come l'assoggettabilità a fallimento dell'imprenditore cessato o defunto postula, in applicazione del generale principio di certezza delle situazioni giuridiche, la fissazione di un limite temporale entro cui debba seguire la dichiarazione di fallimento - limite fissato, come abbiamo visto, negli artt. 10 e 11 della legge fallimentare in un anno dalla cessazione dell'impresa (o dalla morte dell'imprenditore) - analogamente, ed a maggior ragione, deve essere circoscritta entro un prestabilito limite temporale l'ammissibilità del fallimento dell'ex socio, la cui sottoposizione alla procedura fallimentare prescinde del tutto dalla sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5 della legge fallimentare, che vanno accertati solo nei confronti della società.
La Corte ha ritenuto innanzitutto fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge fallimentare, sollevata dal Tribunale di Bologna. Il termine annuale, previsto da tale norma, oltre il quale non può darsi declaratoria di fallimento decorre, nel caso di impresa collettiva, non già dalla cessazione dell'attività o dallo scioglimento della società medesima, bensì dal compimento della fase liquidatoria, che non coincide con la chiusura formale della liquidazione ma con la liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, sicché questa si considera esistente, e dunque assoggettabile a fallimento, finché rimangono rapporti, attivi o passivi, da definire. La Corte ha, tuttavia, riconosciuto che la norma stessa, così interpretata, risulta sostanzialmente inapplicabile, atteso che il termine di un anno entro il quale può essere dichiarato il fallimento della società, nonché il fallimento in estensione dei suoi soci illimitatamente responsabili, inizierebbe a decorrere solamente dal momento in cui, essendo stato definito ogni rapporto passivo che fa capo alla società stessa, non potrebbe nemmeno ipotizzarsi l'esistenza dello stato di insolvenza, costituente il presupposto della dichiarazione di fallimento. I supremi giudici hanno inoltre precisato che pur rientrando nella discrezionalità del legislatore individuare diversamente, per l'impresa individuale e per quella collettiva, il dies a quo del termine entro il quale il fallimento dev'essere dichiarato dopo la cessazione dell'impresa, questa discrezionalità trova un limite nel principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., il quale postula che la norma con la quale viene fissato un termine non sia congegnata in modo tale da vanificare completamente la ratio che presiede alla fissazione di quel termine, rendendolo così del tutto inutile. La Corte aveva già affermato nella sentenza n. 66 del 1999 che il generale principio di certezza delle situazioni giuridiche - in considerazione delle conseguenze che discendono dalla declaratoria di fallimento, non solo per chi ne è colpito ma anche per i terzi che con lui siano entrati in rapporto - impone che l'ammissibilità del fallimento dell'ex socio sia ristretta entro un congruo limite temporale, così come previsto, in ragione di una identica esigenza, dagli artt. 10 e 11 della legge fallimentare per il fallimento dell'imprenditore deceduto o che abbia cessato l'attività di impresa.
Tale affermazione è stata ulteriormente precisata nella sent. 319 del 2000 con riguardo all'ipotesi di fallimento del socio che abbia perso la responsabilità illimitata a seguito di trasformazione del tipo sociale - riconoscendosi la necessità di un limite temporale alla assoggettabilità al fallimento del socio di società commerciale, allo stesso modo e per le medesime ragioni già illustrate nella sentenza n. 66 del 1999, in tutti i casi di perdita, per qualsiasi causa, della responsabilità illimitata.
La Corte Costituzionale ha, pertanto, dichiarato:
- l'illegittimità costituzionale dell'art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui non prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell'esercizio dell'impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorra dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese;
- l'illegittimità costituzionale dell'art. 147, primo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui non prevede che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata di società fallita possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata.
Con tale pronuncia la coincidenza del dies a quo dello scioglimento del rapporto con la venuta meno in sé del socio di fatto dalla compagine (cioè da una società che aveva scelto di non ricorrere alla pubblicità legale) equivale ad una netta scelta di campo: la tutela dell’esposizione temporalmente limitata della fallibilità del socio prevale sull’esigenza di affidamento dei terzi, essenzialmente fondata sui meccanismi di efficacia che i fatti interni all’impresa acquistano solo se iscritti nel registro delle imprese o altrimenti resi conoscibili.
Il disegno di legge prevede, a garanzia dei terzi, che il dies a quo del termine annuale coincida con la data dell'iscrizione nel registro delle imprese dell'atto che produce la perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile, data dalla quale l'atto diviene opponibile ai terzi (artt. 2193 e 2300 c.c.). Si tratta di un’opzione che appare ragionevole sul piano dell’interpretazione, tanto più che, come ricorda la Relazione al disegno di legge, l'art. 23, comma 2, del d. lgs. 270/1999 nell’ipotesi dell’ amministrazione straordinaria delle grandi imprese prevede un principio del tutto analogo riguardo all'estensione ai soci illimitatamente responsabili degli effetti della dichiarazione dello stato di insolvenza della società.
Le altre modifiche proposte dal D.L. 1243 al procedimento previsto per far luogo all’estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile costituiscono anch’esse attuazione di principi affermati da molto tempo dalla Corte costituzionale (Corte costituzionale 27 giugno 1972, n. 110, in Foro It., 1972, I, 1902; Corte cost. 16 luglio 1970, n. 142, in Giur. It., 1970, I, 1, 1591; Corte cost. 28 maggio 1975, n. 127, in Giust.civ., 1975, III, 290) in ordine al diritto del socio di essere sentito in camera di consiglio a sua difesa prima dell’apertura della procedura concorsuale ed in ordine al diritto del fallito di chiedere egli stesso l’estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili (l’ipotesi ricorrente è quella del fallimento di imprenditore individuale che in realtà cela la sussistenza di attività d’impresa svolta in forma societaria) e di impugnare l’eventuale provvedimento negativo reso dal tribunale. Viene codificata anche la legittimazione del creditore a domandare l’estensione del fallimento.

Per quanto concerne il momento della cessazione dell’impresa indicato dall’art. 10 L.F., la giurisprudenza - come sopra ricordato - aveva in passato affermato che anche la fase di liquidazione costituisce attività d’impresa se durante tale attività vengono posti in essere atti ontologicamente identici o non dissimili da quelli che venivano attuati durante la fase di esercizio. Più in generale si era detto che gli atti finalizzati alla disgregazione dell’azienda che integrano gli estremi di un’attività economica, erano ancora esercizio dell’impresa (Cass. 19 aprile 1983, n. 2676; Cass. 3 novembre 1989, n. 4599, in Giur.comm., 1990, II, 929).
Con riferimento all’art. 10 L.F. in tema di società la giurisprudenza era stata, quindi, costante nel dire che il termine annuale decorreva non dalla chiusura della liquidazione, ma dalla liquidazione effettiva dei rapporti, con la conseguenza che la società era ritenuta esistente e soggetta a fallimento sino al momento in cui non era definito ogni rapporto sia attivo che passivo (Cass. 9 marzo 1996, n. 1876, in Fallimento, 1996, 764; Corte Cost., 20 maggio 1998, n. 180, ord. in Fallimento, 1998, 1107). Tale principio ha oggi una rilevanza assai modesta perché la Corte costituzionale, come abbiamo visto, con la sentenza 21 luglio 2000, n. 319 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’art. 10, nella parte in cui non prevedeva che il termine di un anno dalla cessazione dell'esercizio dell'impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorresse dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese . Il disegno di legge con il comma aggiunto all’art. 10 ribadisce, pertanto, in termini espliciti quanto affermato dalla Corte.

 

4. il presupposto oggettivo - lo stato di insolvenza

L’art. 5 L.F. dispone che è dichiarato fallito "l’imprenditore che si trovi in stato d’insolvenza. Lo stato d’insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni".
Due sono, perciò, gli elementi caratterizzanti lo stato d’insolvenza ( o, se si preferisce, i connotati che questo deve assumere per legittimare la dichiarazione di fallimento):

  • il primo attiene alla regolarità del modo in cui il debitore soddisfa - o, comunque, è in grado di soddisfare le proprie obbligazioni;
  • il secondo implica la necessaria esteriorizzazione dell’insolvenza attraverso determinati fatti sintomatici che la legge indica vuoi specificatamente ("inadempimenti") vuoi in maniera generica ("altri fatti").

In linea generale " mezzi normali" di pagamento sono il denaro , gli assegni e gli strumenti che la tecnica commerciale conosce, appunto, come mezzi di pagamento.
Il giudizio che il Tribunale esprime quando si trova nella situazione di dover accertare la sussistenza di uno stato d’insolvenza è in realtà un giudizio di probabilità, nel senso che sulla base dei fatti a sua conoscenza, tenuto conto delle massime di esperienza in materia di economia e di tecnica commerciale, di psicologia individuale e sociale, esso effettua, in pratica, una valutazione di natura discrezionale circa la possibilità per il debitore di soddisfare le proprie obbligazioni.
La constatazione dello stato d’insolvenza è perciò il risultato di un’approfondita indagine tendente ad appurare l’esistenza di una oggettiva incapacità finanziaria del debitore a soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni; incapacità che può derivare da un rapporto di squilibrio fra elementi attivi e passivi del patrimonio, con prevalenza dei secondi sui primi, o da un’ illiquidità di attivo. L’imprenditore, anche in caso di passivo superiore all’importo dei mezzi patrimoniali di cui è titolare o può disporre, può trovarsi ugualmente in condizioni di solvibilità, ad esempio perché riesce ad ottenere finanziamenti con i quali adempiere alle proprie obbligazioni, o perché consegue dilazioni di pagamento da fornitori e creditori, o per qualsivoglia altra ragione che gli consenta di adempire regolarmente.
Di eccedenza dell’attivo sul passivo non è dato parlare allorché le attività patrimoniali non possono essere realizzate in misura sufficiente a fronteggiare le passività scadute o in scadenza; ma anche quando sussiste tale possibilità, e quindi un’effettiva plusvalenza patrimoniale, l’imprenditore può dirsi solvibile soltanto nei limiti in cui la liquidazione delle attività e la conseguente estinzione delle passività possano avvenire nel rispetto della par condicio creditorum cioè dell'eguale soddisfacimento dei creditori sociali. L’eccedenza dell’attivo sul passivo, in altre parole, non solo non esclude lo stato d’insolvenza, ma non lo esclude neppure quando i vari elementi siano sufficienti a coprire i debiti e ciò perché efficacia preclusiva dell’insolvenza ha non la generica capacità di adempiere, bensì la capacità di adempiere regolarmente. Nell’esperire tale indagine, quindi, i crediti del debitore e gli stessi suoi beni dovranno essere considerati, non solo in funzione della loro reale esistenza e del loro valore, ma anche della loro possibilità e rapidità di realizzo. L’impossibilità a soddisfare le proprie obbligazioni non deve necessariamente essere assoluta , ma è sufficiente che sia relativa, si manifesti, cioè, in concomitanza allo scadere delle obbligazioni.

Quando una società è in liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell'applicazione dell'articolo 5 della legge fallimentare, deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali. Ciò perché non è più richiesto che l'impresa disponga, come invece la società in piena attività , di credito e di risorse e, quindi, di liquidità necessarie per soddisfare le obbligazioni contratte. In tale situazione, inoltre, l'impresa in liquidazione non si propone di restare sul mercato, ma ha come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori sociali, previa realizzazione delle attività sociali, e alla distribuzione dell'eventuale residuo tra i soci. ( Corte di Cassazione , sez. I civ., sentenza 11 maggio 2001, n. 6550).
L’inadempimento di una sola obbligazione e, talvolta anche di varie obbligazioni, non costituisce di per sé manifestazione di uno stato d’insolvenza, ma l’unità o pluralità dei debiti insoddisfatti potrà incidere sulla minore o maggiore concludenza di tali fatti ai fini probatori della sussistenza dello stato d’insolvenza. Anche la violazione di un obbligo di fare può essere indice di un dissesto, tanto più che l’inadempimento può tramutarsi in una obbligazione risarcitoria a contenuto pecuniario.
Tra gli "altri fatti" esteriori contemplati dalla norma in esame rientrano:
- gli eventi di cui è specifica menzione nel successivo art. 7 L.F. e precisamente la fuga o la latitanza dell’imprenditore; la chiusura dell’impresa, il trafugamento , la diminuzione fraudolenta dell’attivo. Tali fatti , rappresentando fattispecie delittuose, comportano l’obbligo per la magistratura penale procedente di richiedere il fallimento dell’imprenditore.
- l’ammissione del dissesto, ad esempio in una proposta stragiudiziale di componimento amichevole, la cessione di beni ai creditori, l’offerta di merce in restituzione adempitiva delle obbligazioni impagate (il c.d. reso merce), la presenza di uno sfratto per morosità o di vertenze dei dipendenti per il pagamento delle retribuzioni, l’alienazione di beni immobili o la riduzione delle garanzie offerte, ecc.
Sul piano probatorio è consuetudine diffusa la produzione a corredo del ricorso per fallimento di visure camerali relative ai protesti, di denunce di cessazione attività, di certificati di vigenza di ipoteche o di pendenza di procedure esecutive con rilievo dell’infruttuosità del pignoramento o di pendenza di ricorsi per decreto ingiuntivo, di lettere con richieste da parte del debitore di differimento dei pagamenti o di cambializzazione dei debiti scaduti. Tali riscontri probatori ( in genere compendiati in atipiche prove scritte) non soffrono di particolari limitazioni d’ingresso nell’istruttoria pre-fallimentare poiché sono di coerente inerenza alla sommarietà dell’organizzazione temporale dell’accertamento e appaiono di pronta valutazione ad opera del decidente che ne può disporre l’integrazione a cura di organi delegati a più ampie verifiche ( informative di polizia o finanza).
In conclusione il numero e la specie dei fatti sintomatici dell’insolvenza sono praticamente illimitati, tali dovendosi considerare tutti quegli eventi che trovano manifestazione nel mondo esteriore e che, per il loro carattere di gravità, precisione e concordanza ( art. 2729 c.c.) consentano al Tribunale quel giudizio tipicamente presuntivo nel quale, come abbiamo sopra riferito, consiste appunto l’accertamento dello stato d’insolvenza.

Modestia del passivo e dell’attivo

Segnalo, infine, che nella più recente indagine nazionale sulla prassi (seguita anche dal Tribunale di Bari) si è riscontrata sotto il profilo della procedibilità una indicazione di un credito minimo del ricorrente ( £. 10 milioni pari a € 5.164,57) per dar corso all’istruttoria , al disotto del quale il ricorso viene rigettato d’ufficio.
Tale orientamento, sia pur improntato ad una evidente utilità pratica di non sovraccaricare gli uffici, non è da condividere in punto di diritto poiché la modestia ed unicità del credito, non possono integrare alcun giudizio, nemmeno di tipicità socio-economica, quanto alle condizioni di impotenza solutoria del debitore, non reagendo tale ordine di grandezza monetaria in alcun modo quale dato di coincidenza approssimata al piccolo imprenditore. Dalla sentenza n. 570/89 della Corte costituzionale è scaturita una prassi fallimentare che utilizza la modestia dell’attivo prevedibile , anche in rapporto alla marginalità del credito azionato, per emanare decreti di rigetto dei ricorsi ravvisando una condizione di inammissibilità della procedura concorsuale qualora sia richiesta a carico di un’impresa minore priva di cespiti bastevoli a garantire capienza funzionale minima al credito o almeno ai costi organizzativi del processo concorsuale.

Altri aspetti procedurali

L’iniziativa per provocare la dichiarazione del fallimento può essere presa da chiunque ne abbia interesse. Più precisamente, l’articolo 6 della Legge Fallimentare indica lo stesso debitore (ipotesi molto rara), uno o più creditori (ipotesi statisticamente più frequente). La richiesta può essere, poi, d’ufficio (l’insolvenza viene riscontrata durante un procedimento civile) ovvero presentata dal pubblico ministero (l’insolvenza come abbiamo visto ai sensi dell’art. 7 è accertata durante un procedimento di natura penale).
Acquisita la richiesta, il Tribunale fallimentare ( la competenza ai sensi dell’art. 9 L.F., è quella del Tribunale ove l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa), a mezzo di una cognizione sommaria, come abbiamo visto prima, verifica ed accerta la sussistenza dei presupposti e, sentito l’imprenditore (per l’espresso disposto dell’articolo 15 della Legge Fallimentare) dichiara, con sentenza pronunciata in camera di consiglio, il fallimento del soggetto. La sentenza dichiarativa di fallimento, ex articolo 16 della legge fallimentare, è provvisoriamente esecutiva. Infatti il procedimento continua durante la pendenza del termine per l’opposizione e nonostante questa. La sentenza determina l’apertura del concorso: tutti i creditori del fallito vengono posti in condizione di partecipare alla procedura esecutiva universale, come si è detto, perché preordinata al soddi-sfacimento della massa dei creditori. Provvederà poi il curatore a formare l’elenco dei creditori ( a norma dell’articolo 89 della Legge Fallimentare) ed a comunicare agli stessi il termine per presentare le domande di ammissione al passivo fissato dalla sentenza dichiarativa del fallimento.
Alla sentenza dichiarativa di fallimento si può opporre, a norma dell’articolo 18 della Legge Fallimentare, tanto il debitore, quanto ogni altro soggetto che ne abbia interesse, patrimoniale o morale. L’opposizione contro la sentenza dichiarativa di fallimento, nel termine di quindici giorni dall’affissione della sentenza, deve essere proposta allo stesso Tribunale che ha dichiarato il fallimento che, in questa situazione, instaura un processo a cognizione ordinaria (qualora l’opposizione venga accolta, il fallimento si interrompe ma sono fatti salvi gli atti nel frattempo compiuti dagli organi fallimentari).