I LIMITI DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEL PROFESSIONISTA INTELLETTUALE


Sommario:

1. La professione intellettuale come professione protetta
2. L'obbligo di informazione come fonte di responsabilità professionale
3. L'obbligo di diligenza di cui all'art. 1176 c.c. Graduazione della diligenza nei singoli ambiti professionali
4. L'obbligazione del professionista come obbligazione di mezzi e non di risultato: critica alla dottrina relativa
5. Recupero della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato da parte della giurisprudenza e tentativi di superamento in relazione alle singole professioni
6. La colpa professionale : tentativi di definizione
7. L'art. 2236 c.c. Origine della norma e sua limitazione giurisprudenziale. Progressiva restrizione dell'area della irresponsabilità professionale
8. Il problema dell'onere della prova
9. Concorso tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale; in particolare, il caso del medico dipendente da una struttura ospedaliera.

1. La professione intellettuale come professione protetta
È molto difficile tentare di indicare, anche solo nei punti essenziali, i principali problemi giuridici connessi con l'esercizio delle professioni intellettuali al fine di delimitare gli odierni confini della responsabilità professionale . La materia è di per sé complessa, in continua evoluzione, e con essa il cammino della giurisprudenza, sicché i criteri fissati in anni passati oggi non sono più validi. D'altra parte, da un lato i cambiamenti della nostra società verso forme di attività sempre più sofisticate impongono ai professionisti un continuo aggiornamento; dall'altro, il cliente per così dire «medio» che si rivolge a un professionista è oggi ben più avveduto di quanto fosse trenta o cinquant'anni fa, più esigente e maggiormente in grado di controllare l'operato del tecnico del quale chiede le prestazioni.
Il codice civile, che è del 1942, aveva già avvertito la delicatezza della materia, come si nota dal fatto che lo svolgimento di una professione intellettuale si caratterizza, nel sistema, per numerose peculiarità. Questo è, probabilmente, il primo punto di partenza per la nostra riflessione, ossia la consapevolezza che la professione intellettuale è comunque una professione particolare, protetta, nella quale l'aspetto privatistico contrattuale non è l'unico, proprio perché tale attività trascende l'interesse del singolo e riguarda l'intera collettività. La prestazione del professionista intellettuale, pur rientrando nella generale categoria delle obbligazioni c.d. «di fare», è regolata autonomamente nel capo II del titolo III del libro V del codice civile; si tratta certamente di lavoro autonomo (cui è intitolato, appunto, il citato titolo III), ma di un lavoro autonomo che è diverso da quello del contratto d'opera, perché in esso il dispiegamento dell'intelletto, e perciò di una certa dose di autonomia, è un dato essenziale che si riflette, come vedremo, nella disciplina positivamente prevista.
D'altra parte, la valenza pubblicistica delle professioni intellettuali emerge da molti fattori. Per poter svolgere una qualunque di queste professioni, ad esempio, è necessario nella grande maggioranza dei casi essere iscritti in un ordine professionale di categoria; ciò comporta, fra l'altro, un esame di ammissione, la soggezione alla disciplina interna amministrata generalmente da un consiglio dell'ordine e l'inserimento in un sistema previdenziale che per molti aspetti è significativamente diverso da quello cui fanno capo i lavoratori subordinati ed anche gli stessi lavoratori autonomi. E ad ulteriore e sicura conferma di quanto detto sta l'interesse del diritto penale nei confronti delle professioni intellettuali, che si manifesta attraverso l'espressa previsione di una serie di reati propri che possono essere commessi soltanto da chi appartiene a una di tali categorie.
La necessità di iscriversi a un albo professionale (con tutto ciò che consegue) è il primo segno, per così dire, dell'appartenenza ad una categoria particolare cui l'ordinamento riconosce la possibilità di svolgere una peculiare funzione e ricollega, in una sorta di bilanciamento, alcune specifiche responsabilità . In più occasioni, del resto, la Corte costituzionale ha ripetuto che l'esistenza di albi e ordini professionali (con accesso limitato) non può di per sé costituire violazione del diritto al lavoro previsto dall'art. 4 cost. (1).

2. L'obbligo di informazione come fonte di responsabilità professionale
Prima di addentrarci nella disamina degli obblighi che gravano sul professionista nella fase di esecuzione del contratto, sembra opportuno accennare al momento delle c.d. «trattative», durante le quali l'obbligo di corretta informazione costituisce uno dei punti caratteristici. L'attività del professionista si deve esplicare, infatti, prima ancora di procedere all'esatto adempimento della prestazione, in una corretta informazione del cliente circa i possibili rischi, vantaggi e svantaggi derivanti dal contratto d'opera professionale .
Negli ultimi tempi si è assistito a un'evoluzione della giurisprudenza, soprattutto in campo medico, nel senso di attribuire a tale obbligo un'importanza sempre crescente; e il motivo è, del resto, del tutto condivisibile. In tale ambito, per esempio, il dovere di informazione si collega alla necessità di un valido consenso da parte del paziente, senza del quale gli atti medici (e soprattutto quelli chirurgici) verrebbero ad essere impediti dagli art. 13 e 32 cost. La Corte di cassazione osserva che il dovere di informazione deve riguardare la natura dell'intervento, la portata e l'estensione dei suoi risultati, nonché le possibilità e le concrete probabilità di successo; la mancata osservanza di tale obbligo costituisce violazione del principio di buona fede di cui all'art. 1137 c.c. (2). L'obbligo viene meno, per ovvie ragioni, soltanto quando le condizioni di pericolo del paziente siano tali da creare lo stato di necessità, effettivo o almeno putativo (3).
Il fatto che il paziente debba essere adeguatamente informato è un concetto che la giurisprudenza ha ribadito in diversi campi dell'attività medica; in Cass. 15 gennaio 1997 n. 364 (4), ad esempio, si doveva decidere un caso di responsabilità professionale conseguente ad esiti invalidanti derivati da una scorretta esecuzione dell'anestesia c.d. «epidurale». La Corte di merito aveva ritenuto che il consenso prestato dalla paziente all'intervento chirurgico presupponesse implicitamente l'accettazione del trattamento anestesiologico, affermando quindi che il consenso all'anestesia fosse presunto. La Suprema Corte, invece, ha ribaltato tale decisione e annullato la sentenza di merito, sulla base dell'affermazione per cui, se è vero che il consenso all'intervento può far presumere quello allo svolgimento delle necessarie attività preliminari (come l'anestesia), ciò non esclude che, qualora esistano diverse possibili alternative di esecuzione dell'anestesia, il paziente debba essere informato dei diversi rischi collegati a ciascuna di tali alternative, allo scopo di poter scegliere l'una o l'altra con piena consapevolezza delle possibili conseguenze.
Uno dei campi in cui maggiormente si discute dei limiti dell'obbligo di informazione è, al momento, quello della chirurgia estetica. Questi tipi di intervento, infatti, non sono strettamente necessari per lo stato di salute del paziente, il che comporta un più intenso atteggiarsi del dovere di informazione. Fra le varie pronunce è famosa quella della spogliarellista sottopostasi ad un intervento di chirurgia plastica al seno cui erano conseguiti esiti cicatriziali in relazione ai quali il medico non aveva adeguatamente adempiuto al proprio dovere di informazione (5). Ma altrettanto significativa è Cass. 6 ottobre 1997 n. 9705 (6), la quale giunge a conclusioni particolarmente severe proprio in ragione della ritenuta necessità di un rigoroso obbligo di informazione. Nel caso specifico si trattava di un intervento eseguito su di una donna (di trentotto anni all'epoca dei fatti) al fine di ridurre alcune masse adipose in eccesso, intervento dal quale erano derivate imponenti cicatrici (estensione complessiva di circa un metro e mezzo). La Suprema Corte, nel confermare la sentenza di secondo grado che aveva condannato il medico chirurgo al risarcimento dei danni, ha evidenziato che, pur dovendosi ritenere tali cicatrici inevitabili in rapporto alla quantità di massa adiposa da eliminare - sicché l'intervento chirurgico era da considerarsi eseguito a regola d'arte - tuttavia esse acquistano ugualmente rilievo come danno risarcibile, poiché la donna non era stata al riguardo adeguatamente e previamente informata.
E in tale ambito la giurisprudenza è giunta anche a differenziare l'entità dell'obbligo di informazione a seconda che l'intervento miri al miglioramento estetico del paziente ovvero alla ricostituzione delle sue normali caratteristiche fisiche (7). La fattispecie che ha dato origine a simile pronuncia è alquanto singolare, perché si trattava di un uomo che voleva rimuovere alcuni tatuaggi (dal contenuto osceno e ripugnante) impressi sul proprio corpo in una fase precedente della vita, la cui persistenza gli creava enormi disagi di tipo psicologico. La Corte di cassazione ha cassato la pronuncia d'appello affermando che il giudice di secondo grado avrebbe dovuto stabilire se si fosse trattato di un intervento di chirurgia plastica «estetica» ovvero di chirurgia plastica «ricostruttiva», perché diversa è la situazione di chi intende migliorare le proprie apparenze estetiche rispetto a quella di chi desidera porre rimedio ad uno stato «da esso stesso voluto e provocato, ma successivamente ritenuto ripugnante». Nel secondo caso l'obbligo di informazione si affievolisce, limitandosi agli esiti «che, contrariamente agli intenti del paziente, potrebbero rendere vana l'operazione non comportando in sostanza un effettivo miglioramento».
Sempre in ambito medico, inoltre, l'obbligo di corretta informazione nei confronti del paziente ha dovuto negli anni più recenti confrontarsi, per così dire, con una materia molto delicata, ossia quella del diritto della donna all'interruzione della gravidanza e dell'eventuale responsabilità del medico in tale ambito. In questa sede, naturalmente, non ha interesse ricostruire il dibattito giurisprudenziale sul diritto all'aborto e sulle conseguenti pretese risarcitorie; quello che importa, invece, è soffermare l'attenzione sulle sentenze che hanno riconosciuto la responsabilità civile del medico a seguito di una incompleta o scorretta attività di informazione.
La prima sentenza di rilievo in quest'ambito consegue ad un caso del tutto particolare, in cui la domanda di risarcimento danni nei confronti del medico era stata proposta per un atto di interruzione della gravidanza al quale non aveva fatto seguito l'evento desiderato, poiché la gravidanza era ugualmente proseguita e il bambino era nato (8). Si trattava di una ragazza minorenne alla quale era stato praticato l'intervento di interruzione senza peraltro informarla della necessità di attendere il risultato dell'esame istologico del materiale asportato per avere la certezza dell'esito positivo dell'intervento. Ella era stata poi dimessa contro il parere dei medici e la gravidanza aveva proseguito regolarmente il suo corso. La Corte di cassazione, pur annullando con rinvio la sentenza d'appello per motivi inerenti alla determinazione del danno, ha riconosciuto che la Corte di merito aveva correttamente ritenuto la responsabilità della struttura sanitaria proprio per il mancato rispetto del dovere di informativa, ritenuto un «preciso dovere di carattere generale».
Le sentenze successive, invece, affrontano il medesimo problema da un diverso angolo visuale. Qui la domanda di risarcimento conseguiva alla mancata attività di informazione, da parte del medico, in ordine all'esistenza di gravi malformazioni del nascituro che, ove conosciute, avrebbero potuto indurre la donna ad optare per l'interruzione volontaria della gravidanza (9). Non ha molta importanza il tipo di malattia con la quale il bambino era venuto al mondo ed era stato poi costretto a convivere in futuro; ciò che conta è che la Corte di cassazione ha sempre confermato la necessità di una completa, corretta e tempestiva attività di informazione della gestante da parte del medico, in vista del possibile esercizio dei diritti riconosciuti dalla l. 22 maggio 1978 n. 194. Particolarmente interessante è, a questo riguardo, Cass. 10 maggio 2002 n. 6735 (10), nella quale la Corte ha respinto il ricorso contro la sentenza d'appello che aveva condannato un ginecologo per non aver rilevato tempestivamente, attraverso gli strumenti della diagnosi prenatale, l'esistenza della sindrome di Apert, grave malattia che determina alterazioni del cranio e sindattilia delle mani e dei piedi, la cui conoscenza avrebbe potuto consentire alla madre di valutare l'opportunità dell'interruzione della gravidanza.
In giurisprudenza non è pacifico se l'obbligo di informazione da parte del medico sia da ricondurre alla responsabilità precontrattuale oppure a quella contrattuale (11), e certamente non è facile stabilire una precisa linea di confine quando, ad esempio, insorgono delle complicazioni nel corso di un'attività terapeutica già intrapresa. Ci sembra, tuttavia, che si assista a una progressiva attrazione di tali obblighi nell'ambito contrattuale, il che è complessivamente condivisibile. Ciò, infatti, oltre a determinare un incremento dei margini di responsabilità professionale , appare più in sintonia con il concreto svolgersi dei rapporti di tale genere. È evidente, infatti, che il cliente si rivolge al professionista innanzitutto per chiedere un parere sull'opportunità o meno di una certa iniziativa, ma tale attività di consulenza è già in qualche misura una prestazione tipica del contratto in questione, come appare a proposito delle attività dell' avvocato e del notaio. E tale criterio vale anche a proposito di professioni intellettuali diverse da quella del medico.
Si pensi al cliente che si rivolge a un legale per decidere se sia o meno il caso di intraprendere una determinata iniziativa giudiziaria. L' avvocato ha il dovere di valutare la saggezza e l'opportunità dell'iniziativa, se del caso sconsigliando di procedere in una direzione che porterà certamente, ad esempio, ad una sconfitta giudiziale con relativo onere di spese. Egli avrà diritto di chiedere un compenso per la propria attività di consulenza e l'eventuale comportamento omissivo in questa fase di informazione deve essere ricondotto ad un ambito già contrattuale, potendosi affermare che il contratto d'opera professionale è stato concluso nel momento in cui il cliente si è rivolto all' avvocato chiedendogli il parere. E la responsabilità civile di quest'ultimo non verrà meno a seguito del comportamento, magari ineccepibile, tenuto dal legale in occasione dell'attività giudiziaria da lui (malaccortamente) intrapresa.
In riferimento alla professione notarile, poi, la giurisprudenza riconosce la responsabilità per carente o inesatto svolgimento di una serie di attività informative che precedono la stipula del contratto vero e proprio (12) e riconduce tale tipo di responsabilità a quella contrattuale, risolvendosi il corretto adempimento del contratto d'opera professionale anche nello scrupoloso svolgimento delle attività «preparatorie e successive, necessarie in quanto tese ad assicurare la serietà e la certezza dell'atto giuridico posto in essere» (13). Uno degli aspetti più significativi di tale responsabilità di carattere informativo è costituito dall'obbligo di compiere gli accertamenti necessari a verificare che il bene oggetto dell'atto di acquisto sia libero da trascrizioni o iscrizioni pregiudizievoli. La Corte di cassazione ha riconosciuto, nella sentenza 15 giugno 1999 n. 5946 (14), che il notaio è tenuto, in caso di stipula di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, alla preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene attraverso il controllo dei pubblici registri immobiliari, se del caso dissuadendo il cliente dal compimento dell'atto. Nel caso in esame, l'acquirente Tizio aveva comprato un immobile da Caio il cui atto di acquisto da Sempronio era stato a suo tempo dichiarato inefficace nei confronti di Mevio, con sentenza regolarmente annotata nei registri immobiliari; la Corte ha confermato la sentenza d'appello che aveva riconosciuto la responsabilità del notaio rogante per non aver adeguatamente sconsigliato Tizio dal compiere un atto di acquisto inevitabilmente assai rischioso in conseguenza dell'incertezza sull'atto di provenienza.
Molto interessanti sono, poi, le pronunce menzionate nelle quali la Corte di cassazione si è occupata dell'obbligo di informazione nei casi in cui le parti avevano appositamente esonerato il notaio dal compiere le visure. In Cass. 6 aprile 2001 n. 5158 (15), per esempio, nonostante la presenza della clausola di esonero, la Corte ha confermato la sentenza d'appello che aveva ugualmente desunto la responsabilità del notaio sulla base di una serie di elementi; e fra questi spicca il fatto che la clausola fosse contenuta in un modulo predisposto dallo stesso notaio e che fosse stato proprio quest'ultimo ad iscrivere, con atto rogato pochi mesi prima, l'ipoteca sul medesimo bene oggetto della successiva compravendita. A una diversa conclusione perviene, invece, Cass. 18 gennaio 2002 n. 547 (16), che nega ogni responsabilità del notaio in presenza di una clausola di esonero dalle visure; qui, però, le risultanze di merito, sorrette da adeguata motivazione, erano nel senso che la natura dell'atto di acquisto (scrittura privata autenticata anziché atto pubblico) e il brevissimo tempo trascorso tra il momento in cui le parti si erano presentate al notaio e quello della stipula dell'atto fossero un indice indiscutibile della piena efficacia della clausola di esonero inserita nella scrittura privata.
 
3. L'obbligo di diligenza di cui all'art. 1176 c.c. Graduazione della diligenza nei singoli ambiti professionali
Ciò premesso in ordine agli obblighi di informazione, va detto che la responsabilità del professionista intellettuale è considerata dal nostro ordinamento come tipicamente contrattuale (17), sussistendo per la responsabilità aquiliana dei margini alquanto ridotti sui quali in seguito brevemente ritorneremo.
Il professionista, cioè, è tenuto nei confronti del proprio cliente all'esatto adempimento dell'obbligazione contrattualmente assunta, come enuncia l'art. 2230 c.c. E si tratta di un'obbligazione particolare per la quale l'art. 1176 c.c. pone la regola della diligenza qualificata; mentre nel comma 1, infatti, si afferma genericamente che nell'adempimento delle obbligazioni il debitore «deve usare la diligenza del buon padre di famiglia», nel comma 2 si dice che nelle obbligazioni «inerenti all'esercizio di un'attività professionale , la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata». Può convenirsi con chi ha sostenuto che il comma 2 dell'art. 1176 c.c. è un'esplicitazione del primo (18), nel senso che il dovere di attenzione si rapporta sempre con quello «medio» della categoria di appartenenza, dovendosi intendere tale diligenza come buona, sebbene non eccezionale, ossia come diligenza qualificata. In tal modo, peraltro, si determina un sostanziale aggravamento di tale onere nei confronti del professionista rispetto al debitore ordinario, poiché al primo si richiede il possesso di nozioni tecniche e di doti di accuratezza, prudenza e precisione che sono peculiari di una determinata professione intellettuale (19).
Nella pratica la giurisprudenza ammette senza problemi che l'obbligo di diligenza venga valutato diversamente a seconda delle varie professioni e, in ciascun ambito, in relazione alla complessità del caso concreto. Ciò che non è pensabile è, da un lato, che al professionista intellettuale si richieda un grado di diligenza minore di quello del debitore generico e, dall'altro, che egli risponda a titolo di responsabilità oggettiva, perché ciò andrebbe a collidere con quel margine irrinunciabile di autonomia che è connaturato col carattere della professione intellettuale.
Scorrendo le più recenti pronunce della Cassazione sull'argomento, si vede che il richiamo al capoverso dell'art. 1176 c.c. è frequente e riguarda tutte le più diffuse professioni in esame. Osserva, ad esempio, Cass. 12 agosto 1995 n. 8845, che la responsabilità del professionista postula la violazione dei doveri inerenti al suo svolgimento, tra i quali quello della diligenza, che va a sua volta valutato con riguardo alla natura dell'attività e che, in rapporto alla professione medica, implica scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale ; analogo concetto è ripreso dalla più recente Cass. 11 marzo 2002 n. 3492 (20), secondo cui il medico chirurgo è tenuto nell'adempimento dell'obbligazione contrattuale alla specifica diligenza del debitore qualificato cui si richiama il capoverso dell'art. 1176 c.c. Affermazioni molto simili sono rinvenibili a proposito della professione di avvocato (21) e di quella di ingegnere (22).
È interessante notare, a questo proposito, che la giurisprudenza ha talvolta ipotizzato, in riferimento alla professione medica, una diversa graduazione dell'obbligo di diligenza in considerazione del maggiore o minore livello di specializza zione che ci si può attendere dal professionista. In altre parole, un intervento che presenta margini di complessità tali da doversi considerare «difficile» per la generalità dei medici (con tutte le conseguenze che vedremo a proposito dell'art. 2236 c.c.) non è stato ritenuto tale nei confronti di quel determinato specialista, dal quale era lecito e doveroso attendersi una particolare esperienza nello specifico settore, ossia una particolare forma di diligenza.
Tipica è, a questo proposito, Cass. 3 marzo 1995 n. 2466 (23). Qui la Suprema Corte doveva affrontare il caso di una minore che aveva riportato varie fratture ed ustioni in conseguenza di un investimento automobilistico; uno dei due medici chiamati in causa, specialista in ortopedia, è stato condannato al risarcimento dei danni per aver provveduto all'immobilizzazione delle articolazioni mediante il gesso senza tenere nella necessaria considerazione il fatto che in tal modo venivano ad essere ricoperte zone cutanee interessate dalle ustioni. E la Corte ha riconosciuto che la corretta terapia di immobilizzazione di un arto ustionato non può ritenersi problema tecnico di particolare difficoltà per un medico specialista in ortopedia.
In altra occasione, invece, la stessa Corte di cassazione ha rigettato il ricorso avverso la sentenza che aveva condannato un medico al risarcimento dei danni per aver affrontato un intervento di alta specializzazione senza avere la necessaria esperienza (24). Il caso era quello di un medico, specialista in ortopedia, che aveva eseguito un intervento al midollo spinale cui era seguita la paralisi degli arti inferiori del paziente. La colpa professionale è stata ritenuta proprio perché il sanitario aveva intrapreso il delicato intervento in questione (laminectomia per sospetta neoplasia extramidollare) essendo in possesso della specializzazione in ortopedia e non di quella in neurochirurgia, indispensabile per poter affrontare il caso con la necessaria competenza specifica. E nessuna importanza è stata data, a mio avviso giustamente, al fatto che il paziente avrebbe probabilmente nel tempo sviluppato ugualmente la paralisi degli arti inferiori in conseguenza della patologia da cui era affetto.
Dalla più recente giurisprudenza provengono ulteriori interessanti contributi in questa direzione. Con Cass. 8 gennaio 2003 n. 85 (25), la Suprema Corte era chiamata a valutare il caso di un calciatore che, avendo già subito due fratture al metatarso a distanza di un paio di mesi l'una dall'altra - fratture per le quali era stato operato di osteosintesi con inserimento di una vite metallica poi rimossa, permanendo peraltro una rondella sotto la pelle - era stato nel corso dello stesso anno convocato per un «ritiro» della propria squadra, durante il quale aveva riportato per la terza volta la medesima frattura, divenendo perciò definitivamente inabile al gioco del calcio. La Corte di cassazione, nel rigettare il ricorso avverso la sentenza di secondo grado che aveva riconosciuto la fondatezza della domanda di risarcimento danni avanzata dal calciatore nei confronti della squadra, ha chiarito che la posizione del medico sportivo è diversa da quella del medico generico ed è gravata da maggiori responsabilità . A lui spetta, infatti, non soltanto di compiere tutti gli accertamenti necessari, secondo le più aggiornate tecniche diagnostiche, per verificare le effettive condizioni dello sportivo in rapporto al tipo di danno che deriva dal carattere agonistico della competizione; ma, addirittura, la Corte chiede al medico sportivo di attivarsi anche per dissimulare le eventuali false o reticenti informazioni fornite dall'atleta per il timore di vedere interrotta la propria attività. Attività che, almeno in relazione al gioco del calcio, è ormai fonte di elevati guadagni.
Come si vede, dunque, l'obbligo di diligenza si traduce in vincoli diversi a seconda del diverso grado di specializzazione del medico.

4. L'obbligazione del professionista come obbligazione di mezzi e non di risultato: critica alla dottrina relativa
Il discorso appena intrapreso sull'obbligo di diligenza conduce la riflessione ad un tema che mantiene una grande attualità proprio in riferimento alle professioni intellettuali, ossia la distinzione tra obbligazioni c.d. «di mezzi» e obbligazioni c.d. «di risultato».
Le dimensioni di questo scritto non consentono di attardarsi su particolari approfondimenti di un argomento che, sulla scia della dottrina francese, ha per molto tempo sollecitato l'attenzione della nostra dottrina civilistica; tuttavia il problema dev'essere almeno presentato, perché consente di fare luce su un punto cruciale della responsabilità professionale (26). Secondo questo tipo di classificazione, le obbligazioni si dovrebbero dividere in due categorie: nelle prime, quelle di mezzi, il debitore sarebbe tenuto soltanto a dispiegare il proprio impegno, ossia la propria diligenza, senza essere obbligato a garantire al debitore il raggiungimento di un certo «risultato»; nelle seconde, invece, il debitore sarebbe obbligato nei confronti del creditore proprio ad un risultato, ossia fino alla soglia dell'impossibilità sopravvenuta derivante da causa a lui non imputabile, secondo la regola di cui all'art. 1218 c.c. La distinzione dovrebbe servire, secondo i suoi sostenitori, a dare ragione dell'apparente contrasto tra gli art. 1176 e 1218 c.c., perché soltanto per le obbligazioni di risultato «sarebbe dettata la severa regola della responsabilità oggettiva per inadempimento (art. 1218)»; per quelle di mezzi, invece, «varrebbe il principio della diligenza, poiché in esse il creditore nient'altro può legittimamente esigere ed attendersi oltre allo sforzo del debitore, senza che si raggiunga un preciso risultato» (27). In questo quadro, le obbligazioni del professionista intellettuale costituirebbero un tipico esempio di obbligazioni di mezzi, perché in esse il debitore sarebbe tenuto soltanto a porre in essere tutto il proprio impegno in vista di un obiettivo che, certamente intravisto come possibile nel momento della conclusione del contratto, non è tuttavia in potere esclusivo del debitore raggiungere. Richiamando la dottrina citata si può dire, in riferimento alla professione medica, che il medico «può soltanto mettere in essere alcune condizioni necessarie o utili per promuovere il risanamento dell'infermo: ma la riuscita della cura esige purtroppo la presenza di altri elementi, sui quali il medico non ha potere» (28).
La distinzione ora descritta è stata ritenuta dalla dottrina priva di un fondamento positivo, perché «in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere come l'impegno che il debitore deve porre per ottener lo» (29); e in astratto non è configurabile un'obbligazione che non abbia in vista il raggiungimento di un «risultato» o, comunque, il soddisfacimento di un interesse del creditore (30). Ogni dubbio sul punto, del resto, è sciolto dall'art. 1174 c.c., il quale dice che la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione «deve corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale, del creditore» (31).
Ciò che conta, in realtà, è che sicuramente esistono alcune obbligazioni, che sarebbe forse più corretto definire «di comportamento», in cui il contegno negligente del debitore costituisce di per sé inadempimento, perché ciò che si pretende da lui è innanzitutto un impegno in termini di diligenza, uno sforzo finalizzato a far sì che l'interesse finale del creditore possa essere soddisfatto; una diligenza, come acutamente è stato detto, che non riguarda tanto l'adempimento, quanto la conservazione della possibilità di adempiere (32). E ciè è particolarmente evidente in relazione all'attività del professionista intellettuale: il medico che trascura l'ammalato o l' avvocato che diserta le udienze sono per ciò stesso inadempienti, anche se il malato dovesse guarire o la causa essere vinta per qualche fortunata congettura (33); così come gli stessi professionisti andranno esenti da ogni responsabilità , anche in caso di esito infausto della malattia o di sconfitta in giudizio, qualora dimostrino di essersi comportati con la diligenza che il caso richiedeva e senza trascurare nessuna delle attività concretamente esperibili in rapporto al necessario bagaglio di conoscenze tecniche che fanno da corredo a ogni professione intellettuale.
D'altra parte, la più attenta dottrina in materia di inadempimento ha dimostrato che il contrasto tra gli art. 1176 e 1218 c.c. è soltanto apparente, perché la regola secondo cui il debitore è tenuto all'adempimento fino al limite dell'impossibilità sopravvenuta vale solo nel caso in cui la prestazione è divenuta impossibile proprio per colpa del debitore; negli altri casi, cioè quando la prestazione è possibile, la responsabilità del debitore è regolata da altre norme (34). E ciò vale ad eliminare dal sistema l'unico sostegno che poteva dare validità alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.

5. Recupero della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato da parte della giurisprudenza e tentativi di superamento in relazione alle singole professioni
Questa breve digressione dottrinale è necessaria a illuminare una nutrita serie di pronunce giurisprudenziali che risentono in modo evidente di tale dibattito. La Corte di cassazione, infatti, continua a utilizzare la distinzione terminologica tra obbligazioni di mezzi e di risultato, non tanto per sostenerne l'astratta validità, quanto per dare un corretto inquadramento agli obblighi del professionista intellettuale; sotto questo profilo la distinzione può essere utilmente adoperata, purché ne siano chiari i limiti e le finalità.
Costituisce affermazione pacifica in giurisprudenza, ad esempio, ribadita in molte sentenze, che l'obbligazione del professionista intellettuale è di mezzi e non di risultato, in quanto egli, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo (35). Quest'affermazione assume varie sfumature a seconda che si tratti di medico, avvocato , notaio, ingegnere ecc., ed è, come già detto, il retaggio dell'imponente dibattito dottrinale cui sopra si è accennato; l'obiettivo è quello di limitare la responsabilità del professionista in un ambito più ristretto rispetto a quello di altre obbligazioni consistenti in un facere, sicché non possono trovare applicazione in tale materia norme come quelle degli art. 1667, 1668 o 2226 c.c. (in tema di appalto e di contratto d'opera) (36).
Ciò che maggiormente interessa, perè, è evidenziare le sentenze nelle quali, benché in presenza di una prestazione d'opera professionale , la giurisprudenza ha preso le distanze da tale impostazione e ha riconosciuto l'esistenza di un'obbligazione di risultato, con ciò intendendo che la soglia dell'adempimento si innalza oltre il semplice comportamento diligente.
Assai significativo è, in proposito, il caso dell'ingegnere chiamato a redigere un progetto. Qui la Corte di cassazione ha osservato che tale obbligazione è di risultato perché in essa il professionista si impegna a realizzare un determinato opus ovvero perché la redazione ha ad oggetto la sua realizzabilità (37); nella prima sentenza ora indicata in nota, l'ingegnere aveva ricevuto l'incarico di redigere un piano di lottizzazione per l'edilizia residenziale nel quale assumeva un ruolo decisivo l'approvazione del piano medesimo. Poiché, invece, il comune aveva nel frattempo disposto dei nuovi programmi di fabbricazione in contrasto col piano di lottizzazione in questione, legittimamente i committenti avevano rifiutato di pagare il compenso in favore del professionista, in quanto inadempiente.
Alcune successive pronunce, invece, senza prendere posizione in ordine alla natura di obbligazione di mezzi o di risultato in riferimento all'attività dell'ingegnere, dell'architetto e del geometra, specificano tuttavia che l'irrealizzabilità dell'opera per erroneità o inadeguatezza del progetto costituisce comunque inadempimento anche in caso di colpa lieve e giustifica, da parte del cliente, il mancato pagamento del compenso (38).
In relazione alla professione medica dovrebbe ritenersi assai difficile la configurabilità di un'obbligazione di risultato, proprio in virtù delle considerazioni svolte in precedenza. E tuttavia anche qui la giurisprudenza, pur mantenendo fermo il principio per cui il medico non può ritenersi obbligato a garantire la guarigione del paziente, ha in taluni casi operato una distinzione derivante dalla maggiore o minore complessità dell'intervento terapeutico. In altre parole, queste sentenze percepiscono la significativa differenza che esiste tra la cura di una malattia semplice e di decorso normalmente benigno e la cura di una malattia più grave o, comunque, non ancora ben nota alla scienza medica; la Corte di cassazione non giunge ad affermare che nel primo caso il medico è tenuto al raggiungimento del risultato (ossia il buon esito della cura), ma aggrava l'onere della prova a danno del sanitario e a favore del paziente (39). Nelle sentenze appena citate si trova affermato il principio secondo cui l'onere della prova si divide tra paziente e medico a seconda della natura dell'intervento effettuato: se esso è di difficile esecuzione, il medico si libera con la sola dimostrazione della complessità, rimanendo a carico del paziente l'onere di dimostrare gli eventuali errori commessi dal primo; in caso contrario, il paziente dovrà solo dimostrare il carattere routinario dell'intervento, mentre sarà il medico a dover provare che l'esito negativo non è ascrivibile a propria negligenza od imperizia.
Seguendo tale schema, Cass. 30 maggio 1996 n. 5005 (40) ha riconosciuto la responsabilità del medico per i danni derivati al paziente durante un'operazione di ernia discale; poiché tali danni (perdita di sensibilità nella diuresi, nella libido e deficit agli arti inferiori) erano da ricondursi, secondo il corretto giudizio della Corte di merito, a un'erronea esecuzione dell'iniezione del liquido di contrasto necessario per l'intervento, tale attività è stata ritenuta usuale e a basso rischio, con la conseguenza che era onere del sanitario dimostrare di aver eseguito la prestazione con diligenza.
Nel caso deciso da Cass. 4 febbraio 1998 n. 1127 (41) - nel quale si doveva valutare la responsabilità del chirurgo per i danni conseguenti a un intervento di isterectomia cui aveva fatto seguito un secondo intervento di reimpianto dell'uretere in vescica - la Corte di cassazione, mentre ha condiviso la valutazione del giudice di merito circa la natura di particolare complessità attribuita all'intervento di isterectomia, ha invece ritenuto immotivata la sentenza d'appello nella parte in cui non attribuiva identica natura anche al secondo intervento, provvedendo alla cassazione della medesima.
Ancora diverso, e certamente più drammatico, l'episodio oggetto di Cass. 8 gennaio 1999 n. 103. Qui si doveva decidere sulla sussistenza di responsabilità professionale a carico di più medici in relazione ai danni riportati da una minore operata di ernia inguinale (atrofia corticale ed attività epiletogena a seguito di sindrome apallica su base ipossica secondaria alle complicanze cardiocircolatorie conseguenti all'anestesia generale). I danni gravi erano derivati, in pratica, da una carenza di ossigeno conseguente all'anestesia generale, non prontamente ed opportunamente fronteggiata dai sanitari. La Corte di cassazione, ritenendo motivata in modo adeguato la sentenza d'appello che aveva riconosciuto la responsabilità dell'anestesista per gravi negligenze e quella del chirurgo in quanto capo dell'équipe operatoria, fonda la propria decisione (di rigetto dei ricorsi dei medici) sulla natura facile e di routine dell'intervento in questione, tanto più significativa in quanto l'intervento era stato eseguito su di una minore in buona salute fino al momento dell'operazione. Da questo deriva che era onere del professionista dimostrare che l'insuccesso dell'intervento non era dipeso da un difetto di negligenza.
La casistica potrebbe allungarsi in relazione a quelle prestazioni mediche nelle quali i margini di scelta sono in concreto assai ristretti in conseguenza delle certezze ormai raggiunte in campo scientifico (si pensi al caso dell'oculista che prescrive lenti del tutto inadeguate in relazione al deficit visivo del paziente). In riferimento all'installazione di una protesi dentaria, però, la Cassazione ha negato che possa in tal caso sussistere responsabilità da parte del medico odontoiatra a titolo di difformità e vizi dell'opera ai sensi dell'art. 2226 c.c., ritenendo preminente la funzione diagnostica e la libertà di scelta terapeutica sull'aspetto meramente esecutivo della costruzione della protesi, che può considerarsi un'opera materiale autonoma solo se ed in quanto oggetto della prestazione dell'odontotecnico (42). È stata invece affermata la natura di obbligazione di risultato in relazione al direttore sanitario di un ospedale che, nello stipulare il contratto d'opera professionale , si sia obbligato nei confronti del direttore generale a curare anche l'aspetto igienico della struttura medesima (43).
Anche per ciò che riguarda la professione forense, pur essendo costante l'affermazione giurisprudenziale secondo cui l' avvocato si impegna a prestare la propria opera per raggiungere un certo risultato, ma non a conseguirlo, vi sono pronunce che dimostrano una valutazione più severa del comportamento di tale professionista, configurando gli estremi della responsabilità in relazione a gravi omissioni o imprecisioni nella gestione di una lite o anche nella fase preliminare non giudiziale.
Meritano menzione, innanzitutto, le sentenze nelle quali la Corte di cassazione ha riconosciuto la responsabilità professionale dell' avvocato in riferimento alla materia della prescrizione. In Cass. 18 luglio 2002 n. 10454, la Corte era chiamata a valutare la correttezza della sentenza d'appello che aveva ritenuto responsabile un avvocato per il mancato tempestivo compimento di atti interruttivi della prescrizione (nella specie, si trattava della prescrizione biennale prevista per i danni da circolazione di veicoli dall'art. 2947, comma 2, c.c.); nel confermare la pronuncia di merito, la Corte ha affermato che rientra nella ordinaria diligenza dell' avvocato il compimento degli atti interruttivi «che, di regola, non richiedono particolare impegno materiale o speciale capacità tecnica, ma soltanto puntuale verifica del termine in relazione agli elementi di fatto che caratterizzano il caso concreto». A una conclusione assai simile, sia pure in una fattispecie diversa, è pervenuta Cass. 14 novembre 2002 n. 16023 (44). Qui si era verificato che un comune aveva chiesto a un avvocato il parere circa la possibilità di agire in giudizio, in qualità di interessato, per l'adempimento di oneri testamentari. Il professionista aveva dato parere favorevole e aveva assunto il patrocinio del comune promovendo il relativo giudizio, che però si era concluso sfavorevolmente perché la controparte aveva vittoriosamente eccepito la prescrizione del diritto azionato. Nel successivo giudizio intrapreso dal professionista contro il comune per il pagamento delle proprie parcelle la Corte di cassazione, accogliendo il ricorso e decidendo essa stessa nel merito ai sensi dell'art. 384 c.p.c., ha ritenuto che «l'accertamento di un'eventuale prescrizione sia da considerare dall'esercente la professione legale adempimento routinario preliminare già all'iniziale sommaria disamina degli elementi essenziali della questione affidatagli»; sicché la responsabilità del professionista a titolo di negligenza certamente sussiste, trattandosi in un simile caso di «ignoranza di istituti elementari». Tale responsabilità è stata ravvisata già in relazione alla fase dell'informativa preliminare, sicché la successiva sconfitta nel giudizio era da ritenersi solo l'ulteriore conseguenza di una situazione del tutto prevedibile. Ed è interessante notare che in entrambe le sentenze appena richiamate la Corte ha ribadito che l'obbligazione dell' avvocato è di mezzi e non di risultato.
La casistica giurisprudenziale offre ancora ulteriori pronunce di grande interesse sotto questo profilo. È stata ritenuta sussistente la responsabilità dell' avvocato , per esempio, in relazione alla mancata citazione di testimoni ammessi, sia in sede civile che penale. Nel caso deciso con Cass. 6 febbraio 1998 n. 1286 (45), un avvocato era stato chiamato a rispondere civilmente a titolo di responsabilità professionale perché, essendosi costituito parte civile in un processo penale conseguente a un sinistro stradale, era stato poi dichiarato decaduto da tale costituzione per assenza, sicché l'imputato era stato assolto con formula piena. Nel giudizio promosso contro di lui per responsabilità professionale , la Corte di cassazione, nel respingere il ricorso contro la sentenza di secondo grado, ha rilevato che quest'ultima aveva correttamente dedotto la sussistenza di una responsabilità dell' avvocato in quanto la deposizione dei testi della parte civile avrebbe potuto condurre il giudice penale almeno ad una pronuncia assolutoria con la formula dubitativa (si era nel vigore del codice di procedura penale del 1930); pronuncia che non avrebbe esplicato alcun effetto preclusivo in sede civile. La sentenza è di grande interesse perché riconosce che la responsabilità del professionista non esige da parte del cliente la dimostrazione che il compimento di una certa attività (omessa) avrebbe portato ad un esito certamente positivo, bensì ritiene sufficiente una valutazione in termini probabilistici dell'esito di tale attività (c.d. «danno da perdita di chance») (46).
Al riguardo, è da menzionare anche Cass. 26 febbraio 2002 n. 2836 (47). In questo caso il giudizio di responsabilità professionale era stato promosso nei confronti dell' avvocato per la tardiva proposizione di un'impugnazione, successivamente dichiarata inammissibile. La pronuncia è interessante perché la Corte, nel rigettare il ricorso, fa propria la tesi del tribunale e della Corte d'appello i quali avevano sì riconosciuto che tale tardiva proposizione era da ascriversi a colpa del professionista, ma avevano nel contempo respinto la domanda risarcitoria sul rilievo che mancava del tutto la prova della ragionevole certezza dell'esito finale positivo del giudizio, ove esso fosse stato tempestivamente proposto. La Corte di cassazione, con una motivazione che pare alquanto divergente da quella indicata in precedenza, afferma che, non potendo l' avvocato garantire l'esito del giudizio, il danno derivante dalla tardiva proposizione di un gravame «è ravvisabile in quanto, e sia pure con criteri necessariamente probabilistici, si accerti che il gravame, se tempestivamente proposto, sarebbe stato giudicato fondato»; indagine questa affidata al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivata (com'era nel caso di specie).
Come si vede, dunque, non potendosi esigere dall' avvocato il raggiungimento del risultato consistente nell'esito vittorioso del giudizio, la giurisprudenza fatica ad individuare un criterio unitario di valutazione della responsabilità , soprattutto quando occorre valutare l'effetto ipotetico che sarebbe potuto derivare al cliente dal compimento di una certa attività difensiva che invece è stata omessa (48).

6. La colpa professionale: tentativi di definizione 
Poiché, come si è già detto, la responsabilità professionale trova il proprio fondamento, di regola, nella violazione degli obblighi contrattuali, il problema si sposta, a questo punto, sull'accertamento della colpa. Non pone particolari dubbi, infatti, il caso della responsabilità dolosa, essendo pacifico che in tale evenienza il professionista sarà tenuto al risarcimento, eventualmente concorrente con l'affermazione di una responsabilità penale, ove sussistano gli estremi di un reato. Di regola, però, l'obbligo risarcitorio in capo al professionista sorge a seguito di un comportamento colposo.
Il nostro codice civile, com'è noto, non contiene alcuna definizione della colpa, per la quale occorre rifarsi alla legge penale e, in particolare, all'art. 43 c.p., che richiama i tradizionali concetti di negligenza, imprudenza e imperizia, oltre all'inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (49). Quanto al grado della colpa, poi, solitamente essa viene classificata in lievissima, lieve e grave (50), con una distinzione che acquista grande rilievo proprio nella materia della responsabilità professionale . La colpa lieve consiste nella violazione dell'ordinaria diligenza, mentre quella grave consiste nella violazione della diligenza minima (51) e può quasi sconfinare nel dolo. È peraltro da rammentare che l'art. 2043 c.c. parla di fatto «doloso o colposo», sicché la figura della colpa civile viene richiamata in materia di responsabilità extracontrattuale, ossia in un campo che, come si è detto, è in linea di massima estraneo a quello della responsabilità professionale .
Nel tentare una definizione della colpa, la dottrina intende solitamente per negligenza l'omissione di comportamenti cui il professionista è tenuto in riferimento alla capacità media della categoria di appartenenza; si individuano perciò in tale ambito una serie di atteggiamenti negativi che possono caratterizzare il comportamento del professionista medesimo, come disattenzione, dimenticanza, svogliatezza e pigrizia (52). L'imprudenza, invece, è definita come difetto di misure di cautela idonee a prevenire l'evento dannoso (53) nonché come «temerarietà sperimentale» (54), ovvero l'aver agito senza le necessarie competenze specifiche; professionista prudente, quindi, è colui il quale, venendogli prospettato un incarico superiore alle sue capacità e alla sua esperienza, rifiuti di accettarlo. L'imprudenza è, in definitiva, il rovescio della medaglia della discrezionalità riconosciuta ad ogni professionista intellettuale, essendo impensabile che a tale libertà non faccia riscontro alcuna responsabilità . L'imperizia, infine, che è forse la figura più complessa, si identifica con la violazione delle regole tecniche che generalmente vengono seguite in un certo settore; al professionista, infatti, si richiede un'approfondita conoscenza di tali tecniche oltre al possesso di quel necessario bagaglio di cognizioni specifiche frutto dell'esperienza (55). E fra tali elementi rientra certamente l'obbligo dell'aggiornamento professionale , la cui mancanza è indice di colpa.
Di chiara derivazione penalistica (art. 40 c.p.) è, poi, il concetto di colpa omissiva (56).
Tuttavia, se in teoria la definizione della colpa è facile, la pratica dimostra che i fatti non stanno esattamente così. La giurisprudenza, da parte sua, non si preoccupa, generalmente, di procedere a classificazioni di scuola, essendo suo compito specifico quello di risolvere singole fattispecie. E nella maggior parte delle pronunce l'affermazione della colpa professionale si trova intimamente connessa col discorso sulla diligenza qualificata di cui ci siamo occupati supra, § 3; colpevole è il professionista che ha agito senza rispettare l'obbligo di diligenza al quale era tenuto in rapporto al caso concreto e allo stato dell'arte in un determinato settore, che egli doveva ragionevolmente conoscere.
Si giunge, così, alla specifica norma dell'art. 2236 c.c. sul quale si impone una peculiare riflessione.

7. L'art. 2236 c.c. Origine della norma e sua limitazione giurisprudenziale. Progressiva restrizione dell'area della irresponsabilità professionale
Poiché la diligenza specifica prevista dall'art. 1176, comma 2, c.c., è alla base di tutto il sistema della responsabilità del professionista intellettuale, la conseguenza ovvia è che questi risponde di regola anche nei limiti della colpa lieve, ossia per violazione dei canoni dell'ordinaria diligenza, secondo un meccanismo improntato ad indubbia severità, ma tuttavia coerente con le premesse (57).
In questo quadro s'inserisce e trova la sua ragion d'essere l'art. 2236 c.c., in base al quale, se la prestazione «implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave». Può ben dirsi che su questa norma - che è la chiave per comprendere tutto il problema della colpa professionale - sono stati impiegati «fiumi d'inchiostro», sia per delimitarne l'esatta portata sia per inserirla in modo coerente nell'ambito del sistema. D'altra parte, com'è stato acutamente osservato, la storia della colpa professionale «è storia di privilegi e di immunità: privilegi della categoria dei professionisti, volti ad ottenere una disciplina differenziata della propria attività e immunità derivanti dal tipo di attività, ma soprattutto dall'appartenenza dei più (per non dire della totalità) al ceto borghese dominante (e codificatore)» (58).
Secondo la Relazione del Guardasigilli al codice civile del 1942, l'articolo in questione doveva servire a contemperare due opposte esigenze, «quella di non mortificare l'iniziativa del professionista, col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso, e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista». Da un lato, cioè, la norma dovrebbe proteggere il professionista garantendone la libertà ed autonomia di iniziativa che è tipica delle professioni intellettuali; dall'altro, però, essa dovrebbe nel contempo fungere da stimolo, onde evitare che il medesimo compia scelte avventate o sia semplicemente inerte. Se può convenirsi con chi rileva che l'art. 2236 c.c. costituisce una limitazione della responsabilità che «trova la sua giustificazione nella esigenza di garantire al professionista (intellettuale) quel margine di libertà, e in certa misura di creatività, in relazione al quale è insita una certa dose di rischio che il cliente è tenuto a sopportare» (59), pur tuttavia occorre riconoscere che tale articolo, analogamente alla Relazione che lo accompagna, ha finito col creare molti problemi; tanto che qualcuno ha ricordato come da simile formulazione sia derivato «un incessante lavorio dottrinale, volto a riportare l'infelice formulazione del disposto entro margini di accettabile ragionevolezza» (60). Ed a quest'opera di chiarimento ha contribuito in modo significativo la giurisprudenza, come tra poco vedremo.
Ad un primo e superficiale approccio, la norma potrebbe apparire suscettibile di una lettura del tutto inaccettabile, oltre che in contrasto con l'intero sistema della responsabilità contrattuale; e cioè che al professionista intellettuale sia richiesto un impegno minore proprio nei casi maggiormente complessi, attraverso la limitazione della responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà. Il che è francamente assurdo, come tutta la migliore dottrina ha evidenziato (61). In realtà, per poter dare un'interpretazione ragionevole della norma, occorre partire da un altro presupposto, ossia che l'art. 2236 c.c. non è che un'esplicazione e un completamento dell'art. 1176, comma 2, c.c.; in termini ancora più chiari, la regola generale è nel senso che l'obbligo di diligenza qualificata determina la responsabilità del professionista anche per colpa lieve, mentre l'attenuazione di responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave avviene in presenza di una prestazione di particolare difficoltà. In tal modo l'art. 2236 c.c., che certamente è una norma di favore poiché restringe il campo di operatività della responsabilità professionale (62), finisce con il ricoprire una funzione residuale.
Siffatta interpretazione, comunemente accolta dalla dottrina (63), è ormai recepita dalla giurisprudenza (64) e costituisce un primo passo di quel cammino di progressiva limitazione dell'area dell'irresponsabilità dei professionisti intellettuali che caratterizza le pronunce più recenti. Alla luce di simile impostazione la responsabilità del professionista, opportunamente diversificata da quella prevista per il contratto d'opera e per il contratto di appalto, nei quali il debitore è tendenzialmente obbligato alla consegna dell'opus perfectum, rientra tuttavia nell'alveo generale della responsabilità contrattuale, senza patire le aberranti conseguenze che verrebbero a derivare da una dilatazione eccessiva della norma di favore.
Il cammino di erosione compiuto dalla giurisprudenza, tuttavia, non si arresta qui. Seguendo e ampliando un'affermazione contenuta, sia pure a livello di obiter, in una risalente sentenza della Corte costituzionale (65), la Corte di cassazione ha interpretato restrittivamente la portata dell'art. 2236 c.c., nel senso di ritenerlo applicabile soltanto nei casi di imperizia, e non anche ove venga accertata la negligenza e/o l'imprudenza del professionista. E questo implica che, ove in concreto si dimostri la sussistenza di un comportamento negligente o imprudente, non ha più alcuna importanza il fatto che la prestazione professionale si possa definire di speciale difficoltà, perché la violazione dell'obbligo di diligenza determina di per sé l'inadempimento (66).
Nell'applicazione pratica, una ricostruzione di questo genere - unita al fatto che la giurisprudenza ammette sempre più di rado il carattere di speciale difficoltà della prestazione professionale - comporta una drastica riduzione dell'effettiva sfera di applicazione dell'art. 2236 c.c., al punto da indurre qualcuno ad affermare che l'esonero dalla responsabilità rischia di rimanere limitato ai soli casi di prestazione professionale del tutto straordinaria ed eccezionale, poco nota in ambito scientifico, tale da richiedere un grado di perizia che trascende in ampia misura la preparazione e l'abilità di un professionista di medie capacità (67). Questa conclusione della dottrina è probabilmente eccessiva, perché finisce col rendere quasi inapplicabile l'art. 2236 c.c.
Non mi sembra, peraltro, che la giurisprudenza dica effettivamente qualcosa di simile. È vero che assistiamo ad una «progressiva riduzione dell'ambito di operatività della colpa grave nell'ambito della responsabilità da esercizio di attività professionali dovuta proprio all'innalzamento del grado di perizia richiesto nell'espletamento della professione» (68); è vero che la facilità di divulgazione dei risultati scientifici (si pensi, soprattutto, al campo medico) comporta che ci si possa esprimere oggi in termini di imperizia per situazioni nelle quali in passato si poteva essere chiamati a rispondere solo per dolo o colpa grave; è vero, insomma, che «lo standard valutativo del comportamento del professionista è in costante innalzamento» (69). È altrettanto vero, però, che l'interpretazione dell'art. 2236 c.c. che la giurisprudenza fornisce rappresenta piuttosto il tentativo di permettere una sorta di valutazione caso per caso, senza dettare regole generali troppo rigide che condurrebbero a risultati spesso incoerenti; è l'adattamento duttile e pragmatico dei principi teorici al caso concreto, che consente di volta in volta di pervenire o meno all'affermazione di responsabilità professionale in base agli elementi di fatto accertati dal giudice di merito, al quale ancora una volta è affidato un compito di grande delicatezza ed importanza. Ed in questo modo si perviene anche ad un obiettivo di giustizia sostanziale, per cui a mano a mano che aumenta il grado di difficoltà della prestazione professionale diminuisce la sfera della colpa civile rilevante ai fini di un giudizio di responsabilità , fermo restando l'obbligo di diligenza richiesto dalla regola generale dell'art. 1176 c.c.

8. Il problema dell'onere della prova
Si è già accennato (supra, § 3 e 5) ad alcuni particolari aspetti dell'onere della prova nei giudizi civili relativi alla responsabilità professionale . Si sono richiamati i casi giurisprudenziali nei quali l'obbligo di diligenza (per lo più nel campo medico) è stato diversamente graduato in relazione alla condizione soggettiva del debitore ovvero all'oggettiva «difficoltà» o «facilità» della prestazione dedotta in obbligazione, sicché a questo punto è necessaria soltanto qualche precisazione di carattere sistematico.
Com'è noto, secondo il tradizionale insegnamento della dottrina civilistica, uno dei punti di differenza più importanti tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale è, appunto, la disciplina dell'onere della prova. Nelle obbligazioni contrattuali, infatti, il creditore è tenuto a dimostrare l'esistenza del titolo e l'inadempimento del debitore, spettando a quest'ultimo l'onere di provare che l'inadempimento o il ritardo sono stati determinati, ai sensi dell'art. 1218 c.c., da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile; nelle obbligazioni da fatto illecito, invece, la posizione del creditore è più difficile, essendo egli tenuto a dimostrare il danno, il dolo o la colpa del debitore e il nesso di causalità tra la condotta e l'evento (70).
Rispetto a questo schema classico, il caso della responsabilità professionale diverge in modo significativo, e ciò proprio in conseguenza della distinzione dottrinale tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. Nel senso chiarito quando si è riportata la giurisprudenza che continua a richiamarsi a detta divisione, è palese che il creditore non può limitarsi, nei confronti del professionista intellettuale, a dimostrare l'esistenza del contratto e il mancato adempimento inteso come soddisfazione del proprio interesse, perché ben potrebbe il debitore aver adoperato tutta la necessaria diligenza senza raggiungere lo scopo (il risultato, appunto) che il contratto stesso si prefiggeva. Poiché siamo in un campo in cui acquista primaria importanza il comportamento del debitore e il rispetto, da parte sua, dello standard di diligenza che gli viene richiesto in rapporto alla situazione (71), l'onere della prova a carico del creditore viene aggravato, diventando del tutto simile alle regole della responsabilità aquiliana.
Sulla base di queste premesse si comprende la giurisprudenza in base alla quale nei giudizi di responsabilità professionale il creditore deve non soltanto dimostrare di aver sofferto un danno, ma pure che questo è stato causato da insufficiente o inadeguata attività o preparazione del professionista (72); in pratica, il creditore deve dimostrare la colpa e il nesso di causalità tra quest'ultima e l'evento. A ben guardare, d'altra parte, il punto cruciale della questione è proprio quello di stabilire su chi debba gravare l'onere della prova della colpa professionale , che la giurisprudenza sembra orientata a porre a carico del cliente.
Va peraltro tenuto presente che la stessa giurisprudenza tempera la severità di quest'affermazione con numerose presunzioni che, in concreto, si risolvono a favore del cliente e in danno del professionista; tipico esempio sono le presunzioni che ho richiamato nei paragrafi precedenti. L'esistenza di queste ultime - come, ad esempio, quella per cui il medico doveva essere a conoscenza di un certo tipo di terapia o di un determinato orientamento scientifico in quel campo - affiancata all'uso sempre più limitato dell'art. 2236 c.c. (v. supra, § 7), possono ritenersi il segno di un'erosione sempre maggiore, come già detto, dell'area della irresponsabilità professionale e, d'altra parte, una sorta di punto di equilibrio non rigido tra le ragioni del cliente e la necessaria libertà del professionista intellettuale.
9. Concorso tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale; in particolare, il caso del medico dipendente da una struttura ospedaliera. - Pur essendo indubbio, come più volte detto in precedenza, che la responsabilità professionale è di natura contrattuale, vi sono tuttavia dei casi - e fra questi il più importante è quello dell'attività medica (73) - nei quali dallo svolgimento di una professione intellettuale può derivare anche una responsabilità da fatto illecito. Se il medico, ad esempio, cagiona un danno alla salute, tale responsabilità sarà certamente da fatto illecito, rimanendo peraltro possibile il concorso di responsabilità nel caso in cui vi sia stato anche un contratto.
La dottrina, nel determinare i principali punti di differenza tra la responsabilità contrattuale e quella c.d. «aquiliana», è solita richiamarsi, oltre all'onere della prova già menzionato nel paragrafo che precede, anche ad altre significative divergenze: la prescrizione, decennale in ambito contrattuale e quinquennale in quello extracontrattuale (art. 2947 c.c.), il limite della prevedibilità del danno (art. 1225 e 2056 c.c.), la costituzione in mora, non necessaria nelle obbligazioni derivanti da illecito (art. 1219, n. 1, c.c.), e il diverso atteggiarsi della solidarietà passiva (art. 1298 e 2055 c.c.) (74). Il codice non regola espressamente il caso di concorso tra i due tipi di responsabilità , pur essendo detta ipotesi pacificamente ammessa in dottrina e in giurisprudenza. È certo che far derivare da un medesimo fatto una responsabilità civile a doppio titolo si risolve in un favore per il danneggiato, il quale può scegliere quale tipo di azione esercitare; tuttavia è opportuno chiarire che «parlando di concorso o di cumulo non si intende la possibilità per il danneggiato di sommare i benefici dell'una e dell'altra azione, ottenendo due volte il risarcimento per lo stesso fatto lesivo, bensì la legittimazione ad agire in via alternativa a titolo di responsabilità contrattuale o extracontrattuale» (75).
Il concorso tra i due tipi di responsabilità nell'ambito professionale investe un'importanza pratica minore di quanto ci si potrebbe attendere, nonostante la diversità sia teoricamente molto netta. Affrontando la materia dell'onere della prova, si è già visto che la posizione del creditore, ossia del cliente, è regolata nei giudizi sulla responsabilità professionale secondo criteri assai simili a quelli valevoli nella responsabilità da fatto illecito. A questo primo punto di convergenza si deve aggiungere che la giurisprudenza applica la disposizione di favore dell'art. 2236 c.c. anche in caso di responsabilità extracontrattuale (76); in altre parole, la limitazione di responsabilità al dolo e alla colpa grave, in caso di prestazione di particolare difficoltà, vale pure in assenza di un contratto, avendo la Cassazione interpretato tale norma come limite generale della responsabilità professionale , indipendentemente dalla sua fonte. Ne consegue che, in virtù di questo secondo significativo punto di coincidenza, l'esercizio dell'azione contrattuale in luogo di quella extracontrattuale finisce col rivestire una qualche importanza pratica ai soli fini della prescrizione, potendo il cliente avvalersi della prescrizione decennale, in caso di cumulo di azioni, anche in riferimento al danno derivante da fatto illecito (77).
Come si avvertiva in precedenza, il terreno più significativo di applicazione del concorso di responsabilità è quello della professione medica e, specificamente, il caso del sanitario dipendente (ovvero solo occasionalmente inserito) da una struttura ospedaliera pubblica o privata. Il problema si pone qui in modo evidente perché abitualmente il cliente che si rivolge ad una simile struttura conclude un contratto d'opera professionale direttamente con la casa di cura e solo indirettamente col singolo medico curante, che in taluni casi non è scelto o addirittura neppure personalmente conosciuto. Ciò comporta che l'ospedale o la casa di cura privata debbono rispondere a titolo contrattuale degli eventuali errori terapeutici compiuti dal medico (78); rimanendo poi da risolvere il problema del titolo in base al quale quest'ultimo possa essere chiamato a rispondere in caso di lesione del diritto alla salute.
In ordine alla responsabilità del medico, la giurisprudenza non è concorde, anche perché la situazione può essere diversa a seconda che il medico sia o meno inserito stabilmente, con un rapporto di dipendenza, all'interno della struttura sanitaria. Secondo un primo orientamento, infatti, le due responsabilità andrebbero accomunate, rientrando tutte nell'ambito contrattuale (79); nelle sentenze ora richiamate, però, il medico responsabile era dipendente della struttura stessa, sicché la comune natura contrattuale della responsabilità si fonda proprio su tale vincolo di subordinazione. In base a un diverso orientamento, invece, la responsabilità del medico dovrebbe considerarsi di natura extracontrattuale, essendo intercorso il vincolo contrattuale solo con l'ospedale o casa di cura (80); è interessante notare, peraltro, che nel caso ora richiamato - in cui si discuteva della responsabilità di un medico ginecologo per gravi danni derivanti al neonato a seguito di una non corretta assistenza al parto - la Corte di cassazione ha respinto il ricorso avverso la sentenza d'appello che aveva tuttavia affermato la natura contrattuale della responsabilità , in conseguenza del rapporto fiduciario esistente tra medico e paziente (il ginecologo aveva seguito tutta la gravidanza, aveva invitato la donna a recarsi in ospedale e poi aveva omesso doverose cautele nei suoi confronti, con conseguenti danni alla bambina).
Di grande rilievo è, in argomento, Cass., sez. un., 1° luglio 2002 n. 9556 (81). Anche qui si trattava di responsabilità di un ginecologo per gravi danni (totale invalidità) causati al neonato per imperizia nell'ambito del parto. La sentenza, che riveste interesse sotto molteplici aspetti, affronta anche il problema dei riflessi che la natura fiduciaria del rapporto medico-paziente esplica nei confronti della casa di cura; quest'ultima, infatti, nel caso specifico sosteneva la propria irresponsabilità in considerazione della scelta del sanitario liberamente compiuta da parte della paziente, scelta rispetto alla quale la casa di cura si riteneva estranea. Nella motivazione la Corte, dopo aver riconosciuto che il danno riportato dal neonato era da connettersi ad imperizia dei sanitari - i quali avevano collocato il bambino in incubatrice con somministrazione di ossigeno, mentre avrebbero dovuto ricoverarlo in altro centro, attrezzato per la specifica terapia d'urgenza - afferma che il contratto d'opera professionale era stato comunque concluso tra la paziente e la casa di cura, sicché quest'ultima è chiamata a rispondere dell'operato del medico, anche in assenza di un rapporto di subordinazione del medico rispetto alla prima. Al riguardo, la sentenza evidenzia il carattere autonomo e diretto della responsabilità della casa di cura, che consiste non solo nel mettere a disposizione la struttura «alberghiera» necessaria, bensì anche il personale medico e paramedico, oltre alle medicine e a tutto quanto occorra all'intervento.
Merita di essere segnalata, infine, una sentenza con la quale la Corte di cassazione, prendendo le distanze da entrambi i filoni appena indicati, ha definito la responsabilità del medico come responsabilità da «contatto sociale» (82). Partendo dal dato normativo dell'art. 2126 c.c. e richiamando una ricca elaborazione dottrinale, la Corte osserva che «vi sono casi di rapporti che nella previsione legale sono di origine contrattuale e tuttavia in concreto vengono costituiti senza una base negoziale e talvolta grazie al semplice "contatto sociale"»; e poiché la prestazione del medico non può che essere la stessa, indipendentemente dall'esistenza o meno di un contratto d'opera professionale , ne consegue che la responsabilità dell'ente gestore del servizio ospedaliero e quella del medico dipendente hanno natura contrattuale dal punto di vista contenutistico, pur non essendo il contratto la fonte dell'obbligazione (83).
Questa particolare ricostruzione attraverso il richiamo alla figura dell'obbligazione da contatto pare farsi strada nella giurisprudenza, che l'ha recentemente utilizzata anche per inquadrare la concorrente responsabilità dell'insegnante in occasione dei danni che l'allievo procura a sé stesso, responsabilità che si affianca a quella contrattuale dell'istituto scolastico (84).

NOTE:

Il presente scritto riproduce, con aggiunte e modifiche, il testo della relazione svolta in occasione del Convegno organizzato dal Consiglio superiore della magistratura su «Professioni intellettuali: responsabilità ed etica», Roma 26 maggio 2003.

(1) Cfr., tra le altre, C. cost. 27 luglio 1995 n. 412, in Giur. cost., 1995, 2947; C. cost. 26 ottobre 2000 n. 441, ivi, 2000, 3314.
(2) Cass. 25 novembre 1994 n. 10014, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 937, con nota di Ferrando, Chirurgia estetica, consenso informato del paziente e responsabilità del medico; Cass. 15 gennaio 1997 n. 364, in Foro it., 1997, I, 771, con nota di Palmieri, Relazione medico-paziente tra consenso globale e responsabilità del professionista; Cass. 6 ottobre 1997 n. 9705, in questa Rivista, 1998, I, 424.
L'argomento è trattato, con ampi riferimenti giurisprudenziali, da Bilancetti, La responsabilità penale e civile del medico, Padova 2003, 960 ss.
Sull'obbligo di informazione nell'ambito del rapporto tra medico e paziente, v., pure, Paradiso, La responsabilità medica: dal torto al contratto, in Riv. dir. civ., 2001, I, 341 ss.
(3) Cass. 15 novembre 1999 n. 12621, in Foro it., 2000, I, 3588.
(4) Citata supra, nt. 2.
(5) Cass. 8 agosto 1985 n. 4394, in Foro it., 1986, I, 121, con nota di Princigalli, Chirurgia estetica e responsabilità civile; in Giur. it., 1987, I, 1, 1136, con nota di Romano, Considerazioni in tema di responsabilità contrattuale del medico per violazione del dovere di informazione. La sentenza è incidentalmente commentata anche da Alpa, Bessone, Zeno-Zencovich, I fatti illeciti, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, XIV, Torino 1995, 94.
(6) Citata supra, nt. 2.
(7) Cass. 8 aprile 1997 n. 3046, in Corr. giur., 1997, 546, con nota critica di Carbone, Obbligazioni di mezzi e di risultato tra progetti e tatuaggi. L'autore rileva, infatti, che la sentenza annotata dimostra un intento punitivo nei confronti di chi si sia fatto tatuare e si sia poi pentito, creando una distinzione ingiustificata tra chi sia costretto a ricorrere alla chirurgia estetica per cause solo apparentemente indipendenti dalla sua volontà e chi tale strada debba percorrere per cause direttamente e palesemente dipendenti dalla sua volontà.
(8) È il noto caso deciso da Cass. 8 luglio 1994 n. 6464, in Giur. it., 1995, I, 1, 790, con nota di Fascella, La risarcibilità del danno conseguente all'insuccesso dell'intervento di interruzione della gravidanza; in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 1107, con nota di Orrù, Sulla responsabilità medica per mancata interruzione della gravidanza; in Rass. dir. civ., 1996, 342, con nota di Carusi, Fallito intervento di interruzione di gravidanza e responsabilità medica per omessa informazione: il «danno da procreazione» nella giurisprudenza della Cassazione italiana e nelle esperienze straniere.
(9) Sono tre sentenze, tutte di grande importanza: Cass. 1° dicembre 1999 n. 12195, in questa Rivista, 1999, I, 672, con nota di Giacalone, Sull'obbligo di informazione del medico circa le malfor mazioni del feto e sulla domanda risarcitoria proposta dal padre; Cass. 24 marzo 1999 n. 2793, in Giur. it., 2000, 43, con nota di Baratto, Il risarcimento del danno per il mancato esercizio del diritto all'interruzione della gravidanza: un problema aperto; Cass. 10 maggio 2002 n. 6735, in Foro it., 2002, I, 3115, con nota di Simone, Nascita indesiderata: il diritto alla scelta preso sul serio. Queste sentenze sono tutte richiamate da Guarneri, Nascita di figlio malformato, errore diagnostico del medico e regola di responsabilità civile, in Riv. dir. civ., 2002, II, 849 (soprattutto 857 ss.), in una prospettiva di diritto comparato.
(10) Citata supra, nt. 9.
(11) V., sul punto, Ferrando, op. cit., 947 s., con ulteriori richiami alle sentenze precedenti; Gabrielli, Obbligazioni del professionista e responsabilità professionale , in La responsabilità civile a cura di Cendon, VI, Torino 1998, 271 s.; Cafaggi, voce Responsabilità del professionista, in D. disc. priv., sez. civ., XVII, Torino 1998, 158 s.; nonché Macrì, La responsabilità professionale , in Le professioni intellettuali a cura di Ibba, Latella, Piras, De Angelis, Macrì, Torino 1987, 232.
(12) Cfr. Cass. 15 giugno 1999 n. 5946, in Resp. civ. prev., 2000, 1392, con nota di Bertaglia, Brevi riflessioni in tema di responsabilità notarile; Cass. 21 aprile 2000 n. 5232, in Riv. not., 2000, II, 1267; Cass. 6 aprile 2001 n. 5158, ivi, 2001, II, 1206; Cass. 18 gennaio 2002 n. 547, in Giur. it., 2002, 1586, con nota di Stucchi.
(13) Cass. 15 giugno 1999 n. 5946, citata supra, nt. 12.
(14) Citata supra, nt. 12.
(15) Citata supra, nt. 12.
(16) Citata supra, nt. 12.
(17) In tal senso, Macrì, op. cit., 219 ss.; Gabrielli, op. cit., 259; Musolino, Il contratto d'opera professionale , Milano 1999, 299.
(18) Perulli, Il lavoro autonomo, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, XXVII, t. 1, Milano 1996, 580 ss.
(19) Macrì, op. cit., 228.
(20) In Giur. it., 2003, 240.
(21) Cass. 18 novembre 1996 n. 10068; Cass. 14 agosto 1997 n. 7618, in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, 890, con nota di Martini, La violazione di norme deontologiche quale fonte di responsabilità professionale dell' avvocato ; Cass. 8 agosto 2000 n. 10431; e Cass. 18 luglio 2002 n. 10454, ove si fa riferimento alla diligenza del professionista di media attenzione e preparazione.
(22) Cass. 5 agosto 2002 n. 11728 (diligenza del buon padre di famiglia).
(23) In Giur. it., 1996, I, 1, 91, con nota di Carusi, Responsabilità del medico, diligenza professionale , inadeguata dotazione della struttura ospedaliera. In dottrina, cfr. Perulli, op. cit., 592.
(24) Cfr. Cass. 26 marzo 1990 n. 2428, in Giur. it., 1991, I, 1, 600, con nota di Carusi, Responsabilità del medico, prestazione professionale di speciale difficoltà e danno alla persona.
(25) In Diritto e giustizia, 2003, n. 5, p. 32, con note di Evangelista e di Giacomardo, Tutela aquiliana del lavoro sportivo e responsabilità dei medici sociali. A carico delle società obblighi di prevenzione e controllo.
(26) Sull'argomento è doveroso il richiamo all'imponente saggio di Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», in Riv. dir. comm., 1954, 185, 280, 366, che, nonostante il lungo tempo trascorso, possiede una sorprendente attualità, oltre a grande chiarezza espositiva e completezza di richiami alla dottrina straniera.
(27) Così Rescigno, Obbligazioni (nozioni), in Enc. dir., XXIX, Milano 1979, 191.
(28) Mengoni, op. cit., 189.
(29) Rescigno, op. cit., 191. In tal senso anche Di Majo, Obbligazione: I. Teoria generale, in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma 1990, 26 s., secondo cui il grado della diligenza da impiegare nell'adempimento è unico, non esistendo obbligazioni solo di diligenza e/o di risultato. V. pure Bianca C.M., Dell'inadempimento delle obbligazioni, in Commentario al codice civile diretto da Scialoja e Branca, Libro quarto delle obbligazioni (Art. 1218-1229), Bologna-Roma 1979, 31 ss.
Contrario alla distinzione è anche Santoro-Passarelli, Professioni intellettuali, in Nss. D.I., XIV, Torino 1967, 25. Per un tentativo di recupero della distinzione ai fini dell'utilità descrittiva dei singoli obblighi, v., più di recente, Paradiso, op. cit., 329.
(30) Mengoni, op. cit., 188.
(31) V., sul punto, Rescigno, op. cit., 180 s.; nonché Giorgianni, Obbligazione (diritto privato), in Nss. D.I., XI, Torino 1965, 587; Bianca C.M., Diritto civile, IV. L'obbligazione, Milano 1990, 41 ss.
(32) In tal senso, Mengoni, op. cit., 193.
(33) Gli esempi sono di Rescigno, op. cit., 191. È peraltro evidente che in simili casi si porrà comunque il problema di dimostrare l'esistenza di un danno giuridicamente rilevante: v., in proposito, Cass. 8 maggio 1993 n. 5325, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, 266, con nota di Marinelli, Le nuove frontiere della responsabilità professionale dell' avvocato .
(34) La tematica è molto ricca e complessa e qui può solo essere accennata. Fondamentale sull'argomento rimane il contributo chiarificatore di Giorgianni, Inadempimento (diritto privato), in Enc. dir., XX, Milano 1970, 874 ss., la cui tesi portante è quella per cui tutto il sistema dell'inadempimento si regge sulla violazione di una regola di condotta, che orienta il comportamento del debitore verso il mantenimento della possibilità della prestazione ovvero verso il soddisfacimento dell'interesse del creditore; in quest'ultimo caso la regola fondamentale è quella dell'art. 1176 c.c. e delle altre norme che ad esso fanno capo (p. 883).
(35) L'affermazione è ribadita in più occasioni: v., ex plurimis, Cass. 14 agosto 1997 n. 7618, citata supra, nt. 21; Cass. 15 giugno 1999 n. 5946, citata supra, nt. 12; Cass. 8 agosto 2000 n. 10431 e Cass. 18 luglio 2002 n. 10454, citate supra, nt. 21; Cass. 26 febbraio 2002 n. 2836, in Resp. civ. prev., 2002, 1373.
(36) Cfr. Perulli, op. cit., 566.
(37) Cass. 28 gennaio 1995 n. 1040; nonché Cass. 21 marzo 1997 n. 2540, in Corr. giur., 1997, 547, con nota di Carbone, cit.
(38) In tal senso, Cass. 13 luglio 1998 n. 6812, in Foro it., 1999, I, 205; e Cass. 5 agosto 2002 n. 11728. V. pure Cass. 16 febbraio 1996 n. 1208, sul problema del progetto tecnico redatto in difformità delle regole tecniche e di quelle giuridiche concernenti le modalità di edificazione su un determinato territorio.
Un recente contributo in materia di responsabilità del professionista nel settore tecnico si deve a Petrone, La responsabilità civile del professionista nel settore tecnico, in questa Rivista, 2001, II, 63 ss.
(39) Il principio, già affermato da Cass. 21 dicembre 1978 n. 6141, in Foro it., 1979, I, 4, è stato poi ripreso da Cass. 30 maggio 1996 n. 5005 e Cass. 4 febbraio 1998 n. 1127, in Giur. it., 1998, 1800. Nello stesso senso, v., pure, Cass. 8 gennaio 1999 n. 103, in Resp. civ. prev., 1999, 683, con nota di Sanna, I mille volti della responsabilità medica: la responsabilità della casa di cura privata; e Cass. 23 febbraio 2000 n. 2044, in Giur. it., 2000, 2015, con nota di Zuccaro, Responsabilità del medico e regime probatorio.
V. pure Gabrielli, op. cit., 265-268.
(40) Citata supra, nt. 39.
(41) Citata supra, nt. 39.
(42) Così Cass. 23 luglio 2002 n. 10741.
(43) Cass. 23 ottobre 2002 n. 14957.
(44) In Danno resp., 2003, 256, con nota di Fabrizio-Salvatore, L' avvocato e la responsabilità da parere.
(45) In Resp. civ. prev., 1998, 650, con nota di De Fazio, Responsabilità dell' avvocato per la perdita del processo e per la perdita della chance di vincere il processo.
In riferimento al c.d. «danno da perdita di chance» in conseguenza della negligenza di un ragioniere, cfr. Cass. 13 dicembre 2001 n. 15759, in Danno resp., 2002, 393, con nota di Bitetto, Chance perduta come fonte di danno per mancato rispetto delle «regole». Ma quanto vale un'occasione?
(46) Sulla stessa linea si colloca Cass. 23 aprile 2002 n. 5928, in Giur. it., 2003, 460, con nota di Spinelli Francalanci, La responsabilità contrattuale dell' avvocato : la diligenza imposta al professionista nell'espletamento del suo incarico. Rapporto tra gli artt. 1176 e 2236 codice civile. Anche qui la Corte di cassazione ha respinto il ricorso avverso la sentenza d'appello che aveva riconosciuto la responsabilità dell' avvocato , a titolo di negligenza, per la mancata citazione di testimoni e per la mancata indicazione della data di comparizione nell'atto di opposizione a decreto ingiuntivo.
(47) In Resp. civ. prev., 2002, 1373, con nota di Facci, L'errore dell' avvocato , l'appello tardivo e la chance di vincere il processo.
(48) Cfr., in proposito, anche Cass. 28 aprile 1994 n. 4044, in Resp. civ. prev., 1994, 635, con nota di Ruta, La responsabilità dell' avvocato : alcune considerazioni in margine ad una riaffermazione della Suprema Corte, ove si afferma che per riconoscere la responsabilità dell' avvocato occorre la «certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista medesimo sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente»; non è chiaro, peraltro, in cosa si identifichi tale certezza!
Per un panorama giurisprudenziale in tema di responsabilità professionale dell' avvocato , cfr. Barca, La responsabilità contrattuale dell' avvocato nell'espletamento dell'incarico ricevuto (rassegna di giurisprudenza), in Rass. forense, 2001, 871 ss.; nonché Franciosi, La responsabilità civile dell' avvocato , in Resp. civ. prev., 2001, 822 ss.
(49) Cfr. Franzoni, Dei fatti illeciti, in Commentario al codice civile, cit., (Art. 2043-2059), Bologna-Roma 1993, 130 ss.; Monateri, Manuale della responsabilità civile, Torino 2001, 47 ss.
La materia della c.d. «colpa civile» è di grande complessità, sicché le citazioni sono soltanto indicative. In generale, cfr. Maiorca, Colpa civile (teoria generale), in Enc. dir., VII, Milano 1960, 534; e Forchielli, Colpa (diritto civile), in Enc. giur. Treccani, VI, Roma 1988.
(50) Così Franzoni, op. cit., 134 s.; Forchielli, op. cit., 3 s.; Monateri, op. cit., 70. Analogamente, v. anche Scognamiglio, Responsabilità civile, in Nss. D.I., XV, Torino 1968, 642, il quale parla di colpa lievissima, media e grave.
(51) Cfr. Bianca C.M., Diritto civile, cit., V. La responsabilità , Milano 1994, 579.
(52) Macrì, op. cit., 228; Gabrielli, op. cit., 275.
(53) Bianca, op. ult. cit., 578.
(54) Macrì, op. cit., 235; Gabrielli, op. cit., 276; Musolino, op. cit., 303.
(55) Così Macrì, op. cit., 236.
Riporto anche, siccome molto interessante, la classificazione di Monateri, op. cit., 48, secondo cui i tre concetti di negligenza, imprudenza ed imperizia «sono unificati dall'idea di scarto dalla norma, da ciò che si può, e si deve aspettare: la colpa sorprende», con ciò volendo dire che il comportamento colposo è quello che viola una regola di comportamento il cui rispetto è doveroso in relazione a quel particolare soggetto in quella particolare situazione, ossia uno standard di diligenza (50).
(56) Franzoni, op. cit., 151 ss., secondo cui si ha colpa omissiva in senso tecnico «quando l'evento è derivato dalla mancata attività del responsabile che aveva l'obbligo giuridico di attivarsi» (154).
(57) V., fra le altre, Cass. 14 agosto 1997 n. 7618, citata supra, nt. 21; Cass. 23 aprile 2002 n. 5928, citata supra, nt. 46; e Cass. 4 novembre 2002 n. 15404.
(58) Alpa, Bessone, op. cit., 84.
(59) L'efficace definizione è di Giacobbe, Professioni intellettuali, in Enc. dir., XXXVI, Milano 1987, 1084.
(60) Così Perulli, op. cit., 614.
(61) Cfr. Giorgianni, Inadempimento, cit., 881; Mengoni, op. cit., 206; Scognamiglio, op. cit., 642; Alpa, Bessone, Zeno-Zencovich, op. cit., 85; Perulli, op. cit., 617.
(62) Cfr. Bianca C.M., op. ult. cit., 28 e 580.
(63) Cfr. Scognamiglio, op. cit., 642; Giacobbe, op. cit., 1084 s.; Perulli, op. cit., 620; Gabrielli, op. cit., 288 s.
(64) Cfr. Cass. 15 gennaio 2001 n. 499, secondo cui la relazione tra gli art. 1176 e 2236 c.c. è di integrazione per complementarietà e non già per specialità, cosicché vale come regola generale quella della diligenza del buon professionista (art. 1176, comma 2) con riguardo alla natura dell'attività, mentre quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà opera l'art. 2236 c.c., delimitando la responsabilità ai casi di dolo o colpa grave. Benché non esplicitato con tale lampante chiarezza, il principio si trova anche in Cass. 10 maggio 2000 n. 5945; Cass. 23 aprile 2002 n. 5928, citata supra, nt. 46, la quale parla di impegno intellettuale superiore a quello normalmente richiesto, Cass. 18 luglio 2002 n. 10454, citata supra, nt. 21; Cass. 4 novembre 2002 n. 15404, citata supra, nt. 57.
(65) C. cost. 28 novembre 1973 n. 166, in Foro it., 1974, I, 20.
(66) Si può parlare, a questo riguardo, di una giurisprudenza assolutamente consolidata. V., fra le più recenti, Cass. 1° agosto 1996 n. 6937; Cass. 18 novembre 1997 n. 11440, in Riv. giur. circ., 1998, 67; Cass. 19 maggio 1999 n. 4852, in Resp. civ. prev., 1999, 995, con nota di Gorgoni, Disfunzioni tecniche e di organizzazione sanitaria e responsabilità professionale medica, e in Giur. it., 2000, 479, con nota di Patarnello, La Corte di cassazione scolpisce i limiti della colpa medica e conferma il proprio revirement in merito alla risarcibilità del danno morale per i parenti della vittima di lesioni colpose; Cass. 15 giugno 1999 n. 5946, citata supra, nt. 2; Cass. 10 maggio 2000 n. 5945, citata supra, nt. 64; Cass. 28 gennaio 2003 n. 1228.
(67) In tal senso si esprime Perulli, op. cit., 619.
(68) Così Franzoni, op. cit., 138.
(69) Ancora Franzoni, lc. ult. cit.
(70) Benché sottoposta a critiche sempre maggiori, tale distinzione viene fatta discendere dagli art. 1218 e 2043 c.c. e mantiene una sua indubbia validità. V., in tal senso, Rescigno, Manuale di diritto privato, Milano 2000, 622; Scognamiglio, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in Nss. D.I., XV, Torino 1968, 673; Monateri, op. cit., 13; Bianca C.M., Dell'inadempimento, cit., 166 ss.
(71) Osserva Franzoni, op. cit., 149, che nelle obbligazioni di fare consistenti in prestazioni di mezzi, il debitore «proprio perché il risultato non è dovuto, può esonerarsi dalla responsabilità dimostrando la propria diligenza, dunque il proprio adempimento». In argomento, v., pure, Macrì, op. cit., 255 ss.
(72) Il principio si trova affermato già nella lontana Cass. 18 giugno 1975 n. 2439 (in Giur. it., 1976, I, 1, 953, con nota di Lega, In tema di responsabilità civile del medico chirurgo), secondo cui il cliente deve dimostrare l'esistenza del danno e il nesso di causalità tra la prestazione eseguita e il danno medesimo.
Cfr. anche, nel senso indicato nel testo, Cass. 28 aprile 1994 n. 4044, citata supra, nt. 48; Cass. 7 agosto 2002 n. 11901; entrambe queste pronunce si riferiscono a casi di responsabilità professionale di un avvocato .
Sulla ripartizione dell'onere della prova, v. pure le acute riflessioni di Carbone, op. cit., 552 ss.
(73) Gabrielli, op. cit., 260 e 297.
(74) Cfr. Monateri, op. cit., 13 s.
(75) Perulli, op. cit., 620.
(76) Tale principio, affermato a suo tempo da Cass., sez. un., 6 maggio 1971 n. 1282, in Giur. it., 1971, I, 1, 1396, è stato poi ribadito da Cass. 17 marzo 1981 n. 1544 e da Cass. 20 novembre 1998 n. 11743.
(77) Alpa, Bessone, Zeno-Zencovich, op. cit., 91; Perulli, op. cit., 625 ss.; Gabrielli, op. cit., 297; Macrì, op. cit., 259.
(78) Secondo Cass. 8 maggio 2001 n. 6386, però, una volta esclusa la colpa del chirurgo, non può essere affermata la responsabilità dell'istituto sanitario, perché tanto l'art. 1229 quanto l'art. 2049 c.c. presuppongono un illecito colpevole dell'autore immediato del danno. Nel caso specifico, la responsabilità del chirurgo era stata esclusa perché, nonostante gli esiti invalidanti derivanti dall'intervento di rimozione di ernia (grave disfonia), tali esiti erano stati ritenuti altamente probabili in relazione al tipo di intervento, benché correttamente eseguito. In argomento v. pure Cass. 4 marzo 2004 n. 4400, in Foro it., 2004, I, 1403.
Sulla natura del rapporto intercorrente tra il paziente e la struttura sanitaria v., di recente, Simone, La responsabilità della struttura sanitaria pubblica e privata, in Danno resp., 2003, 6 ss.
(79) Cfr. Cass. 11 aprile 1995 n. 4152, in Riv. il. med. leg., 1997, 1073; e Cass. 27 luglio 1998 n. 7336, in Resp. civ. prev., 1999, 996, con nota di Gorgoni, cit.
(80) Cfr. Cass. 13 marzo 1998 n. 2750, in Resp. civ. prev., 1999, 272, con nota di Ronchi, Colpa grave del medico: valutazione tecnico-giuridica lasciata al mero arbitrio.
(81) In Foro it., 2002, I, 3060, con nota di Palmieri, Risarcimento del danno morale per la compromissione di un intenso legame affettivo con la vittima da lesioni personali.
(82) Cfr. Cass. 22 gennaio 1999 n. 589, in Corr. giur., 1999, 441, con nota di Di Majo, L'obbligazione senza prestazione approda in Cassazione; in Danno resp., 1999, 294, con nota di Carbone, La responsabilità del medico ospedaliero come responsabilità da contatto.
(83) Sull'obbligazione da «contatto sociale», cfr. Rescigno, Obbligazioni, cit., 155; Id., Contratto (in generale), in Enc. giur. Treccani, IX, Roma 1988, 8.
Sul punto, Carbone, op. ult. cit., 304, richiamando proprio Rescigno, Contratto, cit., 8, osserva che, se è assai discutibile l'equiparazione del fatto al contratto, è invece più accettabile che dal rapporto contrattuale di fatto derivino obbligazioni secondo lo schema dell'obbligazione da contratto.
(84) Cfr. Cass., sez. un., 27 giugno 2002 n. 9346, in Resp. civ. prev., 2002, 1012, con nota di Facci, Minore autolesionista, responsabilità del precettore e contatto sociale.
Sulla responsabilità da contatto sociale in ambito notarile, cfr. Cass. 23 ottobre 2002 n. 14934, in Riv. not., 2003, II, 766.

Autore: Dptt. Francesco M. Cirillo - Giust. civ. 2005, 6, 231