TRIBUNALE CIVILE DI ROMA

Ricorso ex artt. 669 ter e 700 c.p.c.

per il Signor Piergiorgio Welby (C.F. XXXXXXXXXXXXXXXXX) residente in Roma e quivi elett.te domiciliato in Via Sardegna n. 38 presso lo studio degli Avv.ti Prof. Francesco Di Giovanni e Marco Mancini che lo rappresentano e difendono, in unione con il Prof. Avv. Vittorio Angiolini e con l'Avv. Riccardo Maia, in forza di procura speciale alle liti per atti del Notaio Antonio Manzi di Roma del 28 novembre 2006 Rep. n. 78604 che si allega
- ricorrente -
contro
la XXXXXXXXXXX e il Dott. XXXXXXXXXXX
- resistenti -

In fatto

1) Il Signor Piergiorgio Welby è da anni affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo, clinicamente diagnosticato quale "distrofia fascioscapoloomerale".
Il progredire della malattia, seguendo peraltro un decorso non inatteso, ha comportato che, allo stato odierno, al ricorrente è inibito qualsiasi movimento di tutto il corpo, ad eccezione di quelli oculari e labiali, e la sua sopravvivenza è assicurata esclusivamente per mezzo di un respiratore automatico al quale è stato collegato sin dall'anno 1997.

2) La tipologia del morbo è tale che, sulla base delle attuali conoscenze medico - scientifiche, i trattamenti sanitari praticabili non sono in condizione di arrestarne in alcun modo l'evoluzione e, quindi, hanno quale unico scopo quello di differire nel tempo l'ineludibile e certo esito infausto, semplicemente prolungando le funzioni essenziali alla sopravvivenza biologica ed il gravissimo stato patologico in cui il ricorrente versa.

3) Nonostante sia, nel fisico, completamente immobilizzato, il deducente conserva pienamente intatte le proprie facoltà mentali. Va anzi posto in luce che il Sig. Welby, durante la sua lunga malattia, sin dall'inizio prospettatasi con la gravità invalidante che oggi si è manifestata definitivamente, ha costantemente ricevuto puntuali e precise informazioni, anche di carattere tecnico - scientifico, da parte dei propri medici curanti in ordine ai vari stati di evoluzione della patologia, nonché in merito alla tipologia e alle finalità dei trattamenti che via via gli sono stati praticati, che gli vengono attualmente somministrati, nonché di quelli ulteriormente possibili; il Sig. Welby è, dunque, in grado di esprimere una volontà pienamente informata e consapevole circa l'accettazione o il rifiuto dei detti trattamenti.

4) Il ricorrente, in considerazione del suo grave e sofferto stato di malattia in fase irreversibilmente terminale, dopo essere stato debitamente informato, come detto, dei trattamenti praticabili e delle relative conseguenze, ha consapevolmente ed espressamente richiesto, alla struttura ospedaliera ed al medico dai quali è professionalmente assistito, di non essere ulteriormente sottoposto alle terapie di sostentamento in atto, e di ricevere assistenza solamente nei limiti in cui ciò sia necessario per lenire le sofferenze fisiche.

5) In particolare, e come è pacificamente ammesso dallo stesso medico curante, il Sig. Welby ha dichiarato, il 24 novembre 2006, che non consente a proseguire l'utilizzo, sulla propria persona, del ventilatore polmonare, chiedendo espressamente che si proceda al distacco di tale apparecchio di ventilazione, peraltro "sotto sedazione terminale", e dunque con espressa indicazione circa la contestualità tra il distacco medesimo ed il trattamento sedativo teso a scongiurare ulteriori patimenti.

6) La volontà del Sig. Welby è chiaramente ed univocamente espressa. La struttura ospedaliera ed il medico curante, in data 25 novembre 2006, hanno tuttavia, per iscritto, opposto un rifiuto alla richiesta del Sig. Welby, assumendo di non poter dar seguito alla volontà espressa dal paziente, in considerazione degli obblighi ai quali si ritengono astretti. In specie, per la verità non negando, bensì espressamente convenendo di essere "obbligato per legge a rispettare la volontà" del Sig. Welby, e dunque di essere obbligato al distacco del ventilatore polmonare sotto sedazione, il medico curante, rilevato che ciò comporta "pericolo di vita", ha opposto che quando il paziente fosse sedato, e dunque "non più in grado di decidere", scatterebbe immediatamente, appunto in relazione al rischio della "vita", l'obbligo di "procedere immediatamente" a riattaccare il ventilatore polmonare medesimo al fine di "ristabilire la respirazione".

7) Il ricorrente reputa, in questo quadro, che il rifiuto opposto alla sua volontà sia assolutamente ingiustificato e lesivo, direttamente ed immediatamente, di proprie prerogative fondamentali, attinenti alla tutela della propria libertà e dignità personale, e alla libertà di cura. Ciò per i seguenti motivi.

In diritto

8) Va premesso che, nell'ordinamento positivo, costituisce principio ormai pacifico, poiché ripetutamente affermato e ribadito dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, quello secondo il quale nessuna attività medica, come ogni attività che comunque comporti invasione della sfera psico-fisica della persona, può essere compiuta o proseguita in difetto del previo ed esplicito consenso manifestato dall'interessato (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 30 luglio 2004 n. 14638, secondo cui la "informazione è condizione indispensabile per la validità del consenso, che deve essere consapevole, al trattamento terapeutico e chirurgico, senza del quale l'intervento sarebbe impedito al chirurgo tanto dall'art. 32 comma 2 della Costituzione, a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, quanto dall'art. 13 cost., che garantisce l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, e dall'art. 33 della l. 23 dicembre 1978 n. 833, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo é in grado di prestarlo"; ma cfr. già Cass. Civ., Sez. III, 24 settembre 1997 n. 9374, nonché, tra le tante, Cass. 25/11/1994, n. 10014; Cass. 24/09/1997, n. 9374; Cass. 15/01/1997, n. 364; Cass. 16/05/2000, n. 6318).
Tale principio è stato desunto ed enunciato sulla scorta di una lettura, ispirata al precetto di cui all'art. 2 Cost., delle disposizioni dettate dagli artt. 13 e 32 della Carta costituzionale, le quali sanciscono da una parte l'inviolabilità della libertà personale (intesa anche quale possibilità di autodeterminazione in ordine agli atti sulla propria persona) e, dall'altra, il divieto di trattamenti sanitari obbligatori, che non siano previsti per legge.
Sempre secondo l'orientamento espresso dalla giurisprudenza il principio del consenso - informato - al trattamento terapeutico ha per oggetto la tutela di un bene della vita specifico e particolare rappresentato dalla prerogativa di decidere liberamente e consapevolmente se, in che termini, con quali mezzi e attraverso quali modalità sottoporre la propria persona ad interventi esterni su di essa che, comunque, incidono, o possono incidere, sulla sua integrità fisica e/o psichica.

Tale bene della vita riceve una protezione in sé, in quanto derivante direttamente dagli artt. 2, 13 e 32 Cost., anche indipendentemente dalla correttezza e dalla completezza dell'applicazione medica, tanto da potersi ravvisare una sua lesione, con conseguente responsabilità del professionista per i danni che ne derivano, a prescindere dall'esito finale positivo dell'intervento medico (cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 11 luglio 2001 n. 1572; Cass. Civ., Sez. III, n. 9374 del 1997 cit.; Trib. Milano, 29 marzo 2005, in Resp. Civ. e prev. 2005, 751 con nota Gennari; Trib. Venezia, 4 ottobre 2004, in Resp. Civ. e prev. 2005, 519).

Pare, dunque, non potersi revocare in dubbio che debba riconoscersi, in capo alla persona, un vero e proprio diritto perfetto, sancito e garantito da norme di rango costituzionale, a liberamente e consapevolmente determinarsi in ordine al compimento o al rifiuto del compimento di qualsiasi attività invasiva di trattamento o terapia di natura medica. E tale diritto non può non ricomprendere, ovviamente, anche quello di decidere, liberamente e consapevolmente, di interrompere terapie alla cui somministrazione sia stato, in precedenza, manifestato il proprio assenso: cosa che, tra l'altro, non è dato riscontrare nella specie in quanto l'applicazione, all'epoca, del respiratore automatico non venne preceduta da assenso del ricorrente, trovatosi in quel momento nell'impossibilità di esprimerlo.

9) L'applicazione al presente caso dei principi testé richiamati è, dichiaratamente condivisa da chi ha in cura il ricorrente, ma ciò solo in modo formale e del tutto esteriore giacchè a quella applicazione viene contrapposto (sostanzialmente per escludere ogni rilevanza della volontà del paziente) l'argomento secondo il quale il principio del consenso informato non sarebbe suscettibile di attuazione indiscriminata ed incondizionata, dovendosi tener fermo un insuperabile ed inderogabile limite costituito dalla indisponibilità di taluni diritti, anch'essa sancita ed imposta dall'ordinamento. Questo limite è, in definitiva, l'impedimento che si adduce allorchè si pone l'accento sul fatto che, una volta staccato il respiratore e sedato il paziente, scatterebbe immediatamente, in relazione al rischio della morte, l'obbligo per il medico di procedere a riattaccare il ventilatore polmonare. Si pongono, in tal modo, i termini di un "conflitto" concretizzato nel fatto che il rifiuto di sottoporsi ad una terapia medica dovrebbe ritenersi legittimo ed ammissibile solamente se ed in quanto l'omissione dell'intervento medico non incida, vanificandole, sulle stesse possibilità e capacità di sopravvivenza del paziente, posto che, diversamente, si determinerebbe una situazione nella quale si recherebbe un vulnus allo stesso "diritto alla vita", non suscettibile di essere validamente conculcato e pregiudicato neppure dal soggetto che ne è titolare.

Con questa obiezione è il caso subito di cimentarsi, non senza aver preliminarmente osservato ed avvertito, peraltro, che nella concreta fattispecie al ricorrente non si presenta una scelta che possa far parlare in senso proprio di disposizione in ordine al proprio "diritto alla vita". Tale suo "diritto alla vita", o più semplicemente la sua aspettativa di vita futura, è invero già pregiudicata, in modo irreversibile e tanto imminente da potersi considerare definitivo, per effetto della patologia che lo affligge, il cui progredire è ormai giunto ad una fase conclusiva. Non viene, quindi, in considerazione alcuna alternativa tra la vita, che potrebbe essere per quanto possibile assicurata da un trattamento medico opportuno ed adeguato, e la morte che potrebbe conseguire al rifiuto del detto trattamento, con ciò il rifiuto comportando lesione, anzi soppressione, di quel "diritto di vita" che si assume tutelato dall'ordinamento giuridico. Né, tantomeno, si pone questione di uno stato di vita o di non vita, e sul se, e per quanto e quando un siffatto stato di "sospensione" tra vita e morte potrà protrarsi nel tempo e infine cessare, come può riscontrarsi nei casi di stato "vegetativo" derivanti da patologie comatose di più o meno intenso grado.

Nella situazione vissuta dal deducente, non v'è reale possibilità di scelta rispetto alla salvaguardia o meno del "diritto alla vita", poiché non sono neppure conosciuti trattamenti sanitari suscettibili, non tanto di debellare lo stato morboso ma, neppure, di arrestarne o di ritardarne l'inesorabile progredire. Cosicché, le terapie alle quali il ricorrente è oggi sottoposto sono finalizzate esclusivamente, e del tutto riduttivamente, non già a fronteggiare la malattia, ma semmai ad esporre più lungamente il corpo del ricorrente al morbo mortale ormai consolidato.

10) Va, comunque, condotta una riflessione intorno alla reale consistenza dell'argomento secondo il quale i principi sopra ricordati, in materia di libertà e di consapevole determinazione in ordine al compimento o al rifiuto del compimento di qualsiasi trattamento o terapia di natura medica, incontrerebbero il limite invalicabile derivante dall'indisponibilità del "bene - vita" da parte del soggetto interessato. E ciò va fatto evitando ogni accento declamatorio, ed ogni sterile intransigenza assiologica, che - lungi dal risolvere i problemi riconoscendo i dilemmi che essi propongono - li elude mediante astratte proclamazioni di "valori".

La morte dell'uomo, al pari del suo concepimento e della sua nascita, sono accadimenti che il giurista era, in passato, abituato a considerare rilevanti per il diritto solo perché circoscrivono l'esistenza naturale della persona umana, e soltanto perciò influenzano le vicende attinenti alle situazioni giuridiche soggettive ed all'attività del soggetto - persona fisica che l'ordinamento riconosce e qualifica. Ciò comporta, a ben vedere, una certa inadeguatezza delle categorie elaborate per designare le prerogative di diritto dei soggetti e la loro attività giuridica, quando esse sono applicate a vicende o a situazioni come la nascita, la vita e la morte dell'uomo. Quegli accadimenti, infatti, sembravano costituire null'altro che la cornice entro la quale è disegnato tanto il profilo della capacità giuridica quanto quello della capacità d'agire: ad essi, dunque, pareva potersi assegnare una rilevanza giuridica tutt'affatto diversa da quella dei fatti in relazione ai quali vengono in considerazione le prerogative (di titolarità, di godimento, di disposizione) del soggetto di diritto, vale a dire la relazione di quest'ultimo con un bene, un'utilità, un diritto, una prestazione.

Da un lato, infatti, se l'esistenza in vita di un essere umano è condizione per postulare una soggettività, essa non pare suscettibile di essere confusa nel novero delle attribuzioni del soggetto, non pare essere il peculiare oggetto di un diritto, non pare - insomma - configurare un "bene giuridico" tra gli altri, nel senso in cui tale concetto viene in esame negli enunciati di titolarità (il che non esclude affatto che si possa continuare a considerarla bene giuridico in tutt'altro senso, e cioè quale oggetto di protezione da parte dell'ordinamento, e non quale oggetto di un diritto soggettivo in senso tecnico): il che equivale a dire che la vita della persona è l'elemento che consente di attribuire a quest'ultima tutti i suoi diritti soggettivi, ed è dunque condizione, e non contenuto, della capacità giuridica.

Dall'altro lato, ancor più profondo è lo iato che sembra separare le norme attinenti alle vicende esistenziali della persona dalla disciplina degli atti di disposizione, vale a dire dalle regole giuridiche che governano il potere di scelta accordato al soggetto di diritto: il concepimento, la nascita, la morte di un essere umano sembrano costituire, nella prospettiva tradizionalmente adottata dalla legge, fatti estranei al territorio delle scelte ed alle norme che lo presidiano.

Questa prospettiva tradizionale, consolidatasi attorno a quel che sembrava essere il naturale ordine delle cose, è entrata in crisi da quando i progressi della scienza medica hanno dilatato i poteri dell'uomo circa la morte (così come, per altro verso, circa la nascita della vita): la possibilità di prolungare le funzioni vitali mediante l'ausilio di apparati esterni al corpo (così come quella di provocare il concepimento attraverso pratiche di fecondazione in vitro), rendono alquanto più evanescenti i confini che la natura sembrava assegnare all'esistenza della persona umana, e per conseguenza introducono una nuova questione: la morte di un essere umano (o il suo concepimento) finiscono infatti per formare oggetto di processi gestibili, i quali (quel ch'è più importante) coinvolgono soggetti estranei (nel caso della morte, non solo il malato terminale, ma anche i familiari e soprattutto il medico). Nel territorio tradizionalmente sottratto ai poteri di disposizione dei soggetti fanno dunque irruzione le istanze della volontà, del consenso, dell'accordo, quale naturale conseguenza della trasformazione degli eventi esistenziali sopra indicati in "processi gestibili".

Questa evoluzione produce, a ben vedere, un'ulteriore conseguenza: essa fa venire in luce, e rende rilevante, una differenza, dapprima nascosta, tra due diversi modi di intendere l'assunto secondo il quale (come si proclama) "il diritto alla vita è indisponibile". E tale differenza si traduce ben presto in ragione di potenziale conflitto tra opposte visioni della questione.

Dietro l'affermazione secondo cui "il diritto alla vita è indisponibile" si celano, infatti, due significati. Per esprimerli in modo semplice, si può osservare che può essere vietato di disporre di un bene perché esso in realtà non "appartiene" al disponente, oppure può essere vietato di disporre di un bene perché esso non può che "appartenere" al disponente. Nel primo senso, si enfatizza l'assunto che la protezione del bene risponde ad un imperativo superiore e trascendente rispetto allo stesso individuo vivente della cui esistenza si tratta. Nel secondo senso, si pone in rilievo, invece, il carattere di "inalienabilità" del bene: ogni atto di disposizione comportando un vincolo, un impegno, o comunque una abdicazione o dismissione compiuta dal soggetto, il divieto di disporre risponde all'esigenza di non consentire che quest'ultimo sia privato delle proprie prerogative.

Orbene, l'attuale sensibilità sociale conduce innegabilmente a privilegiare, nell'intendere la portata, ma anche i limiti, del principio di indisponibilità del "bene - vita", la seconda prospettiva sopra evidenziata. Non certo nel senso che l'interesse e la posizione del singolo individuo siano la misura esclusiva alla stregua della quale giudicare le scelte di questi circa la propria esistenza, ma nel senso che la protezione accordata dall'ordinamento al "bene - vita" poggia sull'esigenza della migliore e più efficace promozione del benessere e delle aspettative esistenziali degli individui (e di ciascuno di essi) e non può operare addirittura in conflitto con tale esigenza, nemmeno in considerazione di presunti imperativi superiori e trascendenti (la cui vigenza può essere affermata nell'ambito di impostazioni assiologiche del tutto legittime, ma che non appartengono al minimo nucleo comune dei principi condivisi da tutti i soggetti del nostro ordinamento). In particolare, non pare consentito ritenere che - nel momento in cui la morte di una persona umana si trasforma da evento naturalmente fatale in "processo gestibile", come si è sopra visto, e si apre uno spazio prima precluso al compimento di scelte ed all'adozione di decisioni - si possa completamente escludere da tali scelte e da tali decisioni proprio l'individuo umano della cui vita si tratta, e si possa considerare assolutamente irrilevante, sotto il profilo giuridico, la volontà e l'interesse di questi.

In particolare, nel caso di specie, il ricorrente non pretende di sostituire la propria volontà all'operare della natura, o del fato, ma chiede di poter interloquire con gli altri soggetti che comunque stanno gestendo la fase terminale della sua vita, e di svolgere quel ruolo attivo proprio di chi è direttamente coinvolto nella vicenda esistenziale di cui si tratta.

11) Dunque, il tema giuridicamente essenziale e rilevante, nel caso di specie, è e rimane quello delle prerogative dell'individuo riguardo al consenso o al rifiuto di qualsiasi terapia medica, sia essa inerente o non alla salvaguardia dell'integrità e della sopravvivenza della persona. E questo tema non può andare disgiunto, anzi è intrinsecamente connesso, a quello del riconoscimento e della garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo e dei limiti imposti alla medicina dal rispetto della persona umana, che trovano fonte diretta nella Carta Costituzionale (artt. 2 e 32) nonché in convenzioni internazionali recepite dall'ordinamento statale. In proposito, giova ricordare, innanzitutto, quanto stabilito dagli artt. 1 e 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea secondo i quali la dignità umana è inviolabile e deve essere rispettata e tutelata, mentre nell'ambito della medicina deve essere rispettato il consenso libero e informato della persona interessata. Così come deve essere rammentata la Convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina, ratificata dall'Italia con la legge 28 marzo 2001 n. 145, il cui articolo 5 dispone che un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato, potendo la stessa ritirare il detto consenso in qualsiasi momento. Dunque, quel che oggi richiede il ricorrente, e su cui il Tribunale viene chiamato a decidere, è la possibilità di dare concreta attuazione al proprio diritto inviolabile di autodeterminazione nell'accettare o nel rifiutare determinate terapie e nello scegliere, volontariamente e consapevolmente, a quali di esse sottoporsi. E si tratta di scelta che trova riscontro e supporto non solo nelle fondamentali regole giuridiche innanzi esaminate ma, pure, nell'evoluzione delle concezioni dell'attività della scienza medica e degli scopi e delle finalità che essa è chiamata a perseguire nell'attuale contesto storico - sociale. Per cui, sono ormai acquisiti principi che impongono, ai singoli professionisti ed alle strutture sanitarie, di astenersi dal praticare trattamenti che non possano fondatamente apportare un beneficio per la salute del malato o un miglioramento delle sue condizioni di vita, contestualmente onerando gli stessi soggetti, in caso di patologie pervenute alla fase terminale, di somministrare terapie atte a risparmiare inutili sofferenze, fornendo quelle appropriate per conservare, per quanto possibile, la qualità della vita (principi, d'altro canto, espressamente fissati nei codici di deontologia professionale e fatti propri anche da leggi di rango ordinario: cfr. legge 8 febbraio 2001 n. 12).

Ciò è esattamente quanto rivendica in questa sede il ricorrente: cioè di esercitare le proprie insopprimibili ed ineludibili prerogative in merito ai trattamenti medici che lo riguardano, rifiutando quelli che, ormai, risultano obiettivamente e fondatamente insuscettibili di apportare qualsiasi giovamento al proprio stato morboso e alla qualità della sua vita, ed utilizzando le sole terapie antidolorifiche idonee ad arrecare benefici effetti al proprio stato e tali da dare concreta attuazione ai precetti sull'inviolabilità della dignità umana e del rispetto della persona.

12) Non si pongono, nella presente fattispecie, ulteriori e diverse problematiche circa la sussistenza di una adeguata manifestazione della volontà.
Come già rilevato, il ricorrente è tutt'ora psichicamente lucido e nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali e la scelta compiuta è espressione di una personale, consapevole ed attuale determinazione volitiva, maturata con assoluta cognizione della sua condizione presente, dell'oggetto, della consistenza e degli effetti dei trattamenti praticabili, delle evoluzioni del quadro clinico che potrebbero determinarsi all'esito delle proprie iniziative. Si è in presenza, pertanto, di un atteggiamento del tutto razionale di autodeterminazione dello stesso soggetto titolare del diritto al consenso o al rifiuto della terapia.
D'altro canto, la determinazione del ricorrente si inserisce in un contesto nel quale la volontà riguardante la somministrazione di trattamenti terapeutici non è stata espressa in epoca precedente il manifestarsi di uno stato patologico, rispetto al quale il paziente non è più in condizione di confermare o revocare le determinazioni pregresse, ma viene esplicitata proprio in concomitanza e nell'attualità della situazione morbosa, a fronte della quale sono assunte le decisioni riguardanti il rifiuto di taluni interventi a preferenza di altri. Cosicché, vi è una piena ed immediata coincidenza tra espressione della volontà, sussistenza della patologia e pratiche mediche applicate e da applicare. La qual cosa postula, indiscutibilmente, che quanto esplicitato dal paziente corrisponda, puntualmente e compiutamente, ai suoi consapevoli e concreti intendimenti, senza possibilità alcuna di sovrapporre o sostituire ad essi un diverso apprezzamento di questa volontà indotta da considerazioni e interpretazioni di soggetti terzi. Si deve, cioè, prendere atto e constatare semplicemente che il paziente ha esercitato il proprio diritto esprimendo, nel contesto del concreto evento, i propri indirizzi sulle caratteristiche, sui termini e sui limiti dei trattamenti cui intende sottostare, e, pertanto, dare seguito ed esecuzione a quanto richiesto.

Di conseguenza, nel rapporto tra paziente e struttura sanitaria e medico curante, questi ultimi sono tenuti ad astenersi dal continuare a somministrare le terapie non più desiderate, proseguendo a coltivare quelle alle quali il malato ha espressamente consentito. Il rifiuto a ciò opposto costituisce atto del tutto illegittimo ed arbitrario in quanto, oltre che contrario a precisi doveri deontologici, ingiustamente lesivo del più volte menzionato diritto all'autodeterminazione del paziente.

13) Né può valere a giusitificare l'inottemperanza alla volontà del Sig. Welby l'obiezione del medico curante secondo la quale una volta sedato, il paziente diverrebbe privo di coscienza e volontà e che ciò stesso obbligherebbe il medico curante, per non esporlo al pericolo di vita, a ripristinare la respirazione e quindi a "riattaccare" il ventilatore polmonare. Questa prospettazione è francamente inaccettabile soprattutto perché fraintende completamente il significato da attribuirsi, a fini giuridici, alla capacità di esprimere effettivamente il consenso o il rifiuto rispetto ai trattamenti sanitari subendi.

Questa difesa non disconosce affatto che la stessa giurisprudenza sopramenzionata, nell'elevare il consenso e comunque la volontà dell'interessato ad elemento essenziale della legittimità di trattamenti anche sanitari invasivi della sfera psico-fisica della persona, mette a sé e distingue il caso dei trattamenti sanitari stessi da decidere per persone ormai prive di capacità di intendere e di volere.

Il punto è, tuttavia, che non è questa la situazione del caso nostro, ossia la situazione in cui si trova il Sig. Welby, il quale è oggi pienamente cosciente e capace di volere o non volere i trattamenti complessivamente tesi a fronteggiare non chissà quale situazione futura e solo ipotetica, bensì la situazione in cui oggi egli si trova e che, nello stretto tempo necessario a porre in atto i trattamenti che egli può liberamente consentire o rifiutare, è largamente prevedibile non subisca evoluzioni particolari, se non purtroppo nel solco segnato dal decorso della patologia in atto.

14) In altre parole, il Sig. Welby, essendone pienamente capace, esprime volontà coscienti rispetto non a situazioni future e per lui oggi sconosciute o persino inimmaginabili nella loro ipotetica configurazione, ma rispetto alla condizione in cui presentemente si trova e che non sarà affatto mutata, anche quanto agli effetti derivanti dal richiesto distacco del ventilatore polmonare, una volta che, intrapreso il trattamento, egli sia sedato. A differenza di quel che sembra credere il medico curante, stando a quanto argomentato nella risposta negativa data al Sig. Welby il 25 novembre 2006, il fatto che poi, nell'attuazione dell'unico complesso di trattamenti voluto e consentito dal Sig. Welby, il distacco della ventilazione si accompagni alla sedazione, che lo porrà in grado di non più intendere e volere, non muta il valore né toglie validità od efficacia alla volontà espressa dal paziente, in quanto riferita alla sua condizione attuale.

Nei termini in cui pretenderebbe di porlo il medico curante del Sig. Welby, ossia di una sopravvenuta incapacità del paziente, procurata da una prima parte dei trattamenti intrapresi e che potrebbe impedirgli di esprimere qualunque volontà, adesiva o di rifiuto, rispetto al resto dei trattamenti subendi, il problema è tutt'altro che ignoto alla giurisprudenza; la quale giurisprudenza, però, risolve questo problema in senso diametralmente opposto a come pretenderebbe di definirlo la risposta del medico curante medesimo al Sig. Welby in data 25 novembre 2006.

Lo stesso problema che oggi si pone per il deducente, ossia di validità ed efficacia della volontà dell'interessato in ordine a trattamenti, come nel caso nostro il distacco del ventilatore polmonare, da praticarsi in regime di incapacità procurato dall'intervento medico, quale nel caso nostro la sedazione, si ripropone ogni qualvolta si sottoponga un paziente ad un'operazione chirurgica, magari rischiosissima per la vita stessa, sotto un trattamento anestetico che lo renda incosciente. In tali fattispecie la giurisprudenza ha correttamente ritenuto che il medico non fosse affatto esonerato dal richiedere ed ottenere un consenso informato del paziente, bensì rigorosamente tenuto a raccoglierne e seguirne le volontà, espresse anteriormente alla perdita di coscienza, per tutte le fasi dell'intervento chirurgico considerate nella loro intrinseca complessità; ciò, almeno sino a che il chirurgo non si trovi innanzi a situazioni impreviste e diverse da quelle che era stato in grado di anticipatamente rappresentare all'interessato (cfr., ad es., Cass. Civ, Sez. III, 9 marzo 2001 n. 28132; Cass. Civ., Sez. III, 15 gennaio 1997 n. 364; Corte Assise Firenze, 18 ottobre 1990, in Giust. Pen, 1991, II, 163). E ciò è anche quello che il Sig. Welby chiede gli sia fatto: egli vuole che, restando invariata la situazione che il medico ha potuto rappresentargli come prevedibile conseguenza delle sue scelte, sia ottemperata la sua volontà di staccare il ventilatore polmonare, in costanza della sedazione che lo rende incapace. Il che è legittimo e ragionevole: poiché ciò che conta, affinché la volontà informata del paziente resti valido ed efficace vincolo ai trattamenti sanitari invasivi della persona è che la situazione in vista della quale quella volontà è stata espressa resti la stessa, non sopraggiungendo emergenze nuove ed imprevedibili. Il medico curante non può pertanto essere esonerato dal dar seguito alla volontà del Sig. Welby di distacco del ventilatore polmonare per la sola circostanza che tale distacco sia destinato ad operare, con prevedibili effetti sulla respirazione, allorché, in forza del trattamento sedativo, egli sia destinato a divenire incosciente e non più capace di volere.

15) Né, infine, il medico curante, o tantomeno la struttura sanitaria in cui esso opera, potrebbero opporsi al distacco o procedere al ripristino del ventilatore polmonare, la prosecuzione del cui utilizzo è specificamente rifiutata dal Sig. Welby, appigliandosi allo "stato di necessità", a cui la giurisprudenza sin qua citata, richiamando sovente l'art. 54 c.p., si è riferita come necessità di salvaguardia della salute e vita del paziente (v., ad es., Cass. Pen., Sez. IV, 9 marzo 2001 n. 28132).

Anche alla luce di quanto sopra osservato circa la reale consistenza dell'argomento formulato sull'imperativo di non pregiudicare la sopravvivenza del paziente, un tale "stato di necessità", difatti, non ha a che spartire con quanto si dibatte in questo giudizio, segnatamente volto ad ottenere l'ottemperanza del medico curante alle direttive provenienti dalla volontà del Sig. Welby circa il rifiuto o il consenso per l'azione invasiva della sua persona.

16) In quanto esimente dall'illecito o dalla sanzione che rileva per l'accertamento a posteriori di una responsabilità giuridica, come d'altronde non può che essere per sua stessa definizione, lo "stato di necessità" non può scalzare il principio di derivazione costituzionale dell'autodeterminazione libera ed informata del paziente per i trattamenti invasivi della sfera personale, desumibile dagli artt. 2, 13 e 32 Cost.; perché tale principio di autodeterminazione libera ed informata opera essenzialmente ed anzitutto, per il suo stesso contenuto, non sul piano dell'accertamento successivo della responsabilità, bensì sul piano della preventiva decisione intorno ai trattamenti sanitari da praticarsi o non praticarsi. La riprova ne è che, anche nel momento successivo dell'accertamento dell'applicazione di sanzioni civili e penali, il medico non può essere ritenuto responsabile per non essersi tempestivamente attivato, e non aver irrogato trattamenti pur conformi ad uno "stato di necessità" conclamato, se tale inerzia e tale omissione sono dovute al rispetto del principio di autodeterminazione del paziente, il quale abbia rifiutato i trattamenti medesimi (v., in questo senso, Cass. Pen., Sez. IV, 27 marzo 2001 n. 36519; Cass. Pen., 11 luglio 2002 n. 26646, in Ragiusan 2003, 229-0 225; Pretura Treviso, 29 aprile 1999, in Foro It., II, 667).

Sotto tale profilo, e come quest'ultimo indirizzo giurisprudenziale sottolinea, lo "stato di necessità", in quanto esimente, può esonerare il medico da responsabilità, ma non potrebbe mai fondare un suo dovere od obbligo di attivarsi e di intervenire; il quale dovere od obbligo del medico di attivarsi e di intervenire va per converso escluso in radice, quando entri in campo la libera ed informata autoderminazione del paziente il quale, avendone la capacità, rifiuti di sottoporsi a trattamenti invasivi della propria persona.

17) Altrimenti detto, nel mentre lo "stato di necessità", in quanto esimente, potrebbe al massimo esonerare da responsabilità a posteriori per la sua inosservanza, il principio dell'autodeterminazione libera e consapevole del paziente si impone, comunque, al medico nel momento in cui sia da decidere se e come praticare trattamenti sanitari invasivi della persona.
Né, su questo versante, come sopra rilevato, la situazione muta quando, ad essere coinvolto dalla decisione sui trattamenti sanitari sia il bene supremo della vita: giacché proprio quando in questione sia un trattamento sanitario che possa essere reputato incidente sul bene supremo della vita, diventa addirittura assurdo e per sé lesivo che a decidere definitivamente di quel trattamento non sia chi avrà da sopportare, sul proprio vivere, le conseguenze del trattamento stesso.

18) Quello che si è esposto attesta il "fumus boni iuris" del presente ricorso, ma concorre anche al requisito del "periculum in mora".
Si è visto che il diritto azionato in questa sede, e del quale si invoca la protezione urgente, è quello di esprimere il rifiuto di trattamenti medici non desiderati e, quindi, di non subire coercitivamente questi trattamenti, invasivi della propria sfera personale.
In questa prospettiva appare chiaro come il fatto che, nonostante la contraria volontà manifestata dal ricorrente, la struttura sanitaria ed il medico presso i quali è attualmente in cura perseverino nel praticare le terapie di sostentamento cui si oppone l'istante, abbia creato una situazione di immanente e permanente lesione dei diritti del Signor Welby.
Trattasi di diritti assoluti, costituzionalmente protetti, la cui violazione dà luogo ad un pregiudizio non solo grave, ma altresì irreparabile.

Sotto un primo profilo, più squisitamente oggettivo, non può revocarsi in dubbio che già la sola circostanza di essere obbligati a sottostare passivamente, considerato lo stato di immobilità totale del ricorrente, alle pratiche di sopravvivenza assistita determini, di per sé, il "consumarsi", giorno per giorno, ed in via definitiva dei propri diritti e prerogative personali sostanziali, senza possibilità che la sfera giuridica dell'istante, in tal modo pregiudicata, sia suscettibile di essere in alcun modo reintegrata. Il bene della vita tutelato, cioè quello dell'inviolabilità della propria libertà personale, del proprio corpo e della propria persona, è sottoposto ad un ripetuto, costante depauperamento, ad uno svilimento continuo e persistente, ai quali non si può fare fronte, apprestando adeguato rimedio, se non attraverso il venir meno - senza alcun indugio - proprio di quei comportamenti e di quelle attività che, allo stato, conculcano e comprimono il bene giuridico protetto.

Sotto un secondo profilo, più soggettivo, la lesione del bene primario induce riflessi immediati e diretti sullo stato psicologico del paziente il quale subisce un evidente e rilevante attentato all'equilibrio psichico riconducibile non alla propria condizione patologica, bensì alla coercizione della propria volontà che è costretto a sopportare. Per il ricorrente, infatti, risulta particolarmente intollerabile, a livello psicologico, dover sottostare a terapie sanitarie che egli, a ragione, considera quale indebita ed illecita intrusione nella propria sfera personale e che ritiene, stante la loro sostanziale inutilità per il miglioramento della propria salute, profondamente lesive della propria dignità in quanto neppure utili a perseguire benefici in termini di qualità della vita: ché anzi, come già osservato, sortiscono, semmai, l'effetto contrario. Anche riguardo a questo aspetto della vicenda, non pare discutibile che il protrarsi delle attuali condizioni costituisca fonte di costante ed inesauribile aggravarsi dei pregiudizi psicologici del ricorrente a cui si può ovviare, ancora una volta, esclusivamente rimuovendo senza indugio le cause che li determinano.

Per le ragioni esposte, e premesso che è intenzione del Ricorrente agire in via ordinaria per il riconoscimento dei propri diritti e per la condanna dei Convenuti, il Signor Piergiorgio Welby, come in epigrafe domiciliato e difeso

RICORRE

a codesto Ecc.mo Tribunale affinchè, previa fissazione dell'udienza per la comparizione delle parti, accertato e dichiarato il diritto del ricorrente ad autodeterminarsi nella scelta delle terapie mediche invasive alle quali sottoporsi e, quindi, il diritto del medesimo ricorrente di manifestare il proprio consenso a taluni trattamenti e il rifiuto ad altri; preso atto ed accertato, altresì, che il Signor Piergiorgio Welby ha espresso, e ribadisce con il presente atto, la propria libera, informata, consapevole e incondizionata volontà a che sia immediatamente cessata l'attività sulla propria persona di sostentamento a mezzo di ventilatore artificiale mentre sia proseguita e praticata la terapia di sedazione terminale;

sia ordinato al XXXXXXXXXXX e alla XXXXXXXXXX, soggetti che hanno in cura il ricorrente, di procedere all'immediato distacco del ventilatore artificiale che assicura la respirazione assistita del Signor Welby, contestualmente somministrando al paziente terapie sedative che, in conformità con le migliori ed evolute pratiche e conoscenze medico - scientifiche, risultino idonee a prevenire e/o eliminare qualsiasi stato di sofferenza fisica e/o psichica del paziente stesso con modalità tali da rispettare, momento per momento, sia all'atto del distacco dal respiratore che successivamente, il massimo rispetto delle condizioni di dignità e di sopportabilità del suo stato da parte del paziente;
disporre, in ogni caso, tutte le misure ritenute più adeguate a dare concreta attuazione agli interessi e ai diritti esercitati dal ricorrente.

Ai sensi della legge sul contributo unificato si dichiara che il valore della causa è indeterminabile. Il contributo dovuto, pertanto, è di ? 170,00.