LA RIFORMA FORNERO DEL MERCATO DEL LAVORO

 

 

In seguito alla pubblicazione in G.U. del 3 luglio 2012, n. 153 - supplemento ordinario n. 136, la 'riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita' (Legge 28 giugno 2012 n. 92) è entrata in vigore il 18 luglio 2012.

I quattro corposi articoli che compongono il testo di legge apportano modifiche significative alla materia, spaziando dalla razionalizzazione delle tipologie contrattuali alla tutela del lavoratore in caso di licenziamento, toccando il sistema degli ammortizzatori sociali e affrontando le questioni dell'equità di genere e della discriminazione.

Art. 1: principi e controllo e ... L'art. 1, titolato «disposizioni generali, tipologie contrattuali e disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutele del lavoratore», contiene innanzitutto una dichiarazione d'intenti che chiarisce con quali strumenti il legislatore intende contribuire alla creazione di occupazione e a favorire la crescita economica e sociale del Paese.
Nel dare rilievo prioritario al lavoro subordinato, il contratto a tempo indeterminato rappresenta il 'contratto dominante'. In ogni caso, l'apprendistato sarà valorizzato per agevolare l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, senza dimenticare di contrastare l'uso improprio degli strumenti di flessibilità che il diritto del lavoro già offre. Gli ammortizzatori sociali e le politiche attive per il lavoro svolgeranno una funzione di universalizzazione dell'occupabilità, mentre per i lavoratori ultracinquantenni rimasti senza lavoro saranno favorite nuove opportunità di impiego, oltre alla tutela del reddito che dovrà interessare tutti i lavoratori che perdano il posto.

Allo scopo di monitorare lo stato di attuazione degli interventi e delle misure disposte, oltre che di valutarne gli effetti, sarà istituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali un sistema permanente di monitoraggio e valutazione, che riferirà con cadenza almeno annuale sull'attuazione delle singole misure.

... tipologie contrattuali. La prima delle fattispecie contrattuali oggetto di modifica è quella dei contratti a tempo determinato. Per evitare un uso distorto -ripetuto e reiterato, si legge nella Relazione illustrativa- di tale forma, in luogo del contratto a tempo indeterminato, viene ampliato, ai fini della conversione, l'intervallo di tempo tra un contratto e l'altro tra le stesse parti contraenti (nello spirito della direttiva n. 99/70/CE).

Il contratto di apprendistato, invece, assolve alla funzione di canale privilegiato di accesso dei giovani al mondo del lavoro. Tale tipologia contrattuale subirà l'innalzamento della durata minima e del rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati. Per i tirocini formativi il Governo viene delegato ad introdurre un quadro normativo più razionale ed efficiente, che individui gli elementi qualificanti il tirocinio e regolamenti il suo svolgimento.

A tutela del lavoro a tempo parziale vero e proprio, per evitarne l'uso distorto come strumento di copertura di utilizzi irregolari di lavoratori, al dipendente viene consentito, tramite contratto collettivo nazionale, di modificare simili clausole flessibili ed elastiche.

Tra le forme 'atipiche', sono sottoposti a modifica anche il lavoro intermittente e il lavoro a progetto. Per il primo è previsto l'obbligo di effettuare una preventiva comunicazione amministrativa, con cui si segnala la chiamata; vengono, inoltre, abrogati gli artt. 34, comma 2 e 37, d.lgs. n. 276/03. Quanto al secondo, la riforma si prefigge lo scopo di evitare 'l'elusione' da parte del datore del rapporto subordinato tramite lo strumento della forma a progetto. In concreto, il progetto deve possedere i requisiti di determinatezza di cui all'art. 1346 c.c. e viene introdotta un presunzione relativa di subordinazione nei casi in cui l'attività esercitata dal collaboratore sia analoga a quella svolta dai lavoratori dipendenti. Inoltre, in caso di mancata individuazione del progetto, il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa si trasforma automaticamente in rapporto di lavoro.

Art. 2: ammortizzatori sociali. Una delle principali novità in tema di ammortizzatori sociali è rappresentata dalla creazione della Assicurazione sociale per l'impiego. L'Assicurazione sociale per l'impiego (Aspi) prenderà il posto, a partire dal 2013 ma a pieno regime solo nel 2017, delle indennità di disoccupazione, compresa l'indennità di mobilità. Oltre ai lavoratori dipendenti, potranno accedervi anche apprendisti e collaboratori. La fruizione dell'indennità è condizionata alla permanenza dello stato di disoccupazione di cui all'art. 1, comma 2, lett. c), d.lgs. n. 181/2000. Inoltre, rimangono esclusi dalla fruizione dell'indennità i lavoratori che siano cessati dal rapporto di lavoro per dimissioni o per risoluzione consensuale del rapporto.
Per le retribuzioni mensili inferiori a 1.180 ? l'importo erogato sarà pari al 75% dello stipendio, mentre per quelle superiori l'importo sarà aumentato, a partire dal 75%, del 25% della differenza tra retribuzione mensile e la retribuzione 'di riferimento'. In ogni caso, la cifra massima erogabile sarà pari ad ? 1.119,32.

Art. 3: licenziamenti e... L'art. 3, rubricato «tutele in costanza di rapporto di lavoro» vede come intervento principale quello sul regime dei licenziamenti individuali, riguardando l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, di cui si modificano i commi dal primo al sesto. Il lavoratore dipendente dal datore che impiega più di 15 lavoratoti è tutelato in caso di licenziamento illegittimo, in presenza di tre regimi sanzionatori. Il giudice, infatti, deve accertare che il licenziamento non sia avvenuto in presenza di discriminazione o motivo illecito, in presenza di inesistenza del giustificato motivo soggettivo o delle giusta causa, oppure del giustificato motivo oggettivo.

Non subisce modifiche la disciplina dei licenziamenti discriminatori: il datore di lavoro, qualunque sia il numero di dipendenti occupati, è tenuto al reintegro in caso di condanna a reintegrare il lavoratore e risarcire i danni subiti con indennità.

... rito speciale. Per le controversie in tema di licenziamenti viene introdotto un rito speciale, dedicato alle ipotesi regolate dal nuovo art. 18 Statuto dei lavoratori. Il rito, che vuole essere snello ma garantire al contempo lo svolgimento in pieno contraddittorio, è bifasico: nella prima fase il giudice decide con ordinanza se accogliere o meno la domanda del lavoratore; la seconda, a carattere eventuale, in opposizione avverso l'ordinanza di accoglimento o di rigetto della domanda, è del tutto assimilabile al giudizio di merito che si svolge avanti al giudice del lavoro.
Art. 4: esodo ed equità di genere. Tra le «ulteriori disposizioni in materia di mercato del lavoro» contenute nell'art. 4, si possono leggere quelle riguardanti l'«esodo» dei lavoratori con costi a carico del datore e quelle finalizzate a garantire l'equità di genere anche nel mercato del lavoro.
In riferimento al primo, le aziende potranno, al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori più anziani stipulare accordi con i sindacati maggiormente rappresentativi per stabilire il trattamento economico 'in uscita' da riservare a questi lavoratori. In ogni caso, nell'ambito di tali procedimenti, ai lavoratori spetterà una prestazione pari al trattamento pensionistico che spetterebbe loro; inoltre, il datore di lavoro dovrà corrispondere all'INPS la contribuzione fino al raggiungimento dei requisiti minimi per il pensionamento.

Con la finalità di garantire l'equità di genere nell'accesso (e nella permanenza) al mercato del lavoro, vengono introdotte norme di contrasto alla pratica delle c.d. dimissioni in bianco, che coinvolge in prevalenza le lavoratrici. A tutela della maternità è introdotto anche il congedo di paternità obbligatorio, accompagnato dal finanziamento di specifiche iniziative a favore delle madri lavoratrici. 

 

Vediamo -più nello specifico- i principali cambiamenti apportati in materia di:

A)     Licenziamento per giustificato motivo oggettivo;

B)     Associazione in partecipazione;

C)     Contratto a progetto;

D)     Lavoro intermittente, 

subito chiarendo che, comunque, bisognerà necessariamente attendere gli orientamenti giurisprudenziali in materia.

In effetti, notevoli sono i margini di discrezionalità dei giudici di merito circa l'interpretazione di molte di tali norme: basti pensare alle fattispecie di illegittimità indicate nella nuova formulazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, come ad esempio quelle legate alla "violazione del requisito di motivazione" o ad un "difetto di giustificazione" (comma 6) oppure alla "manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo" o al fatto "che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo" (comma 7). Andrà inoltre verificato quale orientamento i giudici di merito adotteranno circa il c.d. "repechage": fino ad oggi, infatti, la legittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovuto a soppressione di posto di lavoro era rigorosamente legata alla impossibilità di adibire il lavoratore ad altre posizioni lavorative, purché esistenti e non coperte da altro lavoratore e purché le relative mansioni fossero equivalenti  o addirittura inferiori. 

 

 

A)  Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo

 

In base alle interpretazioni fornite dalla dottrina e dalla giurisprudenza di quanto affermato dall'art. 3 della Legge 604/1966, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è quello determinato da "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa".

Quali sono in concreto tali ragioni?

In base alle pronunzie giurisprudenziale, le ragioni che legittimano il licenziamento individuale per giustificato motivo obiettivo sono riconducibili a:

-         specifiche esigenze aziendali che impongono la soppressione del posto di lavoro (c.d. esigenze obbiettive d'impresa) oppure

-         comportamenti o situazioni facenti capo al prestatore di lavoro, purché costituiscano una ragione di risoluzione del rapporto (c.d. circostanze incolpevoli inerenti al lavoratore).

Tra le prime, rientrano le soppressioni di posti di lavoro a causa di innovazioni tecnologiche (sono state riconosciute a seguito dell'introduzione di sistemi di erogazione di banconote automatici, come il bancomat), oppure a causa di riassetti organizzativi (ad esempio, la decisione di passare da una rete di vendita diretta ad una indiretta, affidandosi ad agenti), oppure per una riorganizzazione dovuta alla necessità di contenere i costi aziendali (ad esempio, rinunciando ad avere un responsabile del personale affidando ad altre funzioni aziendali esistenti i suoi compiti e mansioni).

Tra le seconde si fanno rientrare invece quei comportamenti o situazioni del lavoratore, pur incolpevole sotto il profilo giuslavoristico, che non gli consentano di adempiere ai suoi obblighi contrattuali (ad esempio, perché la sua assenza per malattia abbia superati i limiti di tempo previsti dalla contrattazione collettiva, oppure per sopraggiunta inidoneità allo svolgimento delle mansioni).

La procedura. Con la Legge n. 92/2012, il Legislatore ha ritenuto opportuno prevedere che, nel caso di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro che abbia alle proprie dipendenze più di quindici lavoratori nella stessa unità produttiva o nello stesso Comune o comunque più di sessanta complessivamente, debba seguire una specifica procedura.
Tale procedura, indicata nel nuovo testo dell'art. 7 della Legge 604/1966, prevede che:
a) il datore di lavoro che ritenga di trovarsi in una delle situazioni che rendono necessario per motivi oggettivi il licenziamento di un lavoratore, prima di formalizzare il recesso dal contratto di lavoro, deve inviare alla Direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera, e, per conoscenza, al lavoratore, una comunicazione in forma scritta in cui siano indicati:
- l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo;

- gli specifici motivi alla base del licenziamento;

- le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato.

b) entro il termine perentorio di sette giorni decorrenti dalla data di ricezione della comunicazione, la Direzione territoriale del lavoro deve convocare il datore di lavoro e il lavoratore per un incontro, che consiste sostanzialmente in un tentativo di conciliazione, da svolgersi dinanzi alla commissione provinciale di conciliazione prevista dall'articolo 410 del codice di procedura civile;

c) l'incontro dovrà svolgersi e concludersi entro venti giorni  (di calendario) dal momento in cui la Direzione territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione (salvo, naturalmente, che le parti non ritengano, di comune accordo, di proseguire i contatti nel tentativo di raggiungere un accordo). Durante l'incontro, datore di lavoro e lavoratore potranno farsi assistere dalle organizzazioni di rappresentanza cui sono iscritte o abbiano conferito mandato, oppure da un componente della rappresentanza sindacale dei lavoratori, ovvero da un avvocato o da un consulente del lavoro.

d) al termine dei venti giorni (o del più lungo periodo concordato tra le parti o del periodo di sospensione dovuto a legittimo e documentato impedimento del lavoratore), se non si è trovato un accordo, il datore di lavoro potrà comunicare  il licenziamento al lavoratore nel rispetto delle seguenti condizioni:

- forma scritta;

- specificazione dei motivi che lo hanno determinato;

- rispetto del diritto del lavoratore a prestare il contrattuale periodo di preavviso oppure, in alternativa, a ricevere la relativa indennità sostitutiva.

Impugnazione del licenziamento. Una volta correttamente comunicato il licenziamento, il lavoratore ha il diritto di impugnarlo, nel rispetto delle seguenti condizioni:
a) Innanzitutto, facendo pervenire al datore di lavoro, a pena di decadenza, una comunicazione:

- entro sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento;

- in forma scritta;

- in cui sia resa nota la propria volontà di impugnare il licenziamento;

- anche per il tramite dell'organizzazione sindacale cui aderisca o abbia conferito mandato.

b) Una volta effettuata l'impugnazione al datore di lavoro, il lavoratore può ricorrere, in alternativa, ad una delle due seguenti procedure:

b.1) in via amministrativa, con un tentativo di conciliazione, facendo pervenire al datore di lavoro, sotto pena di inefficacia dell'impugnazione:

- formale richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato;

- entro il termine di centottanta giorni dalla data dell'impugnazione.

In caso di rifiuto del datore di lavoro allo svolgimento del tentativo di conciliazione oppure in caso di mancato accordo, il lavoratore potrà impugnare il licenziamento in sede giudiziaria, effettuando il deposito di ricorso al giudice del lavoro sotto pena di decadenza dell'impugnazione entro sessanta giorni dalla data del rifiuto o del mancato accordo;

b.2) in via giudiziaria, effettuando il deposito di ricorso al giudice del lavoro entro il termine di centottanta giorni dalla data dell'impugnazione, sotto pena di inefficacia dell'impugnazione.

Effetti dell'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Nel caso in cui il giudice rilevi l'illegittimità del licenziamento, le conseguenze indicate dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, così come novellato dalla Legge n. 92/2012, sono diverse in funzione dei motivi di tale illegittimità.

a) Nei seguenti casi di illegittimità dovuti a:

- Motivi discriminatori: il licenziamento ritenuto discriminatorio, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro e quale che sia la qualifica del lavoratore (quindi, anche i dirigenti) è nullo;

- Mancanza della forma scritta: il licenziamento intimato oralmente è inefficace;

- Aver contratto matrimonio: ove il giudice abbia ritenuto che il licenziamento sia stato intimato perché la lavoratrice  ha contratto matrimonio, ne dichiara la nullità se intimato nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa;

- Maternità/paternità: se il licenziamento è stato intimato dall'inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino, è nullo;

- Motivo illecito: se datore di lavoro e lavoratore si sono accordati per procedere al licenziamento esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambi , il licenziamento è nullo;

- Motivo di tipo soggettivo disciplinare:

Il datore di lavoro sarà condannato a:

- reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro;

- risarcire al lavoratore il danno subito e fissato in un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione (dedotte le eventuali somme percepite dal lavoratore durante il periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative) e comunque non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto;

- versare i contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione.

In sostituzione della reintegrazione, al lavoratore è data la facoltà, entro  trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, di chiedere al datore di lavoro un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, alla quale si aggiunge peraltro il diritto a percepire il risarcimento del danno nell'identica misura sopra indicata.

b) Nei seguenti casi di illegittimità dovuti a:

- Mancanza o carenza di motivazione: riscontrata nella comunicazione preventiva e nella lettera di licenziamento, ma si ritiene peraltro successivamente dimostrata dal datore di lavoro;

- Mancato od incompleto rispetto delle procedure previste dall'articolo 7 della Legge 15 luglio 1966, n. 604 (v. supra);

Il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

c) Nel caso di riscontrato difetto di giustificazione (in aggiunta alla mancanza o carenza di motivazione): il giudice disporrà l'annullamento del licenziamento e la condanna del datore di lavoro:

- alla reintegrazione nel posto di lavoro;

- al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione (dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione) e comunque non superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto;

- al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione (maggiorati degli interessi nella misura legale ma senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione) con deduzione dei contributi accreditati al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative durante il periodo di estromissione.

In sostituzione della reintegrazione, al lavoratore è data la facoltà, entro  trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, di chiedere al datore di lavoro un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, alla quale si aggiunge peraltro il diritto a percepire il risarcimento del danno nell'identica misura sopra indicata

d) Nei seguenti casi di illegittimità dovuti a:

- Mancata giustificazione del licenziamento per sopraggiunta inidoneità fisica o psichica  del lavoratore assunto in forza della legge 68/1999 sul collocamento dei disabili:

- Mancato superamento dei limiti temporali per la conservazione del posto di lavoro in caso di malattia od infortunio

il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro:

- alla reintegrazione nel posto di lavoro;

- al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione (dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione) e comunque non superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto;

- al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione (maggiorati degli interessi nella misura legale ma senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione) con deduzione dei contributi accreditati al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative durante il periodo di estromissione.

In sostituzione della reintegrazione, al lavoratore è data la facoltà, entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, di chiedere al datore di lavoro un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, alla quale si aggiunge peraltro il diritto a percepire il risarcimento del danno nell'identica misura sopra indicata

e) Ove sia stata riscontrata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo: il giudice può annullare il licenziamento e condannare il datore di lavoro:

- alla reintegrazione nel posto di lavoro;

- al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione (dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione) con un massimo di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto;
- al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione (maggiorati degli interessi nella misura legale ma senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione) con deduzione dei contributi accreditati al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative durante il periodo di estromissione.

In sostituzione della reintegrazione, al lavoratore è data la facoltà, entro  trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, di chiedere al datore di lavoro un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, alla quale si aggiunge peraltro il diritto a percepire il risarcimento del danno nell'identica misura sopra indicata.

f) Se vi è inesistenza degli estremi del giustificato motivo oggettivo: il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

g) Ove gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro vengano ritenuti  irrilevanti o insufficienti, in caso di licenziamento di lavoratori che siano rappresentanti sindacali, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

Diritti specifici del datore di lavoro e del lavoratore.

Diritto di revoca del licenziamento: il datore di lavoro può revocare il licenziamento, ma a condizione che ciò avvenga entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione del lavoratore al datore di lavoro dell'impugnazione del licenziamento stesso. In tale ipotesi, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla sola retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Diritto di rinuncia alla reintegrazione: in tutti i casi in cui il giudice abbia ritenuto illegittimo il licenziamento e condannato il datore di lavoro alla reintegrazione, il lavoratore potrà rinunciarvi, chiedendo al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, non e' assoggettata a contribuzione previdenziale. Tale richiesta, che  deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione, determina la risoluzione del rapporto di lavoro.

Resta peraltro fermo il diritto del lavoratore a percepire l'indennità risarcitoria, così come determinata in funzione del tipo di illegittimità del licenziamento.

Ove il lavoratore, entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro non abbia ripreso servizio o non abbia  richiesto l'indennità di cui sopra, il rapporto di lavoro si intende risolto.

 


B) L'Associazione in partecipazione

 

Massimo tre associati necessariamente in possesso di «competenze teoriche di grado elevato». A far data dal 18 luglio 2012 il numero degli associati in partecipazione «impegnati in una medesima attività» non potrà essere superiore a tre.

Costituiranno eccezione a questa regola i contratti sottoscritti con «il coniuge, con i parenti entro il terzo grado e con gli affini entro il secondo», al pari dei contratti -in corso alla data di entrata in vigore della Riforma- certificati ai sensi del D.Lgs. n. 276/2003 (che «sono fatti salvi fino alla loro cessazione»). Inoltre, per evitare che i (tre) rapporti de quo si considerino subordinati fino a prova contraria, le attività oggetto del contratto dovranno necessariamente essere «connotat(e) da competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi» oppure da «capacità tecnico-pratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze [....]» e pattuite con soggetti «titolar(i) di un reddito annuo da lavoro autonomo non inferiore ad» Euro 18.662,50.

Rimangono infine in vigore gli obblighi dell'associante di garantire «un'effettiva partecipazione dell'associato agli utili dell'impresa o dell'affare» e di consegnare a quest'ultimo il «rendiconto previsto dall'art. 2552 c.c.» (cfr. art. 1, comma 26 e ss.gg., Riforma).

Le sanzioni. La volontà del Legislatore di eliminare il contratto di associazione in partecipazione dal panorama giuslavoristico è resa evidente dall'impianto sanzionatorio che accompagna la novella. Ed infatti, nell'ipotesi in cui l'associante dovesse associare «in partecipazione» un numero di lavoratori superiore a 3 per lo svolgimento «della medesima attività», tutti tali rapporti (e dunque non solo quelli eccedenti il limite di legge) dovranno essere considerati -in virtù di una presunzione assoluta già vista nel contratto a progetto- rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Con l'inedito effetto che una singola posizione potrà avere un impatto travolgente anche nei confronti di lavoratori genuinamente autonomi, titolari di rapporti provvisti di tutti gli elementi richiesti dall'art. 2549 c.c. Sulla base di un dato letterale certo non encomiabile, peraltro, verrebbero convertiti «tutti» i rapporti, ivi compresi quelli con il coniuge o con il proprio figlio. Sempre grave, ma decisamente meno onerosa, è la conseguenza per quei rapporti formalmente di associazione in partecipazione che difettino dei tratti tipici di tale istituto. La Riforma infatti dispone che, qualora non vi sia stata una effettiva partecipazione dell'associato agli utili dell'impresa o non gli sia stato consegnato il rendiconto, operi una presunzione relativa di subordinazione del rapporto, salva la possibilità per l'associante di dimostrarne la natura genuinamente autonoma. Previsione che sembra scarsamente incisiva, se si considera che la giurisprudenza formatasi in questi anni individuava principalmente in questi due elementi i criteri discretivi tra associazione in partecipazione e lavoro subordinato (da ultimo, si veda Cass. n. 2496/2012).

Analoga presunzione è inoltre prevista per i contratti per la cui esecuzione non siano necessarie le suesposte competenze (teoriche o pratiche) di elevato profilo, o stipulati con soggetti ritenuti dal Legislatore economicamente deboli.

Rileviamo come un così grave impianto sanzionatorio si collochi in un contesto normativo di assai difficile interpretazione. Il riferimento va in particolare al requisito fondamentale introdotto dalla Riforma, ossia la nozione di «medesima attività», la cui effettiva portata genera numerosi dubbi in quanto nozione ontologicamente estranea dal contratto di associazione in partecipazione, che ha storicamente riguardo solo all'«impresa» o ad uno o più «affari». Nozione che, se sottoposta al vaglio giudiziale, potrebbe dunque includere tutto ed il contrario di tutto, con ciò mettendo verosimilmente in discussione lo stesso perimetro di applicazione del nuovo art. 2549 c.c.

 

 

C) Il Contratto a progetto

 

I requisiti del progetto. La L. 92/2012 interviene sulla stessa nozione di progetto, rendendolo -oltre che «specifico»- necessariamente e «funzionalmente collegato a un determinato risultato finale» non potendo inoltre «consistere in una mera riproposizione dell'oggetto sociale del committente».

I contratti sottoscritti da oggi, pertanto, oltre che un progetto specifico, dovranno necessariamente indicare anche il c.d. «obiettivo», ossia il risultato che il committente intende perseguire tramite la realizzazione del progetto affidato al collaboratore.

Fumoso e tecnicamente impreciso è invece il divieto di «meramente riproporre» l'oggetto sociale della committente, poiché tale previsione recepisce (male) un orientamento giurisprudenziale avviato dal Tribunale di Torino nel 2005.

Anche a voler tralasciare le perplessità che tale orientamento ha sempre suscitato, tale precisazione è sotto un certo punto di vista inutile e, sotto altro punto di vista, potenzialmente dannosa. Inutile perché in concreto non esiste alcun tema di riproposizione dell'oggetto sociale della committente posto che, in tale ipotesi, il punto sarebbe evidentemente quello della genericità del progetto (con conseguente presunzione ex lege della natura subordinata del rapporto). È invece potenzialmente dannosa perché, ancora una volta, non è chiara nella sua effettiva portata. Dal punto di vista letterale, parrebbero infatti ammessi (a differenza che nel passato) progetti sostanzialmente coincidenti con parte dell'oggetto sociale della committente, purché specifici e definiti nella loro materialità, mentre -leggendo le pronunce recepite dalla novella- tale eventualità era fino a ieri esclusa.

Sotto altro profilo, la Riforma ha soppresso il riferimento al «programma di lavoro o fase di esso» endiadi che, nella pratica ed indipendentemente dalle distinzioni puramente teoriche, aveva avuto un'interpretazione sostanzialmente coincidente con quella del progetto.

Infine, il progetto commissionato al collaboratore non potrà (la ragione non è chiara) comportare lo svolgimento di attività meramente esecutive o ripetitive, che verranno individuate dai contratti collettivi.

Senza progetto si è necessariamente lavoratori subordinati. La Riforma opera un'interpretazione autentica dell'art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 276/2003, disponendo che la presunzione ivi contenuta debba intendersi quale presunzione assoluta. Non sarà dunque mai ammessa la prova sulla natura effettivamente autonoma di un rapporto con un collaboratore privo di progetto o -il che è lo stesso- privo di un progetto sufficientemente specifico.

Il collaboratore si presume subordinato se lavora come i dipendenti del committente. Viene poi introdotta una presunzione espressamente relativa, ossia superabile con la prova contraria a carico del committente, della natura subordinata del rapporto qualora l'attività del collaboratore sia svolta con «modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori dipendenti dell'impresa committente». Sono invece espressamente escluse da questa presunzione, le prestazioni caratterizzate da elevata professionalità che «possono» essere individuate dalla contrattazione collettiva (non è chiaro se con effetto esemplificativo o esaustivo).

Anche i collaboratori a progetto avranno un «minimo sindacale». La L. 92/2012, inoltre, impone che il corrispettivo del contratto a progetto non possa essere inferiore ai minimi stabiliti da una specifica contrattazione collettiva (ad oggi inesistente), in mancanza della quale si dovranno considerare quale minimo «inderogabile» le retribuzioni attualmente previste per i lavoratori subordinati che prestino la propria attività per un tempo pari a quello dei collaboratori. Se consideriamo che è pacifico, in giurisprudenza, che la retribuzione «proporzionata e sufficiente» ex art. 36 Cost. trovi applicazione solo rispetto ai lavoratori subordinati, la contraddittorietà della previsione appare evidente in quanto utilizza, come parametro, la durata della prestazione di un lavoratore (quale è il collaboratore a progetto) che ontologicamente non ha alcun orario di lavoro.

Lo «scarso rendimento» viene esteso anche ai collaboratori. La Riforma interviene anche sul regime del recesso dal contratto a progetto, che passa dalla acausalità (quando disciplinata dalle parti nel contratto) al necessario collegamento con «oggettivi profili di inidoneità professionale del collaboratore tali da rendere impossibile la realizzazione del progetto» con ciò trasferendo, nel lavoro autonomo, criteri di recesso elaborati per il lavoro subordinato. Rimane naturalmente salvo, né poteva essere diversamente, il recesso per giusta causa tanto da parte del committente che da parte del collaboratore.

Le aliquote contributive. Quale ultimo strumento di «disincentivo» all'utilizzo delle collaborazioni coordinate e continuative a progetto, la Riforma (art. 2, comma 57) incrementa le aliquote di contribuzione alla Gestione Separata dell'INPS, che arriveranno nel 2018 al 33%.

 

 

D)  il Lavoro intermittente

 

La nozione di lavoro intermittente (o «a chiamata»). Il contratto di lavoro intermittente, a mente dell'art. 34 D. Lgs. n. 276/2003, è il contratto con il quale «un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa».

In concreto, pertanto, il datore di lavoro poteva avvalersi delle le prestazioni di un lavoratore solo quando -e se- ne aveva effettivamente necessità, sena alcun obbligo di garantirgli continuità di prestazioni o di reddito. Rispetto a tale facoltà datoriale, il lavoratore era naturalmente libero di rispondere o meno alla «chiamata», fermo il suo diritto ad una «indennità» qualora si fosse a ciò contrattualmente obbligato. Poiché, dal punto di vista amministrativo, il datore di lavoro era tenuto a comunicare alla Direzione Provinciale del Lavoro solo la sottoscrizione del contratto - e non le singole «chiamate» - questo istituto si era nella pratica prestato a numerosi abusi, considerata la sua astratta idoneità a mascherare prestazioni occasionali «in nero».

Le novità apportate dalla Riforma. La L. 92/2012 apporta al contratto in esame significative novità tese, da un lato, a scoraggiarne l'utilizzo e, dall'altro, ad impedirne un utilizzo fraudolento. In particolare, la Riforma interviene su:

-  gli adempimenti amministrativi necessari per fruire delle prestazioni del lavoratore; e sulle

-  ipotesi di legittimo ricorso a tale contratto.

La comunicazione dovrà essere effettuata prima di ogni giorno di lavoro. Per quanto concerne il primo aspetto, la Riforma introduce l'obbligo per il datore di lavoro di inviare una comunicazione preventiva alla Direzione Provinciale del Lavoro ogniqualvolta riterrà di avvalersi delle prestazioni del lavoratore (o una volta sola, in ipotesi di «ciclo integrato di prestazioni non superiore a trenta giorni»), indicando altresì la durata della stessa. Comunicazione che potrà avvenire con «modalità semplificate [.....] mediante sms, fax o posta elettronica». Il mancato rispetto di questa disposizione sarà punito con un sanzione amministrativa compresa tra euro 400,00 ed euro 2.400,00 per ciascun lavoratore chiamato.

Sarà il CCNL a decidere quando (e se) chiamare i lavoratori. Per quanto concerne il secondo aspetto, invece, la Riforma prevede che l'utilizzo del contratto di lavoro intermittente sia consentito solo in relazione ad «esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro [....] ovvero per periodi predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno», con espressa abrogazione della possibilità di ricorrervi durante i periodi festivi o nei week end (anche se, sulla base del dato letterale della legge, sembra che tali periodi potranno essere autorizzati dalla contrattazione collettiva). Ê dunque ragionevole attendersi pregnanti vincoli -causali e temporali- da parte della contrattazione collettiva che, storicamente, ha sempre manifestato una forte contrarietà a questo contratto.

Sarà, al contrario, sempre possibile stipulare contratti di lavoro intermittente con lavoratori che abbiano più 55 e meno di 24 anni («fermo restando che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età»).

Regime transitorio. Per quanto riguarda il regime transitorio infine, a differenza di altri istituti di ben maggiore impatto, la Riforma prevede che i contratti «già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge» (18/07/2012) cesseranno di avere efficacia entro il 18 luglio 2013.

 

Vai alla Legge 28 giugno 2012 n. 92

 

Tratto dal sito: www.dirittoegiustizia.it

 

27 Luglio 2012