La riforma delle procedure concorsuali

In vigore dal 16 luglio 2006 (salvo i nuovi artt. 48 e 49 L.F. che sono entrati in vigore il 16/01/2006)

 
1. Principi generali. Il presupposto soggettivo e il procedimento per la dichiarazione di fallimento

1.1 Osservazioni generali
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del D.Lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 , nel testo approvato dal Consiglio dei Ministri del 22 dicembre 2005, il Governo ha portato a compimento la riforma delle procedure concorsuali. Com'e noto, il decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale, aveva introdotto all'art. 2 alcune modifiche che intervenivano sulla disciplina della revocatoria, sul concordato preventivo ed introducevano nel nostro ordinamento gli accordi di ristrutturazione dei debiti, previsti dall'art. 182 bis, inserito nella legge fallimentare. Con la successiva legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80, alle norme previste dal decreto legge, che avevano subito pochissimi ritocchi, si era aggiunta la delega al Governo ad emanare, entro 180 giorni dall'entrata in vigore della legge stessa, uno o più decreti legislativi recanti "la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali".
Con il recente decreto legislativo la delega ha avuto attuazione. Contemporaneamente il Governo con l'art. 36 del D.L. 30 dicembre 2005, n. 373, con norma di interpretazione autentica (resasi necessaria in conseguenza della incertezza nelle interpretazioni giurisprudenziali sul punto), ha ritoccato la disciplina della nuova procedura di concordato preventivo, introdotta dal D.L. 35/2005, chiarendo che presupposto per l'ammissione alla nuova procedura e non soltanto lo stato di crisi, ma anche stato d'insolvenza [ 1 ].
Non e questa la sede per fornire un commento complessivo della riforma. Sulle norme contenute nel decreto legge 35/2005 si e gia abbondantemente scritto, anche se sul tema occorrerà ritornare in modo più approfondito [ 2 ]. Intendiamo invece offrire al lettore un primo quadro d'insieme della seconda e più recente parte della riforma, quella contenuta nel decreto delegato.
Va anzitutto osservato che il legislatore, come gia aveva fatto con il decreto legge 35/2005, e ricorso alla tecnica della novellazione, rivedendo in varie parti il testo della legge fallimentare del 1942, il cui impianto riesce profondamente, ma non totalmente modificato. Nonostante la legge delega facesse riferimento alla riforma delle procedure concorsuali in genere, quasi tutti i punti indicati dalla legge delega ed ora oggetto degli interventi attuati con il decreto legislativo si riferiscono al solo fallimento, vale a dire alla procedura liquidatoria. Il legislatore non ha ritenuto di intervenire sulla disciplina dell'amministrazione straordinaria, neppure per coordinarne i principi con quelli sanciti per le altre procedure concorsuali ed ha sostanzialmente limitato gli interventi sul concordato preventivo alle norme contenute nel decreto legge 35/2005, convertite come si e visto senza sostanziali modificazioni.

1.2 Le incapacità personali del fallito
Va peraltro ricordato che le norme contenute nel decreto legislativo, a differenza degli interventi contenuti nel decreto legge 35/2005, non entrano immediatamente in vigore. Il legislatore ha infatti previsto una vacatio legis di sei mesi dalla pubblicazione del decreto delegato sulla Gazzetta Ufficiale. Fanno eccezione gli articoli da 45 a 47 che modificano gli articoli da 48 a 50 della legge fallimentare, adeguando la posizione del fallito ad una concezione moderna delle procedure concorsuali. Vengono infatti eliminate, con la soppressione del pubblico registro dei falliti, le sanzioni personali che seguono alla dichiarazione di fallimento e vengono ridotte le limitazioni alla liberta di movimento ed alla riservatezza della corrispondenza nei limiti strettamente necessari alle esigenze della procedura concorsuale. Anche le limitazioni in materia elettorale vengono soppresse. Si tratta di una riforma che adegua la legislazione italiana agli standard imposti dalle convenzioni internazionali di cui l'Italia e parte e che la cui mancata adozione avrebbe comportato il rischio di sanzioni da parte del Consiglio di Europa.
Cosi la corrispondenza diretta al fallito non viene più trasmessa direttamente al curatore ed il fallito e invece tenuto a consegnare al curatore la propria corrispondenza di ogni genere, inclusa quella elettronica, riguardante i rapporti compresi nel fallimento. Le limitazioni alla facoltà di movimento del fallito vengono ridotte all'obbligo di comunicare al curatore ogni cambiamento della propria residenza o del proprio domicilio e di presentarsi personalmente agli organi della procedura ogni qual volta occorrano informazioni o chiarimenti ai fini della gestione della procedura.
Tali obblighi riguardano anche gli amministratori ed i liquidatori di società o enti dichiarati falliti.

1.3 L'esdebitazione
Viene introdotta nel nostro sistema, ma l'innovazione scatterà soltanto dopo i sei mesi di vacatio legis, l'esdebitazione, cioè il c.d. discharge previsto nella legislazione americana ed anche in quella di alcuni stati europei. Si tratta di riconoscere al fallito, a seguito della conclusione della procedura di fallimento, il diritto a veder cancellati i debiti non soddisfatti attraverso la liquidazione dell'attivo attuata nell'ambito della procedura concorsuale. Si vuole in tal modo liberare il fallito dai vincoli connessi al mancato pagamento dei creditori, nella consapevolezza che e ben difficile che questi, chiuso il fallimento e soddisfatti i creditori nei limiti possibili attraverso la liquidazione fallimentare, possa altrimenti liberarsi dei debiti residui. In questo modo si consente al fallito il c.d. fresh start, la possibilità cioè di ripartire da zero, iniziando una nuova attività commerciale, operazione che sarebbe altrimenti impossibile proprio per il peso dei debiti pregressi. In questo modo si elimina anche il fenomeno largamente presente di ex-falliti che sono costretti ad operare di nascosto tramite familiari o prestanome compiacenti.
Il decreto delegato limita l'esdebitazione al fallito persona fisica ed ai casi in cui il fallito si e comportato bene durante lo svolgimento del fallimento, collaborando con gli organi della procedura e la esclude quando vi siano stati, sia prima che dopo il fallimento, comportamenti fraudolenti (cfr. art. 142 legge fall. nel testo novellato). In questi casi il tribunale, con il decreto di chiusura del fallimento o su ricorso del debitore presentato entro l'anno successivo, verificata la sussistenza delle condizioni indicate dall'art. 142 cui s'e gia accennato e tenuto conto dei comportamenti collaborativi del fallito, sentito il curatore ed il comitato dei creditori, dichiara inesigibili nei confronti del debitore gia dichiarato fallito i debiti concorsuali non soddisfatti integralmente.
Restano esclusi dall'esdebitazione: a) gli obblighi di mantenimento e alimentari e comunque le obbligazioni derivanti da rapporti non compresi nel fallimento ai sensi dell'articolo 46; b) i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale nonché le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti.
Sono inoltre salvi i diritti vantati dai creditori nei confronti di coobbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso.
Va peraltro detto che, a differenza di quanto previsto dai progetti di riforma elaborati in passato dalla Commissione Trevisanato, istituita presso il Ministero della Giustizia, progetti che non ebbero fortuna presso le forze politiche, il progetto di riforma non prevede l'estensione del fallimento, sia pure a domanda, all'insolvente civile, con la conseguenza che l'esdebitazione non può operare in due situazioni in cui sarebbe sicuramente utile: le situazioni di crisi di soggetti privati connesse all'insolvenza di un'impresa ( ad esempio i soci o ex-amministratori della società fallita che hanno concesso fideiussioni a garanzia delle obbligazioni societarie) ovvero legate al ricorso al credito al consumo, che e fenomeno ampiamente presente negli Stati Uniti ed in fase di sviluppo anche in Italia.
Un problema ancor più rilevante e dato dal fatto che il legislatore, come si vedrà in seguito, ha riveduto la nozione di piccolo imprenditore ampliandone i limiti dimensionali. Un'ampia categoria di imprenditori rimane pertanto esclusa dal fallimento e non può beneficiare dell'esdebitazione. Si profila cosi il rischio che la nuova disciplina possa cadere sotto la censura d'illegittimità costituzionale per ingiustificata disparita di trattamento di situazioni non dissimili, ai sensi dell'art. 3 Cost.

1.4 Il piccolo imprenditore escluso dal fallimento. Altre misure deflattive del fallimento
Il principio sancito dalla lettera a) n. 1 della legge delega intendeva ridurre il novero dei soggetti cui il fallimento poteva essere applicato. Il legislatore delegato ha mantenuto il principio per cui il fallimento e limitato al solo imprenditore commerciale, escluso il piccolo imprenditore. Ha pero rivisto la nozione di piccolo imprenditore escluso dal fallimento. E' noto il travaglio interpretativo della giurisprudenza sulla nozione di piccolo imprenditore, che vedeva nel vecchio sistema una duplice nozione espressa dall'art. 2083 c.c. e dall'art. 1 della legge fallimentare. Mentre l'art. 2083 faceva riferimento alla prevalenza del lavoro proprio del piccolo imprenditore e della famiglia, l'art. 1 legge fall. forniva una nozione di carattere quantitativo escludendo dal fallimento coloro che avessero un reddito inferiore al minimo imponibile ai fini dell'imposta di ricchezza mobile e comunque un capitale investito inferiore alle 900.000 lire. Venuti meno questi due limiti a seguito della soppressione dell'imposta di ricchezza mobile e della perdita di valore della moneta che aveva reso irrisorio il limite delle 900.000 lire, la giurisprudenza aveva applicato la nozione dettata dall'art. 2083 c.c. affermando il principio per cui era piccolo imprenditore colui che ricavava dall'impresa un guadagno modesto che non assumeva le caratteristiche del profitto, essendo comunque prevalente l'elemento lavoro sul capitale investito.
In questo modo una parte delle imprese artigiane rimaneva assoggettata al fallimento, nonostante che l'art. 2083 comprendesse tra i piccoli imprenditori gli artigiani ( ma la giurisprudenza distingueva tra l'artigiano che era tale ai sensi della norma del codice civile ed era sottratto al fallimento e l'impresa artigiana che soddisfaceva i più ampi requisiti dimensionali previsti dalle leggi speciali). Inoltre, mentre la piccola impresa artigiana costituita in forma societaria era esclusa dal fallimento, anche grazie agli interventi della Corte costituzionale, vi rimaneva soggetta la piccola società commerciale, pur nel dissenso di una parte della giurisprudenza di merito.
Il legislatore delegato fornisce ora una nuova nozione quantitativa di piccolo imprenditore che prescinde dal criterio stabilito dall'art. 2083 c.c. Pertanto secondo il nuovo testo dell'art. 1 legge fall. non sono piccoli imprenditori gli esercenti un'attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente: a) hanno effettuato investimenti nell'azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila; b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila.
Questa parte della riforma e stata oggetto di numerose critiche. Si e osservato che i criteri adottati per definire il piccolo imprenditore sono empirici e contraddittori. I ricavi lordi superiori a 200.000 euro annui non corrispondono quanto a dimensioni agli investimenti di ammontare superiore ai 300.000 euro, per i quali non e previsto un termine iniziale e finale di riferimento. Inoltre si e alzata la soglia di fallibilità con il risultato di lasciare senza tutela una quantità di creditori di piccole e medie imprese, costrette ad utilizzare le procedure esecutive individuali che non funzionano. La recente riforma dell'esecuzione individuale, introdotta dalla legge 80/2005 che conteneva anche la delega per la riforma del fallimento, non ha in alcun modo cercato di migliorare il funzionamento dell'esecuzione mobiliare, che rimane insoddisfacente. Il risultato e che i creditori, privati della possibilità di chiedere il fallimento, rimangono senza tutela.
Ancora, se per il fallimento il legislatore ha ritenuto di scegliere un sistema di liquidazione del tutto privo di formalità, perché il curatore potrà vendere anche gli immobili a trattativa privata, purché adotti procedure competitive ancor meglio da definirsi da un emanando regolamento ministeriale (cfr. art. 107 legge fall. novellato), per le esecuzioni immobiliari individuali l'alternativa e ancora tra la vendita con incanto e la vendita senza incanto, sia pur con un meccanismo che prevede che la prima debba seguire alla seconda senza soluzione di continuità, ove la vendita senza incanto non abbia avuto successo. In conclusione anche nel caso dell'esecuzione immobiliare la tutela del creditore al di fuori della procedura fallimentare rimane insoddisfacente.
Va sottolineato che vi sono altre norme, oltre a quelle che definiscono il presupposto soggettivo del fallimento, che incidono sulla concreta possibilità che si apra una procedura fallimentare. L'art. 15, ultimo comma, legge fall. nel testo novellato stabilisce infatti che non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare e complessivamente inferiore a venticinquemila euro. Come osserva la relazione governativa, l'innovazione persegue la finalità, prospettata incidentalmente dalla Corte Costituzionale nella pronunce nn. 302/1985, 488/1993 e 368/1994, tesa ad evitare l'apertura di procedure fallimentari nei casi in cui si possa ragionevolmente presumere che i loro costi superino i ricavi distribuibili ai creditori.
La Relazione ricorda che di fatto alcuni tribunali avevano gia introdotto il principio di non far luogo alla dichiarazione di fallimento nell'ipotesi in cui l'esposizione debitoria risultante dagli atti dell'istruttoria prefallimentare fosse inferiore ad un certo ammontare di volta in volta individuato. Regolando legislativamente la materia si e ottenuto il risultato di uniformare le prassi allo stato utilizzate nei vari Tribunali.
Il principio cosi introdotto merita di essere approvato, perché evita l'apertura di procedure inutili, di dimensioni non rilevanti, i cui costi presumibilmente sono superiori al risultato utile per i creditori. Tuttavia la riforma si presta alla critica che, poiché l'esecuzione individuale non funziona, in questi casi i creditori vengono lasciati sostanzialmente privi di adeguata tutela.
Alla stessa logica corrisponde quanto previsto dall'art. 102 legge fall. novellato. Il tribunale, con decreto motivato da adottarsi prima dell'udienza per l'esame dello stato passivo, su istanza del curatore depositata almeno dieci giorni prima dell'udienza, corredata da una relazione sulle prospettive della liquidazione, e sentiti il comitato dei creditori ed il fallito, dispone non farsi luogo al procedimento di accertamento del passivo relativamente ai crediti concorsuali se risulta che non può essere acquisito attivo da distribuire ad alcuno dei creditori che abbiano chiesto l'ammissione al passivo, salva la soddisfazione dei crediti prededucibili e delle spese di procedura. In questo caso il fallimento e gia stato dichiarato ed esso prosegue per il pagamento dei crediti in prededuzione e delle spese, ma si evita di far luogo all'accertamento del passivo, che, mirando a rendere possibile il concorso dei creditori, diviene inutile quando, in prospettiva, non vi e attivo da ripartire. Il fallimento si chiuderà ai sensi dell'art. 118 nn. 3 o 4, una volta pagati, se possibile, i crediti in prededuzione e le spese.

1.5 L'istruttoria prefallimentare
Il legislatore ha regolato ex novo il procedimento per la dichiarazione di fallimento, che in passato non era sostanzialmente disciplinato. Com'e noto, l'art. 15 della legge fallimentare del 1942 prevedeva soltanto che il tribunale prima di dichiarare il fallimento, avesse facoltà di sentire il debitore in camera di consiglio. A seguito delle numerose pronunce di illegittimità costituzionale dell'art. 15 e delle altre norme ad esso collegate, l'audizione del fallito era divenuta un obbligo, ma il procedimento relativo era rimasto privo di una specifica disciplina. Si riteneva peraltro generalmente che esso fosse regolato dalle norme relative ai procedimenti in camera di consiglio in quanto applicabili; che il tribunale potesse delegare per l'audizione del fallendo e per gli eventuali atti istruttori un proprio componente; che il procedimento avesse carattere inquisitorio e che quindi la decisione in ordine all'acquisizione della prova fosse rimessa alla valutazione sostanzialmente discrezionale del giudice. Tempi e modi del procedimento non erano peraltro compiutamente normati e non veniva assicurato un effettivo e completo contraddittorio tra il debitore ed il soggetto istante per il fallimento.
La situazione non era mutata anche dopo che il legislatore, nel regolare il procedimento per la dichiarazione dello stato d'insolvenza delle imprese soggette ad amministrazione straordinaria, con l'art. 7 del D.lgs. 270/1999 aveva regolato in termini più completi la materia. A dire il vero quel procedimento garantiva in termini adeguati il diritto di difesa del debitore insolvente, conservando il modello del procedimento a cognizione sommaria su ricorso, in ragione delle ragioni d'urgenza che normalmente caratterizzano la dichiarazione dello stato d'insolvenza dell'impresa. Prevedeva, in ciò differenziandosi dalla legge del 1942, un vero e proprio contraddittorio tra i soggetti maggiormente interessati, individuati nell'imprenditore, nel ricorrente e nel Ministero delle Attività Produttive, in cui l'audizione delle parti non aveva soltanto il valore di fonte d'informazione dell'ufficio, ma consentiva l'esercizio del diritto di difesa. Prevedeva un meccanismo di convocazione delle parti mediante un avviso di convocazione che il tribunale aveva l'obbligo di emettere d'ufficio anche nel caso d'istanza di parte, con il rispetto di termini a difesa ben precisi.
La legge rimaneva muta, tuttavia, in ordine a rilevanti problemi quali le modalità con cui doveva avvenire la convocazione del debitore ed in ordine ai mezzi di prova esperibili, i modi della loro deduzione in giudizio ed i modi della loro assunzione [ 3 ].
Nel regolare il procedimento per la dichiarazione di fallimento il legislatore delegato ha mantenuto le caratteristiche essenziali del sistema previgente, e quindi il carattere sommario ed inquisitorio del procedimento, non discostandosi troppo dalle soluzioni adottate nel 1999 con riferimento all'amministrazione straordinaria.
Il procedimento per la dichiarazione di fallimento si svolge infatti dinanzi al tribunale in composizione collegiale con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio (art. 15, comma 1). Tuttavia il tribunale può delegare al giudice relatore l'audizione delle parti, secondo il modello che veniva seguito gia in precedenza. In questo caso il giudice relatore provvede anche all'emanazione del decreto di convocazione delle parti (art. 15, terzo comma). A differenza di quanto avviene nella procedura di amministrazione straordinaria la delega in questo caso riguarda l'intero procedimento, salvo la decisione che e sempre di competenza del tribunale.
Ove non si avvalga della facoltà di delega, il tribunale convoca, con decreto apposto in calce al ricorso, il debitore ed i creditori istanti per il fallimento; nel procedimento interviene il pubblico ministero che ha assunto l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento e che quindi e parte nel giudizio. Al di fuori di tale ipotesi non e previsto l'intervento del P.M. che, tuttavia, può intervenire a mente dell'art. 70, ultimo comma, c.p.c., essendo legittimato ad intervenire in tutte le cause in cui ravvisi un pubblico interesse.
Va sottolineato che la convocazione non si riferisce soltanto più al debitore, ma anche ai creditori istanti, che assumono la qualità di parte a tutti gli effetti, con piena legittimazione a dedurre prove ed a partecipare a tutti gli atti del giudizio.
La convocazione delle parti avviene per mezzo di decreto sottoscritto dal presidente del tribunale o dal giudice relatore se vi e delega alla trattazione del procedimento Tra la data della notificazione, a cura di parte, del decreto di convocazione e del ricorso, e quella dell'udienza deve intercorrere un termine non inferiore a quindici giorni liberi. In questo modo e assicurato al debitore un adeguato termine a difesa.
Il decreto contiene l'indicazione che il procedimento e volto all'accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento e fissa un termine non inferiore a sette giorni prima dell'udienza per la presentazione di memorie ed il deposito di documenti e relazioni tecniche. In ogni caso, il tribunale dispone, con gli accertamenti necessari, che l'imprenditore depositi una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata.
I termini a comparire e per la deduzione delle prove e difese possono essere abbreviati dal presidente del tribunale, con decreto motivato, se ricorrono particolari ragioni di urgenza.
In caso di delega il giudice delegato provvede, senza indugio e nel rispetto del contraddittorio, all'ammissione ed all'espletamento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d'ufficio. In difetto l'istruttoria ha carattere collegiale. Il procedimento, peraltro, per quanto riconosca alle parti il diritto alla prova, mantiene il suo carattere inquisitorio, sia perché il tribunale deve verificare (si parla degli "accertamenti necessari") il contenuto della situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata che l'imprenditore deve depositare, sia perché non vi sono limiti alla prova disposta d'ufficio dal giudice.
Dal tenore del settimo comma dell'art. 15 che stabilisce che le parti possono nominare consulenti tecnici, si ricava che non vi sono limiti all'espletamento delle prove c.d. di lunga indagine, ivi compresa la c.t.u. Nulla dice, invece, il legislatore in ordine alle prove c.d. costituende, ma e da ritenere che non vi siano preclusioni in proposito. In passato l'opinione contraria all'espletamento della prova orale, si fondava sul presunto ritardo nella definizione del procedimento connesso con l'espletamento di tale tipo di prova, ritenuto in contrasto con le esigenze di celerità del procedimento. Pare evidente che tale ostacolo venga meno nel momento in cui si ammettono le prove c.d. di lunga indagine, quale la c.t.u.
Degno di nota e che il tribunale, ad istanza di parte, possa emettere i provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell'impresa oggetto del provvedimento, che hanno efficacia limitata alla durata del procedimento e vengono confermati o revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento, ovvero revocati con il decreto che rigetta l'istanza. Escluso che tali provvedimenti possano avere carattere innominato, deve ritenersi fondamentalmente che essi si traducano nel sequestro d'azienda con la nomina di un amministratore provvisorio.
In dottrina [ 4 ] si e osservato che la previsione che i provvedimenti cautelari siano suscettibili di essere < confermati o revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento> induce a chiedersi se la formula legislativa sia sufficiente ad escludere l'applicabilità della disciplina dei procedimenti cautelari o se la espressa qualificazione dei provvedimenti non imponga, invece, l'applicazione degli artt. 669 bis ss. c.p.c. ovvero degli artt. 23 s. d. leg. 17 gennaio 2003, n. 5, ovvero degli artt. 124 ss. del Codice della proprietà industriale. Prescindendo da ogni questione sulla competenza ad emettere tali provvedimenti, si tratta, soprattutto, di affermare o negare l'ammissibilità del reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c.
Il principio del contraddittorio e la garanzia del diritto di difesa comportano che le parti debbano essere messe in condizione non soltanto di partecipare all'espletamento delle prove, ma anche di dedurre in ordine alla prova documentale acquisita o alla consulenza tecnica espletata, prima che il tribunale pronunci.
Come s'e gia detto, la pronuncia e sempre riservata al collegio, anche nel caso in cui vi sia stata delega al relatore per la convocazione e per l'audizione delle parti e l'espletamento delle prove.

1.6 La sentenza dichiarativa di fallimento
La pronuncia ed il contenuto della sentenza dichiarativa di fallimento sono regolati dall'art. 16 nuovo testo legge fall. La disciplina non differisce in misura rilevante da quella previgente se non per alcuni aspetti. Sono mutati i termini che la sentenza deve fissare per l'esame dello stato passivo davanti al giudice delegato e per la presentazione delle domande d'insinuazione da parte dei creditori e dei terzi che vantano diritti reali o personali sui beni in possesso del fallito. All'esame dello stato passivo deve provvedersi entro il termine di centoventi giorni dal deposito della sentenza. Tale termine e espressamente definito perentorio, ma in realtà al suo mancato rispetto non possono ovviamente seguire decadenze, essendo impensabile che non si faccia luogo all'esame dello stato passivo. I creditori debbono presentare le domande d'insinuazione entro trenta giorni prima dell'adunanza dei creditori. Anche questo termine e definitivo perentorio. Ne segue che i creditori che non rispettino il termine non potranno presentare domanda tempestiva d'insinuazione e dovranno proporre la domanda nelle forme dell'insinuazione tardiva.
Entrambi i termini, quello per l'esame dello stato passivo e quello per il deposito delle domande d'insinuazione, sono strettamente funzionali alla diversa disciplina dell'accertamento del passivo dettata dal legislatore, che innova profondamente rispetto al passato. Sul tema pertanto si tornera trattando della verificazione del passivo.
E' di particolare importanza l'ultimo comma dell'art. 16, che stabilisce che la sentenza dichiarativa di fallimento produce i suoi effetti dalla data della pubblicazione ai sensi dell'articolo 133, primo comma, del codice di procedura civile. Tuttavia gli effetti nei riguardi dei terzi si producono dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese ai sensi dell'articolo 17, secondo comma. In questo modo il legislatore si e dimostrato sensibile all'esigenza di tutela dei terzi di buona fede che, nel sistema previgente, potevano compiere atti negoziali nei confronti del fallito ignorandone l'avvenuta dichiarazione di fallimento, atti ovviamente colpiti da sanzione d'inefficacia. Con il nuovo sistema la pubblicità della sentenza di fallimento non e più affidata all'anacronistica affissione alla porta del Tribunale, che non costituiva uno strumento efficace, ma all'iscrizione nel registro delle imprese, che e effettivamente accessibile e consultabile da parte dei terzi. La nuova disciplina, peraltro, consente al fallito di compiere atti di disposizione dei propri beni ed ai terzi di compiere atti sui beni del fallito, ad esempio un pignoramento, atti tutti che i terzi potranno opporre alla curatela, nelle more tra la pubblicazione della sentenza e l'iscrizione nel registro delle imprese. La circostanza non e irrilevante perché i tempi d'iscrizione sono brevi, ma non brevissimi, importando l'esperimento di alcuni adempimenti tecnici da parte dell'Ufficio del Conservatore.
Va poi sottolineato che mentre l'art. 16, ultimo comma, parla di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese ai sensi dell'art. 17, secondo comma, quest'ultima norma usa il diverso termine di annotazione, precisando che questa ha luogo presso l'ufficio del registro delle imprese ove l'imprenditore ha la sede legale e, se questa differisce dalla sede effettiva, anche presso quello corrispondente al luogo ove la procedura e stata aperta. E' peraltro da ritenere che la diversa terminologia sia priva di conseguenze di carattere sostanziale, atteso che il regolamento del registro delle imprese, di cui al D.P.R. 7.12.1995, n. 781, e successive disposizioni, distingue l'iscrizione dal deposito degli atti, ma non sembra prevedere un trattamento differenziato dell'iscrizione rispetto all'annotazione.
In ogni caso l'ufficio del registro non potrà iscrivere o annotare l'intera sentenza, perché l'art. 17, ultimo comma, prevede che il cancelliere, entro il termine di cui al primo comma, trasmetta, anche per via telematica, l'estratto della sentenza all'ufficio del registro delle imprese competente. La trasmissione per via telematica potrà abbreviare i tempi di iscrizione, ma non eliminerà il tempo necessario per la "lavorazione" della domanda da parte dell'Ufficio, si che comunque vi sarà un divario temporale tra la pubblicazione della sentenza da parte del tribunale e la sua inserzione nel registro.

3. Il Giudice delegato ed il Curatore

Il nuovo sistema di rapporti tra gli organi della procedura prevede che rimangano sostanzialmente immutati i poteri del tribunale fallimentare, ma ridimensiona sensibilmente i poteri del giudice delegato, attribuisce un'ampia autonomia gestionale al curatore fallimentare e conferisce i più rilevanti poteri al comitato dei creditori, che diventa il punto di riferimento dell'intera procedura.
Il G.D. secondo il vecchio testo dell'art.25 l.fall. dirigeva le operazioni del fallimento e vigilava l'opera del curatore. Ora secondo il nuovo testo della norma egli "esercita funzioni di vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura". Ha perso il potere di autorizzare il curatore a nominare le persone la cui opera e richiesta nell'interesse del fallimento. Può ancora revocare le persone nominate dal curatore, ma anche tale provvedimento deve essere adottato su proposta del curatore e non motu proprio. Mantiene il potere di liquidare i compensi agli ausiliari, ma su proposta del curatore. Viceversa spetta al comitato dei creditori il potere di autorizzare il curatore a farsi coadiuvare da tecnici (art. 28) retribuiti o dallo stesso fallito, del cui compenso si tiene conto in sede di liquidazione del compenso del curatore.
E' la stessa Relazione governativa a precisare che si e voluto evitare che "la maggiore autonomia del curatore si risolva in una gestione incontrollata".
La Relazione evidenzia i poteri rimasti al giudice delegato per l'assolvimento della funzione di vigilanza: il potere di convocazione del curatore e del comitato dei creditori, di vincolare alla autorizzazione del giudice ogni iniziativa giudiziale, di liquidare il compenso ai difensori nominati dal curatore e di disporne la revoca e di rendere partecipe il curatore del procedimento di nomina degli arbitri, rimasto in capo al giudice.
Rimane al giudice delegato il rilevante potere di approvare il programma di liquidazione, che costituisce la mappa vincolante delle operazioni di liquidazione dei beni e delle azioni giudiziali che il curatore intende compiere, ma che comprende anche l'esercizio provvisorio e l'affitto d'azienda, e di pronunciare sulle domande dei creditori di ammissione al passivo.
Come s'e detto, aumentano notevolmente i poteri attribuiti al comitato dei creditori, che autorizza il curatore al compimento degli atti di straordinaria amministrazione gia di competenza del giudice delegato (art. 35), che da il suo parere vincolante in ordine al programma di liquidazione, cui e attribuito, per usare le parole della Relazione governativa, "il compito precipuo di effettuare le valutazioni sulla convenienza economica delle operazioni liquidatorie, mediante pareri, anche vincolanti, per il curatore ed autorizzazioni per gli atti maggiormente significativi sul piano economico" [ 5 ].
Come s'e detto, il curatore mantiene la funzione di amministrazione del patrimonio fallimentare, che gia gli era attribuita dal legislatore del 1942, ma ha ora una maggiore autonomia operativa. Compie infatti, come prevede l'art. 31 della legge, tutte le operazioni della procedura, nell'ambito delle funzioni ad esso attribuite, sotto la vigilanza sia del giudice delegato che del comitato dei creditori.
Come in passato il curatore procede all'inventario dei beni, ma ora e di sua competenza anche l'apposizione dei sigilli, che il legislatore, invero un po' anacronisticamente ha voluto mantenere. In sede di accertamento del passivo spetta ora al curatore la formazione del progetto di stato passivo (art. 95), in passato attribuita al giudice delegato, che provvedeva con l'assistenza del curatore. Nel procedimento il curatore assume la qualità di parte, tanto che non soltanto per ogni domanda di insinuazione deve rassegnare "le sue motivate conclusioni", ma a lui e rimesso di "eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere, nonché l'inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se e prescritta la relativa azione" (art. 95, comma 1). All'udienza poi il giudice delegato pronuncerà sulle domande "nei limiti delle conclusioni formulate ed avuto riguardo alle eccezioni del curatore, a quelle rilevabili d'ufficio ed a quelle formulate dagli altri interessati" (art. 95, comma 3).
Anche nel giudizio di impugnazione dei crediti ammessi, unificato quanto al rito con il giudizio di opposizione e di revocazione, il curatore conserva la qualità di parte, tant'e che egli, come il creditore o il titolare di diritti su beni mobili o immobili, contesta che la domanda di un creditore o di altro concorrente sia stata accolta (art. 99, comma 2). In passato, com'e noto, la legittimazione era attribuita soltanto al creditore.
Nella liquidazione dell'attivo i poteri del curatore sono particolarmente rilevanti. Il curatore predispone il programma di liquidazione, che, una volta approvato dal giudice delegato su parere favorevole del comitato dei creditori, assume carattere vincolante. Al curatore spetta pure la gestione dell'impresa ove venga disposto l'esercizio provvisorio, in ordine al quale ha anche il potere d'iniziativa quando non ne sia stata ordinata l'attuazione con la sentenza dichiarativa del fallimento. Anche l'affitto d'azienda e disposto dal giudice delegato previo parere favorevole del comitato dei creditori, su proposta del curatore.
Per quanto concerne la vendita dei beni l'art. 107 stabilisce che le vendite e gli altri atti di liquidazione sono effettuati dal curatore. Questi, fermo restando che l'atto di alienazione dovrà rientrare nella previsione del programma di liquidazione o, se posto in essere in precedenza, dovrà essere stato autorizzato dal giudice delegato, previo parere del comitato dei creditori, non ha altri vincoli se non di procedere seguendo non meglio definite "procedure competitive" anche avvalendosi di soggetti specializzati [ 6 ]. Dovrà essere assicurata con adeguate forme di pubblicità, la massima informazione e partecipazione degli interessati. Le vendite dovranno avvenire sulla base di stime effettuate, salvo il caso di beni di modesto valore, da parte di operatori esperti. Anche la vendita dell'intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco, che deve essere preferita alla liquidazione separata dei singoli cespiti, deve avvenire secondo queste modalità (art. 105).
Al curatore spetta il potere, prima riconosciuto soltanto al giudice delegato ed in termini diversi, di sospendere la vendita ove pervenga offerta irrevocabile d'acquisto migliorativa per un importo non inferiore al dieci per cento del prezzo offerto (art. 107).
Va sottolineato che mutano parzialmente i requisiti per la nomina a curatore. L'art. 28, infatti, considera legittimati avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri commercialisti, in conformità alla disciplina vigente in passato. Tuttavia possono essere nominati anche "coloro che abbiano svolto funzioni di amministrazione, direzione e controllo in società per azioni, dando prova di adeguate capacita imprenditoriali", esclusi coloro che sono stati dichiarati falliti [ 7 ] (art. 28, primo comma, lett. c). Ulteriore rilevante innovazione e rappresentata dalla possibilità di conferire l'incarico di curatela a studi professionali associati o a società di professionisti, purché i soci siano professionisti iscritti. In questo caso, peraltro, all'atto dell'accettazione dell'incarico deve essere indicata la persona fisica responsabile della procedura.
Il curatore e nominato dal tribunale con la sentenza dichiarativa di fallimento o, nelle fasi successive della procedura, con decreto. Tuttavia tale nomina può essere messa in discussione dai creditori riuniti in adunanza per l'esame dello stato passivo. I creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti allo stato ammessi possono chiedere la sostituzione del curatore indicando al tribunale le ragioni della richiesta e un nuovo nominativo. Il tribunale provvede alla nomina dei soggetti designati dai creditori salvo che l'adunanza non abbia rispettato i criteri previsti dall'art.28 in ordine ai requisiti richiesti per la nomina a curatore. La Relazione governativa osserva, che "il decreto di esecutività dovrà essere pronunciato in udienza al termine dell'esame di tutte le domande ciò anche al fine di consentire ai creditori ammessi di procedere alle operazioni di voto per la richiesta di sostituzione del curatore" [ 8 ]. La proposta deve contenere l'indicazione di un nuovo nominativo, scelto tra coloro che hanno i requisiti per la nomina a curatore, e deve essere motivata. Il tribunale deve nominare i soggetti designati dai creditori, purché investiti dei requisiti di legge.
La norma pone numerosi interrogativi, perché non e chiaro se il tribunale sia vincolato, come sembra evincersi dalla lettera della legge, a nominare il soggetto designato dall'adunanza dei creditori, purché in possesso dei requisiti formali richiesti per l'incarico, e se, nel procedere alla sostituzione del curatore, debba rispettare il procedimento previsto per la revoca del precedente curatore dall'art.37 l.fall., con conseguente diritto di quest'ultimo di essere sentito e possibilità di reclamo alla Corte d'appello.

4. Il comitato dei creditori

Vediamo ora, più approfonditamente, quali caratteristiche assume il comitato dei creditori.
Il comitato dei creditori e nominato dal giudice delegato entro trenta giorni dalla sentenza di fallimento sulla base delle risultanze documentali, sentiti il curatore e i creditori che, con la domanda di ammissione al passivo o precedentemente, hanno dato la disponibilità ad assumere l'incarico ovvero hanno segnalato altri nominativi.
Vi e dunque la previsione che si possa instare per far parte del comitato.
Il comitato e composto di tre o cinque membri scelti tra i creditori,in modo da rappresentare in misura equilibrata quantità e qualità dei crediti ed avuto riguardo alla possibilità di soddisfacimento dei crediti stessi.
Ciascun componente del comitato dei creditori può delegare in tutto o in parte l'espletamento delle proprie funzioni ad uno dei soggetti aventi i requisiti indicati nell'articolo 28, cioè i requisiti per essere nominato curatore, previa comunicazione al giudice delegato. In questo modo s'intende assicurare che il comitato dei creditori sia composto da tecnici, all'uopo delegati dai creditori.
E' previsto che il membro del comitato in conflitto d'interessi debba astenersi.
Il comitato dei creditori vigila sull'operato del curatore, ne autorizza gli atti ed esprime pareri nei casi previsti dalla legge, ovvero su richiesta del tribunale o del giudice delegato, succintamente motivando le proprie deliberazioni (art. 41).
I componenti del comitato hanno diritto al rimborso delle spese. Non e previsto in via generale il diritto ad un compenso per l'attività prestata. Tuttavia i creditori allo stato ammessi in sede di adunanza dei creditori possono, a maggioranza semplice calcolata per teste, stabilire che ai componenti del comitato dei creditori sia attribuito, oltre al rimborso delle spese, un compenso per la loro attività, in misura non superiore al dieci per cento di quello liquidato al curatore (art. 37 bis). Si tratta di una scelta discutibile. Se il comitato dei creditori non percepisce compenso o riceve un compenso modesto come si desume dal tetto del 10% del compenso del curatore stabilito dall'art. 37 bis, nelle piccole procedure sarà difficile immaginare che i creditori, che gia oggi sono piuttosto disattenti alle vicende dei fallimenti, perdano tempo ed energie senza un corrispettivo diverso dalla possibilità di influire sul soddisfacimento del loro credito. Nelle grandi procedure i posti del comitato potranno essere occupati dai creditori di maggiori dimensioni, le banche in particolare, unici attrezzati ad occupare questi posti con competenza tecnica ed in grado di sostenere il costo di tale attività.
Tuttavia va sottolineato che in recenti convegni e emersa l'indicazione che anche le banche non sarebbero particolarmente interessate a far parte del comitato. La ragione sta nell'ultimo comma dell'art. 41: "Ai componenti del comitato dei creditori si applica, in quanto compatibile, l'articolo 2407 del codice civile. L'azione di responsabilità può essere proposta anche durante lo svolgimento della procedura".
In altri termini i componenti del comitato dei creditori rispondono come il collegio sindacale nelle s.p.a. Poiché il legislatore ha espressamente attribuito al comitato funzioni di vigilanza sull'attività del curatore, ne deriva che i componenti risponderebbero come i sindaci nel caso di omessa vigilanza, oltre che per il fatto proprio. Il richiamo all'art. 2407 non e dei più felici, perché la funzione del comitato che da autorizzazioni e sicuramente diversa da quella dei sindaci, ma certamente questa norma non ispira i creditori a divenire membri del comitato.
In una parola: un lavoro gravoso, nessun compenso, rilevanti responsabilità.
E' probabile quindi che il comitato possa avere difficoltà ad operare e che la tradizione di assenteismo che ha caratterizzato quest'organo nel passato, sia recente che remoto, non venga meno, quantomeno nelle procedure di minori dimensioni. Per tali ipotesi il legislatore ha prudentemente stabilito che "In caso di inerzia, di impossibilita di funzionamento del comitato o di urgenza, provvede il giudice delegato".
Ciò detto, il comitato autorizza od incide su molteplici atti del curatore:
- gli atti di straordinaria amministrazione ex art. 35;
- il programma di liquidazione sul quale da un parere favorevole obbligatorio;
- l'esercizio provvisorio sul quale nuovamente da un parere favorevole obbligatorio e sul quale il parere negativo alla prosecuzione e causa impeditiva della prosecuzione stessa;
- l'affitto d'azienda, dove di nuovo il parere favorevole del comitato e obbligatorio;
- il diritto di prelazione a favore dell'affittuario ove di nuovo il parere favorevole del comitato e vincolante;
- gli atti di vendita compiuti prima dell'approvazione del programma di liquidazione;
- la rinuncia all'acquisizione di beni quando i costi superino i vantaggi ex art. 42;
- il subentro del curatore nei contratti pendenti rimasti sospesi ex art. 72;
- esprime un parere sulla proposta di concordato fallimentare con riferimento ai presumibili risultati della liquidazione.
Viceversa il potere di autorizzare il curatore a stare in giudizio permane in capo al giudice delegato, anche se il curatore potrà provvedere direttamente alla nomina del legale, il cui compenso pero deve essere liquidato dal G.D.
Il comitato dei creditori delibera a maggioranza semplice.
La revoca del curatore può essere proposta al tribunale dal comitato dei creditori. Si tratta peraltro di un potere che era gia previsto dal vecchio testo dell'art.37 l.fall., ma che assume un significato nuovo alla luce dei maggiori poteri riconosciuti in generale al comitato dei creditori e che può consentire di risolvere l'eventuale contrasto che possa insorgere tra il curatore ed il comitato, ove sussistano tra i due organi divergenze insanabili di opinione in ordine alla gestione della procedura.

5. L'accertamento del passivo

La legge delega (art. 1, comma 6, lett. a, n. 9) prevedeva l'abbreviazione dei tempi del procedimento di accertamento del passivo, semplificando le modalità di presentazione delle domande di insinuazione, senza indicarne le relative modalità. A tale generica disposizione corrisponde nel decreto delegato una profonda riforma del procedimento.
Non e possibile, in questa generale panoramica del contenuto della riforma, soffermarsi oltre le linee generali del nuovo procedimento. Il progetto di stato passivo e formato ora direttamente dal curatore, non dal cancelliere come in passato. Il curatore, previo esame delle domande di ammissione, predispone un completo progetto di stato passivo, con elenchi separati dei creditori e dei titolari di altri diritti immobiliari e mobiliari rassegnando per ciascuna domanda le sue motivate conclusioni.
Va sottolineato che anche i titolari di diritti reali immobiliari debbono far valere i loro diritti, diversamente dal passato, in sede di accertamento del passivo.
In questa fase, il curatore eccepisce direttamente i fatti estintivi, modificativi e impeditivi del diritto azionato, nonché l'inefficacia del titolo su cui si fondano il credito o la prelazione, assumendo cosi la qualità di parte del procedimento. Il curatore deposita il progetto di stato passivo nella cancelleria del tribunale almeno quindici giorni prima dell'udienza fissata per l'esame dello stato passivo, dandone comunicazione ai creditori, ai titolari di diritti sui beni ed al fallito, ed avvertendoli che possono esaminare il progetto e presentare osservazioni scritte sino a cinque giorni prima della udienza. All'udienza fissata, il giudice delegato, anche in assenza delle parti, decide su ciascuna domanda, nei limiti delle conclusioni formulate ed avuto riguardo alle eccezioni del curatore, a quelle rilevabili d'ufficio ed a quelle formulate dagli altri interessati. Il giudice e pertanto tenuto a pronunciare nei limiti delle domande proposte dai creditori e dai titolari dei diritti reali e delle eccezioni avanzate dal curatore. Il procedimento segue pertanto le regole di un vero e proprio procedimento contenzioso, fondato sul principio del contraddittorio, anche se realizzato in forma estremamente semplificata. Ancora in questa fase il giudice delegato può procedere ad atti di istruzione su richiesta delle parti, compatibilmente con le esigenze di speditezza del procedimento.
Il fallito può chiedere di essere sentito, anche se e stato mantenuto il principio per cui egli non e parte del procedimento.
Il giudice delegato, con decreto, accoglie in tutto o in parte ovvero respinge o dichiara inammissibile la domanda d'insinuazione. Il decreto e succintamente motivato se sussiste contestazione da parte del curatore. La dichiarazione di inammissibilità della domanda non ne preclude la successiva riproposizione. Con il provvedimento di accoglimento della domanda, il giudice delegato indica anche il grado dell'eventuale diritto di prelazione.
Terminato l'esame di tutte le domande, il giudice delegato forma lo stato passivo e lo rende esecutivo con decreto depositato in cancelleria. Come chiarisce la Relazione governativa, in funzione acceleratoria del procedimento e stata soppressa la previsione che consentiva al giudice delegato di riservarsi la definitiva formazione dello stato passivo sicché il decreto di esecutività dovrà essere pronunciato in udienza al termine dell'esame di tutte le domande ciò anche al fine di consentire ai creditori ammessi di procedere alle operazioni di voto per la richiesta di sostituzione del curatore o dei componenti del comitato dei creditori.
Sciogliendo un annoso dibattito, l'ultimo comma del nuovo art. 96 stabilisce che il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all'esito dei giudizi di opposizione, producono effetti soltanto ai fini del concorso. La pronuncia in sede di accertamento del passivo ha pertanto efficacia esclusivamente endofallimentare e non preclude la riproponibilità della questione al di fuori della sede concorsuale, fermo restando soltanto il principio sancito dall'art. 114 nuovo testo per cui i pagamenti effettuati in esecuzione dei piani di riparto non possono essere ripetuti, salvo il caso dell'accoglimento di domande di revocazione. Quest'ultima norma, peraltro, stabilisce che, al di fuori del caso ora considerato, i creditori che hanno percepito pagamenti non dovuti, devono restituire le somme riscosse, oltre agli interessi legali dal momento del pagamento effettuato a loro favore.
Il giudizio di opposizione, impugnazione dei crediti ammessi o revocazione e disciplinato con un procedimento unitario. La legittimazione spetta per l'opposizione al creditore o al titolare di diritti su beni mobili o immobili escluso, per l'impugnazione e la revocazione al curatore, al creditore o al titolare di diritti su beni mobili o immobili nei confronti di altro creditore o concorrente ammesso.
Su presentazione del ricorso, che deve contenere l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione e le relative conclusioni e l'indicazione specifica, a pena di decadenza, dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti, il tribunale fissa l'udienza in camera di consiglio, assegnando al ricorrente un termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza alla parte nei confronti della quale la domanda e proposta, al curatore ed al fallito. Tra la notifica e l'udienza devono intercorrere almeno trenta giorni liberi.
Le preclusioni imposte al ricorrente comportano l'applicazione, anche nel procedimento di opposizione, del principio di eventualità e dei principi giurisprudenziali elaborati in proposito con riferimento al rito del lavoro [ 9 ].
Il giudice delegato non può far parte del collegio.
La parte nei confronti della quale la domanda e proposta deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell'udienza fissata, depositando memoria difensiva contenente, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, nonché l'indicazione dei mezzi di prova e dei documenti prodotti. Nel medesimo termine e con le medesime forme devono costituirsi i creditori che intendono intervenire nel giudizio.
Nel corso dell'udienza, il tribunale assume, in contraddittorio tra le parti, i mezzi di prova ammessi, anche delegando uno dei suoi componenti. Il giudizio pertanto si svolge davanti al tribunale, in formazione collegiale, e solo l'attività istruttoria può essere oggetto di delega ad uno dei componenti del collegio, escluso il giudice delegato. Ancora il tribunale, se necessario, può assumere informazioni anche d'ufficio e può autorizzare la produzione di ulteriori documenti.
L'esercizio del potere del tribunale di assumere informazioni anche d'ufficio e di autorizzare la produzione di ulteriori documenti dovrà essere conciliato con il sistema di preclusioni processuali stabilito a carico delle parti.
Il fallito può chiedere di essere sentito, ma, come nella fase di accertamento del passivo, egli rimane estraneo al procedimento.
In mancanza di contestazioni da parte del curatore o di altri creditori, il tribunale può accogliere la domanda, anche in via provvisoria, con decreto pronunciato nella stessa udienza. In mancanza, ovvero quando pronuncia in via provvisoria, il tribunale provvede in via definitiva con decreto motivato entro venti giorni dall'udienza.
Il decreto e comunicato dalla cancelleria alle parti che, nei successivi trenta giorni, possono proporre ricorso per cassazione.
Il legislatore ha completamente rinnovato il procedimento per la presentazione delle domande tardive. I termini per la presentazione sono ridotti a dodici mesi, prorogabili fino a diciotto, a far data dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo. La possibilità di presentare domande fino all'esaurimento delle ripartizioni dell'attivo e limitata ai soli casi di comprovata causa non imputabile.
Il procedimento di accertamento delle domande tardive si svolge nelle stesse forme previste dall'art. 95 per l'accertamento del passivo. In pratica si tratta di un secondo procedimento di verifica. Il curatore da avviso a coloro che hanno presentato la domanda, della data dell'udienza. Contro il provvedimento di esecutività dello stato passivo può essere proposta opposizione, impugnazione del credito ammesso, revocazione.
Una significativa innovazione, che risponde del resto all'orientamento giurisprudenziale formatosi nel vigore della vecchia disciplina, stabilisce che nei procedimenti relativi all'accertamento dei diritti reali e personali dei terzi sui beni immobili e mobili si applica il regime probatorio previsto dall'articolo 621 codice di procedura civile in tema di opposizione di terzo. Inoltre il creditore può modificare la domanda e chiedere l'ammissione al passivo del controvalore del bene che non sia stato acquisito all'attivo della procedura.

6. La disciplina dei rapporti pendenti

Per quanto concerne i rapporti pendenti la legge delega prevedeva (art. 1, comma 6, lett. a, n. 7) che fossero ampliati i termini, invero in passato troppo ristretti, entro i quali il curatore doveva manifestare la propria scelta in ordine allo scioglimento dei relativi contratti. Non si era previsto che venisse affermata espressamente la regola generale, oggi ricavata dalla giurisprudenza in via d'interpretazione, secondo la quale ove non sia diversamente disposto il contratto e sospeso sino al momento in cui il curatore delibera se sciogliersi o se proseguire nel rapporto.
Si prevedeva che il legislatore dovesse dettare una disciplina per i contratti di locazione finanziaria e per i patrimoni destinati ad uno specifico affare.
Il decreto legislativo introduce, in primo luogo, una regola generale presente in molti ordinamenti, secondo la quale la decisione in ordine alla sorte dei rapporti giuridici in corso di esecuzione alla data di apertura del fallimento, e quindi la scelta tra subingresso della procedura nel rapporto e scioglimento, e rimessa alla decisione del curatore, previa autorizzazione da parte del comitato dei creditori. Come gia si e accennato, la decisione del curatore e soggetta all'autorizzazione non più del giudice delegato bensì del comitato dei creditori, ed e questo un punto qualificante del nuovo assetto dei rapporti tra gli organi della procedura e del ruolo rilevante attribuito dalla riforma ai rappresentanti dei creditori.
Il contratto resta sospeso fino a quando il curatore abbia effettuato tale scelta, restando fermo il principio che l'eventuale subingresso dovrà avvenire con l'assunzione in capo alla procedura di tutti gli obblighi relativi. Questo principio generale, che in passato, veniva ricavato dalla giurisprudenza in via d'interpretazione, esclusi i contratti per i quali il legislatore espressamente prevedeva lo scioglimento o il subingresso automatico del curatore per effetto del fallimento, e ora affermato espressamente dall'art. 72, primo comma. La stessa soluzione e espressamente estesa al contratto preliminare, anche qui confermando le soluzioni gia accolte in passato dalla giurisprudenza, salvo quanto previsto dall'articolo 72-bis relativamente ai contratti concernenti gli immobili da costruire.
Il termine assegnato al curatore per decidere se sciogliersi o meno dal vincolo contrattuale e ampliato. Il secondo comma dell'art. 72 stabilisce infatti che il contraente in bonis può mettere in mora il curatore, facendogli assegnare dal giudice delegato un termine non superiore a sessanta giorni, decorso il quale il contratto si intende sciolto.
Al contraente in bonis viene riconosciuto il diritto di veder conservati gli effetti dell'azione di risoluzione promossa prima dell'apertura della procedura, in aderenza all'orientamento giurisprudenziale gia radicatosi sotto la vigente disciplina a seguito di un recente revirement della giurisprudenza della Cassazione. Le Sezioni Unite avevano infatti affermato [ 10 ] che la domanda di risoluzione del contratto trascritta prima della dichiarazione di fallimento produce effetti anche dopo la dichiarazione di fallimento, ove venga pronunciata la risoluzione giudiziale e la sentenza sia trascritta. Non ostava a ciò il divieto di azioni esecutive di cui all'art.51 l.fall., perché l'azione di risoluzione non ha carattere esecutivo ne l'art. 45 perché gli effetti che si producono trovano il loro fondamento nella trascrizione, anteriore al fallimento, della domanda di risoluzione, effetti che per legge sono destinati a prodursi sin dalla data della domanda. Peraltro l'art. 72 stabilisce che se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V della legge, deve cioè proporre domanda di insinuazione al passivo.
Al contrario, in relazione all'uso corrente di clausole contrattuali che prevedono la risoluzione dei contratti in corso a seguito dell'apertura di una procedura liquidatoria il legislatore ha ritenuto che dovesse essere privilegiato l'interesse della procedura ad operare la scelta tra subingresso e scioglimento, disponendo cosi l'inefficacia di tali clausole.
Il legislatore ha poi ribadito (art. 72, quarto comma) che, in caso di scioglimento, il contraente in bonis ha diritto di far valere nel passivo il credito conseguente al mancato adempimento.
L'ultimo comma dell'art. 72 conferma i principi introdotti dal D.L. 31.12.1996, n.669, a favore del promissario acquirente di un immobile in caso di fallimento del venditore. Ove il preliminare sia stato trascritto ed il curatore abbia scelto lo scioglimento del contratto, l'acquirente ha diritto di far valere il proprio credito per il prezzo versato al passivo del fallimento con il privilegio previsto dall'art. 2775 bis c.c., a condizione che gli effetti della trascrizione del contratto preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento. La norma esclude invece il diritto al risarcimento del danno, in applicazione del generale principio per cui la scelta del curatore di sciogliersi dal contratto non e fonte di risarcimento del danno. Va osservato che i principi ora visti sono affermati, forse per un difetto di coordinamento della disciplina, due volte, nel testo dell'art. 72 e nuovamente nel testo dell'art. 72 bis.
Non e questa la sede per un commento approfondito della disciplina dettata a tutela del promissario acquirente di beni immobili, che peraltro, com'e stato accennato, non e mutata per questo aspetto rispetto alla normativa previgente.
Va invece sottolineato che con l'art. 72 bis il legislatore ha ripreso le regole relative al preliminare di vendita di immobili da costruire, introdotte con il recentissimo D.lgs. 20.6.2005, n. 122, emanato in attuazione della legge delega 2 agosto 2004, n. 210, che ha dettato norme a tutela dei compratori di immobili da costruire per garantirli in caso di dissesto del costruttore.
La disciplina dettata dal D.lgs. 122/05 non riguarda esclusivamente le sorti del contratto in caso di fallimento o di altra procedura concorsuale, perché da un lato prevede obblighi ogni qual volta si faccia luogo alla stipulazione del preliminare di vendita o alla vendita di un immobile da costruire e dall'altro si applica anche nel caso in cui l'immobile sia soltanto oggetto di pignoramento, senza che si apra una procedura concorsuale.
Senza poter trattare compiutamente la materia, va ricordato che la nuova disciplina dettata dal D.lgs. 122/05 introduce anzitutto per il costruttore l'obbligo, in caso di stipula di un contratto che abbia come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità, di procurare il rilascio e consegnare all'acquirente una fideiussione di importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso e, secondo i termini e le modalità stabilite nel contratto, deve ancora riscuotere dall'acquirente prima del trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento. Sono escluse le somme per le quali e pattuito che debbano essere erogate da un soggetto mutuante, nonché i contributi pubblici gia assistiti da autonoma garanzia.
La nuova normativa si riferisce ai casi in cui il costruttore e un imprenditore o una cooperativa e comprende anche l'ipotesi in cui il trasferimento della proprietà o di altro diritto sull'immobile consegue alla stipulazione di un contratto di leasing. Non e necessario che il promittente venditore o l'alienante realizzino direttamente la costruzione, che può essere affidata in appalto a terzi.
L'acquirente deve essere una persona fisica. La nuova disciplina si applica in caso di contratti che abbiano come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di un altro diritto di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità. La consegna della fideiussione e prevista a pena di nullità. Si tratta peraltro di nullità relativa, in quanto può essere fatta valere soltanto dall'acquirente. La fideiussione deve essere rilasciata da una banca o da un'impresa esercente le assicurazioni o da intermediari finanziari iscritti all'albo di cui all'art. 107 t.u.b. Essa garantisce la restituzione delle somme e del valore di ogni altro eventuale corrispettivo effettivamente riscossi e dei relativi interessi legali maturati in ogni caso in cui il costruttore incorra in situazione di crisi. La fideiussione garantisce la restituzione delle somme maturate sino al momento in cui si e verificata la situazione di crisi.
La situazione di crisi, che non ha nulla a che fare con il presupposto oggettivo della nuova procedura di concordato preventivo, s'intende verificata alla data: a) di trascrizione del pignoramento relativo all'immobile oggetto del contratto; b) di pubblicazione della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa; c) di presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo; d) di pubblicazione della sentenza che dichiara lo stato di insolvenza o, se anteriore, del decreto che dispone la liquidazione coatta amministrativa o l'amministrazione straordinaria.
Per far valere la fideiussione occorre tuttavia che, in caso di esecuzione, l'acquirente abbia comunicato al costruttore la propria volontà di recedere dal contratto e che, negli altri casi, il competente organo della procedura concorsuale non abbia comunicato la volontà di subentrare nel contratto.
L'art. 11 del D.lgs. 122/05 introduceva un art. 72 bis dopo l'art. 72 della legge fallimentare, il cui testo e stato ora ripreso dal decreto delegato di riforma della legge fallimentare, statuendo che con l'escussione della fideiussione il contratto s'intende sciolto se, prima che il curatore comunichi la scelta tra esecuzione e scioglimento, l'acquirente abbia escusso la fideiussione, dandone comunicazione al curatore. La fideiussione non può essere escussa dopo che il curatore abbia comunicato di voler dare esecuzione al contratto.
Il nuovo principio cosi introdotto dal D.lgs. 122/05 innova fortemente la disciplina dei rapporti pendenti nel fallimento. Sino ad oggi, infatti, il contraente in bonis non aveva mai il potere di provocare la risoluzione del contratto prima della decisione del curatore se subentrare o meno. Ora, invece, con la decisione di escutere la fideiussione l'acquirente determina lo scioglimento del contratto. Soltanto nel caso in cui il curatore abbia gia comunicato che intende subentrare, all'acquirente e preclusa la possibilità di escutere la fideiussione e di provocare lo scioglimento.
Ne deriva che la nuova disciplina avrà come effetto quello di costringere il curatore a decidere rapidamente se intende subentrare o meno. In pratica il principio stabilito dal punto 7 del comma 6 dell'art. 1 della legge 80/2005, contenente la delega al Governo per la riforma della legge fallimentare, secondo il quale dovevano essere ampliati i termini entro i quali il curatore poteva esercitare la propria scelta di subentrare o sciogliersi dal contratto - principio che ha effettivamente trovato attuazione, come s'e visto, con l'elevazione del termine generale previsto dall'art.72 l.fall. da otto a sessanta giorni, trova un' evidente deroga. Va detto peraltro che, com'e stato acutamente osservato [ 11 ], l'acquirente non avrà particolare interesse ad esercitare subito la scelta escutendo la fideiussione perché l'attesa non lo pregiudica, in quanto egli potrà escutere la fideiussione anche in caso di scioglimento provocato dal curatore. Soltanto la decisione del curatore di subentrare gli impedisce infatti di pretendere il pagamento di quanto gia versato dal fideiussore (art. 3, comma 3, D.lgs. 122/05).
L'art. 72 quater regola le sorti del contratto di locazione finanziaria in caso di fallimento dell'utilizzatore e del concedente. Nel primo caso si applica la regola generale stabilita dall'art. 72 e quindi il contratto rimane sospeso, in attesa delle determinazioni del curatore. Tuttavia, nel caso in cui sia disposto l'esercizio provvisorio dell'impresa, il contratto continua ad avere esecuzione salvo che il curatore dichiari di volersi sciogliere dal contratto.
Qualora il contratto venga sciolto, il concedente ha diritto alla restituzione del bene, rimanendo tenuto a versare alla curatela, l'eventuale differenza tra la maggior somma, ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso rispetto al credito residuo. Per converso, lo stesso concedente può insinuarsi nello stato passivo per la differenza tra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dall'allocazione del bene.
In passato il dibattito nella giurisprudenza sull'applicazione al leasing in caso di fallimento dell'utilizzatore dell'art. 73 o dell'art.80 l.fall. era stato molto acceso. Si discuteva, infatti, se in caso di scioglimento del contratto, il concedente in leasing dovesse restituire la quota parte dei canoni corrisposti che aveva funzione di corrispettivo per il futuro ed eventuale trasferimento della proprietà del bene per effetto del riscatto, riscatto che, in conformità alla disciplina di regola applicata al leasing, comportava la corresponsione di una somma molto inferiore al residuo valore del bene. La soluzione affermativa implicava l'applicazione della disciplina della vendita con riserva di proprietà ed in particolare dell'art. 1526 c.c., secondo il quale in caso di risoluzione il compratore ha diritto alla restituzione delle rate riscosse, salvo un equo compenso a favore del venditore per l'uso della cosa. In senso contrario si affermava che poteva trovare applicazione soltanto la disciplina generale dettata in materia di risoluzione del contratto dal codice civile, ed in particolare l'art. 1458, che esclude la possibilità per il fallimento di ripetere i canoni gia percepiti, atteso che nei contratti ad esecuzione continuata o periodica gli effetti della risoluzione non si estendono alle prestazioni gia eseguite.
Si discuteva anche della possibilità di applicare al leasing l'art.80 l.fall. dettato in tema di locazione, con la conseguente automatica prosecuzione del contratto nonostante il fallimento.
La Cassazione [ 12 ] aveva distinto il leasing c.d. tradizionale o di godimento, in cui il periodo di durata del contratto tendenzialmente coincideva con il periodo di consumazione tecnica ed economica del bene, e il leasing c.d. traslativo, avente ad oggetto beni la cui prevedibile durata di consumazione economica era svincolata da quella, sensibilmente più breve, del contratto e nel quale pertanto i canoni incorporavano anche una parte del prezzo del bene. Aveva pertanto ritenuto che nel caso di leasing di godimento venisse in applicazione l'art. 72 e la disciplina generale dettata dall'art. 1458 c.c., mentre nel caso di leasing traslativo poteva trovare applicazione l'art.73 l.fall. e l'art. 1526 c.c. con il conseguente diritto del concedente all'equo indennizzo per l'uso della cosa oltre alla restituzione del bene.
Come s'e detto, la nuova disciplina supera i principi elaborati dalla giurisprudenza. In caso di scioglimento del contratto, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed e tenuto a restituire alla curatela la differenza tra la maggior somma ricavata dalla vendita del bene ed il credito residuo in linea capitale. I canoni riscossi sono esonerati da revocatoria ai sensi dell'art. 67, comma 3, lett. a. Se la differenza tra il prezzo ricavato dalla vendita del bene ed il residuo credito vantato alla data del fallimento, non elide interamente il credito stesso, il concedente ha diritto di insinuarsi al passivo per tale importo. Il riferimento al "credito residuo in linea capitale" rispetto al quale va calcolata la differenza che il concedente può esser tenuto a versare alla curatela, fa ritenere che il legislatore abbia inteso prescindere dalla regola generale dettata dall'art. 1458 c.c. Il credito residuo del concedente va valutato con riferimento all'intera durata del contratto. Il legislatore ha cioè considerato il contratto come contratto di finanziamento, per cui lo scioglimento non fa venir meno il credito per i canoni futuri.
Il legislatore ha poi regolato anche la materia relativa al fallimento del concedente, prevedendo che in tale ipotesi il contratto prosegua nonostante il fallimento. In tal caso, in conformità ai principi generali, l'utilizzatore conserva la facoltà di acquistare, alla scadenza del contratto, la proprietà del bene, previo pagamento dei canoni e del prezzo pattuito.
Le ulteriori modifiche introdotte nella materia dei contratti pendenti, per quanto concerne i contratti che proseguono automaticamente o si sciolgono per effetto del fallimento, sono di minore importanza. Va tuttavia ricordato che, in conformità all'assetto generale della riforma, la decisione del curatore di subentrare nel contratto a termine o rate e soggetta all'autorizzazione non più del giudice delegato bensì del comitato dei creditori. Per quanto concerne i contratti che si sciolgono per effetto del fallimento, il legislatore ha modificato l'art.78 l.fall. comprendendo nella previsione normativa anche il contratto di conto corrente bancario e per quanto riguarda il contratto di mandato, innovando alla precedente disciplina, con l'introdurre una distinzione tra il fallimento del mandatario e quello del mandante. Nel primo caso il contratto si scioglie, nel secondo e rimessa al curatore la facoltà di subentrare nel contratto e nell'ipotesi affermativa, il credito del mandatario e inserito fra quelli prededucibili per l'attività compiuta dopo il fallimento a norma dell'articolo 111, n. 1 legge fall.
Per quanto concerne il contratto di locazione le modifiche introdotte dal legislatore sono di dettaglio, salvo la previsione che in caso di fallimento del conduttore, che non e causa di scioglimento del contratto, l'equo indennizzo per l'anticipato recesso del curatore che, nel dissenso delle parti, e determinato dal giudice delegato, sentiti gli interessati, ha natura di credito prededucibile.
E' stata invece introdotta ex novo la disciplina degli effetti del fallimento in materia di contratto di affitto di azienda, prevedendo che il fallimento non e causa di scioglimento del contratto, ma che entrambe le parti possono recedere entro un termine di sessanta giorni, corrispondendo alla controparte un equo indennizzo, che nel dissenso delle parti e determinato dal giudice delegato, sentiti gli interessati. Anche in questo caso l'equo indennizzo dovuto dalla curatela ha natura di credito prededucibile.
La disciplina delle sorti del contratto d'appalto rimane immutata nelle sue linee fondamentali, con alcune differenze. L'autorizzazione al subentro del curatore spetta al comitato dei creditori. Il termine per il curatore per subentrare nel rapporto viene ampliato da venti a sessanta giorni. Nel caso di fallimento dell'appaltatore il contratto si scioglie, fatta salva la facoltà del committente, per l'innanzi vietata, di consentire la prosecuzione del rapporto anche nei casi in cui la considerazione della qualità soggettiva dell'appaltatore era stata motivo determinante del contratto.
Una novità di qualche momento e costituita dalla disciplina, introdotta ex novo, degli effetti del fallimento sulla clausola arbitrale inserita in un contratto sciolto per effetto del fallimento. L'art. 83 bis prevede che in tale ipotesi il procedimento arbitrale gia pendente non possa essere proseguito per evitare che il giudizio arbitrale sopravviva al regolamento di interessi convenzionali travolto dal fallimento e che era destinato a risolvere. La soluzione adottata dal legislatore e in contrasto con l'orientamento assunto dalla giurisprudenza in passato, secondo la quale ove il fallimento di un compromettente fosse dichiarato dopo l'accettazione degli arbitri e quindi a rapporto arbitrale instaurato, esso non si estingueva in virtù della sua assimilazione ad un mandato collettivo conferito anche nell'interesse di terzi, ai quali dovevano essere equiparate le parti che avevano stipulato il patto arbitrale [ 13 ]. Dal principio introdotto dal legislatore per quanto concerne l'arbitrato pendente, sembra possano ricavarsi conseguenze in ordine alle sorti della clausola compromissoria inserita in un contratto pendente, ove il giudizio arbitrale non sia stato ancora instaurato. Per tale ipotesi l'insegnamento prevalente [ 14 ] in ordine alla disciplina previgente affermava che, trovandosi il curatore di fronte ad un contratto unico, di cui e parte la clausola compromissoria, egli poteva soltanto accettare integralmente il regolamento negoziale o da esso sciogliersi, senza potersi parzialmente liberare dal vincolo.
Si può ora osservare che, se il curatore può sciogliersi dal giudizio arbitrale gia pendente, facendo venire meno gli effetti della clausola compromissoria, tale facoltà, a fortiori, dovrebbe valere anche quando l'arbitrato non sia stato instaurato. Resta invece valido il principio affermato dalla dottrina e dalla giurisprudenza per il compromesso che costituisca patto negoziale autonomo, relativamente al quale vale il principio generale sancito per tutti i contratti dall'art. 72 [ 15 ].
Va infine ricordato che, in attuazione della delega, il legislatore ha previsto una speciale disciplina in ordine agli effetti del fallimento sugli finanziamenti destinati ad uno specifico affare. Viene cosi stabilito che il fallimento della società determina lo scioglimento del contratto di finanziamento di cui all'art. 2447-bis, I comma, lett. b) del codice civile, quando esso impedisce la continuazione o la realizzazione dell'operazione. In caso contrario, il curatore, sentito il parere del comitato dei creditori, può decidere se subentrare nel contratto in luogo della società assumendone i relativi oneri.
Nell'ipotesi il cui il curatore non subentri nel contratto, il finanziatore può chiedere al giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, di realizzare o di continuare l'operazione in proprio o affidandola a terzi. Al finanziatore in tal caso sono garantiti i proventi dell'affare e la possibilità di insinuazione al passivo del fallimento in via chirografaria per l'eventuale credito residuo.
Nei casi in cui il curatore decida di subentrare o non subentrare all'affare resta ferma la salvaguardia prevista dai commi terzo, quarto e quinto dell'art. 2447-decies del codice civile. Sui proventi, sui frutti di essi e sugli investimenti eventualmente effettuati in attesa del rimborso al finanziatore non sono quindi ammesse azioni da parte dei creditori sociali. Delle obbligazioni nei confronti del finanziatore risponde esclusivamente il patrimonio separato, salvo che la società abbia prestato garanzia. I creditori sociali non possono esercitare sui beni strumentali destinati all'esecuzione dell'operazione altro che azioni conservative, sino al rimborso del finanziamento o alla scadenza del termine massimo di rimborso.
Nella ipotesi in cui l'operazione non possa essere ne realizzata ne continuata si applica il sesto comma dell'art. 2447-decies del codice civile. Il finanziatore pertanto potrà insinuarsi al passivo, al netto dei proventi derivanti dal patrimonio separato.

7. La liquidazione dell'attivo

Nella materia della liquidazione e ripartizione dell'attivo la Relazione governativa afferma che il legislatore, coerentemente con l'impostazione della delega verso una semplificazione ed una maggiore efficienza della procedura, ha tenuto conto delle prassi virtuose poste in essere dai tribunali più attenti che da tempo adottavano nella liquidazione soluzioni che privilegiavano la duttilità e la rapidità delle operazioni di cessione, cercando di superare le farraginose e poco efficienti norme sulle vendite, modellate sul sistema delle esecuzioni coattive individuali.
Ad avviso del legislatore, il previgente sistema improntato ad un apparente garantismo, spesso più formale che reale, e stato concausa del sistematico ritardo della durata delle procedure fallimentari. Le nuove disposizioni sulla realizzazione e sulla ripartizione dell'attivo sarebbero ispirate a criteri di efficienza e di semplificazione operativa.
Scelte nuove sono state fatte anche sul piano della ridefinizione dei ruoli del giudice delegato, del curatore e del comitato dei creditori e su quello dell'individuazione dei più opportuni adempimenti procedurali, improntati, si afferma, a semplicità ed a rapidità. Di qui la scelta di una minore giurisdizionalizzazione, in coerenza con l'accentuato ruolo del curatore, divenuto il vero organo motore della procedura, dal quale partirà ogni impulso per le scelte di liquidazione e di conservazione delle imprese assoggettate alla procedura concorsuale. Il ruolo del giudice viene invece indirizzato alla funzione di controllo della regolarità della procedura e di organo preposto alla soluzione dei conflitti endoconcorsuali.
In stretta correlazione a questa nuova impostazione delle attribuzioni degli organi fallimentari, prosegue la Relazione, e stato ridisegnato, anche nella fase liquidatoria, il ruolo del comitato dei creditori, espressione collettiva dell'interesse comune al ceto creditorio, cui e attribuito il compito precipuo di effettuare le valutazioni sulla convenienza economica delle operazioni liquidatorie, mediante pareri, anche vincolanti, per il curatore ed autorizzazioni per gli atti maggiormente significativi sul piano economico.
Sulla base di queste premesse di carattere generale, possiamo esaminare il nuovo sistema che emerge dalla mutata disciplina dettata dagli artt. 104-108 ter legge fall.

7.1 L'esercizio provvisorio
L'esercizio provvisorio può essere disposto anche contestualmente alla dichiarazione di fallimento , come gia prevedeva l'art. 90 vecchio testo. In questo caso la decisione spetta al tribunale autonomamente. Mutano pero i requisiti in quanto non e più richiesto che dall'interruzione improvvisa dell'attività d'impresa derivi danno grave ed irreparabile. Soprattutto il tribunale non può disporre l'esercizio provvisorio autonomamente dopo aver dichiarato il fallimento, come in passato ove aveva questo potere sino all'esecutività dello stato passivo. Deve farlo con la sentenza. L'art. 104 richiede soltanto che dall'interruzione derivi un danno grave, purché la prosecuzione non riesca di pregiudizio ai creditori. In realtà non muta nulla perché il danno grave ed irreparabile era sempre visto nella perdita dell'avviamento, che naturalmente determina pregiudizio per i creditori. Perciò la prosecuzione veniva e verrà disposta nell'interesse dei creditori stessi.
E' vero che i creditori possono ricevere un danno dalle spese in prededuzione che maturano, ma questo e un dato ineliminabile, proprio della procedura.
Una volta dichiarato il fallimento, il potere di disporre l'esercizio provvisorio spetta al giudice delegato. Occorre il parere favorevole del comitato dei creditori e la proposta del curatore. Il testo della norma sembra rendere il provvedimento del giudice un atto dovuto, ma e da ritenere che il giudice delegato abbia un autonomo potere di valutazione in ordine alla legittimità ed opportunità dell'esercizio provvisorio.
Poiché il comitato dei creditori deve essere nominato dal giudice delegato entro trenta giorni dalla dichiarazione di fallimento, occorrerà procedere a tale nomina prima di far luogo all'esercizio provvisorio. Ciò nei primi giorni dalla dichiarazione di fallimento, potrà dar luogo ad alcune difficoltà pratiche.
Il comitato deve essere convocato ogni tre mesi per essere informato sull'andamento della gestione e deliberare sull'opportunità di continuare l'esercizio provvisorio. Nel caso in cui il comitato ritenga di non proseguire, il G.D. deve ordinarne la cessazione.
Il tribunale può ordinare la cessazione dell'esercizio provvisorio in qualsiasi momento sentito il curatore ed il comitato dei creditori, ove ne ravvisi l'opportunità.
Il legislatore ha regolato in modo diverso dal passato la materia dei rapporti pendenti. Si riteneva che nell'esercizio provvisorio il curatore non avesse facoltà di sciogliersi dai rapporti pendenti, perché in virtù dell'esercizio il fallimento subentrava nei rapporti in corso che dovevano pertanto essere adempiuti secondo la legge del contratto. Ora il legislatore ha attenuato la regola, di origine giurisprudenziale, ed ha affermato che i rapporti proseguono, salva la facoltà del curatore di sospenderne l'esecuzione o di scioglierli. Ovviamente, ove il curatore si avvalga della facoltà di sospenderne l'esecuzione, il terzo contraente avrà la possibilità di chiedere al G.D. la fissazione del termine di sessanta giorni, ai sensi dell'art. 72, comma 2, decorso il quale il contratto s'intende sciolto.
Va poi aggiunto che il curatore non potrà invocare la sospensione o lo scioglimento ove di fatto il contratto abbia avuto esecuzione per effetto dell'esercizio provvisorio.
In caso di cessazione dell'esercizio provvisorio ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 104 si applicano le norme sui contratti pendenti. In altri termini il curatore potrà sciogliersi o proseguire nei contratti secondo la disciplina prevista dagli artt. 72 e ss. l.fall., contratti che rimarranno sospesi sino alla decisione del curatore.
E' poi affermato espressamente che i crediti sorti durante l'esercizio provvisorio debbono essere soddisfatti in prededuzione (art. 104, penultimo comma).

7.2 L'affitto d'azienda
Dal tenore del punto 1.10 della delega l'affitto d'azienda, che non era disciplinato dalla legge fallimentare del 1942 (ma gia era previsto dall'art. 42 del D.lgs. 270/99 nell'ambito della disciplina dell'amministrazione straordinaria), avrebbe dovuto essere considerato come una forma di esercizio provvisorio. Tale soluzione appariva discutibile perché, mentre l'esercizio provvisorio determina il rischio, con la gestione diretta dell'attività d'impresa da parte degli organi della procedura, che maturino debiti in prededuzione che, in ipotesi, potrebbero assorbire l'intero attivo - donde si giustificano particolari cautele per la sua autorizzazione - tali conseguenze sono da escludere nel caso di affitto, perché qui la gestione e affidata ad un terzo e gli oneri conseguenti maturano quindi in capo a questi e non agli organi della procedura. Si spiega pertanto perché l'art. 42 del D.lgs. 270/99 attribuisca la competenza ad autorizzare l'affitto d'azienda nell'amministrazione straordinaria al Ministro delle Attività Produttive, sentito il comitato di sorveglianza, senza per questo considerare l'affitto come una forma di esercizio provvisorio. Vero e che, come s'e detto, nonostante il linguaggio improprio usato dal legislatore, l'affitto si presenta come una forma di gestione dell'impresa che non comporta la prosecuzione dell'attività in capo all'imprenditore fallito, sostituito nella gestione dal curatore, ma in capo ad un terzo. Ne deriva che si poteva ritenere che, fermo restando l'obbligo di indicare nel programma di liquidazione la previsione di concedere l'azienda fallita o un ramo di essa in affitto a terzi, non dovessero essere osservate -per procedere poi all'affitto stesso- le forme che sarebbero state dettate per l'esercizio provvisorio in attuazione della delega di cui al punto 8.
L'art. 104 bis nuovo testo rispetta queste previsioni. Secondo il primo comma della norma, anche prima della presentazione del programma di liquidazione di cui all'articolo 104-ter, su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori, autorizza l'affitto dell'azienda del fallito a terzi anche limitatamente a specifici rami quando appaia utile al fine della più proficua vendita dell'azienda o di parti della stessa.
L'affitto pertanto e finalizzato alla vendita e può riguardare specifici rami d'azienda. E' sufficiente che esso appaia utile alla vendita, garantendo la conservazione del complesso aziendale e dell'avviamento. Il provvedimento e di competenza del giudice delegato, su proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato dei creditori.
L'affitto d'azienda non deve essere necessariamente inserito nel programma di liquidazione, perché in genere va stipulato subito dopo la dichiarazione di fallimento. Tuttavia esso e previsto nell'ambito del contenuto obbligatorio del programma (art. 104 ter lett. a).
Il legislatore prescrive peraltro che la scelta dell'affittuario venga effettuata nelle forme previste dall'art. 107 e quindi tramite procedure competitive, assicurando con idonee forme di pubblicità la massima partecipazione degli interessati. Previa stima. Lo stimatore deve essere nominato dal curatore ai sensi dell'art.87 in tema d'inventario. Il compenso dello stimatore va liquidato dal giudice delegato. Va sottolineato che la previsione di una procedura competitiva, probabilmente una gara ad offerte palesi o segrete, e la necessita di una previa stima comporta che i tempi dell'affitto non potranno essere brevissimi.
Il legislatore ha previsto che la scelta dell'affittuario debba tenere conto, oltre che dell'ammontare del canone offerto, delle garanzie prestate e della attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali. E' questo un principio estremamente importante. L'affitto non viene deciso soltanto in funzione del prezzo offerto e delle garanzie prestate, vale a dire dell'interesse dei creditori al massimo realizzo, ma anche in funzione delle garanzie occupazionali prestate. Ne deriva che, come gia previsto dal legislatore per l'alienazione dell'azienda nel caso di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, il canone può essere determinato in misura inferiore a quella massima consentita dal mercato ove l'affittuario dia maggiori garanzie di conservazione dei livelli occupazionali e di prosecuzione delle attività imprenditoriali. Per l'amministrazione straordinaria l'art. 63 del decreto legislativo 270/99 regola specificamente la vendita dell'azienda in esercizio. La norma prevede espressamente al secondo comma che l'acquirente debba obbligarsi a proseguire per almeno un biennio le attività imprenditoriali ed a mantenere per il medesimo periodo i livelli occupazionali stabiliti all'atto della vendita.
Va sottolineato che una norma analoga non e prevista per quanto concerne l'alienazione dell'azienda nel fallimento, con la conseguenza che in tema di affitto vigono regole in parte diverse da quelle previste per la liquidazione dell'attivo, anche quando si faccia luogo all'alienazione dell'azienda nel suo complesso.
Il contratto di affitto va stipulato dal curatore nelle forme previste dall'art. 2556, c.c., Ciò comporta la forma scritta ad probationem. Tuttavia il contratto va depositato presso il registro delle imprese nella forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata entro trenta giorni dalla stipulazione, a cura del notaio rogante.
Il contratto deve prevedere il diritto del curatore di procedere alla ispezione della azienda, la prestazione di idonee garanzie per le tutte le obbligazioni dell'affittuario derivanti dal contratto e dalla legge, il diritto di recesso del curatore dal contratto che può essere esercitato, sentito il comitato dei creditori, con la corresponsione all'affittuario di un giusto indennizzo da corrispondere ai sensi dell'articolo 111 n.1 e quindi in prededuzione.
La durata dell'affitto deve essere compatibile con le esigenze della liquidazione dei beni.
La riforma innova per quanto concerne il diritto di prelazione dell'affittuario. La materia era regolata dall'art. 3 della legge 223/91 e la giurisprudenza s'interrogava se tale diritto dovesse essere riconosciuto all'affittuario in ogni caso o soltanto quando esso avesse determinato una diminuzione del numero di lavoratori posti in cassa integrazione, quesito cui la giurisprudenza aveva dato risposte differenti. Ora l'art. 104 bis stabilisce che il diritto di prelazione a favore dell'affittuario può essere concesso convenzionalmente, previa espressa autorizzazione del giudice delegato e previo parere favorevole del comitato dei creditori.
In tal caso, esaurito il procedimento di determinazione del prezzo di vendita dell'azienda, o del singolo ramo, il curatore, entro dieci giorni, lo comunica all'affittuario, il quale può esercitare il diritto di prelazione entro cinque giorni dal ricevimento della comunicazione. E' da ritenere che con il riferimento all'esaurimento del procedimento di determinazione del prezzo di vendita dell'azienda il legislatore non abbia inteso far riferimento soltanto al completamento della stima, ma all'esaurimento delle procedure competitive di liquidazione cui fa riferimento l'art. 107. Una volta determinato il prezzo di vendita mediante la gara tra gli offerenti, nelle forme di volta in volta stabilite, il curatore potrà comunicare tale prezzo all'affittuario affinché questi possa esercitare la prelazione. La prelazione comunque non spetta più all'affittuario se non quando essa sia stata oggetto di pattuizione espressa, come si ricava dal riferimento della nuova disciplina alla concessione in via convenzionale.
Va poi sottolineato che il legislatore ha evitato che in caso di retrocessione dell'azienda dall'affittuario al fallimento possano trovare applicazione le norme in tema di responsabilità del cessionario d'azienda per quanto concerne la prosecuzione dei rapporti di lavoro e la responsabilità del cessionario in solido con il cedente per i debiti derivanti da rapporti di lavoro gia in essere al momento della cessione e per quanto concerne i debiti relativi all'azienda ceduta. In passato la questione era aperta, anche se la giurisprudenza aveva dato alla questione risposte in parte differenti, cercando comunque di mitigare la portata degli artt. 2112 e 2560 c.c. Ora provvede direttamente l'art. 104 bis, penultimo comma.
Infine i rapporti pendenti al momento della retrocessione sono regolati come i rapporti pendenti al momento del fallimento, con facoltà per il curatore di sciogliersi o proseguire, ferma la regola generale della sospensione, salvo i rapporti che proseguono ex lege o si sciolgono automaticamente.

7.3 Il programma di liquidazione
In più occasioni abbiamo fatto riferimento al programma di liquidazione, che costituisce una delle maggiori novità introdotte dalla riforma.
Nella disciplina sino ad oggi vigente, il curatore era libero di procedere alla liquidazione dei beni in vista del successivo soddisfacimento dei creditori nelle forme e nei tempi ritenuti più opportuni, salva la necessità di munirsi dell'autorizzazione del giudice delegato per la liquidazione dei beni mobili e di promuovere l'emanazione da parte di quest'ultimo dei provvedimenti che disponevano la vendita degli immobili. L'art. 104 l.fall. poneva la regola che la liquidazione dell'attivo non potesse avvenire prima della pronuncia del decreto di esecutività dello stato passivo, ferma la possibilità che il giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, autorizzasse il curatore a procedere alle vendite anche prima di tale momento. La vendita dei beni, mobili ed immobili, era poi regolata con rinvio alle corrispondenti disposizioni dettate dal codice di procedura civile per l'espropriazione individuale. Per gli immobili l'art. 108 prevedeva necessariamente la vendita con incanto, fatta salva la possibilità di far luogo alla vendita senza incanto, esclusa in ogni caso la vendita a trattative private, che la giurisprudenza della Cassazione aveva più volte ribadito essere nulla. Il tempo e le ulteriori modalità della vendita erano determinate quindi dal giudice delegato con ordinanza, in conformità al modello processuale stabilito dal codice di procedura civile.
Per le vendite di beni mobili, ivi compresa la vendita di azienda, l'art.104 l.fall. prevedeva che il giudice delegato, sentiti il curatore ed il comitato dei creditori, stabilisse il tempo della vendita, disponendo se questa dovesse essere fatta ad offerte private o all'incanto e determinandone le modalità relative. Ai sensi del secondo comma dell'art. 104 il giudice delegato poteva autorizzare, in caso di necessità o utilità evidente, la vendita in massa delle attività mobiliari, in tutto o in parte, prescrivendo speciali misure di pubblicità.
Nella prassi, nella maggior parte dei casi il giudice delegato autorizzava il curatore a vendere i beni mobili ad offerte private. Nella varia tipologia dei provvedimenti, in taluni casi il giudice autorizzava il curatore a vendere a prezzo non inferiore a quello di stima. In altri prendeva atto delle offerte pervenute ed autorizzava la vendita al miglior offerente. In altri disponeva e regolava una vera e propria gara informale, di cui stabiliva le modalità, gara che in talune ipotesi si svolgeva davanti al giudice ed in altre davanti al solo curatore, eventualmente assistito dal cancelliere.
Mancava una disciplina che regolasse l'affitto d'azienda, anche se si era consolidata l'opinione che non solo ne ammetteva la piena legittimità [ 16 ], ma riteneva che esso dovesse essere autorizzato dal giudice delegato, con le stesse modalità previste per la vendita dei beni mobili.
In pratica, ancorché nel sistema previsto dal legislatore del 1942, tutti i provvedimenti di liquidazione dell'attivo fossero di competenza del giudice delegato ' soltanto l'esercizio provvisorio era rimesso dall'art.90 l.fall. al tribunale su parere obbligatorio e vincolante del comitato dei creditori, salvo il caso che esso venisse disposto prima dell'esecutività dello stato passivo ' era il curatore che fissava i tempi ed i modi della liquidazione sottoponendo di volta in volta al giudice delegato la richiesta dei necessari provvedimenti.
Per quanto vincolato all'autorizzazione del G.D. per ogni singolo atto, il curatore era libero di decidere i tempi della liquidazione dei beni ed anche l'ordine con cui i vari cespiti dovevano essere alienati. Nella pratica inoltre era il curatore che valutava, anche sulla base della perizia di stima, se fosse opportuno procedere alla vendita in blocco dei beni ovvero separatamente, ferma restando ovviamente la necessità dell'autorizzazione del G.D. Questi poteva comunque nell'esercizio dell'attività di direzione del fallimento e di vigilanza sull'operato del curatore, controllarne le scelte ed i tempi della vendita. Non sempre peraltro quest'attività di vigilanza veniva svolta in termini adeguati ed efficaci, con evidenti conseguenze sui tempi di realizzo e sull'entità del ricavo.
La previsione di un programma di liquidazione intende porre rimedio a questi inconvenienti. Il programma si presenta come il progetto che il curatore deve redigere ed al quale deve attenersi per quanto concerne le modalità e i termini per la realizzazione dell'attivo. Esso pertanto costituisce una "mappa" dell'attività del curatore, tanto più importante e significativa perché soggetta, secondo la previsione dell'art. 104 ter, in conformità al punto 10 della delega, all'autorizzazione del comitato dei creditori e del giudice delegato.
A questo proposito va sottolineato che, per quanto la riforma abbia ridotto i poteri del giudice delegato, attribuendoli di regola al comitato dei creditori e lasciando maggior autonomia gestionale al curatore, l'approvazione del programma di liquidazione rimane di competenza del giudice delegato. Non riteniamo, a questo proposito, che colgano nel segno le teorie, che hanno trovato qualche eco nella Relazione governativa [ 17 ], che affermano che l'autorizzazione del giudice delegato sarebbe atto dovuto. A nostro avviso, fermo restando che occorre il parere favorevole del comitato dei creditori, il giudice delegato potrà respingere il programma ove lo ritenga non conforme a legge, ad esempio perché incompleto, od anche quando non condivida le scelte effettuate dal curatore.
Ai sensi dell'art. 104 ter, primo comma, il programma di liquidazione deve essere predisposto entro sessanta giorni dalla redazione dell'inventario e quindi in tempi in genere brevi a far tempo dal momento dell'apertura del fallimento. Ne deriva che il programma in molti casi non potrà che essere generico, con la conseguenza che al momento della realizzazione dei singoli cespiti il curatore dovrà necessariamente predisporre un'integrazione del programma da sottoporre all'approvazione del comitato dei creditori e del giudice delegato con le medesime modalità già previste per il programma originale.
Il legislatore al punto 9 della delega ha dato mandato al legislatore delegato di abbreviare i tempi dell'accertamento del passivo e lo schema di decreto legislativo delegato si è mosso in questo senso, introducendo misure acceleratorie. E' peraltro ragionevole ritenere che nei sessanta giorni dalla confezione dell'inventario, lo stato passivo non sia ancora chiuso. Ciò creerà in taluni casi difficoltà, quando sia necessario conoscere l'entità del passivo insinuato per sapere se occorre alienare tutto l'attivo inventariato o meno. Così pure, la circostanza che il programma di liquidazione debba contenere (art. 104, comma 2, lett. e nonché punto 10.5 della delega) l'indicazione delle condizioni di vendita dei singoli cespiti, fa ritenere che il curatore debba attendere di conoscere le valutazioni del perito estimatore, se nominato. Anche in questo caso il rispetto del termine di sessanta giorni appare problematico, ove non si ritenga di ritardare deliberatamente la chiusura dell'inventario dei beni per procedere a tempo debito alla redazione del programma di liquidazione.
Il legislatore delegato non ha regolato le conseguenze del mancato rispetto del termine per la confezione del programma di liquidazione, termine la cui mancata osservanza nella disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi comporta la revoca del commissario straordinario (art. 54, comma 4 D.lgs. 270/99). E' indubbio che l'inerzia del curatore potrà essere valutata ai fini della sua revoca, ma la mancata approvazione del programma potrebbe anche dipendere da altri fattori, alcuni indipendenti dalla volontà del curatore, come abbiamo ora sottolineato, altri legati ai rapporti tra curatore e comitato dei creditori.
Non è previsto che il termine possa essere prorogato, a differenza di quanto stabilito in tema di amministrazione straordinaria (cfr. ancora l'art. 54 citato). Non pare, tuttavia, che il termine di sessanta giorni sia perentorio.
Come s'è accennato, la previsione di un programma di attuazione della procedura non costituisce una novità assoluta nel nostro ordinamento, perché già l'art. 54 della legge 270/1999 (c.d. legge Prodi bis) contemplava un programma di attuazione per ciascuno dei due indirizzi alternativi secondo i quali poteva svolgersi la procedura ai sensi dell'art. 27 della stessa legge. Anche in questo caso il programma doveva essere predisposto dal commissario straordinario entro sessanta giorni dal decreto di apertura della procedura ed essere approvato dal Ministro dell'Industria. Il programma previsto per l'amministrazione straordinaria doveva indicare le attività imprenditoriali destinate alla prosecuzione e quelle da dismettere; il piano per la eventuale liquidazione dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa; le previsioni economiche e finanziarie connesse alla prosecuzione dell'esercizio dell'impresa; i modi della copertura del fabbisogno finanziario, con specificazione dei finanziamenti o delle altre agevolazioni pubbliche di cui era prevista l'utilizzazione.
Il diverso linguaggio del legislatore teneva conto del fatto che il programma era funzionale alla prosecuzione dell'attività d'impresa. Si precisava peraltro, opportunamente, che, ove fosse adottato l'indirizzo della cessione dei complessi aziendali, il programma doveva altresì indicare le modalità della cessione, segnalando le offerte pervenute o acquisite, nonché le previsioni in ordine alla soddisfazione dei creditori.
Va osservato che il programma di liquidazione consente non soltanto di avere un "manifesto" di quelli che sono i progetti del curatore e delle modalità con cui tali progetti verranno attuati, ma anche agli eventuali controinteressati (creditori, terzi danneggiati, lo stesso fallito) di impugnare il provvedimento autorizzativo del giudice delegato avanti al tribunale, facendo valere gli eventuali diritti che potrebbero essere stati pregiudicati.
Il programma deve indicare modalità e termini di realizzazione dell'attivo e deve precisare:
a) l'opportunità di disporre l'esercizio provvisorio dell'impresa, o di singoli rami di azienda, ai sensi dell'art. 104, ovvero l'opportunità di autorizzare l'affitto dell'azienda, o di rami, a terzi ai sensi dell'articolo 104 bis;
b) la sussistenza di proposte di concordato ed il loro contenuto;
c) le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da esercitare;
d) le possibilità di cessione unitaria dell'azienda, di singoli rami , di beni o di rapporti giuridici individuabili in blocco;
e) le condizioni della vendita dei singoli cespiti.
Va sottolineato che l'esercizio provvisorio e l'affitto d'azienda per quanto possano essere disposti anche al di fuori del programma di liquidazione, come espressamente prevede la legge, di regola saranno considerati dal programma stesso, anche al fine di precisare quale sorte avranno un esercizio provvisorio o un affitto già avviati prima dell'approvazione del programma.
Il curatore dovrà esprimersi sulla possibilità di cessione unitaria dell'azienda o di suoi rami o di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco, perché tali forme di liquidazione debbono avere la precedenza rispetto alla vendita dei beni in forma atomizzata, che costituisce l'ipotesi residuale. Il legislatore parte infatti dalla giusta considerazione che di regola soltanto la vendita del complesso unitario costituito dall'azienda consente di salvaguardare il maggior valore costituito dall'avviamento e dal fatto che l'azienda è un complesso organizzato.
Il programma di liquidazione non deve limitarsi ad indicare le condizioni previste per la cessione dei cespiti suscettibili di alienazione. Il curatore dovrà indicare anche le possibili azioni risarcitorie, recuperatorie e revocatorie da esercitare, in modo tale da consentire una previsione in ordine alle possibilità di realizzo che ne derivano ed anche in ordine ai tempi di definizione della procedura concorsuale. E' noto infatti che una delle cause della lentezza con cui si chiudono i fallimenti, è data dalla durata dei giudizi promossi dalla curatela, sì che in sede di autorizzazione occorre tener conto da un lato del presumibile vantaggio per i creditori che deriva dall'azione e dall'altro del rischio che il promuovimento della stessa comporta sul piano dei tempi del processo.
Nel contempo va sottolineato che il programma di liquidazione nell'indicare tutte le azioni recuperatorie e risarcitorie che il curatore intende esperire, viene a contenere dati riservati, perché il creditore destinatario di una revocatoria o l'amministratore destinatario di un'azione di responsabilità, potrebbero compiere atti di dispersione del patrimonio nelle more dell'autorizzazione del programma prima e dell'azione in quanto tale dopo. Ne deriva che è indispensabile che gli organi della procedura e lo stesso fallito mantengano il segreto in ordine alle informazioni di cui avranno notizia tramite il programma.
Il curatore dovrà anche indicare la sussistenza di proposte di concordato. A questo proposito va considerato che il punto 12 della delega ha dato mandato al legislatore di accelerare i tempi del concordato. E' pertanto possibile, ai sensi dell'art. 124, che la presentazione della proposta possa avvenire anche prima dell'esecutività dello stato passivo, a differenza di quanto è attualmente stabilito. E' da ritenere, stando alla lettera della legge che parla di sussistenza di proposte di concordato, che il curatore debba dar notizia soltanto di eventuali proposte già formalizzate, non di eventuali disponibilità che siano state manifestate dal fallito o da terzi, ma che non siano ancora state concretizzate in un atto formale.
La notizia dell'esistenza di proposte di concordato consente al comitato dei creditori e al giudice delegato di valutare l'opportunità di procedere alla liquidazione dei beni o di soprassedere.
Ai sensi dell'art. 104 ter l'approvazione del programma di liquidazione tiene luogo delle singole autorizzazioni eventualmente necessarie ai sensi della legge per l'adozione di atti o l'effettuazione di operazioni inclusi nel programma. Ne deriva pertanto che non occorrerà l'autorizzazione del comitato dei creditori per il compimento degli atti previsti dall'art. 35 L.F. ove inclusi nel programma di liquidazione. Va invece sottolineato che l'alienazione dei beni ai sensi dell'art. 107 non richiede l'autorizzazione del comitato dei creditori o l'intervento del giudice delegato. Si tratta infatti di atto del curatore che non richiede autorizzazione perché presuppone l'esistenza del programma di liquidazione. E' poi da ritenere che il curatore non abbisogni di specifiche autorizzazioni per l'esperimento delle azioni recuperatorie, risarcitorie o revocatorie incluse nel programma.
Prima della approvazione del programma, invece, il curatore può procedere alla liquidazione di beni, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori se già nominato, solo quando dal ritardo può derivare pregiudizio all'interesse dei creditori.
Il programma di liquidazione non è immutabile. Il legislatore ha infatti previsto che per sopravvenute esigenze, il curatore può presentare, con le stesse modalità previste per l'approvazione del programma, un supplemento dello stesso. Va sottolineato che la lettera della legge parla di "supplemento del piano", ma deve ritenersi che si tratti di un refuso, e che in realtà il legislatore intenda un supplemento del programma, non esistendo alcun piano di liquidazione, ma soltanto il programma di liquidazione.
Il comitato dei creditori ha non soltanto il potere di approvare il programma, ma anche di proporre al curatore modifiche dello stesso. Il curatore peraltro non è obbligato ad accogliere tali modifiche. Sennonché la necessità che il programma debba riportare il parere favorevole del comitato dei creditori, comporta che tale organo sia il vero dominus della procedura. L'art. 36 prevede che contro i dinieghi del comitato dei creditori, il fallito e ogni altro interessato possono proporre reclamo al giudice delegato per violazione di legge, entro otto giorni dalla conoscenza dell'atto o, in caso di omissione, dalla scadenza del termine indicato nella diffida a provvedere. Il giudice delegato, sentite le parti, decide con decreto motivato, omessa ogni formalità non indispensabile al contraddittorio.
Tuttavia è stato sottolineato che il parere negativo del comitato dei creditori raramente si tradurrà in violazione di legge, con la conseguenza che un contrasto nel merito sulle scelte fondamentali tra il curatore ed il comitato dei creditori non potrà essere risolto che con la sostituzione del curatore, eventualmente su proposta dell'adunanza dei creditori in sede di verifica. Va però aggiunto che si potrà impugnare il rifiuto di parere favorevole da parte del comitato dei creditori nei casi in cui per la composizione del comitato o per altre circostanze si possa ritenere che la delibera sia stata adottata in conflitto d'interessi, sussistendo in tal caso un'ipotesi di violazione di legge.
Non fa parte del programma di liquidazione la previsione dell'ultimo comma dell'art. 104 ter secondo il quale il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all'attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni, se l'attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente. In questo caso, il curatore ne dà comunicazione ai creditori i quali, in deroga a quanto previsto nell'art. 51, possono iniziare azioni esecutive o cautelari sui beni rimessi nella disponibilità del debitore.
Si tratta di una norma che regola quanto già avveniva nella prassi, in tutti i casi in cui l'acquisizione di un bene all'attivo poteva essere non conveniente perché fonte di costi superiori all'utilità dell'acquisizione.

7.4 La vendita dell'azienda e la vendita in blocco dei beni
L'art. 105 regola la vendita dell'azienda o di singoli rami della stessa o anche la vendita in blocco di beni o di rapporti giuridici. Come s'è già detto, la liquidazione atomistica dell'attivo può essere attuata soltanto quando risulta prevedibile che la vendita dell'intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco non consenta una maggiore soddisfazione dei creditori.
Come s'è detto, la vendita dell'azienda deve avvenire nelle forme previste dall'art. 107, tramite le procedure competitive di vendita, e nel rispetto dei requisiti di forma stabiliti dall'art. 2556 c.c.
Il legislatore ha poi ripreso in parte le norme che regolavano la cessione dell'azienda per quanto concerne i rapporti di lavoro in corso ed ha previsto, con disposizione di carattere generale, che si sostituisce alla disciplina particolareggiata previgente, che "nell'ambito delle consultazioni sindacali relative al trasferimento d'azienda, il curatore, l'acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell'acquirente e le ulteriori modifiche del rapporto di lavoro consentite dalle norme vigenti".
In altri termini il legislatore ha previsto un'espressa deroga all'art. 2112 c.c.,che peraltro non regola le sorti del rapporto di lavoro in corso per i lavoratori che non proseguono l'attività con il cessionario ai fini della concessione del trattamento di C.I.G. E' da ritenere che sul punto non sia stata innovata la disciplina previgente.
È esclusa la responsabilità dell'acquirente per i debiti relativi all'esercizio delle aziende cedute, sorti prima del trasferimento, salvo diversa convenzione intervenuta tra le parti. La vendita non ha necessariamente effetto purgativo, cioè non provoca il trasferimento delle sole attività, rimanendo il soddisfacimento dei crediti riservato all'esito del fallimento. E' infatti stabilito che il curatore può procedere altresì alla cessione delle attività e delle passività dell'azienda o dei suoi rami, nonché di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco. L'acquirente può pertanto accollarsi una parte dei debiti dell'impresa fallita, purché facenti capo all'azienda oggetto di cessione. Sotto tale profilo, peraltro, poiché nell'ambito del fallimento vale pur sempre il principio della par condicio creditorum, cui il legislatore ha derogato soltanto parzialmente nella disciplina del concordato, preventivo e fallimentare e nella disciplina dell'azione revocatoria, deve ritenersi che i creditori cui si riferiscono le passività oggetto di cessione non potranno beneficiare di un trattamento più favorevole di quello previsto per i creditori il cui soddisfacimento è effettuato tramite la distribuzione dell'attivo ricavato in sede fallimentare. In questo senso va letto, del resto, l'ultimo comma dell'art. 105 che stabilisce che il pagamento del prezzo può essere effettuato mediante accollo di debiti da parte dell'acquirente solo se non viene alterata la graduazione dei crediti [ 18 ].
La cessione dell'azienda esclude comunque la responsabilità dell'alienante per le passività esistenti ai sensi dell'art. 2560 c.c. E' peraltro da ritenere che tale previsione, nonostante il "comunque" della lettera legislativa non possa che riguardare i casi in cui oggetto di cessione sono anche le passività. Diversamente, infatti, il creditore dell'impresa fallita deve insinuarsi al passivo della procedura e si soddisfa sul ricavato, in ragione del carattere purgativo della vendita. E' cioè da ritenere che vi possa essere deroga all'efficacia purgativa della vendita soltanto nel caso in cui l'acquirente si accolli le passività, ipotesi in cui il creditore non potrà far valere la responsabilità solidale dell'alienante, cioè del fallimento.
L'art. 105 stabilisce poi, ripetendo quanto già previsto dall'art. 2559, primo comma, c.c. che la cessione dei crediti relativi alle aziende cedute, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto, nei confronti dei terzi, dal momento dell'iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese. Tuttavia il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede al cedente. Si è poi aggiunto che i privilegi e le garanzie di qualsiasi tipo, da chiunque prestate o comunque esistenti a favore del cedente, conservano la loro validità e il loro grado a favore del cessionario.
Ha carattere innovativo e merita approvazione la norma che stabilisce che il curatore può procedere alla liquidazione anche mediante il conferimento in una o più società, eventualmente di nuova costituzione, dell'azienda o di rami della stessa, ovvero di beni o crediti, con i relativi rapporti contrattuali in corso, esclusa la responsabilità dell'alienante ai sensi dell'art. 2560 del codice civile ed "osservate le disposizioni inderogabili contenute nella presente Sezione". Sono salve le diverse disposizioni previste in leggi speciali.
In altri termini può essere più conveniente per il curatore conferire l'azienda ovvero beni o crediti in una o più società, anche di nuova costituzione, e procedere quindi all'alienazione delle quote o azioni di tale o di tali società. In questo caso il conferimento in società e la successiva alienazione della partecipazione non può avvenire a condizioni diverse da quelle che regolano il trasferimento dell'azienda. Ad esempio il curatore dovrà scegliere l'affittuario dell'azienda tramite procedure competitive, nel rispetto delle regole generali, anche quando abbia conferito l'azienda in una società di nuova costituzione. E procedure competitive dovranno essere adottate anche per l'alienazione della partecipazione.

7.5 La cessione dei crediti e delle azioni di massa
Non si è mai dubitato che il curatore potesse cedere i crediti che trovava nell'attivo della procedura, ancorché si trattasse di crediti futuri od eventuali. Il problema semmai era pratico, vale a dire trovare soggetti disposti a rendersi acquirenti di tali crediti.
Ora l'art. 106 afferma espressamente che il curatore può alienare tali cespiti, anche se futuri o contestati ed anche quando si tratti di crediti fiscali. E' da verificare se questa generica ultima previsione possa rendere cedibili sempre i crediti fiscali meramente eventuali, cioè non ancora certi, perché oggetto di accertamento, e se l'Amministrazione non contesterà la cessione di siffatti crediti.
Sino ad oggi il legislatore ammetteva la cessione delle azioni revocatorie soltanto come patto inserito nel concordato fallimentare ai sensi dell'art. 124, comma 2, l.fall. L'art. 106 ammette ora la cessione delle azioni revocatorie concorsuali, purché i relativi giudizi siano già pendenti. Il curatore potrà pertanto monetizzare il ricavato di tali azioni senza attendere l'esito del giudizio. Il riferimento alle sole azioni revocatorie concorsuali comporta che il curatore non potrà cedere l'azione revocatoria ordinaria già instaurata dal fallito prima della dichiarazione di fallimento. Altro discorso vale invece per l'azione revocatoria ordinaria che il curatore abbia instaurato ai sensi dell'art. 66 l.fall.
Va sottolineato che nel concordato fallimentare il nuovo art. 124, ultimo comma, prevede che il terzo possa rendersi cessionario delle azioni di pertinenza della massa, e dunque non soltanto delle azioni revocatorie.
Oltre che cedere i crediti, il curatore potrà anche stipulare mandati per la riscossione dei crediti stessi, in genere tramite il sistema bancario.
Infine il legislatore ha richiamato per quanto concerne la cessione delle quote di s.r.l. la disciplina dettata dall'art. 2471 c.c. che regola espressamente il caso in cui la partecipazione non sia liberamente trasferibile. Va sottolineato che in passato si era ritenuto che l'art. 2480, che regolava la materia prima della riforma societaria con disposizioni sostanzialmente di analogo tenore, si applicasse anche in caso di fallimento.
Resta il problema, non risolto dalla riforma, se l'art. 2471, terzo comma, sia applicabile anche nel caso in cui la partecipazione non sia trasferibile. In senso negativo si è espressa autorevole dottrina [ 19 ]. Il divieto di espropriazione discenderebbe dall'interesse dei soci a mantenere immutata la compagine sociale. Di conseguenza la quota non sarebbe espropriabile, così com'è stabilito per le società di persone. In senso contrario si è opposto l'interesse del creditore che non può giovarsi, a differenza di quanto è previsto per le società di persone, degli istituti della liquidazione della quota e dell'opposizione alla proroga della società [ 20 ]. Si è anche osservato [ 21 ] che sarebbe ammissibile, sulla scorta dell'art. 2473 bis, una clausola dell'atto costitutivo che in caso di pignoramento della quota preveda la liquidazione, introducendo in sostanza un'ipotesi di esclusione del socio. In questo caso il pignoramento della quota si tradurrebbe nel pignoramento del credito di liquidazione.

7.6 Le modalità della vendita. Sospensione della vendita. Vendita di navi ed aeromobili. Cessione delle opere dell'ingegno
L'art. 107 regola le modalità con cui deve avvenire la vendita. La grande innovazione introdotta dal legislatore è costituita dall'abolizione della previsione di forme distinte per la vendita dei beni mobili e la vendita degli immobili. Gli artt. 106 e 108 prevedevano rispettivamente la massima libertà di forme per la vendita di mobili, che poteva essere fatta ad offerte private o all'incanto, e l'adozione delle forme previste per la vendita nell'esecuzione individuale per gli immobili da farsi all'incanto, ove il giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, non avesse optato per la vendita senza incanto.
Ora l'art. 107 stabilisce, genericamente, che "Le vendite e gli altri atti di liquidazione sono effettuati dal curatore, tramite procedure competitive anche avvalendosi di soggetti specializzati, sulla base di stime effettuate, salvo il caso di beni di modesto valore, da parte di operatori esperti, assicurando, con adeguate forme di pubblicità, la massima informazione e partecipazione degli interessati".
Si deve dunque far luogo a procedure competitive, di cui il legislatore non chiarisce il contenuto, ma che debbono assicurare grazie ad adeguate forme di pubblicità la massima informazione e partecipazione degli interessati. I mezzi di pubblicità e trasparenza delle operazioni di vendita debbono però essere stabiliti dal Ministro della Giustizia, con apposito regolamento.
Poiché si tratta di procedure competitive è da ritenere che il curatore dovrà procedere alla vendita dopo aver sollecitato la presentazione di offerte e previsto un termine entro il quale tali offerte dovranno pervenire. Non è invece detto che gli offerenti debbano essere invitati ad una gara sull'offerta più alta, né che debba essere adottato un metodo piuttosto che l'altro. Potrà pertanto addivenirsi ad una vendita ad offerte da presentarsi in busta chiusa (offerte segrete) con o senza possibilità di rilancio o potrà tenersi un vero e proprio incanto al quale gli offerenti saranno invitati.
Il curatore non dovrà necessariamente procedere direttamente alla vendita. Potrà avvalersi di soggetti specializzati, primo tra tutti l'Istituto Vendite Giudiziarie, ma anche di varie figure di commissionari. A questo proposito va ricordato che l'art. 532, comma 1, c.p.c. nel testo innovato dalla legge 80/2005 prevede per la vendita dei beni mobili l'affidamento all'I.V.G. ovvero "ad altro soggetto specializzato nel settore di competenza", soggetto che potrebbe essere un intermediario finanziario, una banca, un mediatore, un'agenzia immobiliare, ecc.
Il regolamento ministeriale deve stabilire i requisiti di professionalità ed onorabilità dei soggetti specializzati, sicché al momento è troppo presto per poter dare un contenuto specifico alla norma.
L'art. 107 stabilisce inoltre che la vendita debba avvenire previa stima dei beni da parte di operatori esperti. Come s'è già detto, la nomina dell'esperto è di competenza del curatore, che provvederà in sede d'inventario. Il regolamento ministeriale deve anche stabilire i requisiti di onorabilità e professionalità degli operatori esperti.
Per gli immobili il curatore dovrà dare notizia ai creditori ipotecari e comunque ai creditori muniti di privilegio sul bene, secondo i principi generali.
E' innovativa la norma che prevede che il curatore possa sospendere la vendita ove pervenga offerta irrevocabile d'acquisto migliorativa per un importo non inferiore al dieci per cento del prezzo offerto. La norma non sostituisce il generale potere di sospensione della vendita attribuito al giudice delegato, già previsto dall'art. 108, comma 3, vecchio testo, ed ora dall'art. 108, comma 1, nuovo testo, di cui si dirà in appresso.
Il curatore potrà sospendere la vendita ove pervenga offerta irrevocabile d'acquisto migliorativa per un importo non inferiore al dieci per cento del prezzo offerto. Va considerato che il potere di sospensione non comporta che la vendita debba essere necessariamente sospesa. Si tratta di un potere discrezionale del curatore che dovrà tener conto della serietà dell'offerta, in ragione del fatto che non è previsto che l'offerta sia assistita da cauzione e che, in caso d'inadempimento, l'offerente in aumento sia soggetto alla perdita della cauzione. Si tratta quindi di un'ipotesi che potrebbe giustificare anche manovre dirette ad ostacolare il regolare svolgimento della procedura di vendita e la cui previsione non pare opportuna, alla luce del generale potere di sospensione già attribuito al giudice delegato.
Degli esiti delle procedure il curatore informa il giudice delegato ed il comitato dei creditori, depositando in cancelleria la relativa documentazione. Va detto, per quanto si osserverà più avanti sul potere di sospensione della vendita attribuito al giudice delegato, che ha assunto caratteristiche diverse rispetto al passato, che è da ritenere, anche se la lettera della norma non pare affermarlo, che il deposito debba essere effettuato prima che la vendita si sia perfezionata, onde consentire al giudice delegato di impedirne il perfezionamento.
Il legislatore ha mantenuto la facoltà per il curatore di subentrare nelle procedure esecutive individuali in corso. La norma non riguarda soltanto le procedure immobiliari, come era previsto dall'art. 107 vecchio testo, anche se naturalmente troverà applicazione soprattutto per queste ultime. In difetto di subentro, il giudice dell'esecuzione, su istanza del curatore, dovrà dichiarare l'improcedibilità dell'esecuzione, salvi i casi, previsti dall'art. 51 L.F., in cui la procedura esecutiva può continuare nonostante il fallimento, in particolare nel caso delle azioni esecutive promosse dal credito fondiario.
Gli artt. 108 bis e 108 ter stabiliscono che per quanto concerne la vendita delle navi, galleggianti ed aeromobili iscritti nei registri indicati dal codice della navigazione si applicano le disposizioni dello stesso codice, in quanto applicabili e che il trasferimento dei diritti di utilizzazione economica delle opere dell'ingegno, il trasferimento dei diritti nascenti delle invenzioni industriali, il trasferimento dei marchi e la cessione di banche di dati sono fatte a norma delle rispettive leggi speciali.
Infine, indipendentemente dalle modalità con cui è avvenuta la vendita, e quindi anche quando essa sia avvenuta a trattativa privata, ai sensi dell'art. 108, per i veicoli iscritti nel pubblico registro automobilistico e per i beni immobili, una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, il giudice delegato ordina, con decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo.
Si è accennato al potere, già esistente, del giudice delegato di sospendere la vendita quando il prezzo raggiunto fosse notevolmente inferiore al giusto prezzo. La previsione dell'art. 108, terzo comma, vecchio testo, è stata mantenuta, ma in termini sostanzialmente diversi dal passato. Infatti il nuovo primo comma dell'art. 108 dispone che "il giudice delegato, su istanza del fallito, del comitato dei creditori o di altri interessati, previo parere dello stesso comitato dei creditori, può sospendere, con decreto motivato, le operazioni di vendita qualora ricorrano gravi e giustificati motivi ovvero, su istanza presentata dagli stessi soggetti entro dieci giorni dal deposito di cui al quarto comma dell'articolo 107, impedire il perfezionamento della vendita quando il prezzo offerto risulti notevolmente inferiore a quello giusto tenuto conto delle condizioni di mercato".
Si tratta di due ipotesi completamente diverse. Nel primo caso su istanza del fallito, del comitato dei creditori o di altri interessati, tra i quali possono rientrare anche gli eventuali offerenti, su parere dello stesso comitato dei creditori, il giudice delegato può sospendere le operazioni di vendita qualora ricorrano gravi e giustificati motivi. Il legislatore non ha indicato quali siano i gravi e giustificati motivi, ma è da ritenere che essi non si riducano all'eventuale violazione di legge o al rischio che la vendita possa essere stata inquinata da turbative d'asta, ma al contrario che il giudice possa prendere in considerazione mutamenti delle condizioni di mercato che consiglino di modificare le condizioni di effettuazione della vendita. In ogni caso il provvedimento del giudice deve essere motivato.
La seconda ipotesi, distinta dalla precedente, è che entro dieci giorni dal deposito cui è tenuto il curatore ai sensi del quarto comma dell'art. 107 - degli esiti delle procedure, il curatore informa il giudice delegato ed il comitato dei creditori, depositando in cancelleria la relativa documentazione ' il giudice delegato, sempre su istanza del fallito, del comitato dei creditori o di altri interessati, possa impedire il perfezionamento della vendita qualora il prezzo offerto risulti notevolmente inferiore a quello di mercato. Anche in questo caso il giudice delegato provvederà con decreto motivato e, per quanto la lettera della legge non lo affermi espressamente, è da ritenere che debba essere sentito il comitato dei creditori, così come previsto nella prima ipotesi.
Peraltro poiché la norma afferma che il giudice delegato può impedire il perfezionamento della vendita in caso di notevole sproporzione, dovrebbe ritenersi che il curatore debba provvedere al deposito della documentazione, ai sensi del quarto comma dell'art. 107 prima che la vendita si sia perfezionata. In difetto, infatti, ove la vendita, soprattutto nel caso di vendita a trattativa privata, si fosse già perfezionata, il potere del giudice delegato non potrebbe essere esercitato. D'altra parte anche nel sistema previgente si riteneva che la sospensione potesse essere disposta soltanto sino a quando non fosse intervenuta la pronuncia del decreto di trasferimento a favore dell'aggiudicatario, proprio perché con tale decreto la vendita si perfezionava determinandosi l'effetto traslativo in capo all'aggiudicatario.
Ove invece si volesse ritenere che la vendita possa perfezionarsi prima del deposito della documentazione, la possibilità d'impedirne il perfezionamento sarebbe in sostanza limitata ad un numero ridotto di casi.

8. La ripartizione dell'attivo

Anche la materia della ripartizione dell'attivo ha subito modificazioni rilevanti da parte del legislatore.
La Relazione governativa afferma che, fermo restando l'impianto complessivo della disciplina previgente, il decreto delegato ha previsto una serie di precise soluzioni, spesso tratte dal diritto vivente, volte a regolamentare, per un verso, fattispecie pur frequenti, ma non specificamente disciplinate dalla legge del 1942, come quella dell'insufficienza dell'attivo anche per il soddisfacimento dei soli creditori prededucibili o, per altro verso, a imporre regole comportamentali obbligatorie nelle ipotesi in cui, nel vigore dell'attuale legge, si erano formati suggerimenti o indirizzi interpretativi non sempre univoci o dotati di sufficiente chiarezza, come nel caso dei c.d. conti speciali o delle modalità di accertamento e di pagamenti dei crediti prededucibili e del decorso del computo degli interessi.
Esamineremo più avanti queste innovazioni. Per l'intanto occorre osservare che il nuovo testo dell'art. 110 mantiene fermo l'obbligo del curatore di predisporre un progetto di riparto delle somme disponibili, una volta effettuati gli accantonamenti dovuti. Il vecchio testo della norma prevedeva che il curatore dovesse presentare il progetto ogni due mesi a far tempo dalla data di esecutività dello stato passivo. Il termine è stato ora elevato a quattro mesi, ferma restando la possibilità per il giudice delegato di stabilire un termine diverso.
Il legislatore ha poi ritenuto, in armonia con la scelta di ridimensionare il ruolo del giudice, di sopprimere il potere del giudice delegato di apportare variazioni al progetto e la facoltà dei creditori di proporre osservazioni, sulle quali decideva sempre il giudice delegato. Ora i creditori, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla comunicazione dell'avvenuto deposito del progetto di ripartizione in cancelleria, possono proporre reclamo contro il progetto di riparto nelle forme del procedimento camerale ex articolo 26, previsto in tema di reclamo avverso i decreti del giudice delegato e del tribunale.
Una volta decorso il termine per il reclamo, il giudice delegato, su richiesta del curatore, dichiara esecutivo il progetto di ripartizione. Se, invece viene proposto reclamo, il giudice delegato dichiara esecutivo il progetto di distribuzione previo accantonamento delle somme corrispondenti ai crediti oggetto di contestazione.
Con il provvedimento con cui si decide il reclamo si provvede anche in ordine alla destinazione delle somme accantonate.
Il risultato delle scelte del legislatore è un sistema più rigido che in passato, perché il giudice delegato non può porre rimedio ad errori e sviste del curatore, sia di propria iniziativa sia recependo le osservazioni dei creditori. Costoro sono tenuti a proporre reclamo, la cui decisione è affidata al tribunale in formazione collegiale, di cui non può far parte il giudice delegato, nonostante che egli in questo caso non assuma alcuna determinazione sul contenuto del progetto di riparto. Non è poi chiara la funzione del parere del comitato dei creditori sul progetto di riparto, che deve precedere l'ordine di deposito in cancelleria e di comunicazione ai creditori, posto che il giudice delegato, come s'è detto, non ha il potere di modificare il progetto, neppure nell'ipotesi in cui il comitato dei creditori esprima parere contrario.
E' da prevedere che il risultato finale sarà un allungamento dei tempi della procedura, anche se l'efficacia sospensiva del reclamo è limitata ai crediti in contestazione, circostanza questa che bloccherà comunque i riparti quando sia questione di graduazione dei crediti e l'accoglimento del reclamo possa pregiudicare i crediti di grado inferiore o chirografario.
E' invece da approvare la previsione che consente al giudice delegato di ordinare il deposito del progetto di ripartizione in cancelleria, disponendo che tutti i creditori, compresi quelli per i quali è in corso uno dei giudizi di cui all'articolo 98, ne siano avvisati con lettera raccomandata con avviso di ricevimento o altra modalità telematica, con garanzia di avvenuta ricezione in base agli articoli 8, comma 2, 9, comma 4, e 14 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n.445. In questo modo le modalità di comunicazione del provvedimento ai creditori sono semplificate ed i conseguenti tempi di svolgimento della procedura dovrebbero avvantaggiarsene.
Ai sensi dell'art. 115 il curatore provvede al pagamento delle somme assegnate ai creditori nel piano di ripartizione nei modi stabiliti dal giudice delegato, purché tali da assicurare la prova del pagamento stesso.
Una significativa innovazione consente il pagamento al cessionario in caso di cessione del credito insinuato senza necessità di una nuova insinuazione tardiva di quest'ultimo, come invece riteneva necessario la giurisprudenza. Il secondo comma dell'art. 115 stabilisce, infatti, che se prima della ripartizione i crediti ammessi sono stati ceduti, il curatore attribuisce le quote di riparto ai cessionari, qualora la cessione sia stata tempestivamente comunicata, unitamente alla documentazione che attesti, con atto recante le sottoscrizioni autenticate di cedente e cessionario, l'intervenuta cessione. In questo caso, il curatore provvede alla rettifica formale dello stato passivo.
La disciplina prevista dal legislatore è comunque più rigida di quella stabilita dagli artt. 1264 e 1265 c.c. per l'opponibilità della cessione al debitore ceduto ed ai terzi.
L'art. 117 mantiene il principio per cui il riparto finale segue le stesse regole previste per i riparti parziali, anche se vi sono poi significative differenze di disciplina per quanto concerne gli accantonamenti.
Con riferimento ai riparti parziali l'art. 113 stabilisce che la distribuzione non può superare l'80% delle somme da ripartire (in precedenza era il 90%). Debbono comunque essere trattenute le somme ritenute necessarie per spese future, per soddisfare il compenso al curatore e ogni altro debito prededucibile. In questo caso, l'ammontare della quota da ripartire deve essere ridotta se la misura dell'ottanta per cento appare insufficiente. Ancora devono essere trattenute e depositate nei modi stabiliti dal giudice delegato le somme ricevute dalla procedura per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato.
Vanno poi disposti accantonamenti a favore dei creditori ammessi con riserva, dei creditori opponenti a favore dei quali sono state disposte misure cautelari, dei creditori opponenti la cui domanda è stata accolta ma la sentenza non è passata in giudicato, dei creditori nei cui confronti sono stati proposti i giudizi di impugnazione e di revocazione.
In questo modo il legislatore ha opportunamente introdotto dei vincoli alla distribuzione dell'attivo in sede di riparto parziale che non erano previsti dalla vecchia disciplina, anche se molti tribunali adottavano prassi corrispondenti, a tutela dei creditori e dei terzi.
Per quanto concerne il riparto finale l'art. 117 stabilisce che nel riparto finale vengono distribuiti anche gli accantonamenti precedentemente effettuati. Tuttavia se la condizione in relazione alla quale era stata disposta l'ammissione con riserva ovvero se ancora non è passato in giudicato il provvedimento in relazione al quale era stato disposto l'accantonamento, la somma oggetto dell'accantonamento stesso è depositata nei modi stabiliti dal giudice delegato. Quando si verifichi l'evento, la somma sarà distribuita ai creditori in favore dei quali era stato disposto l'accantonamento. In difetto essa sarà oggetto di riparto supplementare tra i creditori, senza peraltro che l'esistenza dell'accantonamento impedisca la chiusura della procedura.
Ancora il giudice delegato, nel rispetto delle cause di prelazione, può disporre che a singoli creditori che vi consentono siano assegnati, in luogo delle somme agli stessi spettanti, crediti di imposta del fallito non ancora rimborsati. Si tratta di disposizione innovativa che può, nel consenso dei creditori interessati, agevolare la chiusura della procedura.
Per i creditori che non si presentano o sono irreperibili le somme dovute in base al piano di riparto finale sono nuovamente depositate presso l'ufficio postale o la banca già indicati ai sensi dell'art. 34 della legge. Decorsi cinque anni dal deposito, le somme non riscosse dagli aventi diritto e i relativi interessi, se non richieste da altri creditori, rimasti insoddisfatti, sono versate a cura del depositario all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate, con decreti del Ministro dell'economia e delle finanze, ad apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero della giustizia.
La Relazione governativa osserva, con riferimento agli accantonamenti, che poiché essi debbono essere mantenuti quando la condizione non si sia verificata o la controversia che ad essi ha dato origine non sia stata definita con provvedimento passato in giudicato, e poiché la chiusura del fallimento fa venir meno anche gli organi della procedura, si è previsto un semplice meccanismo processuale - un ricorso al giudice designato dal presidente del tribunale - al fine di consentire, comunque entro i cinque anni dalla chiusura stessa, la distribuzione delle somme accantonate e depositate.
In proposito l'art. 117, ultimo comma, stabilisce che il giudice, anche se e' intervenuta l'esdebitazione del fallito, omessa ogni formalita' non essenziale al contraddittorio, su ricorso dei creditori rimasti insoddisfatti che abbiano presentato la relativa richiesta ai sensi del quarto comma della norma, dispone la distribuzione delle somme non riscosse in base all'articolo 111 fra i soli richiedenti. La norma si riferisce alla sola ripartizione tra i creditori rimasti insoddisfatti delle somme non richieste dagli aventi diritto ai sensi del piano di riparto. Essa non sembra riferirsi alla distribuzione degli accantonamenti che vanno mantenuti fino a quando la condizione non si sia verificata o la controversia che ad essi ha dato origine non sia stata definita con provvedimento passato in giudicato. Tuttavia è ragionevole ritenere che il meccanismo processuale delineato dal legislatore possa essere applicato anche a queste ipotesi, rimanendo peraltro incerto se il contraddittorio debba essere instaurato nei confronti di tutti i creditori concorrenti, situazione che potrebbe rendere estremamente macchinoso l'intero procedimento.
Per quanto concerne i crediti oggetto d'insinuazione tardiva, il legislatore all'art.112 ha confermato i principi già vigenti, semplicemente riformulando la norma preesistente. Di conseguenza i creditori tardivi ammessi concorrono soltanto alle ripartizioni posteriori alla loro ammissione in proporzione del rispettivo credito salvo il diritto di prelevare le quote che sarebbero loro spettate nelle precedenti ripartizioni se assistiti da cause di prelazione o se il ritardo è dipeso da cause ad essi non imputabili. E' stato viceversa introdotto l'art. 113 bis che regola, in termini semplici, lo scioglimento delle ammissioni con riserva, prevedendo che quando si verifica l'evento che ha determinato l'accoglimento di una domanda con riserva, su istanza del curatore o della parte interessata, il giudice delegato con decreto modifica lo stato passivo disponendo che la domanda deve intendersi accolta definitivamente.
E' sicuramente merito della riforma aver regolato in modo più completo che in passato la graduazione dei crediti dettando norme specifiche per quanto concerne la definizione della nozione di credito prededucibile, in passato non disciplinata dal legislatore in quanto frutto di elaborazione giurisprudenziale. Il legislatore ha inoltre regolato meglio la materia per quanto concerne i crediti privilegiati e la definizione della massa attiva immobiliare e mobiliare, sotto la rubrica dei "conti speciali".
A questo proposito va ricordato che l'art. 96, comma 2, nuovo testo stabilisce che con il provvedimento di accoglimento della domanda, in sede di accertamento del passivo, il giudice delegato indica anche il grado dell'eventuale diritto di prelazione. La graduazione dei crediti deve pertanto essere effettuata, per quanto concerne il riconoscimento della prelazione e del suo grado, in sede di accertamento del passivo. In passato la Cassazione aveva affermato il principio per cui in sede di ripartizione dell'attivo fallimentare, il giudice delegato, nel valutare le osservazioni dei creditori sul progetto presentato dal curatore, doveva limitarsi a risolvere le questioni concernenti la graduazione e la collocazione dei vari crediti, l'ammontare della somma distribuita, l'opportunità stessa di una ripartizione, mentre non poteva esaminare quelle concernenti l'esistenza o l'ammontare dei crediti ammessi e l'esistenza di cause di prelazione, stante l'intangibilità dello stato passivo non impugnato nei termini e nelle forme previsti dalla legge fallimentare [ 22 ]. Il Legislatore ha ora innovato la materia attribuendo alla fase di accertamento del passivo anche la determinazione del grado della prelazione, sì che la graduazione dei crediti in sede di riparto ne riesce sicuramente semplificata.
Il principio, affermato dal legislatore espressamente con riferimento alla prelazione, vale anche per quanto attiene alla qualificazione del credito come prededucibile. In proposito l'art. 111 bis, primo comma, stabilisce che i crediti prededucibili devono essere accertati con le modalità di cui al Capo V della legge, cioè in sede di accertamento del passivo, con esclusione di quelli non contestati per collocazione e ammontare e di quelli sorti a seguito di provvedimenti di liquidazione di compensi dei soggetti nominati ai sensi dell'articolo 25; in questo ultimo caso, se contestati, essi devono essere accertati con il procedimento di cui all'articolo 26 e quindi nelle forme del reclamo.
Per i crediti prededucibili sorti dopo l'adunanza di verificazione dello stato passivo ovvero dopo l'udienza alla quale essa sia stata differita, si provvede all'accertamento nelle forme dell'insinuazione tardiva. Evidentemente se tali crediti sono sorti dopo che sono scaduti i termini per l'insinuazione tardiva, il creditore potrà ugualmente proporre la domanda, ricorrendo un'ipotesi in cui il ritardo non è a lui imputabile a norma dell'art. 101, quarto comma.
Va sottolineato che la mancanza di contestazione in ordine all'ammontare ed alla collocazione dei crediti prededucibili si riferisce evidentemente alle determinazioni che in proposito possono essere assunte dal curatore, posto che la domanda del creditore, che in ipotesi non può che essere presentata al di fuori della procedura di accertamento del passivo, non è proposta in contraddittorio con gli altri creditori. Il legislatore non chiarisce in che modo costoro possono opporsi al pagamento del credito prededucibile non contestato dagli organi della procedura, salvo forse ritenere che il pagamento effettuato sia ripetibile e che l'eventuale opposizione degli altri creditori debba essere proposta nelle forme e nei casi della domanda di revocazione, soluzione che peraltro appare assai dubbia, tenuto conto che la revocazione va proposta contro l'ammissione di un credito al passivo, provvedimento che nella specie difetta.
Il legislatore comunque stabilisce che i crediti prededucibili non contestati non soltanto non debbono essere oggetto d'insinuazione al passivo, ma possono essere soddisfatti al di fuori del riparto, se l'attivo è presumibilmente sufficiente a soddisfare tutti i titolari di tali crediti. Il pagamento deve essere autorizzato dal comitato dei creditori ovvero dal giudice delegato se l'importo è superiore a euro 25000. L'importo può essere aggiornato ogni cinque anni con decreto del Ministro della giustizia in base agli indici Istat sul costo della vita. Se invece l'attivo è insufficiente, la distribuzione deve avvenire secondo i criteri della graduazione e della proporzionalità, conformemente all'ordine assegnato dalla legge. In questo caso non si prescinde dal riparto, conformemente a quanto ritenuto nel vigore della vecchia disciplina dalla giurisprudenza.
In conformità a quanto ritenuto dalla giurisprudenza per il passato, i crediti prededucibili vanno soddisfatti per il capitale, le spese e gli interessi con il ricavato della liquidazione del patrimonio mobiliare e immobiliare, secondo un criterio proporzionale, con esclusione di quanto ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di pegno ed ipoteca per la parte destinata ai creditori garantiti. Il corso degli interessi cessa al momento del pagamento. Ne deriva, pertanto, stando alla lettera della legge che i crediti prededucibili prevalgono sui crediti privilegiati, ma non sui crediti assistiti da garanzia reale [ 23 ]. In questo senso si esprime chiaramente l'art. 111 che prevede che le somme ricavate dalla liquidazione dell'attivo siano erogate anzitutto per il pagamento dei crediti prededucibili e poi per il pagamento dei crediti ammessi con prelazione sulle cose vendute secondo l'ordine assegnato dalla legge, con posposizione dei crediti chirografari sia ai prededucibili che ai privilegiati.
Il legislatore fornisce anche la definizione di credito prededucibile, affermando che sono considerati debiti prededucibili quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge, e quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali previste dalla legge fallimentare (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei debiti, fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria).
Va sottolineato che la definizione così offerta dal legislatore è estremamente ampia perché sono prededucibili non soltanto i crediti (al di là di quelli espressamente definiti tali dal legislatore) sorti in funzione della procedura e dunque ad essa collegati da un nesso strumentale, ma anche quelli originati in occasione della procedura e dunque che hanno con la procedura un rapporto di mera contestualità cronologica.
Il legislatore chiarisce poi che i crediti privilegiati (art. 111 quater) concorrono per capitale, interessi e spese e che gli interessi sono assistiti dalla prelazione nei limiti stabiliti dagli artt. 54 e 55 l.fall. In proposito va ricordato che l'art. 54 prevede l'estensione del diritto di prelazione agli interessi non solo con riferimento agli articoli 2788 e 2855 (crediti pignoratizi e crediti ipotecari), come già in passato, ma anche con riferimento all'articolo 2749 relativo ai crediti assistiti da privilegio; ciò al fine di rimediare a quella che la dottrina e la giurisprudenza prevalenti consideravano una mera svista del legislatore del 1942. Il legislatore ha anche precisato, recependo l'orientamento prevalente, che il decorso degli interessi maturati dai crediti assistiti da privilegio generale cessa alla data di deposito del progetto di riparto nel quale il credito risulti soddisfatto, anche parzialmente.
Affermato tale principio, il legislatore precisa opportunamente che i crediti assistiti da privilegio generale hanno diritto di prelazione per il capitale, le spese e gli interessi sul prezzo ricavato dalla liquidazione del patrimonio mobiliare, sul quale concorrono in un'unica graduatoria con i crediti garantiti da privilegio speciale mobiliare, secondo il grado previsto dalla legge. I crediti garantiti da ipoteca e pegno e quelli assistiti da privilegio speciale hanno diritto di prelazione per il capitale, le spese e gli interessi, sul prezzo ricavato dai beni vincolati alla loro garanzia.
Infine i creditori chirografari sono soddisfatti dopo i creditori in prededuzione e privilegiati, in proporzione dell'ammontare del credito per cui ciascuno di essi fu ammesso. Tra di essi sono compresi i creditori privilegiati, qualora non sia stata ancora realizzata la garanzia, ovvero per la parte del credito per cui non sono rimasti soddisfatti.
Come si è accennato, infine, il legislatore ha dettato i criteri per la formazione della massa attiva mobiliare ed immobiliare, chiarendo che la massa liquida attiva immobiliare è costituita dalle somme ricavate dalla liquidazione dei beni immobili, come definiti dall'articolo 812 del codice civile, e dei loro frutti e pertinenze, nonché dalla quota proporzionale di interessi attivi liquidati sui depositi delle relative somme. La massa liquida attiva mobiliare è costituita da tutte le altre entrate. Per favorire il computo della masse in parola, è fatto obbligo al curatore di tenere un conto autonomo delle vendite dei singoli beni immobili oggetto di privilegio speciale e di ipoteca e dei singoli beni mobili o gruppo di mobili oggetto di pegno e privilegio speciale, con analitica indicazione delle entrate e delle uscite di carattere specifico e della quota di quelle di carattere generale imputabili a ciascun bene o gruppo di beni secondo un criterio proporzionale (art. 111 ter).
Va sottolineato che questi principi, ora espressamente affermati dal legislatore, erano comunemente applicati già nel vigore della precedente disciplina, costituendo applicazione delle regole relative al contemperamento del concorso con la tutela delle garanzie reali e personali.

9. La chiusura del fallimento ed il concordato fallimentare

Il legislatore ha ritoccato la disciplina della chiusura del fallimento, senza peraltro introdurre modifiche particolarmente rilevanti. Al contrario è stato profondamente ridisegnato il concordato fallimentare, che, pur rappresentando anch'esso una ipotesi di chiusura del fallimento, assume un'importanza particolare perché costituisce un modo per porre fine alla procedura concorsuale tramite un accordo tra il fallito o un terzo ed i creditori.
La proposta di concordato può essere presentata sia da fallito che dai creditori o da un terzo. L'art. 129 chiarisce peraltro che la proposta può essere presentata anche dallo stesso curatore.
In ciò la nuova disciplina si differenzia profondamente dal vecchio sistema previsto dalla legge fallimentare del 1942, perché questo attribuiva la legittimazione soltanto al fallito. Una volta aperta la procedura fallimentare, vengono meno le ragioni legate alla tutela della libertà d'iniziativa economica e al divieto di espropriazione senza indennizzo, sanciti dagli artt. 41 e 42 Cost., che impediscono in assenza dello stato d'insolvenza che la proposta di accordo con i creditori sia proposta da un soggetto diverso dall'imprenditore. Si comprende pertanto perché, a differenza di quanto previsto per il concordato preventivo, nel concordato fallimentare il legislatore abbia ritenuto di attribuire il potere di presentare la proposta anche a soggetti diversi dal fallito.
Nella vecchia disciplina la proposta di concordato fallimentare poteva essere presentata soltanto una volta reso esecutivo lo stato passivo. La ragione stava nel fatto che prima di tale momento appariva impossibile convocare i creditori a votare sulla proposta di concordato, perché ancora non erano state ultimate le operazioni di verifica dei crediti e non poteva conoscersi il nome dei creditori legittimati a partecipare all'adunanza ed a esprimere il voto.
Il legislatore della riforma ha ritenuto di poter anticipare tale momento, purché i dati contabili e le altre notizie disponibili consentano al curatore di predisporre un elenco provvisorio dei creditori del fallito da sottoporre all'approvazione del giudice delegato. L'art. 127, primo comma, chiarisce poi che, se la proposta è presentata prima che lo stato passivo venga reso esecutivo, hanno diritto di voto i creditori che risultano dall'elenco provvisorio predisposto dal curatore e approvato dal giudice delegato. Altrimenti gli aventi diritto al voto sono quelli indicati nello stato passivo reso esecutivo ai sensi dell'art. 97. In quest'ultimo caso hanno diritto di voto anche i creditori ammessi provvisoriamente e con riserva.
Nel concordato preventivo non esiste un procedimento di accertamento del passivo e ciò non costituisce e non costituiva, prima della riforma, ostacolo alla votazione sulla proposta. Manca peraltro nella disciplina del concordato fallimentare una norma analoga all'art. 176 che, in tema di concordato preventivo, stabilisce che il giudice delegato può ammettere provvisoriamente in tutto o in parte i crediti contestati ai soli fini del voto e del calcolo delle maggioranze, senza che ciò pregiudichi le pronunzie definitive sulla sussistenza dei crediti stessi. In tale ipotesi i creditori esclusi possono opporsi alla esclusione in sede di omologazione del concordato nel caso in cui la loro ammissione avrebbe avuto influenza sulla formazione delle maggioranze.
Nel caso del concordato fallimentare, farà stato l'elenco provvisorio predisposto dal curatore e approvato dal giudice delegato. E' peraltro da ritenere che in sede di omologazione del concordato i creditori esclusi possano proporre opposizione ' l'art. 129 prevede la legittimazione di qualsiasi altro interessato oltre ai creditori dissenzienti ' quando la loro mancata ammissione al voto abbia avuto influenza sulla formazione della maggioranza.
Tornando alla proposta la legittimazione, come s'è detto, è attribuita ai creditori, al curatore, ad un terzo non creditore e al fallito. Questi peraltro, così come la società cui egli partecipi o le società sottoposte a comune controllo del fallito stesso, non possono presentare la proposta se non decorsi sei mesi dalla dichiarazione di fallimento, purché non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo. Si vuole in questo modo incentivare l'imprenditore ad accedere alle forme di composizione della crisi che prescindono dal fallimento, prima tra tutte il concordato preventivo. Il legislatore vuol favorire l'emersione anticipata della crisi nella convinzione che, prima l'imprenditore cerca di trovare una soluzione alla situazione di difficoltà o di dissesto in cui versa, maggiori sono le possibilità di addivenire ad una soluzione.
L'imprenditore, pertanto, viene penalizzato perché in caso di fallimento non solo egli non può proporre il concordato prima dei sei mesi dalla sentenza dichiarativa, ma nelle more la proposta di concordato può essere presentata dai creditori e dai terzi, con il risultato che egli può essere legittimamente espropriato dell'impresa.
Va peraltro detto che il termine di sei mesi appare troppo modesto per poter costituire un reale incentivo ad accedere al concordato preventivo ed alle altre forme di composizione anticipata della crisi.
Il termine finale, invece, dei due anni dalla chiusura dello stato passivo ha la finalità di evitare proposte dilatorie, che impediscano la liquidazione concorsuale.
Per quanto concerne il concordato delle società, il legislatore ha ritenuto di coordinare la disciplina previgente con quanto stabilito in generale dalla riforma del diritto societario. L'art. 152 prescrive tuttora che la proposta è sottoscritta da coloro che hanno la rappresentanza sociale. Nelle società di persone il legislatore ha mantenuto la regola, già vigente prima della riforma, per cui la proposta deve essere approvata dai soci che rappresentano la maggioranza assoluta del capitale. Per contro nelle società per azioni, a responsabilità limitata e nelle cooperative non è più necessaria la deliberazione dell'assemblea straordinaria ed è sufficiente la deliberazione degli amministratori. Tanto per le società di persone che per le società di capitali, è fatta salva la diversa disposizione dell'atto costitutivo o dello statuto.
Occorre in ogni caso che la decisione dei soci o la deliberazione degli amministratori risultino da verbale redatto da notaio e siano depositate ed iscritte nel registro delle imprese. E' da ritenere che tale precetto valga anche quando l'atto costitutivo o lo statuto prevedano forme diverse da quelle previste dal legislatore.
Il contenuto della proposta differisce in misura rilevante da quella che era la vecchia disciplina dettata dalla legge del 1942. Il legislatore ha seguito la logica del nuovo concordato preventivo e di conseguenza il contenuto della proposta può essere assai vario. Si è ben lontani dal vecchio sistema che prevedeva il pagamento integrale dei creditori privilegiati e l'offerta di una percentuale ai creditori chirografari, in misura uguale per ciascuno di essi.
Ora la lettera c) dell'art. 124 riprende testualmente la lettera a) dell'art.160 in tema di concordato preventivo. Di conseguenza la proposta potrà prevedere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito.
Il concordato potrà pertanto assumere qualunque contenuto, remissorio o dilatorio. Potrà prevedere l'accollo dei debiti, in tutto o in parte, in capo a terzi e la trasformazione dei crediti insinuati in capitale di rischio, mediante attribuzione ai creditori o a società da costoro partecipate, di azioni, quote od obbligazioni convertibili in azioni. E' pure previsto il ricorso ad altri strumenti finanziari o titoli di debito.
Ancora è possibile la suddivisione dei creditori in classi, con previsione di trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse. In tal caso peraltro la proposta dovrà contenere l'indicazione delle ragioni che giustificano tali trattamenti differenziati. Anche in questo caso il legislatore ha ricalcato la disciplina dettata dall'art. 160 per il concordato preventivo, anche se va sottolineato che l'art. 160 lett. d) non richiede che vengano indicate le ragioni del trattamento differenziato delle classi.
Il legislatore precisa infine che le classi vanno formate "secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei". Anche in questo caso è stato ripreso il testo dell'art. 160, dettando una disciplina del tutto analoga a quella del concordato preventivo.
Va ricordato che l'introduzione nel nostro ordinamento delle classi, mutuate dal sistema anglosassone, è stata suggerita per superare le rigidità dovute alla schematica applicazione del principio della par condicio ed anche per ovviare alle difficoltà connesse con il proliferare dei privilegi.
La suddivisione dei creditori in classi comporta che possano essere previsti trattamenti differenziati per i creditori appartenenti a classi diverse, ancorché i creditori appartenenti a ciascuna classe debbano ricevere il medesimo trattamento. Come si vedrà, come nel concordato preventivo in caso di suddivisione in classi la proposta di concordato deve ricevere l'approvazione da parte di ciascuna classe di creditori e dunque da parte della maggioranza dei creditori all'interno di ciascuna classe (cfr. art. 128 nuovo testo). I criteri di formazione delle classi divengono dunque di fondamentale importanza per l'approvazione della proposta. Tali criteri sono rimessi al fallito e agli altri soggetti legittimati a proporre il concordato (creditori, terzi), nei limiti stabiliti dalla legge che, come s'è detto, prevede che la suddivisione in classi avvenga secondo la posizione giuridica e interessi economici omogenei dei crediti.
Il debitore pertanto nel comporre le classi potrà cercare di trarne il massimo vantaggio, anche se dovrà tener conto che un numero eccessivo di classi aumenta il rischio che il concordato non sia approvato, perché occorre l'approvazione di tutte le classi, salvo che il tribunale "superi" il voto contrario di una classe ricorrendo all'istituto del cram down, approvando cioè il concordato ove la maggioranza delle classi abbia espresso voto favorevole e ritenga che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare soddisfatti in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili (art. 129, comma 7).
Anche se l'istituto delle classi è mutuato dal diritto anglosassone, vi sono differenze sensibili tra il modello americano e la disciplina dettata dal nostro legislatore.
L'art. 1122 dello U.S.C. si limita a stabilire che il piano di riorganizzazione può inserire un credito in una particolare classe soltanto se tale credito è sostanzialmente simile agli altri crediti inseriti in tale classe. I commentatori americani [ 24 ] affermano che il concetto di similarità attiene all'esistenza di cause di prelazione. Ne deriva che tutti i crediti chirografari sono simili: un credito fondato sul contratto è simile ad un credito risarcitorio derivante da un illecito, un credito produttivo di interessi è simile ad un credito infruttifero, un credito non scaduto è simile ad un credito scaduto purché non assistito da privilegio. Per quanto concerne i crediti assistiti da cause di prelazione, gli americani ritengono in genere che per ogni credito debba prevedersi una classe differente o perché tali crediti, pur avendo ugual natura, sono garantiti da beni diversi (ad esempio l'ipoteca su due diversi immobili) o perché, pur trovando garanzia sullo stesso bene, vantano un diverso grado (ad esempio un credito assistito da ipoteca di primo grado ed un credito assistito da ipoteca di secondo grado sul medesimo bene).
I giudici americani non sono sempre stati concordi nell'ammettere che i crediti chirografari che, come s'è detto, dovrebbero avere un identico trattamento in ragione del loro carattere simile, possano avere invece un trattamento differenziato. Tuttavia la giurisprudenza maggioritaria afferma che l'art. 1122 U.S.C. lascia al giudice un'ampia discrezionalità in proposito. Si afferma che crediti simili possono essere inseriti in classi diverse se vi è una legittima ragione dal punto di vista economico per farlo. E' possibile trattare in modo differenziato i crediti chirografari quando il differente trattamento è ragionevole, non è discriminatorio, è necessario per conseguire i risultati del piano di ristrutturazione e non vi è un tentativo di usare il trattamento differenziato per manipolare il voto in modo non appropriato.
Va peraltro aggiunto che l'art. 1122, comma b) dello U.S.C. prevede che possa essere costituita una classe di crediti chirografari il cui ammontare sia inferiore ad un importo determinato o sia ridotto in via consensuale a tale importo, che il giudice approvi come ragionevole e necessario per la gestione della procedura (administrative convenience). Normalmente il piano di riorganizzazione prevede che questi crediti vengano pagati in contanti e totalmente sino a concorrenza dell'importo determinato, all'approvazione della proposta.
In conclusione nel sistema americano, il giudice ha un'amplissima discrezionalità nel valutare se le classi sono state formate correttamente ed è possibile in questo modo un trattamento differenziato dei creditori chirografari, mentre i crediti garantiti formano classi distinte per ogni credito. Va detto peraltro che il sistema conosce un numero di crediti garantiti molto inferiore al nostro.
Il riferimento operato dal legislatore italiano alla "posizione giuridica ed agli interessi economici omogenei" introduce un criterio molto simile a quello americano, senza però attribuire al giudice italiano la stessa discrezionalità riconosciuta al giudice americano. L'ampio numero di cause di prelazione ' nel concordato fallimentare, come si vedrà, i creditori privilegiati debbono, salvo casi particolari, essere pagati integralmente - rende molto più difficile offrire ai creditori un trattamento differenziato che tenga conto della natura del credito e delle esigenze dell'impresa debitrice. Il riferimento agli interessi economici omogenei richiama uno soltanto tra i molteplici criteri cui si rifà il giudice americano nel valutare se le classi di creditori chirografari sono state correttamente determinate.
In realtà le "classi" di creditori non sono una novità assoluta nel nostro ordinamento giuridico, perché esse, già previste dal disegno di legge delega predisposto dalla Commissione Trevisanato ed ancor prima dal disegno di legge 7497, presentato dai DS nel 2000, la cui formulazione era stata letteralmente ripresa nella recente riforma dell'amministrazione straordinaria, sono state introdotte nel nostro ordinamento grazie all'art. 4-bis del D.L. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito in legge 18 febbraio 2004, n. 39. La nuova disciplina in tema di concordato preventivo e quella del concordato fallimentare riprendono la formula dettata dall'art. 4 bis.
E' indubbio che in questo modo, attraverso la rottura del rigido schematismo della par condicio creditorum, s'introduce uno strumento assai più idoneo della normativa esistente a consentire la formalizzazione delle intese raggiunte con i creditori o con una parte di essi. La proposta di concordato consente infatti di proporre per l'omologazione da parte del giudice una vasta gamma di accordi, secondo quelle che sono le prassi oggi in atto soprattutto in sede di sistemazione stragiudiziale dell'insolvenza, accordi che possono anche prevedere la prosecuzione dell'attività d'impresa, sia direttamente in capo al debitore sia in capo ad un terzo, anche se nella maggior parte dei casi si farà luogo semplicemente alla liquidazione delle attività.
Va ancora detto che per quanto concerne il concordato preventivo il legislatore non ha detto espressamente che i creditori privilegiati possono essere pagati in percentuale né ha detto espressamente che la suddivisione in classi dei creditori può prescindere dalla considerazione dei privilegi di cui essi possono essere portatori. I primi commentatori tendono ad escludere la legittimità di un pagamento percentuale dei creditori privilegiati ed in questo senso si è espressa già la giurisprudenza [ 25 ].
Per quanto concerne il concordato fallimentare l'art. 124, terzo comma, stabilisce che "la proposta può prevedere che i creditori muniti di diritto di prelazione non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di vendita, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile al cespite o al credito oggetto della garanzia, indicato nella relazione giurata di un esperto o di un revisore contabile o di una società di revisione designati dal tribunale." In questo caso, dunque, il legislatore ammette il pagamento parziale dei creditori privilegiati, a condizione peraltro che costoro non ricevano un trattamento deteriore rispetto a quanto potrebbero percepire in caso di vendita dei beni oggetto della prelazione. Ulteriore corollario è che, come dispone ancora l'art. 124, "il trattamento stabilito per ciascuna classe non può aver l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione". Non sarà dunque consentito effettuare pagamenti in percentuale a favore dei creditori privilegiati in termini tali da posporre un credito poziore ad un credito meno garantito. A tal fine, peraltro, logica vuole che si faccia riferimento alle possibilità di soddisfacimento concreto in caso di vendita del bene su cui grava la prelazione e dunque in caso di crediti assistiti da pegno o ipoteca ovvero da privilegio speciale, dovrà sempre guardarsi alle concrete possibilità di ricavo dalla vendita del bene gravato dal vincolo.
Tuttavia anche nel concordato fallimentare lo schema di decreto legislativo prevede che "I creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, ancorché la garanzia sia contestata, non hanno diritto al voto se non rinunciano al diritto di prelazione" (art. 127). Il terzo comma dell'art. 127, peraltro, stabilisce che i creditori muniti di diritto di prelazione di cui è previsto il soddisfacimento non integrale, sono considerati chirografari per la parte residua del credito. Per tale parte essi sono pertanto ammessi al voto.
La soluzione accolta dal legislatore per il concordato fallimentare, potrà forse essere oggetto d'applicazione analogica al concordato preventivo. Per esso, come s'è visto, non è previsto che i creditori privilegiati possano essere destinatari di un pagamento parziale anche quando il bene o credito oggetto della garanzia o del privilegio non sia capiente. Se nel concordato fallimentare i creditori privilegiati possono ricevere un pagamento parziale purché a condizioni non deteriori rispetto a quelle possibili in caso di liquidazione fallimentare, non si vede perché analoga soluzione non possa essere attuata anche nel concordato preventivo. I creditori privilegiati potranno ricevere un pagamento parziale quando si possa fondatamente prevedere che essi non abbiano un trattamento deteriore rispetto alle condizioni alternative concretamente praticabili. A questo proposito va sottolineato che con la riforma il concordato preventivo ha perso la caratteristica di procedura cui il debitore poteva accedere soltanto se meritevole. Non ha più senso, pertanto, una disciplina che comporti in ogni caso per i creditori privilegiati il pagamento integrale. Si giustifica dunque l'estensione al concordato preventivo della soluzione prevista per il concordato fallimentare. Ciò comporterà, tuttavia, che i creditori privilegiati per la parte incapiente del credito dovranno essere considerati chirografari ed essere ammessi al voto.
Ancora va osservato che l'enorme proliferazione delle cause di prelazione nel nostro sistema costituisce un limite rilevante all'efficacia della presentazione di proposte che suddividano in classi i creditori, offrendo a ciascuna classe un trattamento differenziato in ragione della specifica situazione di crisi che deve essere risolta nonché delle risorse in concreto a disposizione. Se, come s'è visto, nella formazione delle classi occorre rispettare la qualità privilegiata del credito e l'ordine dei privilegi, sarà più difficile tenere conto di situazioni comuni (ad esempio fornitori di non rilevanti dimensioni di cui soltanto una parte abbia la qualifica artigiana), perché creditori privilegiati e chirografari ovvero creditori privilegiati di grado diverso dovranno essere trattati differentemente.
Si tratta di un limite che potrà in concreto segnare l'insuccesso della riforma.
Va osservato che la previsione del soddisfacimento parziale dei creditori privilegiati che non trovino capienza sul bene o credito oggetto di garanzia o privilegio deve trovare corrispondenza nella perizia giurata di un esperto o revisore contabile o di una società di revisione che debbono essere designati dal tribunale.
La proposta di concordato può assumere la forma del concordato con assuntore, ove a fronte delle obbligazioni assunte dal terzo questi si rende cessionario dei beni compresi nell'attivo fallimentare. In tale ipotesi il terzo può rendersi cessionario oltre che dei beni compresi nell'attivo fallimentare, anche delle azioni di pertinenza della massa, purché tali azioni siano state autorizzate dal giudice delegato con specifica indicazione dell'oggetto e del fondamento della pretesa.
La possibilità di cessione delle azioni di massa al terzo trova il suo diretto antecedente nell'art. 124, secondo comma, vecchio testo che consentiva la cessione al terzo delle azioni revocatorie come patto di concordato, limitatamente alle azioni proposte dal curatore. La nuova formulazione è più ampia perché si riferisce a tutte le azioni di pertinenza della massa, non soltanto alle azioni revocatorie. Occorre peraltro che le azioni siano state autorizzate dal giudice delegato ai sensi dell'art. 25 n. 6 legge fall. Il provvedimento di autorizzazione deve contenere la specifica indicazione dell'oggetto e del fondamento della pretesa. Rispetto al vecchio testo dell'art. 124 non occorre che le azioni siano già state promosse; è sufficiente che vi sia il provvedimento autorizzatorio, ancorché il legislatore abbia previsto che esso sia specificamente motivato.
Occorre ricordare che in passato, nella vigenza del codice di commercio ed in occasione dell'approvazione della legge fallimentare del 1942, molto si era discusso sulla possibilità di ammettere la cessione delle azioni revocatorie. Il legislatore si era orientato nel senso di ammetterla, soltanto nel caso del concordato, ma di limitarla a favore del terzo e relativamente alle sole azioni già proposte, al fine di evitare iniziative che avrebbero potuto assumere carattere odioso e ricattatorio. L'attuale legislatore, pur ampliando la sfera delle azioni cedibili, non si è sostanzialmente discostato dall'impostazione precedentemente accolta, soltanto sostituendo al requisito della previa pendenza delle azioni oggetto di cessione l'avvenuta autorizzazione da parte del giudice delegato.
Ancora l'art. 124 stabilisce, come si riteneva legittimo già in passato, che il terzo possa limitare la sua responsabilità nei confronti dei soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, ed a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta. In tale ipotesi nei confronti degli altri creditori continua a rispondere il fallito, fatti salvi gli effetti dell'esdebitazione. Va ricordato, a questo proposito, che in passato parte della dottrina e della giurisprudenza non dubitava della legittimità di siffatta limitazione di responsabilità del terzo, a condizione appunto che nei confronti dei residui creditori permanesse la responsabilità del fallito [ 26 ]. Va peraltro osservato che questi creditori non sono legittimati a domandare la risoluzione del concordato (art. 137, ultimo comma L.F.).

9.1 Il concordato fallimentare: poteri del giudice, la votazione
Anche nella disciplina del concordato fallimentare, come già nel concordato preventivo, il legislatore ha ritenuto di ridurre i poteri del giudice, che è chiamato essenzialmente, al di fuori dell'ipotesi di concordato ove sia prevista la suddivisione dei creditori in classi, ad un controllo di mera legittimità sul procedimento, il cui esito sarà strettamente legato al voto dei creditori.
La Relazione governativa [ 27 ] sottolinea la forte caratterizzazione privatistica del procedimento e rileva che viene sottratto al giudice delegato il potere di valutare l'eventuale convenienza della proposta che viene, invece, comunicata ai creditori una volta sentiti il comitato dei creditori e il curatore, con specifico riferimento ai presumibili risultati della liquidazione e previa acquisizione del parere favorevole del curatore stesso.
Il parere favorevole del curatore diviene quindi vincolante e sostituisce la valutazione di convenienza che era in precedenza rimessa al giudice delegato.
Nel caso invece in cui la proposta contenga condizioni differenziate per singole classi di creditori, essa deve essere sottoposta, con i pareri del comitato dei creditori e del curatore, al giudizio del tribunale, che, in termini del tutto analoghi a quanto previsto dall'art. 163, verifica il corretto utilizzo dei criteri di cui all'articolo 124, secondo comma, lettere a) e b), in ordine alla suddivisione dei creditori in classi ed in ordine ai trattamenti differenziati previsti, tenendo conto della relazione giurata dell'esperto resa ai sensi dell'articolo 124, terzo comma.
Una volta espletati questi adempimenti preliminari, vale a dire acquisiti i pareri del comitato dei creditori e del curatore, che, come s'è detto, deve essere necessariamente favorevole, ed acquisito nel caso di concordato con classi il provvedimento di approvazione del tribunale, il giudice delegato ordina che la proposta venga comunicata ai creditori, specificando dove possono essere reperiti i dati per la sua valutazione. Nel medesimo provvedimento il giudice delegato fissa un termine non inferiore a venti giorni né superiore a trenta, entro il quale i creditori devono far pervenire nella cancelleria del tribunale eventuali dichiarazioni di dissenso.
Il legislatore precisa che, se le proposte di concordato sono più di una, devono essere portate in votazione contemporaneamente. In altri termini i creditori debbono potersi esprimere contemporaneamente sulle differenti soluzioni concordatarie che vengano formulate, scegliendo quella più favorevole o quella ritenuta più credibile.
Se la società fallita ha emesso obbligazioni o strumenti finanziari oggetto della proposta di concordato, su di essa debbono potersi esprimere le assemblee degli obbligazionisti e dei portatori degli strumenti finanziari. A tal fine è previsto che la proposta sia comunicata agli organi della società che hanno il potere di convocare le assemblee e il termine entro il quale i creditori debbono far pervenire le eventuali dichiarazioni di dissenso è prorogato in misura tale da consentire l'espletamento di tali assemblee.
E' stata mantenuta la possibilità di pubblicazione della proposta su uno o più quotidiani ( il previgente art. 126 prevedeva la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale) ove le comunicazioni siano dirette ad un rilevante numero di destinatari.
Il concordato è approvato se riporta il voto favorevole dei creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Come già in passato, i creditori che non fanno pervenire il loro dissenso nel termine fissato dal giudice delegato si ritengono consenzienti.
Ove siano previste diverse classi di creditori occorre la maggioranza semplice in ogni classe. Si può prescindere da quest'ultimo requisito soltanto ove il tribunale ritenga di applicare il c.d. cram down. Il tribunale, cioè, riscontrato il raggiungimento della maggioranza dei crediti ammessi al voto, può omologare il concordato nonostante il dissenso di una o più classi di creditori, se la maggioranza delle classi ha approvato la proposta di concordato e qualora ritenga che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare soddisfatti dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili.
Anche nel concordato fallimentare, come nel concordato preventivo il legislatore ha sostituito alla doppia maggioranza per numero e per somma, la sola maggioranza per somma. Inoltre non è più richiesta la maggioranza dei due terzi ed è sufficiente la maggioranza semplice.
Con riferimento all'istituto del cram down, va sottolineato che esso costituisce uno strumento mutuato dal diritto anglosassone che vale a vincere l'opposizione di una o più classi di creditori, quando il giudice si convinca che quella classe non ha interesse ad opporsi al concordato perché, in difetto di approvazione, non beneficerebbe di un trattamento migliore. Il riferimento alle alternative concretamente praticabili, va inteso come relativo, nella maggior parte dei casi, all'esito della liquidazione fallimentare, anche se può darsi il caso in cui si possa far riferimento ad altra proposta di concordato che sia stata presentata contemporaneamente (nel qual caso i creditori debbono votare congiuntamente sulle varie proposte) o in un momento successivo.
E' tuttavia criticabile la scelta del legislatore di richiedere in ogni caso, per applicare il cram down, che sia stata raggiunta la maggioranza semplice di tutti i crediti ammessi, indipendentemente dalla suddivisione dei creditori in classi. Il ricorso alle classi serve a consentire al debitore o al terzo di proporre un concordato che tenga conto delle peculiarità di composizione del ceto creditorio, formulando proposte differenziate per le diverse categorie dei creditori. Questa soluzione, che consente di spezzare l'opposizione di una o più categorie mediante l'istituto del cram down, perde molta della sua efficacia, soprattutto con riferimento all'opposizione dei creditori titolari dei crediti più ingenti, ove debba comunque essere raggiunta la maggioranza semplice di tutti i crediti ammessi.
L'ultimo comma dell'art. 128 stabilisce, come già in precedenza, che le variazioni dello stato passivo per effetto di sentenza successiva alla scadenza del termine fissato per le votazioni non incide sul calcolo della maggioranza. Va peraltro sottolineato che con la nuova disciplina può accadere che la proposta sia presentata prima dell'esecutività dello stato passivo. In tale ipotesi, come s'è detto, hanno diritto di voto i creditori che risultano dall'elenco provvisorio approvato dal giudice delegato ai sensi dell'art. 127. Se nelle more della votazione viene reso esecutivo lo stato passivo, potrebbe ritenersi che la maggioranza debba essere calcolata sulle risultanze di quest'ultimo provvedimento, perché l'art. 128 limita espressamente l'irrilevanza delle variazioni dello stato passivo al caso in cui esse siano conseguenza di sentenza successiva alla scadenza del termine fissato per le votazioni. Tuttavia è da ritenere che il principio dell'irrilevanza delle variazioni dello stato passivo successive al voto abbia portata generale e dunque, a nostro avviso, anche l'approvazione dello stato passivo non potrà incidere sull'esito della votazione.
Come già in precedenza, i creditori privilegiati sono esclusi dal voto ove non rinuncino alla prelazione, eccezion fatta per il caso in cui il credito non trovi capienza nella garanzia o privilegio. La rinuncia può essere parziale, purché non inferiore alla terza parte del credito per capitale ed accessori.
Sono esclusi dal voto e dal computo delle maggioranze il coniuge del debitore, i suoi parenti ed affini fino al quarto grado e coloro che sono diventati cessionari o aggiudicatari dei crediti di dette persone da meno di un anno prima della dichiarazione di fallimento. La stessa disciplina si applica ai crediti delle società controllanti o controllate o sottoposte a comune controllo. I trasferimenti di crediti avvenuti dopo la dichiarazione di fallimento non attribuiscono diritto di voto, salvo che siano effettuati a favore di banche o altri intermediari finanziari.

9.2 Approvazione ed omologazione del concordato. Le impugnazioni. Effetti del concordato. I coobbligati
Decorso il termine stabilito per le votazioni, il curatore presenta al giudice delegato una relazione sul loro esito (art. 129, comma primo). Ai sensi dell'art. 125 le dichiarazioni di dissenso dei creditori debbono pervenire in cancelleria, nel termine stabilito dal giudice delegato. Questi, peraltro, non prende direttamente in esame i voti espressi dai creditori, perché a tanto deve provvedere il curatore, che riferisce al giudice delegato sull'esito della votazione.
Ove la proposta sia stata approvata, il giudice delegato dispone che ne sia data immediata comunicazione al proponente, al fallito ed ai creditori dissenzienti e fissa un termine, non inferiore a quindici e non superiore a trenta giorni, per le eventuali opposizioni, anche da parte di qualsiasi altro interessato, oltre che per il deposito della relazione conclusiva del curatore.
Se la proposta di concordato è stata presentata dal curatore, la relazione è redatta e depositata dal comitato dei creditori.
A questo punto possono aprirsi due diversi procedimenti, che la Relazione governativa [ 28 ] qualifica rispettivamente come di omologazione e di approvazione. Osserva il legislatore che il primo riguarda il caso in cui non vengano proposte opposizioni nel termine fissato dal giudice delegato; in tale ipotesi, il tribunale si limita a verificare la regolarità della procedura e l'esito della votazione prima di omologare il concordato con decreto motivato non soggetto a gravame. Detta procedura semplificata di omologazione presuppone altresì che la proposta di concordato, in caso di suddivisione dei creditori in classi abbia ottenuto l'approvazione di tutte le classi. Il secondo si applica alle ipotesi in cui, invece, siano state proposte opposizioni da parte dei creditori ovvero la proposta sia stata approvata soltanto dalla maggioranza delle classi e il proponente abbia presentato la richiesta di omologazione; in tal caso, il tribunale non si limita ad accertare l'avvenuto raggiungimento della maggioranza di cui all'articolo 128, primo comma, ma può procedere all'approvazione del concordato, nonostante il dissenso della minoranza delle classi qualora ritenga che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano essere soddisfatti nel concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili in sede fallimentare.
Va sottolineato che al di fuori del caso di opposizione dei creditori, in cui il tribunale deve pronunciare sull'opposizione, e del caso in cui vi sia il voto contrario di una o più classi di creditori, nel qual caso il tribunale deve decidere se far luogo all'applicazione del cram down, il giudice è spogliato di ogni potere di esame nel merito della proposta, ben diversamente dal passato ove l'art. 130 stabiliva che il tribunale doveva esaminare il merito delle proposte e la serietà delle garanzie offerte, indipendentemente dal fatto che fossero state proposte opposizioni.
Ancora va osservato che, a differenza che in passato, il P.M. non interviene più nel giudizio di omologazione, in ossequio al principio seguito dal legislatore per cui al concordato è stata impressa una forte "caratterizzazione privatistica" [ 29 ].
Ora il tribunale, al di fuori dei casi già ricordati, è invece privato di ogni potere che non riguardi l'esame della regolarità della procedura e l'esito della votazione. In queste ipotesi il tribunale omologa il concordato con decreto motivato, non soggetto a gravame. Il legislatore nulla dice nel caso in cui il tribunale ritenga di non omologare il concordato ravvisando irregolarità della procedura o ritenendo che il voto non sia stato favorevole. E' peraltro da ritenere che in tal caso il decreto di rigetto possa essere oggetto d'impugnazione e che il mezzo sia costituito dal reclamo ex art.26 l.fall., ancorché la disciplina del reclamo sia richiamata dall'art. 129 soltanto per i casi in cui vi sia opposizione o richiesta di omologazione nel caso di mancata approvazione da parte di tutte le classi.
Ancora è da ritenere che il decreto sia soggetto alla pubblicità prevista per la sentenza dichiarativa di fallimento, ancorché tale obbligo sia previsto soltanto per il decreto che decide in caso di opposizione o di richiesta di omologazione in ipotesi di voto contrario di una o più classi.
L'opposizione e la richiesta di omologazione si propongono con ricorso ai sensi dell'art. 26. Il contenuto del ricorso pertanto è definito dal sesto comma dell'art. 26, direttamente richiamato dall'art. 129. Dovrà pertanto risultare l'indicazione del tribunale competente, del giudice delegato e della procedura fallimentare; le generalità del ricorrente e l'elezione del domicilio in un comune sito nel circondario del tribunale competente; la determinazione dell'oggetto della domanda; l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa il reclamo e le relative conclusioni; l'indicazione specifica, a pena di decadenza, dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti.
Il ricorso deve essere proposto nel termine, non inferiore a quindici e non superiore a trenta giorni, fissato dal giudice delegato.
Il procedimento è regolato dal quinto, settimo ed ottavo comma dell'art. 26, richiamati dall'art.129 in quanto compatibili. Il presidente del collegio nomina il giudice relatore e fissa con decreto l'udienza di comparizione delle parti in camera di consiglio, assegnando al reclamante un termine per la notifica al curatore ed ai controinteressati del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza. Tra la notifica e l'udienza devono intercorrere non meno di dieci giorni liberi e non più di venti; il resistente, almeno cinque giorni prima dell'udienza fissata, deposita memoria difensiva contenente l'indicazione dei documenti prodotti. Nel medesimo termine e con le medesime forme devono costituirsi gli interessati che intendono intervenire nel giudizio.
Ai sensi dell'art. 129, il tribunale provvede con decreto motivato pubblicato nelle stesse forme previste per la sentenza dichiarativa di fallimento. Il legislatore non ha dettato alcuna norma sullo svolgimento dell'istruttoria in sede di reclamo. Non è richiamato il nono comma dell'art. 26 che prevede che nel corso dell'udienza il collegio, sentiti il reclamante, il curatore e gli eventuali controinteressati, assume, anche d'ufficio, le informazioni ritenute necessarie, eventualmente delegando uno dei suoi componenti.
Tuttavia l'art. 131 nel regolare il reclamo alla corte d'appello contro il decreto del tribunale, stabilisce che all'udienza il collegio, nel contraddittorio delle parti, assume anche d'ufficio tutte le informazioni e le prove necessarie. E' da ritenere che tale potere inquisitorio, cui non può accompagnarsi il diritto alla prova in favore delle parti del procedimento, debba spettare anche al giudice di primo grado. Va anzi sottolineata l'anomalia di un procedimento in cui anche in sede di gravame non vi sono preclusioni in ordine alla prova e non vale il divieto di prove nuove.
L'art. 130 stabilisce che la proposta di concordato diventa efficace dal momento in cui scadono i termini per opporsi all'omologazione, o dal momento in cui si esauriscono le impugnazioni previste dall'articolo 129. E' da ritenere che con tale ultima formula il legislatore abbia inteso far riferimento non soltanto alle opposizioni all'omologazione, ma anche alla richiesta del proponente quando il concordato non sia stato approvato da tutte le classi.
L'art. 129 rinvia per quanto concerne il procedimento di reclamo ai commi quinto, sesto, settimo ed ottavo dell'art.26 in quanto compatibili. Ora l'art. 26, quinto comma, dispone che il reclamo non sospende l'esecuzione del provvedimento. Tale precetto peraltro sembra incompatibile con quanto dispone l'art. 130 in ordine all'efficacia della proposta, che prima che siano definite le impugnazioni non potrà trovare attuazione. Il legislatore ha quindi abbandonato il criterio seguito dal previgente art. 130 secondo il quale la sentenza che definiva il giudizio di omologazione era provvisoriamente esecutiva, ancorché le somme dovute per l'adempimento del concordato dovessero essere depositate presso un istituto di credito designato dal giudice delegato in attesa del passaggio in giudicato.
Nel vigore della vecchia disciplina si riteneva che la provvisoria esecutorietà della sentenza di omologazione comportasse la sospensione della liquidazione fallimentare e l'obbligo di costituire le garanzie offerte e di effettuare i pagamenti che giungessero a scadenza, sia pur nella forma del deposito presso istituto di credito. La nuova norma che prevede che la proposta sia efficace soltanto con la scadenza dei termini per proporre le impugnazioni previste dall'art. 129 o con il loro esaurimento, comporta che la proposta non potrà avere attuazione sino a tale momento. Resterà comunque in atto lo spossessamento del fallito, che anche nel vigore della vecchia disciplina non si dubitava che venisse meno soltanto per effetto del passaggio in giudicato della sentenza di omologazione e della chiusura del fallimento.
Va tuttavia osservato che il programma di liquidazione predisposto dal curatore deve contenere, a mente dell'art. 104 ter, comma 2, lett. b), notizia della sussistenza di proposte di concordato e del loro contenuto. Alla luce di tale circostanza il programma potrà prevedere di non far luogo alla liquidazione dell'attivo. Inoltre il giudice delegato potrà pur sempre, ai sensi dell'art. 108, su istanza del fallito, del comitato dei creditori o di altri interessati, tra cui il proponente il concordato, sospendere le operazioni di vendita qualora ricorrano gravi e giustificati motivi, ipotesi che certamente ricorre nel caso in cui il concordato sia stato approvato dai creditori e siano pendenti le opposizioni.
Il secondo comma dell'art. 130 stabilisce che, quando il decreto di omologazione diviene definitivo, il curatore rende il conto della gestione ai sensi dell'art. 116 ed il tribunale dichiara chiuso il fallimento. Anche in passato l'art. 134 prevedeva l'obbligo per il curatore di rendere il conto quando fosse passata in giudicato la sentenza di omologazione e l'art. 131 disponeva la chiusura del fallimento in tale momento.
Quanto al reclamo avanti alla corte d'appello, deve essere proposto con ricorso da depositare presso la cancelleria della corte d'appello nel termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione del decreto. Il presidente designa il relatore e fissa l'udienza di comparizione delle parti entro sessanta giorni dal deposito, assegnando al ricorrente un termine perentorio non inferiore a dieci giorni dalla comunicazione del decreto per la notifica del ricorso e del decreto al curatore e alle altre parti; assegna altresì alle parti resistenti termine perentorio per il deposito di memorie non inferiore a trenta giorni.
Il curatore dà immediata notizia agli altri creditori del deposito del reclamo e dell'udienza fissata.
Come s'è già detto, all'udienza il collegio, nel contraddittorio delle parti, assunte anche d'ufficio tutte le informazioni e le prove necessarie, provvede con decreto motivato. Il decreto, comunicato al debitore e pubblicato nelle forme previste per la sentenza dichiarativa di fallimento, può essere impugnato entro il termine di trenta giorni avanti la corte di cassazione. Salvo che per il termine d'impugnazione il giudizio di cassazione si svolge nelle forme ordinarie.
Il legislatore non ha modificato l'art.135 l.fall. in ordine agli effetti del concordato. Vale pertanto il principio per cui il concordato è obbligatorio per tutti i creditori, anche non insinuati, che non beneficiano tuttavia delle garanzie date nel concordato da terzi. Come per il passato, pertanto, l'effetto esdebitatorio può comportare l'immediata liberazione del fallito, nei casi in cui il concordato sia stato assunto da un terzo e la liberazione del fallito sia prevista come patto di concordato. La legittimità di questa clausola risulta ora dall'espressa previsione dell'art. 137 in tema di risoluzione del concordato, che stabilisce che non si fa luogo alla risoluzione quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti da un terzo con immediata liberazione del fallito.
Tale possibilità non sussiste, peraltro, come già s'è detto, nei casi in cui il terzo abbia limitato gli impegni assunti ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, ed a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda d'insinuazione tardiva al tempo della proposta. Nei confronti degli altri creditori deve continuare a rispondere il fallito. Tuttavia l'art. 137 esclude la legittimazione dei creditori nei cui confronti il terzo ha limitato la propria responsabilità a domandare la risoluzione.
In questo caso peraltro l'art. 124, ultimo comma, ammette che il fallito possa beneficiare dell'esdebitazione. L'art. 142, secondo comma, dispone peraltro che l'esdebitazione non può essere concessa qualora non siano stati soddisfatti neppure in parte i creditori concorsuali. Occorrerà stabilire se tale disposizione comporti che il fallito non possa beneficiare dell'esdebitazione per i debiti non accollati dal terzo, quando egli non abbia pagato questi crediti almeno nei limiti della percentuale concordataria.
Va poi aggiunto che, a nostro avviso, l'art. 142, secondo comma, esclude quando gli oneri del concordato ricadano interamente sul fallito, che egli possa beneficiare dell'esdebitazione ove non abbia adempiuto il concordato.
Ai sensi dell'art. 135, comma 2, i creditori conservano la loro azione per l'intero credito contro i coobbligati, i fideiussori del fallito e gli obbligati in via di regresso. La norma, che ha sollevato in passato problemi interpretativi, non è stata modificata, sì che continuano ad essere valide le soluzioni dottrinali e giurisprudenziali precedentemente elaborate [ 30 ].
Per quanto concerne il fallimento delle società, l'art. 153 continua a disporre che, salvo patto contrario, il concordato fatto da una società con soci a responsabilità illimitata ha efficacia anche di fronte ai soci e fa cessare il loro fallimento. Il legislatore ha soppresso l'ultima parte del primo comma della norma che stabiliva che i creditori particolari potevano opporsi a norma dell'art. 129, secondo comma, alla chiusura del fallimento del socio loro debitore. Peraltro il secondo comma dell'art. 153 dispone ora che contro il decreto di chiusura del fallimento del socio è ammesso reclamo a norma dell'articolo 26, sì che è da ritenere che, come chiarisce la Relazione governativa [ 31 ], le modifiche siano soltanto di carattere formale e che i creditori particolari possano continuare ad opporsi alla chiusura del fallimento del socio loro debitore, nelle forme peraltro del reclamo regolato dall'art. 26.
Nulla è innovato in ordine al concordato particolare del socio, non essendo stato modificato l'art. 154.
La disciplina dell'esecuzione del concordato ha subito pochissime modifiche. Ai sensi dell'art. 136 dopo la omologazione del concordato il giudice delegato, il curatore e il comitato dei creditori ne sorvegliano l'adempimento, secondo le modalità stabilite nel decreto di omologazione. Le somme spettanti ai creditori contestati, condizionali o irreperibili, sono depositate nei modi stabiliti dal giudice delegato. Accertata la completa esecuzione del concordato, il giudice delegato ordina lo svincolo delle cauzioni e la cancellazione delle ipoteche iscritte a garanzia e adotta ogni misura idonea per il conseguimento delle finalità del concordato. La possibilità di adottare ogni misura idonea per il conseguimento delle finalità del concordato non era prevista dalla precedente normativa. Essa potrà forse riuscir utile a risolvere qualche problema pratico, soprattutto per il pagamento di debiti di massa, ma deve ritenersi che sia rimasto fermo il principio, su cui concordavano dottrina e giurisprudenza, per cui i provvedimenti del giudice delegato non possono alterare gli effetti del concordato né incidere su diritti soggettivi del fallito, dell'assuntore o di terzi. Le eventuali controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi non potranno essere risolte dal giudice delegato, ma dovranno essere proposte nelle forme ordinarie.

9.3 Risoluzione ed annullamento del concordato
La risoluzione del concordato rimane regolata dagli stessi principi già previsti dal legislatore del 1942. La principale differenza rispetto al passato è costituita dal fatto che il giudizio di risoluzione si svolge nelle forme del rito camerale, essendo richiamata la disciplina dettata dall'art. 26, commi da 6 a 8. La domanda di risoluzione può essere proposta dal curatore o dal comitato dei creditori, ovvero ancora da uno o più creditori ovvero dal tribunale d'ufficio. Curiosamente il legislatore ha abolito l'iniziativa d'ufficio del tribunale in via generale, ma l'ha conservata per quanto concerne il giudizio di risoluzione.
Il decreto che risolve il concordato, riapre la procedura di fallimento ed è provvisoriamente esecutivo. Contro di esso è ammesso reclamo alla corte d'appello nelle forme previste dall'art. 131. Il legislatore non dice espressamente che contro il decreto della corte d'appello sia ammesso ricorso per cassazione, ma appare ragionevole ritenere che il rinvio all'art. 131 comprenda anche l'ultimo comma della norma che si riferisce al giudizio di cassazione. In ogni caso l'esperibilità del ricorso per cassazione discende dal carattere decisorio del provvedimento che incide in materia di diritti soggettivi.
A differenza dal passato, la risoluzione non può essere domandata decorso un anno dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto nel concordato. Il vecchio testo dell'art. 137 vietava la pronuncia della sentenza di risoluzione decorso l'anno. La nuova norma pertanto di fatto amplia il termine perché esclude dal suo computo la durata del giudizio di risoluzione. Inoltre l'anno è calcolato dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento, mentre in passato si faceva riferimento al termine fissato per l'ultimo pagamento. La nuova formula è più ampia e comprende quindi adempimenti che non siano pagamenti, anche se indubbiamente si tratta di ipotesi marginali.
Come s'è già detto, non si fa luogo alla risoluzione quando gli obblighi del concordato sono stati assunti da un terzo con liberazione immediata del debitore. Ancora i creditori del fallito verso i quali il terzo non abbia assunto responsabilità (creditori non ammessi al passivo, purché non siano creditori opponenti o insinuati tardivamente al tempo della proposta) non possono proporre la domanda di risoluzione (art. 137, ultimo comma).
Il giudizio di annullamento del concordato continua a fondarsi sugli stessi presupposti previsti in passato, cioè la dolosa esagerazione del passivo ovvero la sottrazione o la dissimulazione di una parte rilevante dell'attivo. E' ribadito che non è ammessa alcuna altra azione di nullità. Il giudizio si svolge nelle stesse forme previste per la risoluzione, con il ricorso al rito camerale nelle forme del reclamo.
Per un evidente difetto di coordinamento l'art. 139 nello stabilire che la riapertura del fallimento a seguito di risoluzione o annullamento comporta i provvedimenti previsti dall'art. 121 ( richiamo in ufficio o nuova nomina del giudice delegato e del curatore, adozione dei provvedimenti per la verifica dei crediti e per la conferma dei crediti già ammessi, nomina del comitato dei creditori), fa riferimento alla sentenza, trascurando che sia la risoluzione che l'annullamento sono pronunciati con decreto.
La nuova proposta di concordato che il proponente è ammesso a presentare dopo la riapertura del fallimento a seguito di risoluzione o annullamento richiede, come in passato, il deposito delle somme occorrenti per l'integrale adempimento, ma il legislatore ha ritenuto di ammettere anche la prestazione di garanzie equivalenti, che prima non erano consentite.

10. Le azioni di responsabilità nel fallimento delle società

Nel corso della trattazione che precede si sono evidenziate alcune delle norme che riguardano il fallimento delle società. Occorre peraltro soffermarsi ancora sul nuovo testo dell'art. 146 che regola la legittimazione del curatore all'esperimento dell'azione di responsabilità, previa autorizzazione del giudice delegato sentito il comitato dei creditori.
Il curatore è legittimato all'esperimento delle azioni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali ed i liquidatori (art. 146, comma 2, lett. a). La norma va letta congiuntamente all'art. 2394 bis c.c. che attribuisce al curatore la legittimazione all'esperimento delle azioni di responsabilità spettanti alla società ed ai creditori sociali (artt. 2393 e 2394 c.c.) nella società per azioni e consente di ritenere che nella s.r.l. il curatore possa esperire l'azione sociale di responsabilità prevista dall'art. 2476 c.c., per la quale la legittimazione ordinaria spetta a ciascun socio (ma non si dubita che legittimata sia anche la società in quanto tale).
Il legislatore non poteva risolvere, dati gli evidenti limiti nascenti dalla delega, il problema della legittimazione del curatore all'esperimento nella s.r.l. dell'azione di responsabilità spettante ai creditori sociali quando il patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. Tale azione non è prevista espressamente dall'art. 2476.
In proposito si è detto da parte di uno dei primi commentatori che, salvo a pensare ad una svista del legislatore, peraltro improbabile, si deve giungere alla conclusione che tale azione ugualmente sussista, pur in difetto di espressa previsione. Indubbiamente il legislatore ha previsto l'azione di responsabilità dei creditori sia nel caso della spa sia con riferimento ai gruppi, relativamente alla responsabilità delle società ed enti che esercitano attività di direzione e coordinamento di società. Per questi soggetti la responsabilità nei confronti dei creditori sociali presuppone la lesione cagionata all'integrità del patrimonio sociale della società soggetta a direzione e coordinamento (art. 2497, comma primo).
Del resto la dottrina e la giurisprudenza hanno riconosciuto in via generale il diritto al risarcimento dei danni per lesione del diritto di credito [ 32 ] ai sensi dell'art. 2043 c.c., sì che tale azione anche se non espressamente prevista troverebbe la sua fonte nei principi generali in tema di responsabilità aquiliana. E quand'anche si volesse accogliere la tesi che qualifica l'azione di responsabilità dei creditori quale azione surrogatoria, ugualmente si dovrebbe ammettere la legittimazione dei creditori. L'attribuzione ai singoli soci della legittimazione all'esperimento dell'azione sociale di responsabilità, infatti, non esclude che tale azione sia pur sempre a presidio di un diritto di credito che sorge in capo alla società, come testimonia la circostanza che la società può rinunciare o transigere l'azione.
D'altra parte escludere la possibilità per i creditori sociali di agire in responsabilità comporterebbe un'evidente disparità di trattamento, del tutto ingiustificata, rispetto alla più favorevole disciplina prevista per i creditori sociali nella spa, con conseguente violazione dell'art. 3 Cost. Per altro verso l'art. 3 della legge delega 3 ottobre 2001, n. 366, al comma secondo, lett. f, salvaguarda in ogni caso il principio di tutela dell'integrità del capitale sociale e gli interessi dei creditori sociali, che non possono essere lesi dall'autonomia statutaria.
E' stato in ogni caso osservato [ 33 ] che la lacuna del testo dell'art. 2476 c.c. dovrebbe subito esser colmata dall'interprete ricomprendendo i creditori nell'ambito dei terzi direttamente danneggiati dagli atti dolosi o colposi degli amministratori, secondo la disciplina dell'azione individuale di responsabilità dettata dall'art. 2476, quinto comma. La mancata menzione dei creditori sociali potrebbe essere anzi valutata come un segno dell'adesione alla tesi della natura extracontrattuale dell'attuale azione di responsabilità dei creditori.
Quest'interpretazione comporterebbe peraltro evidenti incoerenze nella lettura del testo normativo. La formulazione letterale della disciplina dell'azione individuale di responsabilità riservata ai soci ed ai terzi è infatti identica nella spa (art. 2395) e nella srl (art. 2476, comma quinto). Ed il medesimo testo dovrebbe essere letto differentemente nell'uno e nell'altro caso, posto che per la spa l'azione di responsabilità dei creditori sociali è disciplinata in modo autonomo.
Una volta ammesso che l'azione di responsabilità dei creditori sociali sussista anche nella srl, sorge il quesito della sorte di tale azione in caso di fallimento della società. In proposito, come s'è detto, nessun aiuto deriva dall'attuale formulazione dell'art. 146 per il suo carattere generico.
D'altra parte l'impossibilità di configurare l'azione come azione che deriva dal fallimento ai sensi dell'art. 24, comporterà l'applicazione delle regole ordinarie in tema di competenza, così come si ritiene comunemente per quanto concerne l'azione di responsabilità in tema di l.c.a. ove è pacifico che non trovi applicazione l'art. 24. Non ne deriveranno peraltro effetti particolari in ragione dell'ordinaria coincidenza tra il foro del luogo in cui ha sede la società [ 34 ] ed il tribunale che ha dichiarato il fallimento.
E' evidente peraltro che l'azione potrà essere ritenuta spettare all'organo gestorio della procedura concorsuale ove si aderisca alla tesi della sua natura surrogatoria. Ove invece se ne affermi la natura aquiliana [ 35 ], dovrebbe giungersi alla conclusione che essa spetta ai singoli creditori, non potendosi affermare in difetto di un chiaro precetto in tal senso la legittimazione del curatore.

10.1 L'azione di responsabilità contro i soci di società a responsabilità limitata
L'art. 146 prevede ancora la legittimazione del curatore all'esperimento dell'azione di responsabilità contro i soci di società a responsabilità limitata ai sensi dell'art. 2476, comma settimo, c.c. La norma prevede la responsabilità solidale con gli amministratori dei soci che hanno intenzionalmente deciso od autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi. Ne deriva che nei confronti di questi soci può essere esperita l'azione sociale di responsabilità da parte del singolo socio e, in caso di fallimento, da parte del curatore, fermo il diritto del socio o del terzo di proporre anche l'azione individuale di responsabilità ai sensi dell'art. 2476, sesto comma, quando il socio od il terzo siano stati direttamente danneggiati. La responsabilità solidale riguarda evidentemente anzitutto i soci che hanno deliberato od approvato, anche in forma non assembleare, gli atti posti in essere dagli amministratori. Si è però ritenuto che nella previsione normativa rientri anche la condotta del socio sovrano o tiranno.
A questo proposito si è sottolineata l'importanza sistematica della introduzione espressa della responsabilità del socio "sovrano". Chi esercita il potere d'indirizzo della gestione non può volgere tale potere contro la società e non può invocare la tradizionale impunità del socio per le scelte gestorie (Rescigno). Si tratta di innovazione tanto più importante nel momento in cui si afferma un tipo di società che aumenta i rischi che possono derivare dall'utilizzazione distorta del modello per beneficiare dei vantaggi della responsabilità limitata. La norma è tanto più importante in una società come la s.r.l. dov'è espressamente previsto dall'art. 2468 che l'atto costitutivo possa prevedere l'attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l'amministrazione della società, come ad esempio il diritto di designare gli amministratori, e dove, ai sensi dell'art. 2479 c.c., molte decisioni sono attribuite direttamente ai soci, senza la mediazione dello strumento assembleare.
La responsabilità è espressamente riferita ai soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi. L'avverbio intenzionalmente usato dal legislatore pone problemi interpretativi, posto che l'atto con cui il socio decide od autorizza il compimento dell'atto non può non essere intenzionale. Ritenere che l'avverbio postuli un requisito ulteriore e cioè la sussistenza in capo al socio dell'animus nocendi ridurrebbe l'applicabilità dell'azione a pochi casi marginali. La soluzione più ragionevole è ritenere che l'avverbio sia da riferire alla condotta del socio, come vuole la lettera della legge, e sia pertanto pleonastico [ 36 ].

10.2 L'azione di responsabilità del curatore nei confronti della società che esercita la direzione ed il coordinamento
Nonostante l'art. 146 non ne faccia menzione, il curatore è anche legittimato all'esperimento, ai sensi dell'art. 2497, ultimo comma, dell'azione di responsabilità spettante ai creditori sociali nel caso di eterodirezione "abusiva" da parte della società che esercita attività di direzione e coordinamento e di conseguente lesione dell'integrità del patrimonio della società controllata.
Occorre ricordare che l'art. 2497 fa discendere la responsabilità della società od ente che esercita attività di direzione e coordinamento dalla violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale della società sottoposta a direzione e coordinamento, espressione generica, estranea alla nostra tradizione giuridica, che richiederà un'opera d'interpretazione e chiarimento da parte della giurisprudenza, anche al fine di evitare un sindacato del giudice sul merito della gestione imprenditoriale. Occorre peraltro che la società o l'ente che esercitano l'attività di direzione e coordinamento agiscano "nell'interesseimprenditoriale proprio o altrui", espressione questa che fa discendere la condotta illecita da una situazione di conflitto d'interessi, che, peraltro, deve avere natura imprenditoriale.
La condotta lesiva deve essere posta in essere in violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale delle società sottoposte a direzione e coordinamento.
L'art. 2497 considera la responsabilità di chi esercita l'attività di direzione e coordinamento nei confronti dei soci della società soggetta, quando vi è lesione della redditività e del valore della partecipazione sociale. Viene quindi tutelato l'interesse del socio a godere in ogni momento del massimo valore della partecipazione compatibilmente con la situazione di mercato in cui la società opera [ 37 ]. Nel caso dell'azione riservata ai creditori sociali occorre che la condotta di chi esercita l'attività di direzione e coordinamento abbia causato una lesione dell'integrità del patrimonio della società. La formula utilizzata dal legislatore richiama evidentemente l'azione di responsabilità dei creditori sociali prevista dall'art. 2394 c.c. Si tratta in realtà della medesima azione, riferita alla società od ente che svolge attività di direzione e coordinamento, tant'è che, come s'è detto, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 2497 c.c. in caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa ed amministrazione straordinaria l'azione spetta al curatore, commissario liquidatore o commissario straordinario.
Va sottolineato che ai sensi del terzo comma dell'art. 2497, tanto l'azione di danni dei soci danneggiati quanto quella dei creditori sociali è ammessa nei confronti della società o dell'ente che esercitano l'attività di direzione e coordinamento, soltanto in quanto i soci o i creditori non siano stati soddisfatti dalla società soggetta all'attività di direzione e coordinamento.
L'art. 2497 afferma la responsabilità della società o dell'ente che esercitano la direzione e il coordinamento nei confronti dei soci e dei creditori della società soggetta a tale direzione. La soppressione dell'originario terzo comma dell'art. 2497 in sede di elaborazione del testo legislativo, comma che prevedeva che l'azione di cui ai precedenti commi non pregiudica il diritto della società al risarcimento del danno, rende problematica l'affermazione della responsabilità della società o dell'ente che esercita la direzione o il coordinamento nei confronti della società dominata.
Da questo punto di vista si era ritenuto, nel vigore della precedente disciplina, di poter affermare che alla responsabilità degli amministratori si affiancasse la responsabilità della controllante, derivante dalla riferibilità, almeno in caso di colpa, degli atti di mala gestio compiuti dagli amministratori alla società cui essi erano preposti. Tale conclusione sembra tuttora valida, anche se indubbiamente sul punto dovrà esprimersi la giurisprudenza [ 38 ]. In dottrina è stato peraltro osservato, argomentando dal già ricordato terzo comma dell'art. 2497, che subordina la responsabilità della società o ente che esercita l'attività di direzione e coordinamento, alla circostanza che i soci o i creditori sociali non siano stati soddisfatti dalla società dominata, che quest'ultima, soddisfatti i creditori sociali danneggiati, potrebbe esperire nei confronti del soggetto dominante in via surrogatoria anche l'azione spettanti ai creditori sociali ex art. 2497 c.c. [ 39 ].
Il legislatore delegato ha perso l'occasione nella redazione del nuovo testo dell'art. 146 di prevedere espressamente la legittimazione del curatore della società sottoposta a direzione e coordinamento all'esperimento anche dell'azione "sociale", nonostante che nel senso della sua esperibilità si fosse già espressa la prevalente dottrina [ 40 ].
Va poi osservato, in via più generale, che il legislatore delegato ha completamente trascurato, forse preoccupato di non travalicare i limiti della delega, di dettare norme relative alla disciplina del fallimento dei gruppi di società. In proposito si è osservato che si è mancato di dettare appropriate regole di coordinamento delle procedure di crisi e di insolvenza che riguardano le società appartenenti a una struttura di gruppo, sul modello di quelle contemplate dagli artt. 80 e segg. d.lgs. n. 270/1999, alla quale mancanza la giurisprudenza ha sinora sopperito, ove possibile, mediante soluzioni empiriche (unificazione soggettiva degli organi, nomina di curatori speciali, ecc.) [ 41 ].

10.3 Azione di responsabilità e provvedimenti cautelari
Il vecchio testo dell'art. 146 prevedeva che il giudice delegato, nell'autorizzare il curatore a proporre l'azione di responsabilità, potesse disporre le opportune misure cautelari. In passato molto si era discusso, anche con criticati interventi della Corte costituzionale, in ordine alla perdurante vigenza di tale norma dopo l'introduzione nel nostro ordinamento degli artt. 669 bis e ss. c.p.c. che regolano il procedimento cautelare uniforme e molto si era discusso in ordine alla legittimità che il provvedimento cautelare fosse emanato da quello stesso giudice delegato che era chiamato, attraverso il provvedimento di autorizzazione, ad una sommaria delibazione della fondatezza del giudizio.
Il legislatore della novella non ha più previsto che il giudice delegato possa disporre provvedimenti cautelari in materia di azioni di responsabilità, pur conservando il potere del giudice di autorizzare l'esperimento dell'azione da parte del curatore. Ne deriva che per i provvedimenti cautelari nei confronti degli amministratori, dei sindaci, dei liquidatori e dei direttori generali della società fallita si applica la medesima disciplina processuale utilizzabile nell'ambito delle azioni di responsabilità esperibili allorché la società sia in bonis, con il ricorso agli artt. 669 bis ss. c.p.c. ovvero agli artt. 23 ss. d. leg. 17/01/2003 n. 5.

11. Profili processuali

Resta a dire della disciplina processuale dettata dal legislatore. Di essa ci siamo occupati sotto specifici aspetti, trattando di alcune parti della riforma. Si sono quindi illustrate le nuove norme che regolano il procedimento per la dichiarazione di fallimento anche per quanto riguarda la disciplina della competenza, l'accertamento del passivo, l'impugnazione del progetto di riparto, il concordato fallimentare.
Non è evidentemente possibile, in questa veloce rassegna, soffermarsi su tutte le numerose innovazioni di carattere processuale cui il legislatore ha ritenuto di accedere.
Si possono però sottolineare alcuni elementi di fondo. In primo luogo la riforma ha ritenuto di abbandonare il ricorso al giudizio contenzioso ordinario, prevedendo che i procedimenti che derivano dal fallimento si svolgano nelle forme del rito sommario camerale. In questo senso è emblematico l'art. 24 che, dopo aver affermato il principio per cui il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore ' già s'è detto che questo principio non soffre più il limite rappresentato dalle azioni reali immobiliari che subiscono anch'esse la vis actractiva del fallimento, stabilisce che per tutte tali controversie si applicano le norme previste dagli artt. da 732 a 742 c.p.c., esclusa anche l'applicazione del rito ordinario o del rito del lavoro ai sensi dell'art. 40, terzo comma c.p.c., nel caso di connessione con cause che debbano essere trattate con tali riti.
In presenza, pertanto, delle concorrenti condizioni che si tratti di cause che derivano dal fallimento e che non sia previsto alcuno specifico procedimento per la loro trattazione, le controversie de quibus saranno introdotte con ricorso, a seguito del quale il tribunale dovrà convocare le parti, potrà assumere informazioni e concluderà il procedimento con decreto reclamabile alla corte di appello nel termine di dieci giorni dalla notificazione. In considerazione dell'oggetto, il decreto della corte sarà, quindi, ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111, co. 7° (già 2°) Cost. [ 42 ].
Nei primi commenti è stato manifestato il dubbio che nei giudizi così regolati possa trovare applicazione l'art. 742 sulla revocabilità in ogni tempo dei provvedimenti emanati, preoccupazione infondata ove si consideri che è generalmente questione di diritti soggettivi per i quali si esclude ordinariamente l'applicabilità della norma.
Certamente si porrà il problema di individuare i casi in cui non sia prevista una specifica disciplina del procedimento, perché in tal caso l'inciso "salvo che non sia diversamente previsto" con cui si apre il secondo comma dell'art. 24, giustifica il ricorso al rito altrimenti stabilito dal legislatore in luogo di quello camerale.
L'insipienza del legislatore sta nell'aver fatto rinvio ad un procedimento il cui contenuto non è regolato e nel quale il rispetto di principi generali quali il contraddittorio ed il diritto alla prova sono rimessi alle concrete scelte del giudice in ordine alle modalità di svolgimento del giudizio. Ciò pur in presenza di controversie di contenuto assai delicato e che presentano indubbie difficoltà istruttorie, quali possono essere le già ricordate azioni reali immobiliari e le azioni revocatorie.
I provvedimenti endofallimentari, vuoi quelli ordinatori, vuoi quelli decisori sono reclamabili, ai sensi dell'art. 26, nelle forme dei procedimenti in camera di consiglio.
Il legislatore in questo caso non ha però fatto rinvio alle forme degli artt. 737 ss. c.p.c.: il sesto capoverso della disposizione novellata indica il contenuto del ricorso alla proposizione del quale sono legittimati il curatore, il fallito, il comitato dei creditori e chiunque vi abbia interesse. Tale contenuto consiste nell'indicazione del tribunale o della corte di appello competente, del giudice delegato e della procedura fallimentare; delle generalità del ricorrente e dell'elezione del domicilio in un comune sito nel circondario del tribunale competente; nella determinazione dell'oggetto della domanda; nell'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa il reclamo e delle relative conclusioni; nell'indicazione specifica, a pena di decadenza, dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti.
In calce al ricorso, il presidente del collegio designa il giudice relatore, il quale fissa l'udienza di comparizione delle parti in camera di consiglio. Tra la data di notificazione del ricorso e del decreto è previsto un termine dilatorio non inferiore a dieci, ma non superiore a venti giorni. Al resistente ed agli altri eventuali controinteressati è imposto l'onere di costituirsi almeno cinque giorni prima della comparizione in camera di consiglio. Nel corso dell'udienza ' in camera di consiglio - il collegio, sentiti il reclamante, il curatore e gli eventuali controinteressati, assume, anche d'ufficio, le informazioni ritenute necessarie, eventualmente delegando uno dei suoi componenti, e definisce il procedimento con decreto motivato nel termine di trenta giorni. A seconda della natura, decisoria o meramente ordinatoria del provvedimento, questo sarà, quindi, impugnabile per cassazione ai sensi dell'art. 111, co. 7° (già 2°) Cost.
A questa variante del procedimento camerale, l'art. 36 ne aggiunge una ulteriore. Un distinto procedimento in camera di consiglio è infatti previsto «contro gli atti di amministrazione del curatore e contro le autorizzazioni o i dinieghi del comitato dei creditori», sindacabili in sede giurisdizionale soltanto «per violazione di legge»; sono legittimati a dolersi degli atti commissivi del curatore e di quelli commissivi ed omissivi del comitato, il fallito e ogni altro interessato mediante reclamo al giudice delegato da proporsi entro il termine di otto giorni dalla conoscenza dell'atto o, in caso di omissione, dalla scadenza del termine indicato nella diffida a provvedere. Sia il giudice delegato, sia il tribunale, in sede di reclamo contro il primo provvedimento, decidono con decreto «omessa ogni formalità non indispensabile, il primo, ovvero non essenziale al contraddittorio», il secondo. Sebbene il decreto del tribunale sia espressamente definito «non soggetto a gravame», non può escludersi che, allorché abbia contenuto decisorio, sia impugnabile per cassazione ai sensi dell'art. 111, co. 7° (già 2°) Cost.
Il procedimento per il reclamo endofallimentare di cui all'art. 26 è richiamato dall'art. 37 per la pronuncia dei provvedimenti di revoca del curatore, ma la sostituzione del medesimo è regolata dall'art. 37 bis, co. 1°, di cui già s'è detto.
Il procedimento previsto per il reclamo endofallimentare, che è camerale ma che gode di una disciplina autonoma, è, richiamato, come si è già visto, in quanto compatibile, per l'omologazione del concordato fallimentare dall'art. 129. Ma distinte previsioni sono dettate dall'art. 131 per il procedimento innanzi alla corte di appello in sede di reclamo avverso il decreto di omologazione.
Il procedimento di cui all'art. 26, infine, è anche richiamato dall'art. 143 novellato per la esdebitazione del fallito persona fisica.
In buona sostanza la nuova disciplina del fallimento prevede una pluralità di varianti del procedimento camerale di cui agli artt. 737 ss. c.p.c.: una per la dichiarazione di fallimento, un'altra per i reclami endofallimentari, altre ancora per la verifica dei crediti, per la omologazione del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione sui quali non ci siamo soffermati in questo commento sulla seconda parte della riforma. Per le controversie che derivano dal fallimento e che non sono altrimenti disciplinate sono espressamente richiamati gli artt. da 737 a 742 c.p.c. Tra questi procedimenti, soltanto quelli previsti dagli artt. 26 e 36 sono sottratti, ai sensi del nuovo art. 36 bis, alla sospensione feriale.
Correttamente si è osservato che la varietà di procedimenti, sia pur derivanti da un unico tronco, quello del procedimento sommario camerale, difficilmente servirà a dare attuazione al principio stabilito dalla legge delega, che mirava all'accelerazione dei processi [ 43 ].
La pluralità di varianti del procedimento camerale comporta che i pratici tengano conto della diverse forme di attuazione del contraddittorio: dal «convocate» o «sentite» le parti alla previsione di diversi termini per la costituzione e per la proposizione del reclamo. Ciò non semplifica lo svolgimento dei giudizi e può essere fonte di incertezze ed errori, oltre che di disparità di trattamento non sempre giustificabili [ 44 ].
Nell'ambito dei procedimenti contro gli atti del curatore e contro gli atti e le omissioni del comitato dei creditori, occorre definire le formalità non indispensabili al contraddittorio, che possono essere omesse dal tribunale, e quelle non essenziali, che possono, invece, essere omesse dalla corte di appello in sede di reclamo.
E' anche necessario ridefinire la figura del giudice relatore, al quale, in alcuni casi, può essere delegato il potere di ammettere le prove, in altri soltanto quello di assumerle.
Ancora va ricordato che l'art. 43 nuovo testo stabilisce che l'apertura del fallimento determina l'interruzione del processo. Nonostante il tenore assoluto della lettera della legge, occorrerà distinguere [ 45 ] i casi nei quali la dichiarazione di fallimento è irrilevante, perché la controversia riguarda diritti personali del fallito, quelli nei quali la causa diventa improcedibile e non può essere riassunta, come nel caso in cui il giudizio ha ad oggetto un credito che deve essere oggetto d'insinuazione al passivo, e quelli, infine, nei quali opera la disciplina dell'interruzione di cui agli artt. 299 ss. c.p.c.

12. Vacatio legis

L'art. 153 del decreto legislativo prevede una vacatio legis di sei mesi, a decorrere dalla pubblicazione del decreto stesso sulla Gazzetta Ufficiale. Pertanto poiché la pubblicazione è avvenuta sulla Gazzetta del 16 gennaio, la riforma entrerà in vigore il 16 luglio 2006.
Fanno eccezione soltanto gli artt. 45, 46, 47, 151 e 152 del decreto che entrano immediatamente in vigore, il giorno stesso della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Si tratta delle norme che riscrivono gli artt. 48 e 49 l.fall. relativamente alla corrispondenza del fallito ed agli obblighi del fallito e che sopprimono il pubblico registro dei falliti, abrogando alcune disposizioni ulteriormente limitative dei diritti del fallito. L'immediata entrata in vigore di queste norme è giustificata dall'urgenza di adeguare l'Italia agli standard richiesti dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, alla luce dei rilievi che erano stati svolti contro il nostro Paese per la persistenza di limitazioni di capacità alla persona del fallito che trascendevano le strette esigenze della procedura concorsuale.


Note:

[1] E' stato infatti aggiunto un secondo comma all'art.160, a norma del quale per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza>.

[2] Rinviamo per l'intanto a U. De Crescienzo - L. Panzani, Il nuovo diritto fallimentare, Milano, 2005.

[3] Cfr. A. Dimundo, Il processo di dichiarazione dello stato d'insolvenza, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, VI, 2002, 85 e ss.

[4] G. Costantino, Profili processuali dello schema di decreto delegato per la riforma delle procedure concorsuali, in www.fallimentonline.it

[5] Cfr. Relazione, sub art. 103.

[6] I mezzi di pubblicità e trasparenza delle operazioni di vendita dovranno essere stabiliti con apposito decreto del Ministro della Giustizia: cfr. art. 107, ultimo comma.

[7] Il testo definitivo del decreto legislativo ha fatto sparire la previsione che potessero essere nominati anche i falliti dotati di adeguate capacita imprenditoriali purché fossero decorsi dieci anni dalla dichiarazione di fallimento. La norma era stata oggetto di numerose critiche, che hanno portato all'esclusione dei falliti senza previsione di un limite di tempo. In questi termini la previsione appare in contrasto con uno degli obiettivi della riforma, che ha inteso eliminare le sanzioni civili a carico del fallito, abolendo anche il pubblico registro dei falliti. La mancanza di un limite di tempo unita alla soppressione dell'istituto della riabilitazione, comporta il risultato paradossale che chi e stato dichiarato fallito non potrà mai aspirare alla nomina a curatore, situazione che rientra sicuramente nell'ambito delle sanzioni civili che il legislatore delegante intendeva eliminare.

[8] Cfr. Relazione, sub art. 96.

[9] G. Costantino, op. cit.

[10] Cfr. Cass. 7.7.2004, n. 12505.

[11] L. Gualandi, Fallimenti immobiliari ed azione revocatoria, in La disciplina dell'azione revocatoria, a cura di S. Bonfatti, Milano, 2005, 314.

[12] Cfr. ex multis Cass. 13.12.1989, n. 5572 e 5573, in Foro It., 1990, I, 461.

[13] Cfr. Cass. 14 ottobre 1992, n. 11216, in Fallimento, 1993, 475; Cass. 17 aprile 2003, n. 6165 in Fallimento, 2004, 523.

[14] Cfr. per tutti G. Bozza, Arbitrato e fallimento, 1993, 291 e 492.

[15] Va peraltro ricordato che la giurisprudenza ha affermato il principio per cui il compromesso per arbitrato irrituale costituisce un atto negoziale riconducibile, nella sostanza, all'istituto del mandato collettivo e di quello conferito nell'interesse anche di terzi, cosi che, stipulata la relativa convenzione in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento di una delle parti, esso non sarà soggetto alla sanzione dello scioglimento prevista, per (il conto corrente, la commissione ed) il mandato, dall'art. 78 legge fall., non operando tale "regula iuris" nell'ipotesi di mandato conferito anche nell'interesse del mandatario o di terzi, con conseguente efficacia ed opponibilità del lodo nei confronti della curatela e, per essa, dell'eventuale assuntore del successivo concordato fallimentare (Cass. 18 agosto 1998, n. 8145, in Fallimento, 1999, 979).

[16] In dottrina erano stati manifestati dubbi sulla legittimità dell'affitto d'azienda nel fallimento, in quanto atto non strettamente preordinato alla liquidazione, sino a quando l'art. 3, quarto comma, legge 23.7.1991, n. 223, nell'introdurre la prelazione in caso di vendita d'azienda a favore dell'affittuario, ha risolto il problema.

[17] La Relazione sottolinea il carattere vincolante del parere del comitato dei creditori. Cfr. Relazione, sub art. 104 ter.

[18] La Relazione governativa ribadisce il concetto affermando che: " Si è, peraltro, inteso favorire le rapide cessioni anche attribuendo all'acquirente la possibilità di effettuare le proprie controprestazioni non pagando direttamente il prezzo, bensì accollandosi debiti concorsuali, purché ciò non si traduca in una alterazione della graduazione dei crediti, come potrebbe avvenire nel caso dell'acquisto dei beni concessi al debitore in leasing.". Cfr. Relazione, sub art. 105.

[19] F. Galgano, Il nuovo diritto societario, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da F. Galgano, vol. XXIX, Padova, 2003, 483.

[20] G. Zanarone, Società a responsabilità limitata, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da F. Galgano, Padova, 1985, 133.

[21] Santini, Società a responsabilità limitata, cit., 166.

[22] Cass. 21 febbraio 2001, n. 2493, in Fallimento, 2002, 332; Cass. 30 luglio 1998, n. 7481, ivi, 1999, 859.

[23] In questo stesso senso, già in passato, Cass. 20 dicembre 1990, n. 12075, in Fallimento, 1991, 670.

[24] G.M.Treister, J.R.Trost, L.S.Forman, K.N.Klee, R.B.Levin, Fundamentals of bankruptcy law, V ed., Philadelphia, 2003, 393. Sull'argomento si veda inoltre, anche per quanto concerne la trattazione che segue nel testo la relazione di Charles G. Case II, Crisi dell'impresa e risanamento: la soluzione americana, riportata in Appendice.

[25] Trib. Torino, 17 novembre 2005, Torino Calcio in liquidazione, su Quotidiano giuridico e in www.fallimentonline.it . La massima della sentenza è in questi termini: Nel concordato preventivo in sede di formazione delle classi non può essere previsto il pagamento parziale dei creditori privilegiati, posto che ai sensi dell'art. 177 L.F. tali creditori non hanno diritto di voto, se non rinunciano al privilegio. Può essere previsto il pagamento parziale dei creditori privilegiati soltanto quando la prelazione non possa essere fatta concretamente valere sul ricavato dei beni vincolati e dunque nel caso di privilegio speciale incapiente ovvero per i crediti assistiti da privilegio generale mobiliare nel caso di totale mancanza di rispondenza patrimoniale del debitore. Nel caso di specie la società che chiedeva l'ammissione alla procedura di concordato preventivo presentava un attivo patrimoniale, ancorché esso dovesse essere integrato, secondo la previsione del piano allegato alla domanda, da un rilevante apporto dell'assuntore.

[26] Sul tema si veda per tutti E. Bran, Il concordato fallimentare, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, III, 1999, 45 e ss. ove può leggersi una convincente critica del fondamento teorico della soluzione ora accolta dal legislatore.

[27] Cfr. Relazione, sub art. 125.

[28] Cfr. Relazione, sub art. 129.

[29] Cfr. Relazione, sub art. 125.

[30] Rinviamo, per tutti, a E. Bran, Il concordato fallimentare, 25 e ss.

[31] Cfr. Relazione, sub art. 153.

[32] Cfr. da ultimo Cass. 27 luglio 1998, n. 7337, in Giur. It., 1999, 1601.

[33] M. Rescigno, Osservazioni cit., p. 17.

[34] Va ricordato che oltre alla sede legale si ritiene rilevante, alternativamente, anche l'eventuale sede sociale effettiva. Cfr. Cass. 21 ottobre 1987, n. 7753, che riguarda peraltro una controversia in tema di società di persone.

[35] La vexata quaestio in ordine alla natura dell'azione spettante ai creditori sociali, se cioè essi agiscano in via surrogatoria della società di cui sono creditori e quindi si avvalgano dell'azione sociale di responsabilità ovvero se facciano valere un'autonoma azione sul piano della responsabilità aquiliana, è troppo nota perché occorra qui soffermarvisi. Ove peraltro si faccia discendere il fondamento dell'azione nel caso di s.r.l. direttamente dall'art. 2043 c.c., è evidente che si dovrà concludere per il carattere aquiliano dell'azione stessa.

[36] Così S. Di Amato, Le azioni di responsabilità nella nuova disciplina della società a responsabilità limitata, in Giur. comm., 2003, I, 305-306.

[37] La formula utilizzata dal legislatore, che è stata direttamente mutuata da ben precise teorie dottrinali, richiederebbe un commento ben più approfondito, impossibile peraltro in questa veloce panoramica. La Relazione governativa, §. 13, indica come valori che si è inteso tutelare "... i principi di continuità dell'impresa sociale, redditività e valorizzazione della partecipazione sociale, precisando peraltro che sarà compito della giurisprudenza dare contenuto concreto alla formula utilizzata".

[38] In questo senso cfr. A. Patti (e AA.VV.), Gruppi, trasformazione, fusioni e scissione, scioglimento e liquidazione, società estere, in La riforma del diritto societario, Milano, 2003, IX, 247, ed ivi ulteriori citazioni di dottrina.

[39] A. Patti (e AA.VV.), Gruppi, trasformazione, fusioni e scissione, scioglimento e liquidazione, società estere, cit., 255.

[40] Cfr. F. Guerrera, Il fallimento delle società nella riforma. Prime osservazioni, cit.

[41] Si veda ancora, a questo proposito, F. Guerrera, op. cit.. L'omissione è tanto più grave, ove si consideri che i progetti elaborati dalla Commissione Trevisanato durante i lavori preparatori avevano espressamente affrontato la materia.

[42] In questi termini, lapidariamente, G. Costantino, Profili processuali dello schema di decreto delegato per la riforma delle procedure concorsuali, relazione per il Convegno "Le banche e la riforma del diritto concorsuale", Alba 19 novembre 2005, in www.fallimentonline.it .

[43] Il giudizio è di G. Costantino, op. cit.

[44] Questa e le osservazioni che seguono sono ancora di G. Costantino, op. cit.

[45] Cfr. ancora G. Costantino, op. cit.

Autore: Dott. Luciano Panzani, Consigliere di Corte di cassazione. Tratto dal sito www.ilquotidianogiuridico.it