Nuova legge fallimentare e presupposto soggettivo
Le due importanti novità introdotte all'art. 1 L.F. sono rappresentate dall'eliminazione del riferimento alla procedura di amministrazione controllata, e dalla previsione di un diverso metodo di individuazione delle imprese soggette a fallimento ed a concordato preventivo.
Sotto il primo profilo, si tratta di una modifica di ordine sistematico, posto che, per effetto della riforma - ed in attuazione del principio indicato nella legge delega n. 80/2005 (art. 1, sesto comma, lett. b) - è stato abrogato l'intero Titolo IV della Legge Fallimentare, dedicato appunto all'amministrazione controllata, con conseguente eliminazione dall'intero corpo normativo di ogni riferimento a tale istituto.
Maggior rilievo assume, invece, il secondo aspetto, che importa una riduzione delle categorie di imprese assoggettabili alla disciplina del fallimento. Anche tale innovazione risente delle disposizioni della menzionata Legge Delega che, all'art. 1, sesto comma, lett. a), n. 1), pone come obiettivo la semplificazione della disciplina "attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilità dell'istituto".
A tale principio è stata data applicazione mediante l'introduzione di due criteri alternativi di valutazione, volti a circoscrivere i limiti oltre i quali un'impresa - ancorché in forma societaria - non può più definirsi piccola, ed è quindi passibile di fallimento. A tal fine, si tiene conto, da un lato, degli investimenti effettuati dall'imprenditore nell'azienda; dall'altro, dei risultati conseguiti nel triennio precedente.
L'art. 1 della nuova legge fallimentare, infatti, dopo aver precisato che le disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo si applicano a tutti gli imprenditori commerciali, con esclusione degli enti pubblici e dei piccoli imprenditori, precisa che "ai fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori gli esercenti un'attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente:
a) hanno effettuato investimenti nell'azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila;
b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila".
E' altresì previsto un possibile aggiornamento di tali parametri, da parte del Ministero della Giustizia, con cadenza triennale sulla base delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento.
E' dunque venuta meno la presunzione secondo la quale il concetto di piccolo imprenditore dovesse ritenersi circoscritto all'impresa individuale. Non è, infatti, stata riproposta la locuzione contenuta al secondo comma dell'art. 1 che, nella precedente formulazione, stabiliva che "in nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali.
Il profilo organizzativo, adesso, non assume ora più rilievo, essendosi spostata l'attenzione su quello quantitativo, ritenuto più idoneo e pertinente a fornire una qualificazione delle dimensioni dell'impresa. Anche le società commerciali, dunque, - e quindi non solo le società di persone, ma anche quelle di capitali - potranno essere considerate piccoli imprenditori, ed in quanto tali sfuggire all'ambito di operatività della nuova disciplina concorsuale.
E' appena il caso di notare che mentre la precedente definizione di piccolo imprenditore era fornita in positivo ("sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un'attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini della imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile" - art. 1, secondo comma, L.F.), come, del resto, quella tuttora in vigore indicata dall'art. 2083 cod. civ., adesso invece nell'ambito fallimentare si rende necessario un ragionamento a contrario, nel senso che la ricorrenza (anche di uno solo) dei requisiti quantitativi sopra indicati esclude che possa trattarsi di piccolo imprenditore.
Va, inoltre, segnalato che, come risulta dalla Relazione illustrativa allo Schema di Decreto Legislativo, durante i lavori preparatori della legge di riforma si erano presi in considerazione diversi ulteriori criteri ai fini di una qualificazione del piccolo imprenditore commerciale.
In particolare, si pensava potessero costituire utili parametri anche il numero dei dipendenti impiegato dall'imprenditore, il totale dell'attivo di impresa, l'ammontare dell'indebitamento complessivo, un criterio composito, che facesse riferimento al patrimonio investito (a meno che l'impresa non avesse raggiunto un valore minimo di utili), nonché altri criteri basati su indici civilistici di valutazione degli utili di bilancio.
Le ragioni della scelta finale, che hanno fatto propendere il legislatore delegato in favore dei due parametri sopra enunciati, vanno individuate, da un lato, nella maggiore adeguatezza di questi a rispecchiare con maggior efficacia la reale situazione dell'impresa insolvente, tanto sotto il profilo strutturale, quanto sotto quello patrimoniale; dall'altro, nell'essere ancorati a dati suscettibili di diversi riscontri (civilistico e fiscale), e quindi più facilmente accertabili nella fase prefallimentare (nella sentenza che si commenta, i giudici si sono avvalsi della collaborazione della Guardia di Finanza al fine di accertare la sussistenza dei presupposti soggettivi sopra descritti).
L'ulteriore valore aggiunto dei due criteri adottati è da riscontrare nella loro duttilità (il che spiega anche il motivo per cui possano sussistere anche solo "alternativamente"), laddove, infatti, il primo è utilizzabile in particolare per le imprese di recente costituzione, nelle quali l'assenza di rilevanti volumi di affari non potrebbe comunque risultare indicativa, mentre il secondo si rivela particolarmente utile per qualificare le imprese che operano da più tempo sul mercato.
La sentenza del Tribunale di Sulmona del 30/01/07, pertanto, costituisce l'esempio di come, d'ora in poi, dovranno essere strutturate le dichiarazioni di fallimento, dando sempre atto dell'avvenuta verifica circa la sussistenza dei requisiti necessari per affermare che l'impresa insolvente di cui viene domandato il fallimento non possa essere considerata piccolo imprenditore, e quindi della prevalenza, nel rapporto tra fattore lavoro e fattore capitale, del secondo rispetto al primo.
A quel punto, soddisfatta l'ultima condizione, posta dal nono comma del nuovo art. 15 L.F., a mente del quale "non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro venticinquemila", e preliminarmente verificata, ovviamente, la sussistenza dello stato di insolvenza (l'art. 5 L.F. è rimasto invariato), la procedura concorsuale potrà fare il suo corso.
Restano, infine, sottratte all'applicazione della legge fallimentare le imprese agricole, soluzione questa che solleva alcune perplessità, ove si pensi a quelle realtà imprenditoriali, sempre più diffuse, che pur operando nel settore agricolo, sono organizzate, anche in forma societaria, con imponenti complessi aziendali e attraverso l'impiego di notevoli risorse finanziarie, al punto da non rendere sempre condivisibile la presunzione - adottata a giustificazione del diverso trattamento - secondo cui le stesse sarebbero soggette ad rischi maggiori e meno prevedibili (condizioni atmosferiche, deperibilità delle merci, etc.) rispetto a quelli dell'attività dell'impresa commerciale.
Vai alla sentenza del Tribunale di Sulmona del 30/01/2007
Autore: Avv. Eugenio Tamborlini - tratto dal "Quotidiano Giuridico" del 27/02/07