LA RESPONSABILITA' DELL'AVVOCATO

 

Il generale ampliamento delle categorie dei danni risarcibili e l'importante ruolo svolto dalla figura dell'avvocato nella società moderna, hanno contribuito a sviluppare e ampliare con contorni sempre più specifici le ipotesi di responsabilità dell'avvocato.

Va preliminarmente specificato che il rapporto giuridico instauratosi tra cliente ed avvocato in giurisprudenza viene solitamente definito come contratto di clientela. Tale contratto viene qualificato come un mandato professionale da chiunque conferito (soggetto privato o pubblico) ad avvocati e procuratori liberi professionisti e, quindi, non vincolati da rapporto d'impiego ed iscritti nel normale albo professionale(Cass. Sez. Un. 14.02.63 n.326 in Foro Italiano, 1963, I, 500).

Il qualificare il contratto di clientela quale una species del mandato, porta alla considerazione che il difensore munito di procura ad litem sia soggetto a quelle medesime obbligazioni che fanno carico a qualsiasi altro mandatario. Fra dette obbligazioni sono da annoverarsi quelle imposte dagli artt. 1712 C.C. (comunicazione dell'eseguito mandato) e 1713 C.C. (obbligo di rendiconto), ricordando, peraltro, che la responsabilità del professionista deve essere valutata secondo il parametro della diligenza fissato dall'art. 1176 II comma c.c. ed eventualmente alla luce dell'art. 2236 C.C. quando trattasi di prestazione che implica la soluzioni di problemi di speciale difficoltà (Cass. 02.08.73 n. 2230 in Giustizia Civile, 1973, I, 1864).

Appurato, pertanto, che la responsabilità dell'avvocato è allo stesso tempo responsabilità da esecuzione di mandato e responsabilità professionale, va  comunque specificato che dottrina e giurisprudenza sono solite qualificare l'obbligazione dell'avvocato, sia per la sua attività stragiudiziale che per quella giudiziale, quale obbligazione di mezzi e non di risultato. L'avvocato, quindi, non risponde se il suo cliente non raggiunge il risultato sperato (Cass. 25.03.95 n. 3566, in Repertorio Foro Italiano, 1995), e , comunque, ha diritto al compenso della causa o dell'affare (Cass. 10.03.69 n.765, in Foro Italiano, 1969 I, 1110). Rientra comunque nel dovere del professionista svolgere ogni attivita' necessaria e utile alla fattispecie concreta. Per questa ragione, parte della dottrina e della giurisprudenza supera la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato sull'assunto che il risultato, inteso come momento conclusivo della prestazione, e' dovuto in ogni obbligazione e il suo raggiungimento e' subordinato alla predisposizione di mezzi utili per conseguirlo. Il professionista, quindi, sarebbe tenuto a raggiungere il fine ultimo voluto dal cliente svolgendo una serie di prestazioni, comportamenti e atti conformi alle regole dell'arte e alle norme di correttezza. Il risultato si identificherebbe, in ultima analisi, non nell'integrale soddisfazione del cliente, ma nell'attuazione di tutte quelle attivita', anche di natura discrezionale, che si rendono necessarie e opportune affinche' l'opera possa realizzarsi. Interessante, in proposito, questa massima della Suprema Corte: "Di regola, le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attivita' professionale costituiscono obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, non per conseguirlo. Tuttavia, avuto riguardo all'attivita' professionale dell'avvocato, nel caso in cui questi accetti l'incarico di svolgere un'attivita' stragiudiziale consistente nella formulazione di un parere in ordine all'utile esperibilita' di un'azione giudiziale, la prestazione oggetto del contratto non costituisce un'obbligazione di mezzi, in quanto egli si obbliga ad offrire tutti gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni allo scopo di permettere al cliente di adottare una consapevole decisione, a seguito di un ponderato apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione dell'azione. Pertanto, in applicazione del parametro della diligenza professionale (art. 1176, comma 2, c.c.), sussiste la responsabilita' dell'avvocato che, nell'adempiere siffatta obbligazione, abbia omesso di prospettare al cliente tutte le questioni di diritto e di fatto atte ad impedire l'utile esperimento dell'azione, rinvenendo fondamento detta responsabilita' anche nella colpa lieve, qualora la mancata prospettazione di tali questioni sia stata frutto dell'ignoranza di istituti giuridici elementari e fondamentali, ovvero di incuria ed imperizia insuscettibili di giustificazione. (Cassazione civile , sez. II, 14 novembre 2002, n. 16023).

Non costituisce comunque negligenza l'infausto esito della causa conseguente a una interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili da parte dell'avvocato, a meno che il professionista abbia agito con dolo o colpa grave. Perche' vi sia responsabilita' dell'avvocato l'errore professionale deve riguardare aspetti peculiari dell'attivita' tecnica, quali la ricostruzione e la prospettazione del fatto, nonche' l'errore procedurale che abbia impedito al Giudice di entrare nel merito della fattispecie. Cosi' si e' espressa la Suprema Corte: "L'avvocato deve considerarsi responsabile nei confronti del proprio cliente, ai sensi degli art. 2236 e 1176 c.c., in caso di incuria o di ignoranza di disposizioni di legge ed, in genere, nei casi in cui, per negligenza o imperizia, compromette il buon esito del giudizio, mentre nelle ipotesi di interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili, deve ritenersi esclusa la sua responsabilita', a meno che non risulti che abbia agito con dolo o colpa grave. (Cassazione civile , sez. II, 11 agosto 2005, n. 16846) In termini: Cass. 4.12.1990 n. 11612; Pret. Perugia 17.6.1998.

Particolare importanza nell'ambito della responsabilita' dell'avvocato sta poi sempre piu' assumendo il ruolo degli obblighi di informazione. L'avvocato ha, infatti, anche il dovere di informare il proprio assistito sulle possibilita' di successo della causa, al fine di metterlo in condizione di decidere circa l'opportunita' o meno di svolgere l'azione giudiziaria. Solo in presenza di una corretta informazione fornita dal legale si puo' ritenere formato il consenso del cliente al conferimento dell'incarico, e all'inizio o alla prosecuzione della causa. In proposito, la Corte di Cassazione con sentenza n. 16023 ha avuto modo di sottolineare che nel dovere di diligenza a carico dell'avvocato "rientrano, a loro volta, i doveri d'informazione, di sollecitazione e di dissuasione, ai quali il professionista deve adempiere, cosi' all'atto dell'assunzione dell'incarico come nel corso del suo svolgimento, prospettando, anzi tutto, al cliente le questioni di fatto e/o di diritto, rilevabili ab origine od insorte successivamente, riscontrate ostative al raggiungimento del risultato e/o comunque produttive d'un rischio di conseguenze negative o dannose, invitandolo, quindi, a comunicargli od a fornirgli gli elementi utili alla soluzione positiva delle questioni stesse, sconsigliandolo, in fine, dall'intraprendere o proseguire la lite ove appaia improbabile tale positiva soluzione e, di conseguenza, probabile un esito sfavorevole e dannoso.". Conformi: Corte D'Appello di Milano sez. I, 03 maggio 2006 in Red. Giuffre' 2006; Tribunale Bologna, sez. II, 07 aprile 2006 in Red. Giuffre' 2006.

Il punctum pruriens della problematica relativa alla responsabilità dell'avvocato, comunque, rimane sempre quello relativo alla ricerca del nesso di causalità tra l'azione od omissione colpevole del professionista ed il danno patito dal cliente.  Il danno del cliente, infatti, non può essere identificato sic et simpliciter con l'esito sfavorevole della lite, in quanto come già diceva il Calamandrei nel 1931, ogni sentenza è il prodotto di una quantità di fattori imponderabili, molti dei quali sono irriproducibili al di fuori dell'ambiente in cui la sentenza è pronunciata.

Il requisito della certezza del danno ex art. 1223 C.C., quindi, nell'ambito della responsabilità dell'avvocato ha trovato, dopo una iniziale e durevole intransigenza giurisprudenziale, un adeguato e necessario temperamento nella ragionevole certezza: L'affermazione della responsabilità professionale per condotta omissiva e la determinazione del danno in concreto subito dal cliente presuppongono l'accertamento del sicuro fondamento dell'attività che il professionista avrebbe dovuto compiere, e , dunque, la ragionevole certezza che gli effetti di quella sua diversa attività, ove svolta ,avrebbe determinato l'esito vittorioso del processo (cass. 05.06.1996 n. 6264 in resp. Civ. prev., 1997, 1169).

La sentenza della Suprema Corte n. 1286 del 1998, poi, ha ulteriormente allargato l'area del danno risarcibile, richiedendo per il risarcimento del danno non già la prova della ragionevole certezza ma la semplice probabilità che una corretta attività dell'avvocato avrebbe determinato l'esito positivo della causa: L'avvocato, nell'espletamento della attività professionale, deve tendere a conseguire il buon esito della lite per il cliente e pertanto sussiste la sua responsabilità se, probabilmente  e presuntivamente, applicando il principio penalistico di equivalenza delle cause (artt. 40 e 41 c.p.) esso non è stato raggiunto per sua negligenza (Nella specie il difensore, costituitosi parte civile per  l'offeso, non   lo  aveva  informato dell'udienza  dibattimentale, e  percio'  era  stato dichiarata  la  decadenza della costituzione, ne'  aveva citato i testi ammessi sulla dinamica dell'incidente occorso al  suo assistito e l'imputato era stato assolto con formula piena). (Cassazione civile sez. III, 6 febbraio 1998, n. 1286 in Giust. Civ. Mass. 1998, 269)

Così facendo, la Cassazione ha applicato anche nell'ambito della responsabilità dell'avvocato il principio espresso dalla cassazione penale in tema di responsabilità medica per la perdita di chance di guarigione e di sopravvivenza , in base al quale Il rapporto causale sussiste anche quando l'opera del sanitario, se correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata probabilmente salvata.

Tale impostazione e' proseguita negli anni e, recentemente, la Suprema Corte si e' espressa nei seguenti termini: "L'affermazione della responsabilita' professionale dell'avvocato non implica l'indagine sul sicuro fondamento dell'azione che avrebbe dovuto essere proposta o diligentemente coltivata e, percio', la "certezza morale" che gli effetti di una diversa attivita' del professionista sarebbero stati vantaggiosi per il cliente. Ne consegue che, al criterio della certezza della condotta, puo' sostituirsi quello della probabilita' di tali effetti e della idoneita' della condotta a produrli." Cassazione civile , sez. III, 18 aprile 2007, n. 9238.

Negli anni piu' recenti anche la Giurisprudenza di merito ha seguito l'impostazione tracciata dalla Suprema Corte, sia pur con qualche ondeggiamento: "Perche' possa affermarsi l'esistenza d'un valido nesso causale tra l'inadempimento ascritto all'avvocato, ed il danno patito dal cliente, e' necessario accertare che, se l'avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, l'esito della lite sarebbe stato diverso da quello effettivamente avveratosi." (Tribunale Roma, sez. XIII, 20 marzo 2006; Tribunale Roma, sez. XIII, 01 marzo 2006 in Redazione Giuffre' 2006); "L'avvocato, nell'espletamento dell'attivita' professionale, deve tendere a conseguire il buon esito della lite per il cliente e, pertanto, sussiste la sua responsabilita' se, probabilmente e presuntivamente, applicando il principio penalistico di equivalenza delle cause (artt. 40 e 41 c.p.) esso non e' stato raggiunto per sua negligenza. " (Tribunale Napoli, sez. II, 10 gennaio 2006 in Giur. merito 2007, 1 120); "Quando non sia stata fornita la prova di un danno da porsi in rapporto causale diretto con il comportamento di un avvocato ed anzi risulti che questo ha conseguito sia pure limitati risultati ottenibili nella vertenza affidatagli, non puo' che valere il principio anche recentemente confermato dalla Corte Suprema secondo cui in materia di azione di responsabilita' nei confronti di un professionista, l'agente e' tenuto a provare sia di aver sofferto un danno, sia che questo sia stato causato dalla insufficiente o inadeguata o negligente attivita' del professionista, e cioe' dalla sua difettosa prestazione professionale. In particolare, trattandosi dell'attivita' del difensore, l'affermazione della sua responsabilita' implica la valutazione positiva che alla proposizione di una diversa azione, o al diligente compimento di determinate attivita' sarebbero conseguiti effetti piu' vantaggiosi per l'assistito, non potendo viceversa presumersi dalla negligenza del professionista che tale sua condotta abbia in ogni caso arrecato un danno, come pure, in caso di omesso svolgimento di un'attivita' professionale va provato non solo il danno subito, ma anche il nesso eziologico tra esso e la condotta del professionista, in quanto non e' ravvisabile alcuna essenziale diversita' tra l'ipotesi di inesatto adempimento del professionista e l'ipotesi di adempimento mancato. " (Tribunale Milano, 28 ottobre 2005, in Giustizia a Milano 2005, 10 68).


La Suprema Corte, riconducendo la problematica relativa alla responsabilità dell'avvocato a quella del danno da perdita di chance, non ha comunque risolto il problema relativo al quantum del risarcimento. Resta pertanto irrisolto il quesito relativo alla individuazione di criteri certi attraverso i quali operare il risarcimento.

Stabilito che il danno da perdita di chance è danno all'integrità del patrimonio, danno consistente non in un lucro cessante ma in un danno emergente da perdita di una possibilità attuale,  il criterio preferibile per alcuni consisterebbe nell'assumere come parametro di valutazione l'utile economico realizzabile, diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo. Ovviamente, laddove tale criterio non risultasse praticabile, rimarrebbe il parametro equitativo ex art. 1226 C.C..


Una volta escluso che la responsabilità dell'avvocato possa di norma basarsi sull'accertamento di una erronea qualificazione giuridica della controversia a lui affidata, la casistica prospetta varie ipotesi di responsabilità.

Così, è stato considerato responsabile l'avvocato che, esaminate le condizioni di legittimità e validità di una notificazione ex art. 143. C.p.c. ha concluso per la ritualità quando ne era evidente la nullità (Trib. Roma 27.11.92 in Nuova Giur. Civ. Comm., 1994, I, 267); che ha lasciato trascorrere i termini entro i quali doveva compiere gli atti per i quali aveva ricevuto il mandato (Cass. 22.03.94 n.2701, Cass. 08.05.93 n. 5325); che trascuri di richiedere nel corso dell'istruttoria prove di evidente utilità o che chieda prove obiettivamente contrarie all'interesse del cliente ( Cass. 18.05.88 n. 3463); che rinunci al mandato senza compiere le attività istruttorie necessarie non avvertendo il cliente affinché possa provvedervi direttamente o a mezzo di nuovo difensore (Cass. 08.05.93 n. 5325); che abbia errato nella notificazione dell'appello civile a più parti (Trib. Salerno 29.02.80 in Il Foro Napoletano, 1981, I, 271); che abbia presunto erroneamente la causazione del sinistro a carico del suo cliente investito e non abbia prodotto gli atti interruttivi della prescrizione biennale della pretesa risarcitoria (Corte Appello Milano, 30 gennaio 2004). 
 
Autore: Avv. Michele Grisafi